Io Ibra - Zlatan Ibrahimovic

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Io Ibra - Zlatan Ibrahimovic
Io, Ibra
Cover
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Zlatan Ibrahimovi
con David Lagercrantz
Io, Ibra
Traduzione di Carmen Giorgetti Cima
Rizzoli
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Proprietà letteraria riservata
Copyright © David Lagercrantz och Zlatan Ibrahimovi 2011
Copyright © 2011 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-62280-3
Titolo originale dell’opera:
JAG ÄR ZLATAN
Traduzione dallo svedese di Carmen Giorgetti Cima
Prima edizione digitale 2011
da prima edizione novembre 2011
In copertina:
Foto © Eric Broms
Realizzazione grafica: Nina Ulmaja
Realizzazione grafica della versione italiana: Rino Ruscio
www.rizzoli.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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disposizione per gli adempimenti d’uso.
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PERSONAGGI E INTERPRETI
CO ADRIAANSE Il mio primo allenatore all’Ajax.
ALEKSANDAR, detto KEKI Mio fratello minore, nato nel 1986.
MASSIMO AMBROSINI Centrocampista. Capitano del Milan.
MICKE ANDERSSON Il mio allenatore al Malmö, in Seconda e poi in Prima Divisione.
ROLAND ANDERSSON Ex giocatore della Nazionale svedese. Mio allenatore dei primi
tempi al Malmö.
MARIO BALOTELLI Attaccante. Giovane talento dell’Inter passato al Manchester City nel
2010.
MARCO VAN BASTEN Attaccante, stella del Milan. Eletto Fifa World Player nel 1992.
LEO BEENHAKKER Boss del calcio, allenatore del Real Madrid e poi direttore sportivo
durante il mio primo periodo all’Ajax.
TXIKI BEGIRISTAIN Direttore sportivo del Barcellona durante la mia permanenza al club.
Ha lasciato la carica nel 2010.
SILVIO BERLUSCONI Proprietario del Milan e tycoon dell’informazione. L’uomo più potente d’Italia.
HASSE BORG Ex giocatore e difensore della Nazionale svedese. Direttore sportivo del
Malmö durante la mia permanenza al club.
FABIO CANNAVARO Difensore. Passato alla Juventus contemporaneamente a me. Campione del Mondo, Pallone d’Oro e Fifa World Player nel 2006.
FABIO CAPELLO Il mio allenatore alla Juventus, in seguito CT della Nazionale inglese.
ANTONIO CASSANO Attaccante del Milan. Pilastro della Nazionale italiana.
TONY FLYGARE Amico d’infanzia. Giovane talento del Malmö.
LOUIS VAN GAAL Boss del calcio. Allenatore e direttore tecnico durante il mio ultimo
periodo all’Ajax.
ITALO GALBIATI Braccio destro di Capello alla Juventus.
ADRIANO GALLIANI Boss del calcio, vicepresidente del Milan.
GENNARO GATTUSO Centrocampista del Milan. Un guerriero. Campione del Mondo nel
2006.
PEP GUARDIOLA Ex centrocampista del Barcellona. Il mio allenatore in quel club.
HELENA La mia compagna. La madre dei miei figli.
THIERRY HENRY Francese. Mio amico al Barcellona. Stella del calcio, miglior
realizzatore della storia dell’Arsenal. Vincitore dei Mondiali ’98 e degli Europei 2000.
ANDRÉS INIESTA Fantastico centrocampista del Barcellona. Vincitore degli Europei 2008
e dei Mondiali 2010 con la Spagna.
FILIPPO INZAGHI Straordinario attaccante, stella del Milan. A Torino abitavo nel suo appartamento. Campione del Mondo nel 2006.
JURKA Mia madre, croata di nascita. Faceva la donna delle pulizie.
KAKÁ Brasiliano, centrocampista offensivo, stella del calcio mondiale. Pallone d’Oro e
Fifa World Player 2007. Passato dal Milan al Real Madrid nel 2009.
RONALD KOEMAN Mio allenatore all’Ajax.
JOAN LAPORTA Presidente del Barcellona durante gran parte della mia permanenza al
club.
HENKE LARSSON Leggendario attaccante svedese. Ha militato nel Celtic e nel Barcellona. Scarpa d’Oro d’Europa nel 2001. Un mentore per me agli inizi della carriera.
BENGT MADSEN Presidente del Malmö durante la mia permanenza al club.
ROBERTO MANCINI Mio allenatore nei primi due anni all’Inter.
MARCO MATERAZZI Durissimo difensore che si prese la testata da Zidane nella finale
dei Mondiali 2006 poi vinta dall’Italia. Mio compagno di squadra all’Inter.
HASSE MATTISSON Capitano del Malmö durante il mio periodo al club.
MAXIMILIAN Il mio primogenito, nato nel 2006.
MAXWELL Brasiliano. Difensore estremamente elegante. Mio amico fin dai primi giorni
all’Ajax e compagno di squadra anche all’Inter e al Barcellona.
OLOF MELLBERG Amico, giocatore della Nazionale svedese, difensore. Tra le squadre
in cui ha giocato ci sono Aston Villa e Juventus.
LIONEL MESSI Stella di fama mondiale. Jolly d’attacco del Barcellona. Arrivato al club
all’età di tredici anni. Pallone d’Oro 2009 e 2010.
