L`origine del linguaggio

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L`origine del linguaggio
L’origine del linguaggio
Alcuni esami filosofici del problema
1. Con il termine «linguaggio» dobbiamo intendere, anzitutto, un linguaggio fatto
di parole, composte dai suoni emessi dalla bocca, anche se accompagnate da gesti,
atteggiamenti del corpo, ed espressioni del volto: un linguaggio che richiede certamente la presenza di almeno due individui, che si propongono di comunicare
l’uno con l’altro.
Dobbiamo, perciò, porre un punto fermo: il problema dell’origine del linguaggio si presenta, a mio avviso necessariamente, come il problema dell’origine di un
linguaggio, che è anzitutto comunicazione.
Possiamo perciò comprendere, da questo punto di vista, l’errore che è alla base
della convinzione di Croce e di altri studiosi, come ad esempio Gadamer e Chomsky, secondo i quali non ha una giustificazione filosofica il problema dell’origine
del linguaggio verbale.
In Croce, nella sua filosofia, è una convinzione che deriva da un postulato di
base, l’identificazione del linguaggio con l’arte, e, perciò, con una categoria eterna
dello Spirito1. Perciò dove c’è Spirito c’è linguaggio, perché il linguaggio è una categoria eterna dello Spirito. E questa categoria eterna è l’arte; perciò il linguaggio
è arte. Da questa identificazione dovrebbe plausibilmente derivare la convinzione
che la semplice comunicazione, come quella, ad esempio, di un individuo che chiede ad un altro individuo «Che ore sono?», e riceve un’adeguata risposta, non è, a
rigore, linguaggio, perché non è arte.
Se, invece, si respinge quella identificazione, quel postulato crociano di base, e
si afferma che il linguaggio verbale non è, in quanto semplicemente linguaggio,
arte, poiché esso può essere impiegato, sì, per una composizione poetica, ma anche
per altre diverse operazioni della mente, come quella scientifica, quella storiografica, quella filosofica, quella oratoria, quella della conoscenza comune e dell’azione pratica; se, come ho detto, si respinge quella crociana inaccettabile identificazione, il linguaggio, il linguaggio verbale, « . . . ci si configura in una maniera assai
diversa, e, certamente, non come una categoria eterna dello spirito.» (Raggiunti
1997:125). Se il linguaggio non è una categoria eterna dello Spirito, bensì uno strumento dell’intelligenza umana, si ha una ragione ben determinata di porre il
problema delle origini di esso in un lontano momento storico; origini sulle quali si
possono fare soltanto delle ragionevoli ipotesi. Ma occorre, anzitutto, porre una
inevitabile distinzione, quella di lingua e atto linguistico. La lingua è uno strumento di comunicazione; nel momento in cui tale strumento viene usato, si ha l’atto lin-
1 A questo riguardo, si può vedere il capitolo «Il problema ‹filosofico› dell’origine del linguaggio verbale», in: Raggiunti 1997.
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guistico. Come può configurarsi alle origini tale distinzione? Può, alle origini, l’atto
linguistico essere considerato come l’atto mediante il quale si costituisce lo
strumento? Secondo tale ipotesi la distinzione fra lingua (lo strumento) e l’atto
linguistico (uso concreto dello strumento) si determinerebbe in un momento
successivo.
Ritornando al Croce, dobbiamo di nuovo considerare una sua tesi, rispetto alla
quale non si può non dissentire. Egli, dopo aver affermato che il linguaggio ha origine dall’intuizione o fantasia (arte), sostiene, nello stesso tempo, che nel linguaggio l’intelletto, con i suoi concetti, ha un ruolo secondario. Sappiamo, tuttavia, che
nell’opera La Poesia, uscita in prima edizione nel 1935, egli distingue l’espressione poetica da quella che denomina espressione prosastica (Croce 1994:213). Nella
cosiddetta «espressione prosastica» l’intelletto con i suoi concetti non può avere
un ruolo secondario.
Ma la tesi crociana che produce il più aperto dissenso è quella che sostiene che
«la volontà può entrare nel linguaggio solamente nel fatto esterno della comunicazione agli altri, ma non è essenziale, costitutiva e peculiare della formazione linguistica» (Croce 1940:183s.).
La volontà di comunicare con gli altri, il fatto stesso della comunicazione linguistica, vale a dire linguaggio come comunicazione correlativo alla volontà stessa di comunicare, sarebbero, secondo il Croce, non essenziali, non costitutivi e
peculiari della formazione linguistica. Il linguaggio come comunicazione, che ha il
suo fondamento nella volontà stessa di comunicare, da parte di un individuo nei
confronti di un altro individuo, o di altri individui, è proprio ciò che deve essere
posto a fondamento del problema delle origini del linguaggio. Il linguaggio non ha
avuto certamente al suo primo sorgere un fondamento poetico, una aspirazione a
produrre una fantasia poetica.
Il Croce, affermando che il linguaggio si origina soltanto dall’intuizione o fantasia (arte), si ricollega, in certo senso, al mito vichiano dell’origine fantastico-poetica del linguaggio. Secondo il Vico i primi uomini «erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie».
