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Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di Alessandro Piccolomini Francesca D’Amante Università degli Studi Roma Tre Department of Education Via Manin, 53 - 00185 Roma [email protected] Risoluto dunque a questa impresa […], postomi innanzi Aristotele e Platone, tutto quel succo, che per la institutione d’un homo nato Nobile e in città libera, si convenisse, in Quindeci Libri raccolsi1. 1. Insegnare la virtù tra litterae e mores Data in dono al nobilissimo fanciullino, Alessandro Colombini, figlio della bellissima Laudomia Forteguerri2, l’Institutione si presenta, nella prima edizione del 1542, come una corposa riflessione sull’educazione che vuole accompagnare la formazione dell’uomo dalle fasce fino all’età adulta: 1 A. Piccolomini, De la Institutione di tutta la vita de l’huomo nato nobile, & in città libera, Venetijs, apud Hyeronimum Scotum, 1542, Dedica. 2 Laudomia Forteguerri, aristocratica e poetessa senese, fu una donna colta che prese parte alla vita politica della sua città. Sposata a Giulio Colombini da cui ebbe tre figli e di questi, il terzo, Alessandro, fu battezzato da Alessandro Piccolomini il quale gli donò proprio L’Institutione. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, V, 1 (2016), pp. 27-48. ISSN 2280-7837 © 2016 Editoriale Anicia, Roma, Italia. DOI: 10.14668/Educaz_5103 Francesca D’Amante un’Opera Morale divisa in X Libri, dove era la somma di tutto quel che così Aristotele, come Platone, de la prima e seconda parte de le Morali, lungamente hanno scritto. […] Nei quali X Libri, s’instituiva la vera, honorata, e felice vita d’un Gentilhomo nato Nobile, e in Città libera, fin da’l principio de le sue fascie, instituendolo d’anno in anno in che essercitio, operatione, o scientia, e con che maniera por si debba di mano in mano3. Tale opera che riprende le lezioni tenute dallo stesso all’Accademia degli infiammati di Padova (come riferisce il Bargagli4), è frutto di molte innervature, prestiti e influenze; un trattato enciclopedico che propone con puntualità le regole di un sistema pedagogico per mezzo del quale deve essere educato il fanciullo e condotto verso l’obiettivo più alto dell’esistenza umana: la sua felicità. Analogamente, i volgarizzamenti, garanti della felicità collettiva5, davano la possibilità di beneficiare della cultura classica a tutti coloro, uomini e donne, che possedessero le competenze culturali necessarie, anche senza tutti i crismi del curriculum umanistico tradizionale: È nel vero è cosa degna di gran pietà che molti naschino di giorno in giorno in Italia di alto e chiaro intelletto, capaci grandamente di quella perfettione, che portano le scientie e le discipline; e per gli impedimenti che hanno avuti di non po3 Ibid., Presentazione dell’editore (Ottaviano Scotto). S. Bargagli, Oratione nella morte del reverendissimo Monsignore Alessandro Piccolomini arcivescovo di Petrasso, et eletto di Siena, Venezia, 1594, p. 554. 5 M. P. Ellero, «I volgarizzamenti e la felicità mentale: l’“umana perfezione” nella Filosofia naturale di Alessandro Piccolomini», in Lo scaffale della biblioteca scientifica in volgare (secoli XIII-XVI), a cura di R. Librandi e R. Piro, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo 2006, pp. 453-468; p. 467. Sulla crescita delle traduzioni rinascimentali si veda C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967. 4 28 Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini ter apprendere la lingua o greca o latina o araba, sieno sforzati per questo di viversi così imperfetti6. Il Piccolomini esprime costantemente la rilevanza culturale e sociale del suo lavoro di traduzione e adattamento del corpus morale classico, focalizzato su quelle opere che egli riteneva fondamentali per la sapienza dell’uomo e per la formazione civile e morale, sede della sua felicità7. Perché il messaggio umanistico del Piccolomini è promotore proprio di questa felicità terrena, della felicità prattica e, come sottolinea Garin8, egli sostiene che solo una concreta moralità terrena rende gli uomini salvi e simili a Dio, quindi perfetti. In cima al pensiero piccolominiano sta la preoccupazione per l’uomo, magnum miraculum della rinascenza, un essere razionale finito la cui appartenenza alla natura e alla società diviene certezza di libertà. È infatti contemporaneamente nella natura e in comunità che egli può formarsi perseguendo la felicità. In questo contesto la città terrena acquisì nuova legittimazione, quando gli umanisti italiani costruirono attorno all’uomo una domus teorica, tracciando i contorni culturali di una città terrena a lui conforme, fatta di formazione umana, legami sociali e civil conversazione9. L’uomo, radicato nella natura e nella società, da questa sua condizione può trarre le possibilità della propria realizzazione, attraverso una vita attiva e partecipativa. Come scrive 6 A. Piccolomini, L’instrumento de la filosofia, vicenzo Valgrisi, Roma, 1551, (Dedica al cardinal de Mendozza del 30 marzo 1550). 