MIDO Attaccante. Egiziano. Un buon amico all’Ajax.
LUCIANO MOGGI Boss del calcio, leggendario direttore sportivo della Juventus durante il
mio periodo al club.
MASSIMO MORATTI Un pezzo da novanta. Petroliere, proprietario dell’Inter.
JOSÉ MOURINHO Una leggenda. Mio allenatore all’Inter. Passato al Real Madrid nel
2010.
PAVEL NEDVED Centrocampista, mio compagno alla Juventus. Pallone d’Oro 2003.
ALESSANDRO NESTA Leggendario difensore del Milan. Campione del Mondo nel 2006.
ALEXANDRE PATO Giovane e brillante attaccante del Milan. Brasiliano.
ANDREA PIRLO Centrocampista del Milan, poi ceduto alla Juventus. Campione del
Mondo nel 2006.
MINO RAIOLA Mio agente, mio amico, mio consigliere.
ROBINHO Supertalento brasiliano. Attaccante del Milan, ex Real Madrid e Manchester
City.
RONALDINHO Brasiliano. Superstar. Fifa World Player 2004 e 2005. Mio compagno al
Milan.
RONALDO Brasiliano, attaccante. Uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Fifa World
Player 1996, 1997 e 2002. Il mio più grande idolo da bambino.
CRISTIANO RONALDO Attaccante, star mondiale. Pallone d’Oro e Fifa World Player
2008. Ha giocato nel Manchester United prima di passare al Real Madrid nel 2009 per cifre
da capogiro. (Nel libro chiamato spesso semplicemente Cristiano per distinguerlo da quello
che per me è il vero Ronaldo.)
SANDRO ROSELL Il successore di Joan Laporta alla presidenza del Barcellona.
SANELA Mia sorella maggiore, nata nel 1979.
SAPKO Mio fratello maggiore, nato nel 1973 nella ex Jugoslavia.
ŠEFIK Mio padre. Originario della Bosnia. Ha lavorato come muratore e addetto alla manutenzione di condomini.
THOMAS SJÖBERG Vecchio giocatore svedese della Nazionale. Allenatore in seconda
durante il mio primo periodo al Malmö.
THIJS SLEGERS Giornalista olandese e amico.
RUNE SMITH Giornalista. Scrisse il primo grande articolo su di me.
JOHN STEEN-OLSEN L’uomo che mi scoprì nel Malmö e mi fece acquistare dall’Ajax.
Oggi uno dei miei amici.
LILIAN THURAM Difensore. Mio compagno alla Juventus. Ha vinto i Mondiali ’98 e gli
Europei 2000 con la Francia.
DAVID TREZEGUET Francese, grande attaccante, stella del calcio. Mio compagno alla
Juventus. Campione del Mondo e d’Europa con la Francia.
RAFAEL VAN DER VAART Attaccante durante il mio periodo all’Ajax.
PATRICK VIEIRA Centrocampista, mio compagno di squadra alla Juventus e all’Inter. Superstar. Amico. Mentalità da vincitore. Campione del Mondo e d’Europa con la Francia.
VINCENT Il mio secondogenito, nato nel 2008.
CHRISTIAN WILHELMSSON, detto CHIPPEN Centrocampista, giocatore della Nazionale
svedese, amico.
XAVI Grande centrocampista del Barcellona. Arrivato al club a undici anni. Ha vinto gli
Europei 2008 e i Mondiali 2010 con la Spagna.
GIANLUCA ZAMBROTTA Difensore. Leggendario. Mio compagno di squadra sia alla Juventus sia al Milan. Campione del Mondo nel 2006.
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Io, Ibra
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Questo libro è dedicato alla mia famiglia e ai miei amici,
a tutti coloro che mi hanno seguito e sono stati al mio fianco
nei giorni fortunati e in quelli difficili.
Voglio dedicare un pensiero anche a tutti i bambini,
soprattutto a quelli che si sentono un po’ strani e diversi,
che non vengono accettati fino in fondo,
e che si fanno notare per i motivi sbagliati.
Non essere uguali agli altri è ok.
Continuate a credere in voi stessi, come insegna la mia storia
alla fine malgrado tutto ciascuno può trovare la sua strada.
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Pep Guardiola – l’allenatore del Barcellona, quello con i completi grigi e l’aria pensierosa – venne verso di me, e sembrava imbarazzato.
A quell’epoca pensavo che fosse ok, non esattamente un Mourinho o un Capello, ma un
tipo a posto. Questo molto prima che cominciassimo a farci la guerra. Ma era l’autunno del
2009 e io stavo vivendo il mio sogno. Giocavo nella squadra migliore del mondo e pochi mesi
prima ero stato accolto da settantamila tifosi al Camp Nou. Camminavo sulle nuvole; be’,
forse non proprio del tutto: sui giornali si leggevano anche un bel po’ di stronzate, che ero un
bad boy e via dicendo. Insomma, un tipo difficile. A ogni modo, ero qui. Mia moglie Helena e i
bambini si trovavano bene. Avevamo una bella casa a Esplugues de Llobregat e io mi sentivo
carico. Che cosa poteva mai andare storto?
«Senti» disse Guardiola. «Qui al Barça teniamo i piedi per terra.»