In contrasto con la tesi vichiana, dell’origine fantastico-poetica del linguaggio,
e, nello stesso tempo, in contrasto con l’affermazione crociana che l’intelletto «non
ha nel linguaggio una parte primaria», si deve attribuire alla volontà di comunicare con gli altri, di farsi intendere dagli altri – il termine «intendere» presuppone la
presenza dei concetti dell’intelletto – il ruolo di fattore primo e fondamentale dell’origine del linguaggio. Su questa posizione è anche Edmund Husserl, il quale
all’inizio del paragrafo 7 della Prima ricerca logica considera la funzione comunicativa come la funzione che l’espressione (Ausdruck) è originariamente (ursprünglich) destinata ad assolvere (Husserl 1922:32).
Occorre, inoltre, precisare che anche il linguaggio della poesia, della fantasia
poetica in senso stretto, richiede la presenza dell’intelletto, il riferimento a concetti
che ci vengono trasmessi attraverso i termini linguistici, che compongono l’espressione poetica. Perciò la stessa espressione poetica, implica, necessariamente, il
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concetto, tanto disprezzato dal Croce, della comunicazione, una comunicazione
che implica il riferimento a concetti che sono presenti nella stessa espressione
poetica. Non è opportuno precisare, ora, di quali concetti si tratti, perché ciò
richiederebbe di affrontare l’arduo problema della tanto discussa distinzione
crociana di concetti e pseudo-concetti.
Sappiamo che oggi il linguaggio verbale implica una fondamentale distinzione,
quella di lingua e atto linguistico, nella terminologia di de Saussure di langue et
parole. La lingua si configura come uno strumento. Con questa espressione è stata
definita da molti studiosi. Ne citeremo soltanto tre: Chomsky che adopera, a questo scopo, la parola instrument nello scritto Syntactic Structures (Chomsky 1957),
de Saussure nelle sue lezioni Ginevrine (1907-1911, Saussure 1968-74), il logico
Gottlob Frege nella sua Begriffsschrift (Frege 1879).
Ma, a questo punto, dobbiamo porre una triplice distinzione: occorre distinguere 1) le operazioni della mente, 2) lo strumento-lingua, 3) l’uso concreto dello strumento-lingua che non è separabile dalle operazioni della mente.
Dobbiamo ora porci un problema che il filosofo del linguaggio non può assolutamente evitare, quello dell’origine del linguaggio e, perciò, di un rudimentale strumento linguistico. «L’uomo delle origini, alcuni filosofi non vogliono comprenderlo, è come un bambino che nasce privo dei mezzi verbali di comunicazione, ma che,
al contrario del bambino di oggi, non trova, a sua disposizione, una lingua, che altri
uomini parlano e sono in grado di fargli apprendere.» (Raggiunti 1997:133).
L’uomo delle origini, in collaborazione con altri uomini di un gruppo la cui
estensione è assai difficilmente determinabile, la lingua deve inventarla, costruirla, a poco a poco, in una forma assai povera e rudimentale. Ma un fatto appare
certo: a fondamento di uno strumento linguistico, che l’uomo, un gruppo di uomini interagenti, sia stato capace di determinare, gradualmente, presuppone necessariamente che l’uomo, più esattamente il gruppo di uomini, fosse mosso da una
esigenza, quella di comunicare con gli altri uomini del gruppo, e da una capacità,
quella di cogliere, mediante un’attività astraente, nozioni generali2.
Vi sono due tesi del Croce che dobbiamo ugualmente respingere. Secondo la
prima tesi, l’espressione, l’atto linguistico, precederebbe la lingua e sarebbe indipendente da essa, essendo, a suo avviso, la lingua soltanto un insieme di astrazioni elaborate dal grammatico e aventi soltanto un carattere pratico. Al contrario di
quanto il Croce afferma, senza la lingua non vi sarebbe atto linguistico, non vi
sarebbe espressione. La lingua non ha soltanto un carattere pratico, in quanto strumento di comunicazione, ha anche un carattere teoretico, in quanto è un deposito
di nozioni generali, di concetti, che rendono possibile la comprensione di qualsiasi atto linguistico, anche di quello compiuto dal poeta.
2 «La lingua, una lingua, che è lo strumento necessario per compiere degli atti linguistici, presuppone non una pura intuizione, un puro individuale, ma l’intelletto con le sue nozioni e i suoi
concetti.» (Raggiunti 1997:134).
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L’altra tesi, sostenuta dal Croce, riguarda la presunta purezza dell’intuizioneespressione. Essa sarebbe pura, in quanto in essa non vi sarebbe presenza di concetti, di nozioni generali. Prendendo in esame l’intuizione-espressione del poeta,
dell’artista che si esprime mediante le parole di una determinata lingua, non
possiamo non attribuire a quella intuizione-espressione la presenza di concetti, di
nozioni generali, che sono legati alle parole, alle frasi, che compongono l’intuizione-espressione poetica3.
Abbiamo precedentemente accennato al fatto che una lingua, ogni lingua, ha un
certo carattere di arbitrarietà, che differenzia una lingua dalle altre, avendo ognuna di esse un vocabolario diverso, regole morfologiche e sintattiche diverse. Abbiamo definito la lingua, una lingua, anzitutto come strumento di comunicazione.
Il problema che ci interessa è quello di ipotizzare, in maniera plausibile, come abbia avuto origine tale strumento.
L’uomo delle origini come ha potuto produrre tale strumento? Occorre ricordare e tenere ben presente che lo strumento è anzitutto strumento di comunicazione.
Mentre oggi lo strumento precede la comunicazione, alle origini, lo strumento è
stato molto probabilmente determinato da un primo e rudimentale atto di comunicazione, o, più esattamente, da un insieme di rudimentali atti di comunicazione.