7 B. Cestelli Guidi, «Educare a essere “anticamente moderno”», in G. Patrizi, A. Quondam (a cura di), Educare il corpo educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1998. 8 E. Garin, L’Umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1994, pp. 196-199. 9 Cfr. F. Mattei, Persona. Adnotationes in lemma, Roma, Anicia, 2015, p. 128. 29 Francesca D’Amante Piccolomini, uomo significa “animale civile e comunicativo”. Ed è proprio questa sua condizione civile, amicabile, benefica, conversativa ciò che la formazione deve curare e piegare verso una forma del vivere civile, aperta alla politica, all’economia e alla socialità. Furono gli umanisti fiorentini, compagni di Salutati e Bruni, gli attivi partecipanti alla vita politica delle loro città, intenti a rimarcare come naturale il legame dell’uomo con la comunità umana. E nell’esaltazione di una vita civile attiva, gli studia humanitatis vennero eletti come guida per l’uomo e per la sua formazione, per dare all’uomo la sua direzione, quella che gli farà raggiungere la pienezza del suo sviluppo umano, come scrive Garin: «le litterae tornavano in tutta la loro fecondità a formare, non già degli eruditi, ma degli uomini completi»10. La natura umana e le possibilità di portarla alla perfezione al fine di formare l’uomo saggio, colto e virtuoso per il bene della società e della patria, erano al centro delle filosofie dei letterati rinascimentali, tutte ispirate dall’ideale di compiuta umanità e tutte intente a formare l’uomo completo. In seno ad un vasto e graduale rinnovamento politico e sociale, venne a delinearsi l’immagine del nuovo uomo e gli studia humanitatis sembrarono lo strumento per portarlo a perfezione11. L’interesse per le opere antiche non era dunque semplice studio fine a se stesso, ma confronto con uomini saggi, portatori di sapienza, libertà e dignità. Già i letterati del Trecento, alla ricerca di un nuovo canone di formazione, manifestarono quell’inquietudine di rinnovamento del sapere andando a ridestare, con le loro ricerche, la classica humanitas che avrebbe 10 11 30 E. Garin, L’umanesimo italiano, cit., p. 48. Id., L’educazione umanistica in Italia, Bari, Laterza, 1966, p. 10. Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini ri-educato le società moderne. Seguaci del Petrarca, curiosi letterati, filosofi e artisti, invocarono l’antichità, costantemente proiettati verso l’avvenire, innescando nuovi fermenti per la nuova epoca e nel rinnovamento della cultura, posero le basi per la rinascita grandiosa della classicità12. Qui lo scarto più profondo con l’interesse medievale per l’antico: gli intellettuali del Medioevo raccolsero ciò che desideravano della personalità degli antichi. Il Rinascimento si pose sotto il segno della filologia, una chiara e critica consapevolezza dell’attività umana nella sua progressiva conquista13. L’esigenza critica dalla quale sbocciò l’umanesimo era soprattutto la necessità storico-filologica di restaurare fedelmente la verità pronunciata da uomini egregi del passato. Petrarca vide negli scolastici dei deformatori di Aristotele; Valla individuò in Boezio il punto d’inizio dell’alterazione medievale verso i classici e la cristianità14. Gli umanisti tutti compirono un ritorno all’antico nel desiderio di confrontarsi con le antiche virtù, con la civiltà classica greco-romana e con i suoi ideali etici e politici. Il coro degli umanisti rinascimentali osannava gli antichi maestri ristabilendo, attraverso lo studio delle lingue antiche, legami con tutto il sapere da loro promosso. Lo sguardo all’antichità non era contemplazione fine a se stessa, bensì slancio costruttivo verso una nuova concezione della vita che sarebbe stata promossa dai nuovi maestri; l’antichità divenne strumento e programma di educazione del nuovo uomo, ispirazione politica e impegno civile di libertà umana. 12 Id., La cultura del Rinascimento, Bari, Laterza, 2010, p. 15. Id., Medioevo e Rinascimento, Bari, Laterza, 1990, p. 192. 14 Id., La cultura del Rinascimento, cit., p. 16. 