«Ottimo» dissi io. «Bene!»
«Perciò qui non veniamo agli allenamenti in Ferrari o in Porsche.»
Annuii, lasciando da parte qualsiasi atteggiamento arrogante del tipo: che c’entri tu con le
mie macchine? In realtà pensai: “Che cosa vuole? Che tipo di messaggio mi sta mandando?”.
Credetemi, non ho più bisogno di mettermi in mostra guidando qualche macchina strafica e
parcheggiando sul marciapiede, tipo. Non è quello. Ma io adoro le automobili. Sono la mia
passione e soprattutto intuivo qualcos’altro dietro quelle parole. Una cosa del genere: non
credere di essere chissà chi!
Allora avevo già capito che il Barcellona era un po’ come una scuola, un collegio. I giocatori erano fantastici, niente che non andasse riguardo a loro, e poi lì c’era Maxwell, il mio
vecchio compagno dell’Ajax e dell’Inter. Ma nessuno dei ragazzi si comportava da superstar e
questo era strano. Messi, Xavi, Iniesta e tutta la combriccola sembravano tanti scolaretti. I
migliori giocatori del mondo stavano lì a inchinarsi, e io non ci capivo niente. Era ridicolo. Se
in Italia un allenatore dice salta, i campioni si domandano: embe’, perché dovremmo saltare?
Qui saltavano tutti al minimo cenno, come fossero cagnolini ammaestrati. Io non mi ci ritrovavo, proprio per niente. Ma pensavo: “Fatti piacere la situazione! Non confermare i loro pregiudizi!”. Perciò cominciai ad adeguarmi. Diventai docile come un agnellino. Era pazzesco.
Mino Raiola, il mio agente, il mio amico, mi diceva: «Ma che cavolo ti succede Zlatan? Non ti
riconosco più».
Nessuno mi riconosceva più, proprio nessuno. Diventavo sempre più mogio, e allora
dovete sapere che fin dai tempi del Malmö io ho avuto una filosofia: quella di seguire il mio
stile. Me ne frego di quello che pensa la gente e non sono mai stato a mio agio fra i tipi perbenino. A me piacciono i ragazzi che passano col rosso, se capite cosa intendo. Ma adesso,
cazzo, non dicevo quello che volevo. Dicevo quello che credevo si dovesse dire. Era assol-
utamente folle.
Guidavo la Audi del club e annuivo a testa bassa come quando andavo a scuola, o
meglio, come avrei dovuto fare quando andavo a scuola. Non mi incazzavo nemmeno quasi
più con i miei compagni di squadra. Ero diventato noioso. Zlatan non era più Zlatan, e questo
non succedeva dai tempi in cui avevo messo piede alla Borgarskolan e per la prima volta,
vedendo le ragazze con le felpe Ralph Lauren, me la facevo quasi addosso quando dovevo
invitarle a uscire. Eppure avevo iniziato la stagione in modo brillante. Segnavo gol su gol.
Avevamo vinto la Supercoppa Europea. Io brillavo. Io dominavo. Ma ero comunque un altro.
Qualcosa era successo, niente di serio, non ancora, ma in ogni caso... Mi ero messo un
tappo sulla bocca e questo è pericoloso, anzi pericolosissimo, potete credermi. Io devo essere arrabbiato per giocare bene. Devo urlare e fare casino. Adesso invece mi tenevo tutto
dentro. Forse aveva a che fare con la pressione che avevo addosso, non so.
Ero stato il secondo trasferimento più costoso di tutti i tempi; i giornali scrivevano che ero
stato un bambino difficile e che avevo problemi caratteriali, ogni genere di cazzate insomma,
e forse io sentivo il peso di tutto questo «Qui al Barça non ci mettiamo in mostra, ecco», e
suppongo volessi dimostrare che anch’io ne ero capace. La cosa più stupida che abbia mai
fatto. In campo ero ancora forte, ma non mi divertivo più.
Valutai perfino di abbandonare il calcio: non che pensassi di rompere il mio contratto,
sono un professionista, ma avevo perso il gusto. Poi arrivò la pausa natalizia. Ce ne andammo ad Åre e io presi a nolo una motoslitta. Appena la vita ristagna, io voglio azione.
Guido sempre come un pazzo. Ho bruciato i trecentoventicinque con la mia Porsche Turbo,
seminando pure gli sbirri. Ho fatto così tante follie che non voglio quasi pensarci, e in quella
vacanza, lassù fra le montagne, ci diedi dentro con la motoslitta, beccandomi lesioni da congelamento e divertendomi un sacco.
Finalmente un po’ di adrenalina! Finalmente il vecchio Zlatan, e così pensai: perché dovrei
continuare? I soldi non mi mancano. Non ho bisogno di farmi il culo per quell’imbecille d’un allenatore. Posso divertirmi invece, e occuparmi della mia famiglia. Fu un bel periodo, ma non
durò a lungo. Quando ritornammo in Spagna arrivò la catastrofe. Forse non immediatamente,
s’insinuò a poco a poco, ma era già nell’aria.