2. Ma vorrei ricordare anche, in relazione agli argomenti qui trattati, la posizione
del filosofo Guido Calogero, in modo particolare le tesi filosofico-linguistiche
contenute nel terzo volume delle Lezioni di filosofia, estetica, semantica, istorica
(Calogero 1946-48).
Nell’esame della sua semantica, potremo constatare notevoli punti di convergenza con le nostre tesi filosofico-linguistiche.
Non prendiamo in esame la sua posizione antignoseologica e la critica che egli
rivolge alla definizione dell’arte come «sintesi a priori di sentimento e immagine»4.
Consideriamo il problema che a noi principalmente interessa, quello del linguaggio, e vediamo quali siano le sue convinzioni su tale argomento. Il Calogero afferma, sulla base della «millenaria esperienza filosofica dell’occidente» (Calogero
1946-48/3:170), che il comune giudizio umano non metterà mai in dubbio che
l’intuire mentale e l’esprimere linguistico siano due cose diverse e distinte. La convinzione del senso comune è valida, secondo il Calogero, anche da un punto di vista
filosofico. A questo proposito egli afferma: «C’è il gatto percepito nella mia
presenza sensibile; c’è il gatto veduto con la stessa vivezza di linee nella mia
memoria; e c’è la parola ‹gatto›. E di queste tre cose non è dato farne una sola, e
nemmeno due.» (Calogero 1946-48/3:172).
Con queste affermazioni Calogero vuol sostenere due tesi distinte, ugualmente
valide, anzitutto che l’arte non si identifica con il linguaggio, anche se esiste un’ar3 Il lettore può vedere le mie osservazioni su alcuni versi della Commedia dantesca (Raggiunti 1997:127s.).
4 Sull’argomento il lettore può consultare Raggiunti 1963.
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te, la poesia in senso stretto, che si avvale del linguaggio; in secondo luogo c’è un
percepire e un vedere mediante la memoria che possono non avere alcun legame
con la parola.
Inoltre il Calogero afferma, in contrasto con il Croce, che alla funzione espressiva è intrinseca ed essenziale la stessa funzione comunicativa. Qui l’autore tratta
della «comunicazione» in relazione al linguaggio espressivo-fantastico, e, perciò,
all’arte che, in contrasto con le arti asemantiche, con le arti figurative, si identifica
con l’arte letteraria (poesia e romanzo), arte semantica, cioè arte che si avvale di
segni in senso stretto.
Inoltre il Calogero, ponendo a confronto discorso poetico e discorso oratorio, e
affermando che quest’ultimo assume, in senso pregnante, il compito della comunicazione, si pone in netto contrasto con la tesi, vichiano-crociana, che il linguaggio sia
«prima poetico e poi oratorio». Al contrario egli sostiene «che prima si parla e poi si
canta, prima si ottempera alle immediate pratiche necessità, poi si apprende a superare la brama e la malinconia nell’esperienza dell’arte.» (Calogero 1946-48/3:245s).
Ma c’è un brano della sua opera, nel quale il Calogero sembra affrontare, dal
suo punto di vista, la questione del linguaggio delle origini, esattamente il problema che costituisce l’argomento di questo saggio.
Egli affrontando il problema delle origini che si pone, anche da questo punto di
vista, in netto contrasto con il Vico e con il Croce. È particolarmente interessante
il modo in cui egli si esprime: «E già troppo fecero i poveri ‹bestioni› primitivi,
quando trasformarono il loro presumibile originario linguaggio di meri segni
espressivi delle più elementari passioni – fame, ira, terrore, brama –, analogo a
quello che ancor oggi possiamo sentir vivo negli animali, in un più ricco linguaggio capace altresì di designare oggetti e rappresentazioni, perché si pretenda da
loro che fossero stati anche poeti!» (Calogero 1946-48/3:245s.).
È interessante notare, anche in vista del confronto che faremo con le posizioni di
Antonino Pagliaro e del pensatore tedesco Johann Gottfried Herder, come il Calogero imposta il problema delle origini del linguaggio.Trattando di quelli che egli denomina «bestioni primitivi», immagina una fase delle loro prime espressioni in cui
gli uomini sono, in certo senso, considerati al medesimo livello degli animali. Questa, del Calogero, è una ipotesi discutibile. Ma egli è convinto che a quel primitivo
linguaggio, espressivo delle più elementari passioni, doveva seguire «un più ricco
linguaggio capace di designare oggetti e rappresentazioni». È di questo autentico
linguaggio che si deve ipoteticamente stabilire l’origine. Anche se il Calogero non
ha mai apertamente affermato la validità filosofica del problema delle origini del
linguaggio, egli, per definire il linguaggio, adopera l’espressione «strumento semantico» (Calogero 1946-48/3:173). «Il concetto stesso di strumento implica che
tale strumento sia stato prodotto dall’uomo in un certo momento della sua storia»5.
5 «Si potrebbe obiettare che vi sono stati eminenti studiosi, come il linguista Ferdinand de
Saussure, che hanno definito la lingua come strumento (instrument) e, tuttavia, non hanno preso
una chiara posizione sul problema dell’origine. Ma se si può capire che, per un linguista, il pro-
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Sempre in relazione al concetto calogeriano di strumento semantico, si può affermare che il carattere strumentale del linguaggio risulta, nel suo pensiero, anche
indirettamente mediante la tesi, da esso risolutamente sostenuta, che si possa pensare anche senza parlare6.
