il libro CARO SESSANTOTTO

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il libro CARO SESSANTOTTO
Scheda
SEGNALIAMO
“Caro sessantotto - “Un diario
Jacovitti anno scolastico 1967-68
e una separazione, una classe terza
superiore e la disperazione, lettere ai compagni di classe e la piazza
di lapislazzuli. Risultato: un alito
sulle braci degli anni roventi, di
cui non si è ancora detto tutto e
non abbastanza, e un rammendo su un cuore ferito. Un pezzo
di memoria da incastrare nella ricomposizione del 68 senza paura
di vederne il disegno né il futuro
appena passato” (l’Autrice)
Chi ha vissuto il Sessantotto e
quegli anni ne è orgoglioso, chi
è nato successivamente sente che
qualcosa gli è mancato. Le visioni, oltre che storiche, anche personali, intime, “poetiche”, la presa di coscienza che si può anche
aver sbagliato, alimentano tale
concezione. Un libro che non
è solo un ricordo o una rivisitazione storica, ma che può contribuire, soprattutto nei giovani,
a risvegliare quel senso di appartenenza a una comunità, a degli
ideali, a degli obiettivi che sembra
oggi assopito tra una scatola quadrata e la ricerca dell’ultima tecnologia.
il libro
Maria Elisabetta Montagni vive
a Riva del Garda, ha frequentato l’abiente scolastico dall’età dei
sei anni come scolara prima, poi
come maestra. Attualmente lavora presso il Dipartimento Istruzione di Trento, nel centro risorse
integrazione.
Maria Elisabetta Montagni, Una
primavera difficile, Zandonai,
Trento 2010, pp. 115, € 12,50
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CARO SESSANTOTTO
Alito sulle braci degli anni roventi
Elisabetta Montagni da qualche anno opera qui a due passi da noi, dal luogo fisico dove si pensa e si redige la rivista didascalie; adesso ha preso un po’
più di distanza, andando ad operare, sempre sui temi dell’integrazione e dei
Bisogni Educativi speciali, nel nuovo “Centro Risorse Integrazione”, del quale presto ci occuperemo. Ma Elisabetta è stata anche una mia “compagna di
viaggio” in alcune importanti battaglie per la scuola, ai tempi di quel “fucina di idee e lotte” che era il sobborgo di Mori e la Bassa Lagarina. Forse per
questo, e per la prima volta, mi permetto di scrivere io queste brevi note sul
suo libro uscito da poco, trasgredendo ad una consuetudine della rivista, che
affida ad altri le recensioni per questa rubrica. Ma, pensandoci bene, le ragioni sono altre e provo a dirle.
Ad ognuno il “suo 68”
Ci sono alcuni richiami precisi, che mi hanno colpito dell’agile opuscolo scritto da Elisabetta. Innanzitutto il titolo “caro sessantotto” tutto minuscolo, col
tono affettivo diretto di quell’aggettivo “caro” rivolto a qualcosa che sta davvero a cuore, di cui non bisognerebbe mai farne un uso disinvolto e neutro (provo
sempre fastidio quasi fisico quando mi salutano “ciao caro! ciao bello!”), la personalizzazione del proprio racconto ed i continui rimandi al vissuto vero. Certo
è troppo presto ancora per “fare analisi” sul sessantotto e comunque sono cosa
diversa dallo sforzo di passare il racconto a chi non l’ha vissuto. Quelli, come
me, che ci sono passati dentro, avrebbero voglia di leggere e ascoltare tutto ciò
che si dice e si scrive di quel periodo, forse perché ancora – pensa un po’ – non
abbiamo trovato il registro giusto per narrarlo ai figli, ai giovani, a chi non c’era.
Siamo sempre tentati di leggere ed ascoltare tutto sul “caro sessantotto”, ad una
condizione: che non si tratti della lezioncina a posteriori di chi aveva capito tutto allora ed ancor più ha capito tutto oggi, di chi – e si tratta quasi sempre di dirigenti di allora e di adesso – sposa un certo antistoricismo che applica dei criteri di oggi ai fatti di ieri. Ecco perché ci piacciono i “racconti” sulle “persone che
non sono piante”, su “quel giovane supplente che veniva da sociologia” e che le
ragazze si ritrovano all’improvviso in classe portatore di sana creatività e apertura mentale impensabili per quel tempo; ma anche il ricordo di genitori che accettano con responsabilità di essere “matusa” e di essere considerati tali dai propri figli e dalla generazione che veniva dopo di loro. Abbiamo bisogno, certo, di
prendere le distanze da tutto ciò che è “antico”, che sentiamo sempre più come
lontano e per certi versi estraneo da ciò che siamo diventati col tempo, abbiamo
anche diritto all’oblio, come sempre più spesso si sente dire oggi da chi analizza
gli effetti dell’era digitale, per salvarci dalla “memoria globale del network”; ma
abbiamo anche maledettamente bisogno di tanti e tanti “racconti” ripresi dalla
memoria di ognuno di noi “che c’era”, senza cedere alla tentazione di fare analisi a posteriori. Ed abbiamo anche maledettamente bisogno di serbare gelosamente il nostro file sul nostro “caro sessantotto”, magari in una chiavetta nostra
senza metterlo su you tube o in altri spazi globali. Un file, che fa bene a chi lo
scrive ed a chi lo legge. Come questo di Elisabetta, che ha tanti passaggi del vissuto vero, che fanno subito scattare connessioni, rimandi, pensieri… Qui accanto, alcuni di questi.