C’era una tempesta di neve assurda. Era come se gli spagnoli non avessero mai visto la
neve prima, e da noi in collina c’erano macchine di traverso dappertutto, e Mino, quel ciccione
idiota – quel meraviglioso ciccione idiota devo aggiungere, nel caso qualcuno dovesse fraintendere cosa penso del mio agente – moriva di freddo con le sue scarpe basse e la giacca
leggera e mi convinse a prendere l’Audi. Rischiò di finire a puttane: sulla discesa perdemmo il
controllo, andammo a sbattere contro un muro di cemento e distruggemmo completamente
l’asse destro della macchina.
Molti della squadra avevano avuto incidenti con quel tempaccio, ma nessuno così
spettacolare come il mio. Vinsi anche quella competizione, insomma, e ci facemmo su un
sacco di risate: in effetti ogni tanto ero ancora me stesso, non ero del tutto a terra. Ma poi
Messi cominciò a blaterare. Lionel Messi è forte. Un giocatore incredibile. Non lo conosco
granché, siamo completamente diversi. È arrivato al Barça che aveva tredici anni. È stato
cresciuto in quella cultura e non ha nessun problema con quella merda di collegio. Nella
squadra il gioco gira intorno a lui, in modo del tutto naturale. È un grande, ma adesso ero arrivato io, e segnavo più di lui. Andò da Guardiola e disse: «Non voglio più giocare laterale
destro. Voglio giocare al centro».
Al centro c’ero già io. Ma Guardiola se ne infischiò e cambiò modulo. Dal 4-3-3 passò al 45-1 con me punta e Messi subito dietro, e io finii nell’ombra. Le palle passavano tutte da
Messi e io non potevo più fare il mio gioco. In campo ho bisogno di essere libero come un uccello. Io sono quello che vuol fare la differenza a tutti i livelli, ma Guardiola scelse di sacrificarmi. Questa è la verità. Mi chiuse lassù in alto. Ok, posso anche capire la sua situazione,
Messi era la stella, il golden boy, Guardiola era obbligato a dargli ascolto. Ma andiamo! Avevo
segnato gol su gol al Barça, ero stato fantastico anch’io. Lui non può adeguare la squadra a
un solo giocatore. Voglio dire: perché diavolo mi aveva acquistato, allora? Nessuno paga tutti
quei soldi per strangolarmi come giocatore. Guardiola doveva pensare a entrambi, ed è ovvio,
l’atmosfera nella dirigenza si fece nervosa. Io ero il più grande investimento che avessero mai
fatto, e non mi sentivo a mio agio nei nuovi schemi. Ma uno così costoso non si deve sentire
a disagio. Txiki Begiristain, il direttore sportivo, insisteva che dovevo parlarne con l’allenatore.
«Chiarisci la cosa!»
Non mi piaceva, io sono un giocatore che accetta la situazione, ma va bene, ok, lo feci.
Uno dei miei amici mi disse: «Zlatan, è come se il Barça avesse comperato una Ferrari e la
guidasse come una Cinquecento» e io pensai ok, è una buona argomentazione. Guardiola mi
ha trasformato in un giocatore più “normale”, e peggiore. Ci ha perso tutta la squadra.
Così andai a parlargli. Successe in campo, durante l’allenamento, e mi ero ripromesso
una cosa: non avrei attaccato briga. Glielo dissi.
«Non voglio litigare. Non cerco la guerra. Voglio solamente discutere», e lui annuì.
Ma pareva comunque un tantino intimorito, per cui glielo ripetei.
«Se credi che voglio piantare un casino, me ne vado anche subito. Voglio solo parlare.»
«Bene! A me piace parlare con i giocatori.»
«Ascolta» continuai, «voi non state sfruttando le mie capacità. Se era solo un realizzatore
che volevate, dovevate comprare Inzaghi o qualcun altro. Io ho bisogno di spazi, e di essere
libero. Non posso soltanto correre su e giù in profondità tutto il tempo. Io peso novantotto
chili. Non ho quel genere di fisico.»
Lui rimuginava. Dio, rimuginava sempre.
«Io credo che tu possa farcela.»
«No, allora è meglio che mi mettiate in panchina. Con tutto il rispetto, io ti capisco, ma tu
sacrifichi me per altri giocatori. Così non va. È come se aveste comprato una Ferrari e la guidaste come una Cinquecento.»
Lui rimuginò ancora un po’.
«Ok, forse è stato un errore. Questo è un problema mio. Vedrò di risolverlo.»
Ero contento. Avrebbe sistemato le cose. Me ne andai a passo più leggero, ma poi arrivò
il gelo: ai suoi occhi diventai quasi invisibile. Ma io non sono il tipo che rimugina su cose del
genere, no davvero, e nonostante la mia nuova posizione in campo continuai a essere brillante. Feci altri gol, ma non belli come quelli che facevo in Italia. Ero troppo isolato al centro.
Non ero più esattamente Ibracadabra, ma comunque...
A marzo giocammo in Champions League contro l’Arsenal, su nel nuovo Emirates Stadium. C’era un’atmosfera di fuoco. I primi venti minuti del secondo tempo furono assolutamente
incredibili, io segnai entrambe le nostre reti, e pensai: “Vaffanculo Guardiola! Io vado avanti
così e basta!”. Ma poi fui sostituito e allora l’Arsenal, dopo aver accorciato, segnò il pareggio,
un disastro, e mi venne pure un fastidio a un polpaccio. Normalmente gli allenatori si preoccupano di queste cose. Uno Zlatan infortunato è una faccenda seria per qualsiasi squadra. Ma
Guardiola fu gelido. Non disse una sillaba. Rimasi lontano dal campo tre settimane, e non
una sola volta che quello fosse venuto a informarsi: «Come stai, Zlatan? Pensi di poter
giocare la prossima partita?».