3. Su questo argomento, del linguaggio verbale, e sui suoi caratteri, hanno assunto
una notevole importanza le tesi di un insigne linguista e filosofo del linguaggio,
Antonino Pagliaro. Di esse mi sono ampiamente occupato in un saggio Il «conoscere linguistico» di Antonino Pagliaro, contenuto in Raggiunti 1973.
In questo articolo tratterò soltanto, e brevemente, di alcuni aspetti della sua posizione filosofico-linguistica, che può avere una relazione con il problema dell’origine del linguaggio: un problema che il Pagliaro ha, indubbiamente, preso in esame.
Ma sembra delinearsi, in modo particolare negli scritti Logica e grammatica (Pagliaro 1950), e Il linguaggio come conoscenza (Pagliero 1951) una distinzione fra
il pensiero che intuisce, analizza, pensa e il linguaggio. Per quest’ultimo adopera
l’espressione conoscere linguistico, che sembra identificarsi con la lingua come
sistema di nozioni astratte disponibili per l’atto linguistico.
Tuttavia il Pagliaro non giunge ad una inequivocabile identificazione del conoscere linguistico con i valori conoscitivi depositati nella lingua.
Ma, prima di analizzare compiutamente il rapporto fra pensiero e linguaggio, e
stabilire come, nel pensiero dell’autore, venga affrontato e discusso il problema
delle origini, vediamo come la sua posizione si differenzi da quella di Croce.
Per entrambi l’intuizione artistica è, necessariamente, anche espressione. È evidente che il concetto di espressione si differenzia notevolmente nelle diverse arti.
Solo nell’arte letteraria, poesia e romanzo, l’espressione è propriamente verbale.
Ma proprio in relazione all’arte letteraria, le due posizioni, quella del Croce e
quella del Pagliaro, sono assai distinte l’una dall’altra. Quando l’intuizione assume
il sostegno del simbolo linguistico, avviene, secondo il Pagliaro, qualcosa che il
Croce ha sempre voluto decisamente negare. Nella traduzione degli elementi delle
intuizioni in simboli verbali, in altri termini nella «riduzione di un’intuizione in
rappresentazioni», il particolare, sostiene il Pagliaro, è conosciuto mediante l’universale; l’intuizione viene analizzata e concettualizzata, e soltanto così l’individuale dell’intuizione viene conosciuto. In netto contrasto con la posizione di Croce, il
Pagliaro afferma che solo attraverso i concetti collegati ai simboli linguistici
l’intuizione-espressione diviene una categoria specifica di conoscenza. Ma, ancora
in antitesi alla posizione di Croce, il Pagliaro respinge risolutamente la tesi secondo la quale la lingua sarebbe soltanto un fatto di natura pratica. Anche nell’ultima
fase della sua riflessione Croce considera la lingua soltanto come un’abitudine, una
moda, una «istituzione».
blema delle origini non abbia un senso, per un filosofo tale problema si rivela, per le ragioni che
sono state enunciate, necessario ed inevitabile.» (Raggiunti 1997:143).
6 Vedere l’esempio, assai significativo, cui Calogero ricorre (Calogero 1946-48/3:168).
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In tal modo l’atto linguistico, in tale prospettiva, appare privo di un solido fondamento e di un’autentica spiegazione. Per il Pagliaro, al contrario, la lingua non
è soltanto un fatto pratico, è, prima di tutto, un atto teoretico. La forma e la tecnica linguistica hanno una funzione ineliminabile proprio sul piano della conoscenza. La lingua, come sistema di segni, e, perciò, come sistema di significati,
grammaticali e lessicali, è ciò che rende possibile, in virtù del suo spessore gnoseologico, ogni tipo di atto linguistico. In tal modo il Pagliaro ha messo in chiara
evidenza, in contrasto con il Croce, la componente gnoseologica della lingua, la
lingua come sistema che condensa in sé i risultati di molteplici esperienze conoscitive.
Ma egli ha posto in eguale evidenza il momento soggettivo, quello che, in termini saussuriani, si identifica con la parole; in esso il sistema (lingua) diventa forma di un certo contenuto di coscienza, attraverso un’iniziativa, un atto di libertà
del parlante. Da questo punto di vista, si può parlare anche di creatività dell’atto
linguistico, in pieno accordo con le tesi del Pagliaro.
Il problema che ci interessa particolarmente, in questo articolo, è quello delle
origini del linguaggio. Anche su questo argomento è netto il divario fra la posizione di Croce e quella di Pagliaro. Mentre il Croce nega assolutamente che si possa
e si debba porre il problema delle origini del linguaggio, affermando risolutamente che il linguaggio è intuizione e che, essendo l’intuizione una categoria eterna
dello Spirito, è privo di senso porre il problema delle origini di tale categoria, il
Pagliaro, invece, come ora potremo constatare, attraverso l’esame dei suoi saggi e
articoli, ha trattato, con vivo interesse, tale problema, assumendo posizioni diverse, talvolta permeate, forse, dal dubbio.
Ma che cosa intende esattamente l’autore con il termine linguaggio. Egli distingue l’intuizione linguistica dalle altre intuizioni, artistica, logica, pratica, e la definisce come quella che «coglie un rapporto, anzi una serie di rapporti fra il contenuto della conoscenza, qualunque esso sia, e un sistema di segni significanti, cioè
un conoscere distinto.» (Pagliaro 1950:32).