13 31 Francesca D’Amante Le humanae litterae formano gli uomini del XVI secolo, danno vita ad una nuova cultura, ad una nuova immagine dell’uomo e ad una nuova concezione del mondo, a nuovi costumi, a nuove forme di vita. Un rinnovamento culturale invade e coinvolge l’Europa dalla fine del XV secolo, e i luoghi in cui si sviluppa questo nuovo fermento sono le nuove scuole di arti liberali, le cancellerie e le corti. Le scuole dell’umanesimo forniscono un indirizzo generale e integrale per la formazione umana, ampia e onnicomprensiva, del gentiluomo e del cittadino nato in città libera come del principe, principali figure sociali del Rinascimento e destinatari di molte opere sull’educazione. Gli umanisti, nella volontà di offrire una visione alternativa dell’educazione rispetto a quella medievale, scrissero trattati pedagogici in cui esaltavano le promesse del nuovo curricolo di studi emergente, insieme all’ideologia e ai fini degli studi umanistici. Tra il XV e il XVI secolo, il problema educativo venne fatto oggetto di importanti riflessioni da parte dei letterati, tant’è che la scuola umanistica, rispetto agli altri modelli, spicca proprio per questa peculiarità, ovvero, per il suo essere pedagogizzante, dato dal legame diretto con la forma di institutio come parte integrante del suo stesso programma. Come sostiene Quondam: l’intreccio biunivoco tra litterae e mores è la ragione per cui gli umanisti si fanno anche, e in molti casi, soprattutto, istitutori e pedagoghi di giovani rampolli di nobili famiglie, o fondano e gestiscono scuole, già dai tempi di Vittorino da Feltre15. 15 A. Quondam, Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti italiani, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 41. 32 Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini La letteratura educativo-morale del Quattro-Cinquecento è frutto di quell’interesse degli eruditi attorno al tema dell’educazione dell’uomo, agli insegnanti di litterae e mores prosecutori dei maestri greci e romani, promotori del metodo di formazione dei giovani nobili e fondatori della tradizione dei discorsi di institutio16. Proprio l’incrocio e il sodalizio tra litterae e mores costituiscono la peculiarità dell’educazione umanistica, l’approccio moralizzante e colto di quei letterati che hanno rielaborato i modelli antichi della paideia e della scuola medievale, basati su un rapporto allievo-maestro che esaltava l’autoformazione dell’allievo17. La componente moralistica ha fatto sì che gli studia humanitatis fossero finalizzati all’acquisizione permanente dell’habitus, di mores, di uno status, di un comportamento virtuoso e civile. Questa è la ragione principale per cui gli umanisti divennero educatori dei figli dei nobili e scrissero per questi trattati pedagogici di considerevole importanza per la storia dell’educazione, determinanti per il destino di tutta la pedagogia moderna. I modelli educativi che vengono a prospettarsi dalla metà del Quattrocento, da Paolo Vergerio a Vittorino da Feltre, sono testimoni di un orizzonte pedagogico che abbraccia la prospettiva storica, quella politica, quella culturale e antropologica. I trattati prodotti in quest’epoca delineano una nuova figura umana, figlia della madre umanistico-paidetica, un individuo artefice del suo destino; parlano di quella rinnovata attenzione ai testi connessa all’esigenza filologica come teoria filosofica, caratteristica dell’Umanesimo, e presentano una 16 17 Ibid., pp. 38, 39. Ibid., p. 41. 33 Francesca D’Amante forte impronta politica nel perseguire il benessere dello Stato attraverso la formazione del principe e delle élites. La formazione dell’uomo è parte costitutiva della filosofia umanistica e la sua centralità determina la nascita di quella precettistica comportamentale che riempirà lo scaffale di letteratura morale del Quattro Cinquecento, dove si collocano anche Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione (1528) e il Galateo di Della Casa (1558), insieme a La civil conversazione di Stefano Guazzo (1574). Un illustre predecessore è il Petrarca, con il De remediis utriusque fortunae, trattato morale dedicato ad Azzo da Correggio e composto intorno al 135418. L’educazione delle famiglie principesche passò dalle mani dei teologi a quelle degli umanisti, si pensi ad Enea Silvio Piccolomini e al suo De liberorum educatione per il re Ladislao, figlio dell’arciduca Sigismondo19. Fra i più importanti trattati di rilevanza pedagogica scritti in volgare ricordiamo Della vita civile di Matteo Palmieri. Il nobile è il destinatario per eccellenza delle opere pedagogiche scritte dagli umanisti. L’educazione del nobile, nel