Non diceva nemmeno buongiorno. Non una parola. Evitava il mio sguardo. Se entravo in
una stanza, lui usciva. “Di cosa si tratterà?” pensavo. “Gli ho forse fatto qualcosa? Saranno i
capelli? Parlo strano?” Cominciava a farmi male la testa. Non riuscivo a dormire.
Ci pensavo sempre e di continuo. Non che avessi esattamente bisogno dell’amore di
Guardiola. Prego, che mi odiasse pure. Odio e rivincita mi stimolano. Ma adesso non riuscivo
più a mettere a fuoco la questione, e ne parlai con i compagni. Nessuno ci capiva niente.
Chiesi a Thierry Henry, che allora stava in panchina. Thierry Henry, il miglior realizzatore
nella storia della Nazionale francese. È un grande. Ed era ancora incredibile.
«Guardiola non mi saluta nemmeno. Non mi guarda negli occhi. Che cosa può essere
successo?»
«Non ne ho idea» disse lui.
Cominciammo a scherzarci su, tipo: «Ehi Zlatan, ricevuto qualche occhiatina oggi?».
«Naaaa, però ho visto la sua schiena!» «Congratulazioni, si fanno progressi!» Cazzate del
genere, che un po’ aiutavano. Ma la cosa cominciava veramente a darmi sui nervi, e ogni
giorno, ogni ora mi domandavo: “Ma cos’ho fatto? Che cosa c’è che non va?”. Non trovavo
nessuna risposta, niente. A parte forse la constatazione che il gelo doveva aver avuto a che
fare con il discorso sulla mia posizione. Altra spiegazione non c’era. Ma in tal caso sarebbe
stato assolutamente folle. Mi stava facendo una guerra psicologica per una chiacchierata
sulla mia posizione in campo? Cercai di affrontarlo, di andargli incontro e di incrociare il suo
sguardo. Lui svicolava. Sembrava impaurito. Sì, certo, avrei potuto fissare un appuntamento
e domandargli: «Cos’è questa storia?» ma neanche morto. Avevo già strisciato abbastanza
davanti ai suoi piedi.
Era un problema suo, ma non sapevo quale fosse. Ancora non lo so, o forse sì... credo
che quel tipo non riesca a reggere le personalità forti. Lui vuole trovarsi di fronte degli scolaretti, anzi addirittura fugge dai suoi problemi. Non ce la fa a guardarli negli occhi, e questo
peggiora solo le cose.
E le cose in effetti peggiorarono.
Arrivò la nube del vulcano islandese. In Europa tutti i voli furono sospesi e noi dovevamo
incontrare l’Inter a San Siro. Partimmo per Milano in pullman. Qualche aquila al Barça pensò
che fosse una buona idea. Io a quel punto mi ero ristabilito del tutto, ma il viaggio fu una vera
catastrofe. Ci vollero sedici ore, e arrivammo a Milano sfiniti. Era l’incontro più importante
della stagione fino a quel momento, la semifinale di Champions League, e io ero preparato ai
fischi che mi avrebbero accolto nel mio vecchio stadio ma non mi facevo problemi, al contrario, è il genere di cosa che mi carica. Ma per il resto la situazione era da schifo, e credo
che Guardiola soffrisse di qualche complesso d’inferiorità nei confronti di Mourinho.
José Mourinho è la star. Aveva già vinto la Champions con il Porto, era stato il mio allenatore all’Inter. È un grande. La prima volta che incontrò Helena le si avvicinò alle spalle e le
sussurrò all’orecchio: «Helena, tu hai una sola missione con Zlatan. Dagli da mangiare, lascialo dormire e fallo contento!». Quell’uomo dice quello che vuole. Mi piace. Lui è il re, il condottiero dell’esercito, ma s’interessa anche, si preoccupa. Quando ero all’Inter non faceva che
domandarmi come stavo. Lui è l’esatto opposto di Guardiola. Se Mourinho illumina una
stanza, Guardiola è quello che abbassa le tende, ed era facile intuire che adesso Guardiola
volesse cercare di misurarsi con lui.
«Non è Mourinho che dobbiamo incontrare. È l’Inter» ci disse, manco fossimo convinti di
dover fare a pallonate con José, e poi attaccò con i suoi pistolotti filosofici.
Io non ascoltavo quasi. Perché avrei dovuto? Erano le solite cazzate a base di sangue,
sudore e lacrime e via di questo passo. Mai sentito un allenatore parlare a quel modo!
Cazzate pure e semplici! Ma adesso finalmente eccolo venire da me. Successe durante
l’allenamento a San Siro, mentre il pubblico era lì che mi scrutava, tipo: «Ibra è tornato!».
«Te la senti di giocare dall’inizio?» mi chiese Guardiola.
«Assolutamente sì» risposi. «Sono carico.»
«Ma ti senti anche pronto?»
«Senz’altro. È tutto a posto.»