Pagliaro denomina questo conoscere distinto con l’espressione «conoscere linguistico».
Se si vuol distinguere un conoscere linguistico – come vuole il Pagliaro – dagli
altri tipi di conoscere, occorre identificare tale conoscere con l’insieme delle nozioni – costituite dai significanti e dai significati – di cui è in possesso chi conosce
una lingua.
Ma la langue si distingue dall’atto linguistico concreto, mediante il quale il segno
è determinato nel suo contenuto semantico dal contesto in cui si integra con gli
altri elementi contestuali, e, in tal modo acquisisce un senso specifico o particolare. L’autore afferma, giustamente, che non tutto il linguaggio è pensiero discorsivo, vale a dire un pensiero che presuppone l’analisi. È certo che l’atto linguistico
concreto può assumere la funzione di esprimere una sensazione, come nell’interiezione (ahi!), una esclamazione (bello!) una vocazione (Pietro!), nei quali l’individuale «è evocato nel segno come intuizione diretta».
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La tesi che non tutto il linguaggio è pensiero discorsivo è integrata dall’altra –
che è importante segnalare –, che non tutte le esperienze, non tutti i moti ed impulsi
della coscienza giungono «necessariamente» all’obbiettivazione verbale. Una forte sensazione di dolore, l’intuizione che mi dà la cosa con tutti i suoi attributi possibili, come pure gli atti dell’intendere pratico, possono aver luogo e compiersi nella
coscienza senza il ricorso alle espressioni linguistiche (Pagliaro 1950:10s.). Pagliaro sostiene questa tesi, riguardo agli atti dell’intendere pratico, poiché è convinto
che tali atti possono aver luogo e compiersi nella coscienza mancando in essi «il
richiamo all’universale». È discutibile la tesi che negli atti dell’intendere pratico
manchi il richiamo all’universale. Ma l’autore sostiene, con convinzione, che il suddetto richiamo all’universale si verifichi soltanto nel pensiero logico, e per questa
ragione egli afferma che il pensiero logico non può fare a meno del linguaggio. Comunque sia, si delinea un fatto importante, che vi sono, secondo la tesi del Pagliaro, esperienze della coscienza che possono compiersi senza il ricorso al linguaggio.
Pur affermando il nostro autore che l’indipendenza del pensiero dal linguaggio si
determina entro certi limiti, giunge tuttavia ad affermare che la mancanza di un
segno per una nozione non implica affatto l’assenza di quella nozione (ib.:19).
E sostiene che «pensiero logico e linguaggio sono profondamente distinti, e che
la tecnica del pensiero logico, come quella della poesia, è anteriore alla forma linguistica»7.
Ma la forma linguistica si distingue in lingua e atto linguistico. Quando il Pagliaro sostiene il carattere di generalità del significato linguistico si riferisce evidentemente alla lingua. Ciò è confermato dalla frase seguente: «La parola vale per
quel tanto di sapere che ad essa leghiamo: se non fosse presente nella nostra
coscienza quel sapere, essa rimarrebbe vuoto suono.» (Pagliaro 1957:211).
Proprio in relazione al problema delle origini del linguaggio (e perciò di una
lingua) è significativa questa convinzione del nostro autore, che il fondamento
dell’apprendimento dei significati delle parole non è esclusivamente linguistico e
che non si può isolare arbitrariamente la lingua dal mondo degli oggetti, delle azioni, delle emozioni di cui si ha ogni giorno esperienza. Il Pagliaro è ben consapevole
di questo aspetto dell’origine dei significati linguistici.
Ne Il linguaggio come conoscenza permane l’esigenza di una distinzione fra una
momento del pensiero e un momento del linguaggio. Si distingue fra frase mentale e frase verbale. La frase mentale è «l’atto mediante cui si costituisce nella mente
la frase, in un momento, per dir così proverbiale, costituito di valori astratti approssimativamente colti.» (Pagliaro 1951:86s.). La frase verbale collega valori
astratti con simboli fonici.
L’idea di una frase mentale, proverbiale, può costituire una significativa indicazione per quanto riguarda il problema delle origini del linguaggio: un problema
che il Pagliaro ha voluto affrontare e discutere.
7 In Pagliaro 1957:199s. ritroviamo intatta questa esigenza di una distinzione e di una priorità del pensiero rispetto al linguaggio.
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Ne La parola e l’immagine si propone di porre un’ipotesi filosoficamente valida sulle origini della lingua. Un criterio valido, che risulta però essere negativo e
critico, è quello di respingere quegli elementi o aspetti che, nell’ipotesi, risultano
inconsistenti rispetto al concetto di lingua e di tecnica linguistica a noi noto. Non
si nasconde la difficoltà del problema che definisce «suggestivo e disperato». Respinge la proposta behaviourista che presuppone che il segnale, vale a dire il segno
dell’animale, sia il precedente del simbolo, che è il segno dell’uomo. Per il Pagliaro il problema delle origini del linguaggio viene identificato con il problema
dell’origine del simbolo. Il criterio che propone, come criterio più ragionevole, è
quello di vedere operanti nei primordi le medesime forze che agiscono nel divenire attuale (Pagliaro 1957:22).
Ma egli ipotizza che tali forze, alle origini, abbiano agito in maniera diversa da
oggi.
Definisce con il termine «interpretare» quella operazione che consiste nella «ricognizione, rapidissima e quasi istintiva, delle disponibilità linguistiche, in rapporto al contenuto della coscienza che preme all’obiettivazione» (Pagliaro 1957:
24).