Rinascimento, prende in considerazione la nuova visibilità della corte in un contesto cittadino e mercantile che ha da tempo abbandonato il latino come lingua di comunicazione, di conseguenza la formazione retorica del Principe deve comprendere 18 Per fare esempi calzanti, il De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae di Pietro Paolo Vergerio, composto intorno al 1402, dedicato a Ubertino da Carrara e considerato da molti studiosi il primo trattato umanista; De studiis et litteris liber di Leonardo Bruni dedicato alla moglie di Battista Malatesta; Battista Guarini, scrive il De ordine docendi ac studendi (1459) per Maffeo Gambara, giovane di nobile famiglia bresciana. 19 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1968, p. 196. 34 Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini anche il volgare come lingua della politica e delle relazioni di potere. 2. Educare alla felicità de l’homo Alla fine del prohemio, Piccolomini rivela l’intenzione profonda racchiusa nell’opera: «dovend’io in quest’opra formare un’huom felice, mostrandogli la via di venire a l’ultima sua perfettione»20. E la somma felicità sulla quale lo scrittore inizia a riflettere prende l’avvio dal XXXI Canto del Paradiso di Dante (proprio il canto che parla della felicità), per poi lasciarsi ispirare dal commento fatto al canto da Laudomia. Si tratta di una felicità civile, come fine ultimo dell’uomo, aristotelicamente parlando, «così speculativa come prattica, che sia possibile di possedersi vivendo». Di questa nel primo libro egli parla, chiarendo in che cosa essa consista, ovvero in «operar secondo la virtù in vita perfetta», una vita terrena, civile e attiva, un modello classico e un ideale umanistico figlio del modello di educazione racchiuso nell’Etica Nicomachea. Qui ci soffermiamo sulla parte dell’opera che tratta dell’insegnamento delle virtù necessarie all’uomo, quindi dal I al VII Libro. Sin dal prohemio Piccolomini chiarisce a Madonna Laudomia la sua intenzione di far cosa buona «a raccorre con ogni diligenza il succo di tutto quel che Platone e Aristotele hanno scritto di queste scientie, che morali si chiamano»21. Il dialogo con le fonti aristoteliche costituisce la struttura dell’Institutione: il Piccolomini parafrasa l’Etica Nicomachea, rielaboran20 21 A. Piccolomini, De la Institutione…, cit., c. 4r. Id., De la Institutione..., Prohemio. 35 Francesca D’Amante do l’opera e modellandola sulla situazione civile di Siena, città libera. Viene escluso il X libro, quello sulla felicità speculativa come realizzazione ultima del fine dell’uomo, che per il senese è uomo animale politico e non animale speculativo22. Per Aristotele l’etica è una scienza pratica, e in essa il sapere deve essere finalizzato all’agire. Il sommo bene a cui ogni individuo tende è la felicità (eudaimonia). È nel I libro dell’Etica Nicomachea che si discute intorno alla coincidenza tra l’oggetto della scienza etica e quello della ricerca pratica della felicità, arrivando ad affermare che il bene è il fine per cui si agisce. La scienza più importante sarà allora la politica che, nel suo fine, abbraccerà anche quelli delle altre scienze. Essa, infatti, ha come obiettivo l’anthropinon agathon, pertanto in essa il bene del singolo coincide politicamente con il bene dell’uomo23. Un uomo terreno, politico, sociale, civile e ben costumato è quello che il Piccolomini esalta ed è per questo uomo che scrive il suo trattato pedagogico, per indurlo a conseguire la virtù e la felicità: «Gli porrò dunque innanz’una via, che securamente lo guidi sì, che honoratissimo e felicissimo viva il corso de gli anni suoi»24. La virtù non può svilupparsi senza l’ausilio della cultura e, a seguito di un preciso insegnamento, essa prelude ad una specifica forma umana che, per essere raggiunta, richiede una norma indispensabile al conseguimento della perfezione e dunque della felicità suprema. La perfettione è frutto dell’istruzione filosofica e di un’educazione che fornisce gli strumenti per vivere una 22 Cfr. M. P. Ellero, «I volgarizzamenti e la felicità mentale…», cit. Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, Laterza, Bari, 1999, I, 1094b-5. 