«Ma sei sicuro di essere pronto?»
Ripeteva sempre lo stesso concetto e io avvertii delle brutte vibrazioni.
«Ascolta, è stato un viaggio da dimenticare ma io sono in forma. L’infortunio è superato.
Darò il massimo.»
Guardiola sembrava dubitarne. La cosa mi puzzava, e chiamai subito Mino Raiola. Io telefono a Mino in continuazione. I giornalisti svedesi dicono che lui ha una pessima influenza per
la mia immagine. Devo dire come la penso? Mino è un genio. Gli chiesi: «Ma cos’ha in testa
quel tipo?».
Nessuno di noi lo capiva. Cominciavano a girarci. Ma io scesi in campo dall’inizio e andammo sull’uno a zero. Poi le cose cambiarono. Al 60’ fui sostituito e alla fine perdemmo tre a
uno. Ero furibondo.
A inizio carriera, tipo quando stavo all’Ajax, mi capitava di rimuginare su una sconfitta per
settimane. Adesso ho Helena e i bambini, mi aiutano a dimenticare e ad andare avanti, e
quindi mi concentrai sulla partita di ritorno al Camp Nou. Quel giorno c’era un’atmosfera
spaventosa. Tutti odiavano Mourinho. I giornalisti scrissero un sacco di stronzate sul fatto che
lui e l’arbitro della precedente partita erano amici e avevano anche un ristorante insieme e
che avevamo perso per quel motivo: era tutto pazzesco, persino i muri sembravano fare il tifo,
e noi dovevamo vincere nettamente per poter andare avanti.
Ma poi... non voglio nemmeno pensarci. Anzi sì, voglio, perché da allora sono un uomo
più forte. Vincemmo uno a zero, ma non bastò. Eravamo stati eliminati dalla Champions
League, Guardiola mi squadrava come se fosse tutta colpa mia, e io pensavo: “Siamo al capolinea. È finita”. Dopo quella partita ebbi come la sensazione di non essere più il benvenuto
nel club e stavo male quando mi mettevo al volante della loro Audi. Stavo da schifo quando
ero seduto negli spogliatoi, e Guardiola mi guardava in cagnesco come se fossi un elemento
di disturbo, un estraneo. Era come un muro, un muro di pietra: da lui non ricevevo nessun
segno di vita, e ogni minuto che trascorrevo con la squadra desideravo essere altrove. Non
ne facevo più parte.
Quando andammo in trasferta contro il Villarreal, Guardiola mi fece giocare cinque minuti.
Ribollivo letteralmente di rabbia, e non perché stessi in panchina. Quello posso anche accettarlo se l’allenatore è sufficientemente uomo da dire: «Tu non sei bravo abbastanza,
Zlatan. Non sei all’altezza!».
Ma Guardiola non diceva una parola, niente di niente, e la misura era colma. Me lo sentivo in tutto il corpo, e se fossi stato in lui avrei avuto paura. Non che io sia uno che cerca lo
scontro! Ho fatto stronzate di ogni genere, è vero, ma difficilmente comincio io, anche se in
campo qualche testata mi è capitato di darla. Però quando mi arrabbio, lo ammetto, non ci
vedo più ed è meglio starmi alla larga.
A raccontarla giusta, quando tornai negli spogliatoi dopo la partita non avevo esattamente
pianificato di uscire di testa. Di certo non sprizzavo di gioia, questo si può dire tranquillamente, ed ecco che mi trovavo di fronte il mio nemico che si grattava la pelata. Per il resto
non c’era molta altra gente, c’erano Touré, forse qualcun altro, soprattutto c’era un armadietto
di metallo, e io continuavo a fissarlo. Poi gli tirai un calcio. Credo sia volato tipo tre metri più in
là, ma non avevo ancora finito. Non ci pensavo neanche. Urlai: «Tu non hai le palle!» e di
sicuro anche cose peggiori, e poi aggiunsi: «Te la fai addosso di fronte a Mourinho. Ma va’
all’inferno!».
Ero completamente fuori di me, e forse ci si sarebbe potuto aspettare che Guardiola dicesse un paio di parole in replica, qualcosa del tipo: «Calmati adesso, non si parla così al
proprio allenatore!». Ma lui non è quel genere di persona. Lui è un vigliacco totale. Si limitò a
raccogliere da terra l’armadietto, da bravo omino ordinato, poi uscì, e non accennò più alla
cosa, anzi non ne parlò in generale. Ma ovviamente il pettegolezzo si diffuse. Sul pullman
erano tutti impazziti: «Cos’è successo, cos’è successo?».
“Niente” pensavo. “Ho detto solo una parte della verità.” Ma non avevo la forza di parlarne. Ero troppo imbestialito.
Settimana dopo settimana il mio allenatore e capo mi aveva boicottato senza spiegarmi
perché. Era assurdo. Avevo avuto scontri epocali in precedenza, ma il giorno dopo avevamo
sempre sistemato le cose e tutto era tornato nuovamente a posto. Adesso continuavano solo
il silenzio e la guerra psicologica e io pensavo: “Ho ventotto anni. Sono forte. Ho fatto ventidue reti e quindici assist solo qui al Barça, eppure vengo trattato come se non esistessi.
