Era vano cercare con lo sguardo la piccola lancia
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Era vano cercare con lo sguardo la piccola lancia
Era vano cercare con lo sguardo la piccola lancia azzurra di Fotis e il pontile di legno dove il vecchio pescatore era solito ormeggiarsi. Da lì raggiungeva il chiosco con le due cassette del pescato appoggiate sulla spalla destra, a passi lenti ma fieri. Le cassette non erano mai più di due, forse perché Fotis non depredava il mare. Lui si accontentava del necessario per vivere. Oggi so che aveva ragione. No, non avrei potuto vedere Fotis, perché io non vivevo più a Lindos, dov’ero nata, non ero più in Grecia, dov’ero sempre vissuta, e tutto poteva stupirmi e incantarmi. La baia di Lerici era bellissima ai primi di dicembre, ma anche se il suo mare indossava il cupo vestito dell’inverno, non aveva però quello struggente fascino da approdo degli Dei che la mia Lindos porta con sé da sempre, fin dall’inizio dei tempi. Arrivare fin qui non era stata una scelta. Era stata una fuga. La causa: la fine della mia prima vita. Il mio nocchiero si chiamava Gianluca Vivarelli, designer di belle speranze con clienti a Milano e casa sul mare lasciata dai nonni, all’ombra del castello di Byron. In quei giorni mi sentivo una scatola senza spigoli, piacevole, ma pur sempre una scatola. Il privilegio di occupare un terrazzo al secondo piano di una palazzina fronte mare non mi era di 9 Ekaterina Kniazeva alcun conforto. Una scatola resta comunque perennemente un oggetto nell’attesa di eventi, riempita o svuotata che sia, in ogni caso passiva. Mi rendevo conto di non conoscere nessuno a Lerici, e soprattutto nessuno conosceva me. Gli unici scambi sociali li avevo con i piccoli bottegai, con le commesse, con l’impiegato della posta. Tutto aveva il sapore di una giusta punizione, e solo mia era la colpa di essere lontana da tutti, anche dalle persone a cui poter chiedere scusa. Gianluca era stato l’opportunità di andarmene, di salvarmi. E farmi salvare da lui fu estremamente coinvolgente. Entrò nell’agenzia dove lavoravo un mattino di luglio. La sensazione che ebbi fu subito gradevole. I pantaloni di lino grezzo, la camicia azzurra con le cifre, il fisico asciutto e ben proporzionato, gli occhi sinceri, taglienti e rapidi. Una lama del loro grigio-verde colpì l’interno della scollatura della mia camicetta un attimo prima che mi potessi ricomporre. Ma non fu cosa sgradita. – Italiano, vero? – qualcosa mi spinse a rispolverare un po’ del mio fascino, accompagnando le parole con un gesto della mano destra che rastrellava i miei capelli corvini senza un apparente motivo logico. – Italiano, senza casa per le vacanze! – esordì lui, lasciando la soglia dell’agenzia e impadronendosi del mio campo visivo come sa fare solo chi ha gran dimestichezza con gli altri. “Benvenuto”, pensai, “italiano dai capelli castani, dalle labbra carnose e decise, dai modi gentili e sicuri di chi non deve far molta fatica per strappare un invito...”. – Vediamo... – pronunciai scorrendo con le dita lo schedario, – mi dovrebbe essere rimasto qualcosa sulla strada di Pefki. 10 L’enigma di Elli – Sul mare, spero! – Naturalmente. Qui è tutto sul mare... meno gli uffici dove lavoriamo noi che operiamo nel turismo. Altrimenti avremmo affittato anche questi – dissi ridendo compiaciuta del mio improvviso desiderio di ritrovare un po’ d’umorismo. – Quando... quando si può vedere? – chiese l’italiano, prendendo possesso dell’unica seggiola in ski verde in dotazione per i clienti posta davanti alla mia scrivania. Dovevo ammettere che era davvero molto piacevole sentirlo parlare. Ero convinta che gli avrei detto subito di sì, se mi avesse proposto di uscire. A costo di essere fraintesa. – Se non ha paura di perdere altri cinque minuti prima di cominciare la sua vacanza, posso accompagnarla. L’uomo che mi aveva reso così disponibile annuì sorridendo e si fece da parte, lasciandomi passare. È bello sentirsi gli occhi addosso quando ti fa piacere. Irina, la mia collega, mi osservò complice, mentre sparivamo entrambi oltre la soglia. Camminando, sentivo gli shorts, già ipercorti, ritirarsi ulteriormente verso la parte superiore delle natiche, e avvertivo i suoi occhi sfrontati su uno dei lati migliori che avessi. – Ma è sempre così? – chiese, cercando di seguirmi contro corrente nel serpentone di folla che inondava gli stretti vicoli di Lindos. – Anche peggio! Lindos è la perla di Rodi e i turisti vanno matti per le perle – poi cambiai tono e mi presentai, – mi chiamo Elli e tu? Mi scusi... Lei? – Va bene “tu”... Gianluca! 