E conclude che tale operazione, in conformità al principio del Paul, deve essere
postulata anche per l’atto linguistico delle origini. Ma, vien fatto di osservare, in
qual senso alle origini si può ipotizzare una disponibilità linguistica? Si può, ragionevolmente, supporre che alle origini non vi sia alcuna disponibilità linguistica,
e che essa venga a determinarsi a poco a poco, attraverso una lenta e progressiva
produzione di simboli.
È nota la soluzione, proposta dallo Herder, del problema delle origini che esamineremo successivamente. Il Pagliaro riconosce allo Herder il merito di aver constatato «il carattere teoretico, conoscitivo» del linguaggio e di aver posto l’origine
in un atto di riflessione (Besonnenheit o Reflexion), ma gli rimprovera di aver
posto come dato primordiale il singolo segno.
Si può rivolgere al Pagliaro questa ragionevolissima osservazione: come è concepibile e verosimile l’idea che l’uomo delle origini abbia posto o creato, nello stesso tempo, una pluralità di segni?
Ma vediamo quale consistenza hanno le sue osservazioni, in relazione al suddetto problema. Per il Pagliaro il dato primordiale non è il singolo segno, ma la frase: gli uomini emisero i primi suoni in forma di frasi, una ipotesi ammessa dallo
Humboldt e più tardi dal Cassirer. Ma ciò implica delle difficoltà che appaiono insuperabili. Ne Il linguaggio come conoscenza giunge alla conclusione che «non è
possibile porre la questione della frase e del segno sul piano della precedenza temporale.» (Pagliaro 1951:83). Ma ne La parola e l’immagine suggerisce la maniera
per superare tale difficoltà con l’affermare che la frase dei primordi, la frase che
precede il segno, debba essere di qualità diversa rispetto a quella che noi conosciamo, che presuppone il singolo segno.
Dobbiamo controllare se gli elementi che compongono la presunta frase originaria abbiano le caratteristiche necessarie che sono proprie degli elementi di una
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frase. Se non avessero le caratteristiche richieste, l’ipotesi stessa della frase primordiale verrebbe a cadere, e, nello stesso tempo, non avrebbero una consistenza
le osservazioni rivolte allo Herder. Ciò che caratterizza le singole unità significanti, che compongono una frase è il loro carattere di universalità. Ma la frase primordiale non si presenta come composta di unità significanti, aventi carattere di
universalità – o, potremmo dire, di generalità –, e perciò non è analizzabile in elementi. Lo stesso Pagliaro ammette, implicitamente, che all’origine la frase non è
analizzabile: lo diverrebbe successivamente, dopo un certo numero di esperienze
linguistiche. Pagliaro non spiega come ciò possa avvenire.
L’autore è ben consapevole della difficoltà e non sa precisare quali possano
essere gli elementi nei quali la presunta frase sia scomponibile. Egli si limita ad
affermare che «un minimo di varietà funzionale nella serie acustica è già indispensabile, affinché possa parlarsi di segno e non di segnale».
La caratteristica del segnale dell’animale è infatti nella sua inanalizzabilità. E
non si può ammettere che la frase originaria si articoli indipendentemente dalla
funzionalità del segno, che significa dalla sua astrattezza e generalità. Ma Pagliaro
viene ad affermare «che il rapporto fra la manifestazione fonica e la situazione non
è portato a svilupparsi sul piano dell’astratto, ma rimane su un piano di stretta
aderenza al concreto.» (Pagliaro 1957:58). Tuttavia, proprio dal Pagliaro abbiamo
appreso che l’essenza del linguaggio è nell’analisi e nel riferimento degli elementi ottenuti dall’analisi a simboli di valore generico o astratto.
È una inevitabile conseguenza il fatto che l’autore debba richiamarsi alla filosofia di Vico e al mito dell’origine poetica del linguaggio. E di mito, non di tesi
seriamente filosofica, si tratta, poiché, contrariamente a quanto sostiene il Vico, e
lo stesso Pagliaro, anche il linguaggio poetico richiede, per attuarsi, termini generali e astratti, richiede segni e non segnali poetici.
Dobbiamo precisare, tuttavia, che quanto vien affermando il Pagliaro è ammesso in via soltanto ipotetica.
E dobbiamo affermare, senza esitazione, che ha una ferrea logica un’altra ipotesi, opposta a quella proposta dal nostro autore; l’ipotesi, intendiamo dire, che
pone all’origine del linguaggio il singolo segno, enunciato in funzione di frase,
quando esso, come elemento propriamente linguistico, è inserito in un contesto,
nel quale gli altri elementi componenti sono elementi extralinguistici costituenti
una determinata situazione. In questa tesi è implicito il ragionevole riferimento
alla posizione di Herder.
In tal modo si evita l’ostacolo insuperabile della difficoltà a concepire una frase
che sarebbe tale senza una dipendenza da singoli segni. Alla fase della costituzione dei singoli segni in funzione di frasi, con la presenza ineliminabile del contesto
extralinguistico, sarà seguita la fase della costituzione della frase vera e propria,
composta di più segni, di vario tipo.
Lo stesso Pagliaro, descrivendo le condizioni originarie, che rendono possibile
lo stabilirsi del segno, sembra alludere, più che a un segno complesso, a un segno
semplice in funzione di frase (Pagliaro 1957:78s.).