Devo subire ancora? Devo continuare ad adeguarmi? Nemmeno per sogno!”.
Quando ero in panchina contro l’Almería, mi ero ricordato di quel famoso «Qui a Barcellona non veniamo agli allenamenti in Ferrari oppure in Porsche!». Che stronzate! Io prendo la
macchina che mi pare, soprattutto se serve a provocare gli idioti. Così presi la mia Enzo e la
parcheggiai davanti al centro sportivo. Ovviamente scoppiò un gran casino. I giornali scrissero che quella macchina costava come tutti i giocatori dell’Almería messi insieme. Ma io non
me ne curai. Le chiacchiere dei media valevano niente, al punto a cui eravamo arrivati. Avevo
deciso di restituire il colpo. Avrei cominciato a lottare sul serio ed è un gioco che conosco
molto bene. Un tempo ero un duro, credetemi. Ma per sicurezza non dovevo trascurare nessun particolare: perciò ne parlai ovviamente con Mino – pianifichiamo sempre le varie mosse
insieme – e poi telefonai ai vecchi amici.
Volevo vedere la cosa da diverse angolazioni e mi arrivarono tutti i consigli possibili e immaginabili. I ragazzi di Rosengård volevano venire giù e spaccare tutto; da parte loro era
molto carino, ma non mi sembrava esattamente la strategia giusta allo stato delle cose. E naturalmente ne parlai con Helena. Lei viene da un altro mondo. È in gamba. Sa anche essere
tosta, ma allora preferì usare l’incoraggiamento: «In ogni caso sei diventato un papà migliore.
Quando non hai una squadra dove ti trovi bene, la squadra la fai qui a casa con noi» disse, e
io ne fui felice.
Giocavo un bel po’ a pallone con i bambini e cercavo di far sì che tutti stessero bene, e
ovviamente mi dedicavo ai miei videogiochi. È un po’ una malattia per me, mi lascio totalmente assorbire. Ma dopo gli anni all’Inter, in cui ero capace di stare alzato a giocare fino alle
quattro o alle cinque del mattino e andavo all’allenamento con solo due o tre ore di sonno in
corpo, mi sono dato un po’ di regole: niente Xbox o PlayStation dopo le dieci di sera.
Non mi piace buttare via il tempo, e in quelle settimane cercai di dedicarmi seriamente alla
famiglia e di sbollire la rabbia rilassandomi nel nostro giardino e facendomi perfino una
Corona ogni tanto. Quello era il mio lato buono. Ma di notte, quando non riuscivo a dormire, o
all’allenamento, quando vedevo Guardiola, allora si risvegliava l’altro mio lato. La rabbia mi
martellava le tempie, stringevo i pugni e progettavo le mie contromosse e la mia rivincita. No,
mi era sempre più chiaro, ormai non c’era più possibilità di ritorno. Era tempo di rialzarmi e
tornare a essere me stesso.
Perché ricordate: si può togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo!
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2
Quand’ero bambino mio fratello mi regalò una bici da acrobazie, una BMX. La chiamavo Fido
Dido. Fido era il piccolo eroe di una serie a fumetti, un personaggio con i capelli tutti in piedi.
Io lo trovavo fortissimo. La mia Fido Dido fu rubata fuori della piscina di Rosengård e papà si
precipitò là con la camicia aperta sul petto e le maniche arrotolate. Lui, sapete, è uno di quei
tipi che guai se qualcuno osa toccare i suoi figli o si azzarda a prendere le loro cose! Ma nemmeno un duro come lui poté farci niente. Fido Dido era sparita, e io ero semplicemente disperato.
Dopo quell’episodio cominciai a fregare biciclette anch’io. Aprivo i lucchetti. Ero diventato
un maestro. Bang, bang, bang e la bici era mia. Un ladro di biciclette, fu la mia prima identità.
Era una cosa piuttosto innocente, ma ogni tanto passavo un po’ i limiti. Una volta mi vestii
tutto di nero e uscii nel buio come una specie di Rambo per fregare una bici militare con un
enorme tronchese. Quant’era bella, quella bici! La adoravo. Ma, in tutta sincerità, a spingermi
era il brivido dell’avventura più che la bici in sé. Aggirarmi nel buio mi dava la carica, ma mi
piaceva anche tirare uova contro i vetri delle finestre e fare altre cose del genere. Solo una
volta ogni tanto mi beccavano.
Ricordo per esempio un fatto piuttosto imbarazzante che successe ai grandi magazzini
Wessels nei dintorni di Jägersro: io e un mio amico avevamo addosso dei piumini in piena estate, una vera idiozia, e sotto nascondevamo quattro racchette da ping-pong e altre cose che
avevamo rubato. «Allora, con cosa la pagate, questa roba?» disse la guardia quando ci fermò
all’uscita. Io tirai fuori di tasca sei monetine da dieci centesimi: «Con queste, tipo». Ma il tizio
non aveva molto senso dell’umorismo e io decisi che da quel momento sarei stato un po’ più
professionale: alla fine diventai un ladruncolo piuttosto in gamba.