24 A. Piccolomini, De la Institutione…, cit., c. 6v. 23 36 Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini felice vita terrena, perché la felicità è umana, terrena e civile. Una giusta educazione renderà l’uomo cosciente della sua condizione e gli farà comprendere che solo attraverso la partecipazione attiva al contesto etico, familiare e civile in cui vive potrà essere perfetto e felice25. La felicità è il fine di tutte le azioni ed è pertanto qualcosa di perfetto e di autosufficiente: «questa tal’humana felicità, non consiste in altro che ne la propria operation de l’homo, secondo la virtù in vita perfetta»26. Si può quindi capire cos’è la felicità se si comprende quale sia la prassi in cui risiedono il bene dell’uomo e la sua perfezione, uno stato di perfezione operativa che rende l’uomo felice mentre agisce secondo virtù27. Una felicità che dipende dall’uomo e non dalla fortuna, felicità come autodeterminazione umana, secondo una vita virtuosa: «colui che operando secondo la virtù, ripien d’ogni habito virtuoso, de la felicità sarà degno; non temerà gli assalti de la fortuna, ne si esalterà per i beneficij di quella»28. Felicità si raggiunge grazie ad un’educazione integrale e giusta, attenta a tutte le sfere della vita umana, dalla famiglia alla politica, che formi il ragazzo alla civilitas per mezzo dei grandi classici antichi, partendo da una visione dell’uomo come cifra del sistema economico e sociale in cui vive. Il discorso etico del trattato viene ad articolarsi tutto attorno al conseguimento della felicità umana; è il segreto per raggiungerla, il dono consegnato dal Piccolomini al fanciullo. Una vita che persegua l’onore è 25 B. Castelli Guidi, «Educare ad essere “anticamente moderno”», in Patrizi, Quondam, op. cit., p. 169. 26 A Piccolomini, De la Institutione …, cit., c. 8r. 27 F. de Luise, G. Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Torino, Einaudi, 2001, pp. 64-66. 28 A. Piccolomini, De la Institutione…, cit, c. 11r. 37 Francesca D’Amante una vita all’insegna delle virtù, queste sono frutto delle morali discipline e «le honoratissime scientie donde s’impari la via de le virtù e de i buoni costumi, che ne guidino a la felicità che ne potria far beati»29. La natura speculativa dell’uomo viene posta in secondo piano dallo studioso, è la vita pratica ad essere esaltata, in quanto «lo stesso operare, dove consiste la felicità nostra di questa vita», è posto al centro dei precetti pedagogici che compongono l’opera. Ad emergere sono i più caratteristici paradigmi e capisaldi dell’etica classicistica: la virtù, la disciplina e l’autodisciplina, l’educazione precettistica, la figura della madre istitutrice, quella del pater familias, l’etica e la morale. Le scienze morali, e ciò che di esse hanno scritto Platone e Aristotele, sono il contenuto della pedagogia piccolominiana, sviluppata in un compendio didascalico che accompagni la formazione intera del ragazzo: donde quasi da un specchio, poss’egli d’anno in anno pigliar norma all’attioni sue: mostrandogli con somma facilità, minutamente di passo in passo, qual debbi esser la vita sua, quali essercitij, quali operationi, quali studij, quai modi di conversare, e finalmente qual debbi esser ogni gesto e parola sua, per potere ottenere con agevolezza quella felicità che in questo mondo si pote havere30. L’articolazione argomentativa dei dieci libri de L’Institutione, combinando le teorie filosofiche di Platone e di Aristotele, disegna una sorta di mappa delle virtù che donano felicità pratica e civile all’uomo e illustra, in una puntuale scansione temporale di fasi, il modo in cui queste devono essere insegnate e apprese durante la crescita del ragazzo. 29 30 38 A. Piccolomini, De la Institutione…, cit., c. 2v. Ibid., c. 4r. Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini Dal secondo libro s’intraprende il percorso di formazione vero e proprio, entrando nel vivo di quella lezione di filosofia morale. Attingendo da Aristotele, egli fornisce, attraverso un ragionamento di tipo deduttivo, una spiegazione chiara di quelle virtù e dei beni che concorrono a rendere l’uomo felice. Attraversando i capisaldi della paideia greca e della humanitas romana Piccolomini propone gli insegnamenti che faranno del piccolo Colombini, «dà che egli al mondo in luce è venuto», un uomo libero e virtuoso. Nello sviluppo dei vari capitoli emerge con crescente chiarezza il paradigma umanista di “virtù contro fortuna” che guida l’uomo a vivere una vita buona. Si evince ben presto, non appena egli, parlando dei tre tipi di beni per l’uomo, pone l’accento sulla disciplina, quale fattore principale per una buona educazione: i beni discendenti dalla disciplina sono posti in cima alla scala, ne fanno seguito i beni dell’animo e quelli della fortuna. Riprendendo l’Aristotele della Politica, Piccolomini parla delle tre cose in cui consiste l’educazione del fanciullo fino al terzo anno, ovvero «in convenevol nutrimento, in