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Non consideriamo, a tal proposito, del tutto pertinenti le osservazioni che il nostro
autore rivolge allo Herder sulle origini del linguaggio. Secondo il Pagliaro un nome,
che coglie un tratto particolarmente saliente di un oggetto, non è possibile che avvenga se non in collegamento con un sistema di valori semantici già costituiti.Il nome,
cui allude la teoria dello Herder, che successivamente prenderemo brevemente in
esame, essendo la manifestazione acustica originaria, non può sorgere con i procedimenti noti. L’osservazione non tien conto del fatto che esso sorge in funzione di frase.
È ugualmente in errore il Pagliaro in quanto egli interpreta la nominazione
implicata nel segno originario, posto dallo Herder, come una «normazione particolare». Esso è un contrassegno che ha i caratteri della generalità, ed è applicabile a tutti gli oggetti della stessa specie. Ma dello Herder parleremo dopo. Il
Pagliaro, come abbiamo precedentemente osservato, in alcune sue affermazioni,
sembra dar credito al mito vichiano dell’origine poetica del linguaggio. Ma lo stesso Vico non crede, in ultima analisi, in questa fantastica origine del linguaggio,
come puro linguaggio poetico se «alla fine abbandona il terreno genetico per fare
delle sue distinzioni, non più un fatto di cronologia, bensì un fatto di fenomenologia». Questa constatazione è fatta dallo stesso Pagliaro, in un suo pregevolissimo
studio su La dottrina linguistica di G.B. Vico (Pagliaro 1959:454).
Ma il Pagliaro pensava che fosse filosoficamente proponibile il problema delle
origini del linguaggio? Ne Il segno vivente (Pagliaro 1969) troviamo una dichiarazione, che costituisce implicitamente la negazione del problema delle origini.
Egli vi afferma che è assurdo parlare di origine del linguaggio, se il termine origine viene inteso in senso cronologico. D’altra parte non si può parlare di origine del
linguaggio in un senso che non sia quello cronologico. Ne La parola e l’immagine,
il Pagliaro ipotizza un’altra soluzione, che, alle origini, la frase abbia un carattere
musicale. Alla tesi, ipotetica, del nostro autore si può obiettare che se alla musica
vera e propria si può attribuire l’intenzione di rappresentare, questo modo di
rappresentare si differenzia molto da quello linguistico.
4. Johann Gottfried Herder nella sua opera Abhandlung über den Ursprung der
Sprache (in seguito citato secondo la traduzione italiana: Herder 1954), e precisamente nel capitolo i, afferma che l’uomo, nella sua qualità di animale è dotato di linguaggio. Ma a quale tipo di linguaggio egli si riferisce anzitutto? Ad un linguaggio
del sentimento, che costituisce una legge immediata di natura, un linguaggio che
l’uomo ha avuto originariamente in comune con gli animali. Herder si esprime in
questo modo, per dare una precisa definizione a questo tipo di linguaggio naturale:
« ... i modi del viver civile e le forme di educazione sociale, possono aver arginato,
disseccato, deviato finché vogliono l’oceanico flusso delle passioni; ma l’attimo più
impetuoso del sentimento, dovunque e per quanto di rado si verifichi, riprende
ancora i suoi diritti e risuona nell’accento immediato del linguaggio materno»8.
8 Herder 1954:7. «Questi suoni sono naturalmente molto semplici; e quando vengono articolati e rappresentati sulla carta sotto forma di lettere quali interiezioni, accade che sentimenti di-
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Renzo Raggiunti
Il suono «deve riferirsi all’immagine complessiva; e questa immagine parla già
per se stessa; essa deve risuonare, non descrivere» (Herder 1954:9).
Questi residui di suoni naturali, presenti in tutte le lingue, «non sono le radici
vere e proprie del linguaggio, ma i succhi che ne ravvivano le radici». «Quale lingua viva si può imparare, per ciò che riguarda i suoni, dalle lettere dei libri?» (Herder 1954:19). « . . . La lingua non è sorta da lettere della grammatica di Dio, ma da
suoni selvaggi di organi liberi.» (ib.:14).
Tuttavia Herder fa rientrare questi suoni selvaggi, questi accenti immediati del
sentimento «nella sfera dell’animalità» (ib.:17).
La posizione di Herder è chiara e determinata in relazione al problema dell’origine. L’origine del linguaggio non può essere spiegata con questi gridi del sentimento. «I bambini esprimono i loro sentimenti emettendo suoni come le bestie; ma
la lingua che imparano dagli uomini non è una lingua completamente diversa?»
(ib.:18).
L’uomo, precisa l’autore, non parla seguendo la sua natura istintiva, parla in
virtù della sua ragione. Una qualità caratteristica dell’uomo è la riflessione, che è
essenziale alla sua specie. «Lo stesso si può dire del linguaggio e della sua invenzione del linguaggio.» (ib.:35).
Ma qual è il primo passo che l’uomo compie per inventare il linguaggio? – Tutto
il discorso di Herder riguardante tale invenzione sembra decisamente orientato,
non verso la frase, come alcuni studiosi hanno ipotizzato senza dare una esauriente spiegazione dei singoli elementi di essa, bensì verso il singolo segno. Perciò la frase avrebbe origine soltanto dopo l’invenzione dei singoli segni. Anzitutto, perciò,
un singolo segno. Herder ci offre un esempio suggestivo, quello del segno della pecora. «Appena l’uomo sente il bisogno di conoscere la pecora, più nessun istinto lo
turba, più nessun senso lo trae troppo vicino ad essa o da essa lo rimuove . . . La
pecora bela: ecco trovato il segno; ora il segno interiore opera.» (Herder 1954:36).