Mario Caroli
n.3 marzo 2010
Le parole per dirlo
[…]
Genitori e figli
“I nostri genitori si accorgevano che eravamo più istruiti,
anche se privi di esperienza, si fidavano dei giovani, anche se eravamo ribelli perché immaginavano una vita che
progrediva, diventava migliore. Le madri intravedevano
nella rivolta delle figlie un’idea di riscatto, non lo dichiaravano, ma nel fondo erano solidali.
Lo scontro avveniva quando pretendevamo di giustificare
comportamenti che potevano essere compresi come giovanili, con scelte ideologiche e schieramenti politici colorati
di rosso, quando la ricerca della comprensione reciproca si
schiantava contro il muro dei modelli immutabili e naturali che per noi erano condizionamenti e strutture di potere, quando si disubbidiva per disobbedire.
Si lasciavano definire “matusa” ma ci facevano passare oltre perché accettavano di diventare passato. Gli anziani
di oggi occupano un continuo presente relegando i giovani in un fuoritempo che li tiene lontano dal gioco come se
avessero già perso ancor prima di gareggiare. E’ una società di vecchi che investono continuamente su se stessi. Evergreen a cinquantanni ricominciano da capo, gli adulti
non sono previsti, nessuno si propone come maestro, nessuno ha piacere d’invecchiare.”
Quel giovane supplente
che veniva da sociologia…
“I cellulari hanno solo reso acquistabile a pagamento e digitalizzata quella capacità di comunicare a cui con tanta
artigianale cura si sono sempre dedicati gli studenti.
Era il nostro principale scopo sapere chi eravamo cosa stessimo facendo e perché, era un rispecchiamento continuo.
Forse i professori se ne erano accorti perché ogni tanto si
mettavano nella traiettoria, sedendosi su qualche banco o
girando fra le bancate. Non potevano chiederci di spegnerlo o lasciarlo a casa. Era stata una mossa a sorpresa quando
abbiamo spostato i banchi e li abbiamo disposti a ferro di
cavallo, una rivoluzione copernicana: avevamo creato un
centro al posto di un fronte, avevamo posto al centro la relazione. Fra i professori, qualcuno colse l’opportunità, soprattutto quello nuovo, il supplente del prof. che stava facendo il militare, quello che veniva da sociologia. Aveva
24 anni, del movimento studentesco, bello, voce morbida,
mezzo veneziano mezzo cipriota, mani da marinaio, sarebbe diventato il nostro mito, ci saremo battuti per lui,
ma all’inizio ci dedicavamo a qualunque cosa che non fosn.3 marzo 2010
se prestargli attenzione. Ridevamo, soprattutto noi ragazze
naturalmente, lui era troppo, ridevamo del suo procedere
incerto e lento, del tono basso della voce, dello sbattere delle
palpebre, della saliva che a volte si accumulava all’angolo
della bocca. Era un diverso da cui prima di tutto ci si doveva difendere. Ci sorprendeva che non guardasse la televisione o che si fosse sposato in un fine settimana senza viaggio di nozze, che rifiutasse lo sci come passatempo borghese
e un po’ alla volta cominciò a piacerci come spiegava il sesto
canto e il tempo dedicato al Vasari e che di pomeriggio extra orario ci portasse a vedere Il dottor Zivago e che in una
domenica passata con noi in battello sul Garda ci insegnasse le canzoni di De Andrè. E che interrogasse le nostre menti, a volte i cuori e suscitasse dubbi. Le sue ore erano un incontro fra noi e con lui. Non per tutti, per chi ci stava, è
sempre una scelta ed eravamo i più. O almeno così pareva,
è sempre difficile esprimerti se ti senti minoranza.”
Da studente a maestra…
“Improvvisamente da studente diventavo docente. Era
l’epoca in cui i maestri erano funzionari e al loro ingresso in ruolo giuravano nelle mani del direttore fedeltà allo
stato. E invece eravamo fedeli al cambiamento, alla ricerca sul cosa ai bambini fosse utile imparare, sui modi per
toglierli dal ruolo di passivi esecutori e metterli al centro
dell’azione. Sbalzata dall’altra parte della barricata, non
ti basta spostare la cattedra contro il muro, sei dalla parte
del potere e lo eserciti. (…)
La potenza di questa miscela si scontra e si incontra con
i soggetti cui è diretta l’azione, loro, le bambine e i bambini, alunni dei quali la studentessa, appena uscita dalla
scuola, sa esigenze bisogni e ruolo, nei quali improvvisamente non può più riconoscersi perché sta dall’altra parte,
è diventata la maestra.”
Il tempo di cedere il passo…
“Era arrivato così in fretta il tempo di cedere il passo e lasciare la strada, la piazza, la lotta ai nuovi giovani così
vicini a noi, quasi noi stessi, non c’è stato il tempo della
consegna, della narrazione. Avevamo appena la forza di
individuare il nostro presente, capire che cosa eravamo diventati e scoprire che i figli di operai facevano gli operai
o gli impiegati e le figlie di impiegati facevano le maestre
e i figli degli intellettuali facevano gli scrittori e i figli dei
professionisti facevano i professionisti e i figli dei politici
facevano i politici e i compagni dirigenti erano dirigenti
di qualcos’altro o parlamentari o giornalisti. Che la famiglia di origine ancora contava così tanto.”
[…]
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