esercitatione, e nel tollerare di qualche cosa difficile, secondo che quell’età ne comporta»31. Proseguendo, le raccomandazioni principali dirette alla madre di Alessandro, riguardano la cura per il figlio, nel periodo in cui il piccolo verrà affidato ad una nutrice, badando ella di essere sempre la prima a vigilare sulla salute e sull’educazione del figliuolo: Dunque acciò che l’huomo da le prime fascie, così ignudo per anco d’ogni ragione, cominci a bersi col latte il timor di Dio, da che debba depender la radice di ogni suo stato felice: giudico che con ogni diligenza in mano di devota e ben costu31 A. Piccolomini, De la Institutione…, cit., c. 19r. 39 Francesca D’Amante mata Nutrice doviate por vostro figlio, non volendo però, come molte fanno ne la Città nostra, levarvel da gli ochij, anzi havendolo in casa voglio che quasi una seconda nutrice gli siate32. Nel terzo anno, «nel qual tempo comincia alquanto a pigliar vigor l’intelletto»33, le madri dovranno togliere i loro figli dalle braccia della nutrice, perché da essa non apprendano nessun costume servile, e da questo momento in poi il compito della madre sarà quello di occuparsi personalmente del primo apprendimento del figlio, a iniziare da quello linguistico, insegnandogli la favella patria. Al quinto anno di vita i fanciulli devono essere affidati ad un precettore, «per la disciplina de le lettere, e per la institution de i buon costumi»34, e qui subentra anche il discorso sui mores, essendo questa, secondo l’autore, l’età in cui i fanciulli «posson commodamente a qualche disciplina adattarsi». Il precettore, una figura fondamentale per la riuscita della buona educazione, «pongha innanzi a i fanciulli l’essempio de i buon costumi»35, perché è necessario che il ragazzo acquisti specifiche competenze nei costumi che gli serviranno per distinguersi nella vita mondana. A tal riguardo, Piccolomini sottolinea l’importanza di una coerenza nel comportamento del fanciullo in ogni luogo in cui fa le sue esperienze importanti, per questo è necessario che il precettore badi attentamente alle amicizie del suo allievo, impartendo gli insegnamenti dell’antica teoria dell’amicizia sempre ben ancorata al principio di uguaglianza di classe sociale: 32 Ibidem. Ibid., c. 20v. 34 Ibid., c. 26r. 35 Ibidem. 33 40 Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini discorrendo i modi e la institutione de gli altri fanciulli della città, che ne la nobiltà del sangue a i suoi sieno uguali, fra tutti poi ne elegha uno o due, quegli che ne l’età, ne la complessione, e ne la disciplina, giudica che a quel fanciullo che egli ha da instituire s’assomiglino. E a questi vegha ne la conversation d’accostarlo, acciò che tra essi cominciando a scintillare il santo foco de l’amicitia, vengha con gli anni per la parità degli studij e de gli esercitij, a infiammarsi di sorte, che tal’amicitia habbia da essere quella che la futura felicità condisca e faccia più dolce36. Tra i compiti del precettore, al primo posto vi è l’insegnamento delle lingue, perché grazie a queste il fanciullo potrà accedere potrà accedere al sapere che lo formerà e lo condurrà verso la sua piena felicità giacché, sembra dire Piccolomini, le principali capacità dell’uomo civile fanno leva sulle abilità linguistiche e oratorie: «debba il precettore, prima ad ogn’altra litteral disciplina, […] applicarlo ad apprender la lingua latina e la greca»37. Da qui verranno la lettura e lo studio dei classici, nell’esercitazione e nell’imitazione dei grandi maestri, come Cicerone, perché sia in grado di conversare e di scrivere sapientemente nella sua vita relazionale. La conoscenza delle lingue gli permetterà di possedere il sapere necessario alla sua vita sociale e di poter comunicare nel modo migliore ciò che sa. Andando avanti, a dieci anni inizia la parte più importante della formazione del ragazzo. Questa viene trattata nel III Libro, in cui si espone il piano degli studi composto dalle grandi discipline del sapere classico. Prima fra le scienze è la Filosofia, scienza de le scienze, arte de le arti. Piccolomini descrive con minuzia le diverse parti del curricolo scolastico proposto al ragazzo 36 37 Ibid., c. 28v- 29r. Ibid., c. 30v. 41 Francesca D’Amante nobile, iniziando dalla dialettica (o logica) e dalla retorica, discipline indispensabili per l’uomo che vuole prender parte alla res publica: «Appresa che harete l’harte del dire e che vi harete fatto familiarissimo quanto Platone e Aristotel ne insegni; insieme con alcune cose da Cicerone avvertite, e massimamente ne le partitioni