L’anima ha fatto la conoscenza umana della pecora, poiché l’ha riconosciuta e
designata chiaramente, vale a dire con un contrassegno. Il belato della pecora è
divenuto un primo segno. Esso costituisce «un interiore vocabolo evocativo
(Merkwort)».
Che cos’è questo primo suono se non una parola? Herder precisa, in relazione
al linguaggio nel suo complesso: esso non è altro che una raccolta di queste parole. Sappiamo che le parole si differenzieranno, nel loro carattere e nella loro funzione: nomi, aggettivi, verbi, preposizioni. L’uomo che inventa il linguaggio deve
percorrere questo difficile cammino.
Seguono molte interessanti osservazioni che dimostrano, nello stesso tempo,
l’ampiezza e la profondità della cultura di Herder e la sua capacità di differenziarsi
sparatisssimi abbiano quasi la stessa espressione. Il languido ‹ah!› è il suono tanto dell’amore
struggente quanto della disperazione declinante; il focoso ‹oh!› è l’espressione della gioia improvvisa e del furore prorompente, della crescente ammirazione e della rifluente pietà.» (Herder 1954:8).
L’origine del linguaggio
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da altri studiosi e di respingere le loro tesi. Una delle tesi che egli risolutamente
respinge è quella che sostiene che il linguaggio abbia avuto origine da un accordo
e un’arbitraria convenzione della società; altra tesi che respinge con altrettanta
forza è quella che afferma che il linguaggio abbia avuto un’origine divina.
Herder sostiene con fermezza che «senza linguaggio l’uomo non ha capacità di
ragionare, e senza ragione non ha linguaggio.» (Herder 1954:41).
Ma a lui non sfugge l’altra importante caratteristica del linguaggio, la sua funzione comunicativa; egli afferma: «Il primo contrassegno che io percepisco è una
parola mnemonica per me, una parola comunicativa per gli altri.»
L’autore non si nasconde le difficoltà che riguardano la formazione o invenzione di parole che si riferiscono ad oggetti che non emettono suoni. Abbiamo
appreso, in riferimento alla pecora, che un primo nome, ipoteticamente, potesse
derivare dal suono emesso dalla pecora, il suo belato. E per gli oggetti che non
emettono suoni, per gli oggetti che non han voce «donde son venute le parole mnemoniche con cui l’anima le denomina» (Herder 1954:59).
Le difficoltà poste in evidenza dallo Herder non compromettono, a mio avviso,
la sua tesi fondamentale, che all’origine debbano essere poste le singole parole, e
non la frase, una frase che risulterebbe linguisticamente inspiegabile. Si può supporre, in pieno accordo con lo Herder, che la singola parola, come in ipotesi il belato della pecora, avesse una funzione di frase, a causa dell’intervento necessario
delle circostanze extralinguistiche poste in relazione con il pronunciamento della
singola parola, una parola non ancora giunta alla sua piena determinazione.
Ma ritornando alla difficoltà di spiegare l’origine dei nomi di oggetti che non
emettono suoni, vien fatto di ricorrere all’ipotesi di una vera e propria invenzione
dei termini corrispondenti, ed al costituirsi di quel rapporto di arbitrarietà che si
determina fra il significante e il significato del segno linguistico. Herder non sembra di questo avviso, egli afferma infatti quanto segue: «Che un uomo rozzo, sensibile, ancor ligio alla natura ... il quale, inesperto e gagliardo, non fa nulla senza un
motivo impellente e non vuol far nulla invano, escogiti un linguaggio campato nel
vuoto e vano arbitrio, è cosa contraria a tutta l’analogia della natura.» (Herder
1954:60).
Herder ipotizza che nell’uomo si stabilisce un legame naturale fra le più disparate sensazioni, come, ad esempio, un suono e un colore.
In questo articolo sono state trattate soltanto una parte delle interessanti osservazioni dello Herder sul linguaggio. I limiti di spazio, che debbono essere rispettati, ci hanno impedito di affrontare altri interessanti argomenti.
Ma non possiamo tacere riguardo ad un’osservazione che il traduttore del
Saggio, Giovanni Necco, meritevole per la ottima traduzione, fa nella sua ampia
prefazione. Egli, in relazione alla nozione fondamentale di origine del linguaggio,
afferma: «La parola origine non ha per lui (Herder) un significato strettamente
temporale, né designa un preciso accadimento del passato, ma si riferisce ad un
momento eterno dello spirito umano, ad un momento che si rinnova ogni volta che
l’uomo crea il linguaggio.» (Herder 1954:xxxii).
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Renzo Raggiunti
L’osservazione di Necco toglie il suo vero e autentico significato al termine
origine, adoperato da Herder, e rischia di porre la sua filosofia linguistica sullo stesso piano e nella stessa prospettiva della filosofia del linguaggio di Benedetto Croce, il quale considera non filosoficamente proponibile il problema delle origini del
linguaggio, e afferma che il linguaggio, che egli identifica con l’intuizione-espressione, è una categoria eterna dello Spirito.
Viareggio
Renzo Raggiunti
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Calogero, G. 1946-48: Lezioni di filosofia, estetica, semantica, istorica, Torino
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