11 Ekaterina Kniazeva Il primo scalino che separa dall’intimità era stato superato. La Rodeo cabrio era parcheggiata poco più in là, nella piazza del grande Ficus, seicento metri quadri d’ombra di un albero solo: un’altra meraviglia tra le meraviglie di Lindos. Pefki è un villaggio a quattro chilometri da Lindos. Per raggiungerlo si percorre una sorta di panoramica costeggiata da scure scogliere di lava confinanti con il blu, il verde e l’azzurro di un mare striato, e alte colline di sassi millenari, butterate di bassa vegetazione e lastroni di roccia più chiari. Mentre il suo braccio cingeva la spalliera del mio lato guida, tra la routine delle spiegazioni di rito che si danno ai clienti, tra i pensieri e le parole, percepivo sempre più in me il piacere di quell’incontro fortunato. – Pefki, vuol dire Pini. Vedrà c’è molta più pace che a Lindos. I lindiani vivono là. Lindos è bella, ma nelle sere d’estate è impossibile dormire – e poi, rivolgendomi direttamente a lui, – mi scusi, che stupida, non le ho chiesto se c’era qualcuno che dovevamo portare con noi, non so, sua moglie, la ragazza. In questo periodo c’è troppo lavoro e dimentico anche le buone maniere. – Stia tranquilla – mi rassicurò, – sono solo, questa vacanza è tutta per me... e per chi vorrà conoscermi, naturalmente! “Ci siamo, Elli. Un punto a favore. Stai forse ricominciando a esistere?”, mi dicevo. Scoprire a ventotto anni il piacere di essere nuovamente guardata da uno sconosciuto, era senza dubbio positivo. C’era una parte di me che aveva troppa 12 L’enigma di Elli paura di rimanere nel quotidiano. Forse era il primo segno che stavo cercando un appiglio, anche piccolo, a cui aggrapparmi per uscire dal lago di melma in cui mi ero cacciata. O forse non era così e stavo solo cercando l’ennesima conferma che tutto dipendeva da me. In ogni caso, a osservarlo bene, per essere un appiglio, Gianluca era proprio un bel tenersi. Era passata solo un’ora, lo “studio” era molto piaciuto al mio cliente, la procedura era piaciuta molto a me. Avevo lasciato Gianluca direttamente a casa. Il suo desiderio era stato quello di rimanere subito nell’appartamento. Senza espormi più di tanto, sarei dovuta tornare alle diciotto con la ricevuta dell’affitto e una Suzuki che Gianluca mi aveva chiesto di noleggiare per le tre settimane della sua permanenza. “Guardiamoci in faccia, Elli”, pensavo mentre fissavo con gli occhi lo specchietto retrovisore, “cosa farai se t’invita a cena? Hai l’aria impappinata di chi non sa come prendere le distanze, e con tutti casini che hai, sarebbe la cosa migliore da fare.” “Accetterai senza mezzi termini una cena al lume di candela, gamberoni e Tebaldos bianco secco, come adori tu?”, mi domandavo. L’oblio, che meraviglioso toccasana. “Sarò incosciente, sarò incosciente...”, ripetevo a me stessa, e sentivo che sarebbe stato proprio l’oblio a farla da padrone... Le sei del pomeriggio arrivarono presto. Certo che per una che non voleva cedere, arrivare da Gianluca in ritardo di un’ora e con un vestitino di seta praticamente inesistente e quasi più corto degli 13 Ekaterina Kniazeva shorts del mattino, fu come dire “ehi, cosa aspetti ad invitarmi?” Mi restava comunque l’alibi che non ero stata io a vestirmi, ma l’altra parte di me, quella che non avevo potuto mai controllare fino in fondo perché agiva d’istinto. * * * La terrazza della casa di Lerici mi era apparsa meravigliosa quella sera all’inizio di settembre, quando Gianluca spalancò le portefinestre verdi a persiana che immettevano nel balcone. Il golfo di Lerici era punteggiato di luci e penombre. Ero completamente felice, mentre tenevo ben salde le mani al corrimano che percorreva tutto il perimetro della lunga e stretta terrazza. Era davvero il primo mattino del mondo della mia nuova vita, la fine di un incubo che da tanti mesi mi aveva reso impossibile vivere. No, non lo era. Il mio incubo più grande cominciò proprio allora, respirando l’aria tersa e salmastra di Lerici, cinta dalle braccia di un uomo che non sarebbe certo spiaciuto a nessuna donna, figurarsi a me, che già lo amavo. Sapevo così poco di lui, delle sue abitudini, di tutto il suo modo di essere, e conoscevo invece così bene le sue natiche forti e sode che tante volte avevo guardato quando a Rodi lasciava il letto per cercare le sigarette sul piccolo tavolino nell’angolo dello studio di Pefki, dove passavamo la gran parte del poco tempo libero che mi lasciava l’agenzia. In quella stanza, nei bagni di mezzanotte, nelle cene, c’era tutto il nostro 14