Oratorie»38. Uno dei capitoli più interessanti del Libro III è sicuramente quello dedicato alla musica «che secondo la sentenza di Platone, e d’Aristotele, è una de le principali discipline, che da i fanciulli si debba imparare»39. Piccolomini precisa ancora una volta che ad homo nobile, nato in Città libera non tutte le discipline apportano beneficio, bensì solo quelle che sono utili all’individuo e alla città e che comportano operazioni virtuose. Nell’ottavo libro della Politica di Aristotele si legge che l’apprendimento della musica fa sì che l’uomo viva l’ozio in modo ricreativo, non rischiando di passare il suo tempo libero in modo inutile e dannoso. Inoltre, l’apprendimento della musica viene ritenuto importante in quanto, oltre a favorire un buon ascolto, fatto di diletto e ricreazione, «ella parimente porge grandissimo ornamento a i costumi, e giovamento a la disposition de l’animo rispetto all’operation virtuose»40. Una corretta scelta musicale dispone l’animo ad emozioni e ad affetti positivi, sublimando o trasformando quelli negativi; determinate armonie, quelle simili alle virtù morali, invitano l’uomo alle operazioni virtuose. Il ragazzo dovrà invece tenersi alla larga da quegli strumenti e da quelle armonie che inficiano la bellezza, la morale e le virtù. E l’esaltazione della bel38 Ibid., c. 47r. Ibid., c. 48v. 40 Ibid., c. 49v. 39 42 Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini lezza prosegue nel breve passo dedicato alla disciplina figurativa, fondamentale nel percorso di studi, in quanto permette al ragazzo di acquisire le capacità di riconoscere il bello e la bellezza di un corpo umano nel quale risiede un bell’animo. Non poco spazio il Piccolomini serba al corpo e all’educazione fisica giacché, tra le esercitazioni previste per il ragazzo dai dieci ai quattordici anni, vi sono quelle corporali. Riprendendo il Platone dei Dialoghi delle leggi e della Repubblica e l’Aristotele della Politica prescrive raccomandazioni utili alla salute del corpo: «che sì come i fanciulli, in quei primi lor teneri anni […] debbano a la conservatione de la sanità corporal provedere, per il mezo d’alcune corporali esercitationi»41. Tre sono gli esercizi che vengono suggeriti: «per conservare il corpo sano e ben disposto renderlo nemico de la pigritia, agile robusto forte e gagliardo», questi sono il tratto del palo, il salto e il cavalcare. L’obiettivo di tali esercitazioni è il raggiungimento di una virtù indispensabile all’uomo nobile, la fortezza. Riguardo alla matematica, invece, Piccolomini decide di distaccarsi da Aristotele e Platone, i quali avevano stabilito che le matematiche si apprendessero nei primi anni dell’istruzione. Infatti, egli prevede che le scienze matematiche vengano introdotte nel quattordicesimo anno e studiate da qui al diciottesimo anno. Esse sono, in un primo tempo, la geometria e l’aritmetica e in seguito l’astrologia, che permette al giovane di mettersi in guardia dalla fallacia della giudiziaria. La matematica, sostiene il nostro letterato, è una branca della filosofia naturale che offre certezza tramite prove logiche dimostrative, sebbene non utile a risolvere 41 Ibid., c. 52v. 43 Francesca D’Amante problemi pratici; Euclide, Boezio e Archimede sono i maestri raccomandati per studiarla42. E passiamo alla parte più alta dell’Institutione, quella sulle scienze morali e virtuose operazioni come lo stesso autore dichiara: «E perchè il principal mio intendimento in questi libri, è di instituirvi intorno a le scienze morali, e virtuose operationi» 43 . Argomento trattato dal IV al VII Libro, i cui titoli rielaborano il paradigma dell’etica della virtù ripreso da Aristotele e riproposto nella medesima struttura 44 . Prima di addentrarsi nell’insegnamento di queste, il Piccolomini precisa che, propedeutici all’apprendimento dell’intera gamma delle virtù, sono due precetti, ovvero “il timore e l’amore verso Dio” e “la reverenza del padre e della madre”, dopodiché: «di questi due precetti dunque fatto forte e securo; tempo è homai, che a le virtù con la mia institution vi conduca»45. Se la felicità dell’uomo è ciò che consegue alle operazioni virtuose, la componente principale, perché si possa agire secondo virtù, è la volontà. Infatti, «quelle operationi, che ne pon far la virtù guadagnare» 46 , altro non sono che operazioni dell’uomo che dipendono dal suo volere e devono avere due condizioni per essere tali ovvero che «sieno fatte secondo la dritta ragione […] e che […] sieno sempre commensurate da un mezo che sia tra la mancanza e’l superfluo di quelli affetti, intorno a i quali le virtù consistano»47. 42 P. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Bari, Laterza, 1991, p. 333. 43 A. Piccolomini, De la Institutione…, cit., c. 61r. 44 Si tratta di quello che nell’Etica nicomachea Aristotele spiega dal III al VII libro. 45 Ibid., c. 62r. 46 Ibid., c. 65r. 47 Ibidem. Nell’Etica nicomachea Aristotele sostiene che le virtù sono medietà e stati abituali, produttrici di quelle stesse azioni da cui 44 Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini Cosa dimostra che l’abito virtuoso è stato acquistato? Come diceva Aristotele, quando colui che esercita buone azioni lo fa con piacere, sarà virtuoso proprio per quello stesso piacere provato: «per il diletto di quel che conviene, e per il dolor di quel che non deesi, vien la virtù germogliando»48. In definitiva, vi sono virtù intellettuali, quali la prudenza, l’intelligenza, la sapienza, l’arte e la scienza. Di queste la prudenza e l’arte si trovano nell’intelletto pratico, le altre nell’intelletto speculativo. Poi vi sono le virtù morali, in tutto undici, di cui dieci nell’appetito sensitivo: quattro nell’appetito irascibile (fortezza, mansuetudine, magnanimità, magnificenza) e sei nell’appetito concupiscibile (temperanza, liberalità, desiderio di onore, affabilità, la verità, la piacevolezza); in ultimo vi è la giustizia, che risiede nella volontà. La virtù non è né affetto né potenza dell’anima, bensì «un habito con elettione»49 «che non solo renda buono il suggetto in cui si ritrova, ma anchora l’operatione che da quel nasce»50. Ma il passaggio più importante e determinante per l’apprendimento delle virtù avviene quando, dopo essersi dedicato allo studio delle scienze morali, il ragazzo prenderà coscienza di cosa sia la virtù e del fatto che egli stesso sarà in grado di operare virtuosamente, con spontaneità, consiglio, elezione e volontà: acciò che quelle operationi virtuose che ne i vostri anni a dietro, per la ottima educatione e honoratissima consuetudine, harete già fattevi quasi proprie, possin da voi finalmente esser cognosciute come virtuose; e operate non più per sola derivano, che dipendono da noi e sono volontarie, e che sono così, come prescrive la retta ragione (cfr., Etica nicomachea, Libro II). 48 Ibid., c. 66r. 49 Ibid., c. 69r. 50 Ibid., c. 68r. 45 Francesca D’Amante consuetudine, ma per mera elettione, imparando a conoscere che cosa sia veramente la virtù, donde si generi, quante sieno, e simili altre considerationi che al Moral Filosofo si appartenghano51. Il cursus studiorum pensato per il ragazzo nobile farà sì che egli apprenda rigorosamente i principi etici ricevuti, e che sia in grado di assimilare la tassonomia delle virtù e di applicarle praticamente. Nel Libro VIII imparerà cos’è l’amicizia; cos’è l’amore nel Libro IX; e nel X l’amore e la vita coniugale. L’Institutione, nel suo percorso di formazione curricolare, diviso in dieci libri, che attraversa le varie età dello sviluppo psicofisico e intellettuale, avrà dato i suoi buoni frutti all’acquisizione dell’abito virtuoso da parte del fanciullo. La felicità umana dell’uomo nobile coinciderà con una vita che persegue l’onore nelle stesse pratiche di vita, una vita vissuta virtuosamente. L’onore, i buoni costumi e le virtù, costitutive dell’etica moderna, strutturano l’intero codice normativo di un’educazione che, ispirandosi alla Politica di Aristotele e alle Leggi di Platone, intende disciplinare il ragazzo e fornirgli la capacità autodisciplinante del buon governo di sé. Se il fine di questo discorso e di questa pratica d’institutio è l’acquisizione di un abito virtuoso da parte dell’uomo nato nobile, è attraverso le scienze morali e la loro assimilazione che lo si realizzerà, seguendo i precetti di una filosofia morale che si fa praxis per l’uomo nato nobile & in città libera. 51 46 Ibid., c. 81r-81v. Un trattato pedagogico del Cinquecento. L’Institutione di A. Piccolomini Riferimenti bibliografici Belloni, G. - R. Drusi, Il Rinascimento italiano e l’Europa. Umanesimo ed educazione, Milano, Bonnard, 2004. Burckardt, J., La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1968. Calzona, A. - F.P. Fiore - A. Tenenti - C. Vasoli (a cura di), Il volgare come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento. Atti del Convegno internazionale, Mantova, 18-20 ottobre 2001, Firenze, Leo S. Olschki, 2003. Cerreta, F., Alessandro Piccolomini. Letterato e filosofo senese del Cinquecento, Siena, Accademia senese degli Intronati, 1960. De Luise, F. - G. 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