Non ci crederete, ma ero basso. Avevo già un gran naso e un forte difetto di pronuncia,
così a scuola mi assegnarono una logopedista, una signora che veniva da me e mi insegnava
a dire la “s”. Io lo trovavo umiliante, di certo non era una cosa che mi rendeva figo. Inoltre ero
irrequieto, non ero capace di stare seduto fermo neanche un secondo ed ero continuamente
in giro. Era come se, correndo sempre, non potesse succedermi niente di male.
Abitavamo a Rosengård, un sobborgo di Malmö che era pieno di somali, turchi, jugoslavi,
polacchi e ogni genere di immigrati, più qualche svedese. Noi ragazzi facevamo tutti i duri, ci
infiammavamo per niente, e anche a casa non si può dire che le cose filassero lisce.
Abitavamo al quarto piano al numero 5c di Cronmans väg a quei tempi, e da noi non si
viaggiava ad abbracci ed effusioni. Nessuno mi domandava: «Com’è andata oggi Zlatan, tesoro?», no, niente del genere. Nessun adulto dava una mano con i compiti o chiedeva se
avevi dei problemi. Ti dovevi arrangiare da solo e non era il caso di lagnarsi se qualcuno ti
aveva fatto uno sgarbo. Bisognava stringere i denti, c’era sempre casino e volavano mazzate,
quando uno ogni tanto avrebbe sperato anche in un po’ di calore umano. Un giorno, per esempio, caddi dal tetto dell’asilo. Mi feci un gran livido e corsi a casa piangendo, aspettandomi
una carezza sulla testa o almeno qualche parola di consolazione. Mi arrivò uno schiaffone.
«Che cosa ci facevi sul tetto, eh?»
Niente «Povero piccolo Zlatan», ma «Razza d’idiota, arrampicarti su un tetto, beccati
questo!». Rimasi totalmente scioccato, mi ritirai in disparte o me ne andai fuori, non ricordo.
Mia madre non aveva tempo per consolarmi, no di certo. Lavorava come donna delle
pulizie e sgobbava per mantenerci, era davvero una tipa tosta, ma non le rimaneva energia
per molto altro. In casa mia ci ritrovavamo tutti quanti un carattere tremendo, non si viaggiava
esattamente a suon di frasette educate del tipo: «Tesoro, potresti essere così gentile da passarmi il burro?», era qualcosa di più simile a: «Muovi il culo e va’ a prendere il latte, stronzo».
C’erano porte che sbattevano e i pianti della mamma. Piangeva spesso. A lei va tutto il mio
amore. Ha dovuto faticare parecchio nella vita. Faceva le pulizie anche quattordici ore al
giorno, ogni tanto io e i miei fratelli l’accompagnavamo e portavamo fuori i sacchi della
spazzatura per guadagnare qualche spicciolo.
Ma quando mamma perdeva la pazienza era meglio non essere in zona: ci picchiava con i
cucchiai di legno. A volte capitava che il mestolo si rompesse, e allora dovevo filare a comprarne uno nuovo, come se fosse stata colpa mia che era andata giù così pesante. Ricordo
che una volta all’asilo avevo tirato un mattone che in qualche modo era rimbalzato e aveva
rotto il vetro di una finestra. Quando mamma l’aveva saputo, era impazzita di rabbia, tutto ciò
che ci costringeva a spendere soldi la mandava fuori di testa. Mi picchiò con il mestolo, bang,
bum! faceva male, e forse si spezzò anche il mestolo. In casa non c’erano cucchiai di legno di
riserva, e allora lei mi rincorse armata di mattarello. Ma quella volta riuscii a farla franca, e ne
parlai con Sanela. Sanela è la mia unica sorella sia di padre che di madre. Ha due anni più di
me. È un tipo tosto, e pensò che avremmo dovuto prendere un po’ in giro la mamma. Così
andammo all’Ica, il supermercato, comprammo una confezione di cucchiaioni di legno, tipo tre
per dieci corone, e li regalammo alla mamma per Natale. Ma non credo che apprezzò l’ironia,
non aveva tempo per gli scherzi: a tavola doveva esserci da mangiare per tutti, le sue forze
erano indirizzate verso quell’unico obiettivo. Eravamo in tanti a casa: le mie sorellastre, che
più avanti scomparvero dalla famiglia rompendo con tutti noi, e poi Aleksandar detto Keki, il
mio fratellino, e i soldi non bastavano mai. I più grandi si occupavano dei più piccoli, non ce la
saremmo cavata altrimenti, e si mangiava della gran pasta con il ketchup oppure si andava a
casa dei compagni o di mia zia Hanife, la sorella di mio padre, che abitava al piano di sotto e
che era stata la prima di tutti a trasferirsi in Svezia.
Non avevo neanche due anni quando mamma e papà si separarono, non ricordo niente di
quella storia e forse è anche meglio così. Non era mai stato un matrimonio felice, questo è
certo. Litigavano di continuo e si erano sposati principalmente perché papà potesse ottenere
il permesso di soggiorno.
Dopo la separazione finimmo tutti con mamma, ma io avevo nostalgia di papà: si era sistemato meglio e intorno a lui succedevano cose più divertenti. Nei primi tempi io e Sanela lo
vedevamo a domeniche alterne, lui arrivava spesso sulla sua vecchia Opel Kadett blu, ci
portava al parco di Pildamm o all’isola di Limhamn e ci comprava hamburger e gelato. Una
volta esagerò e ci regalò un paio di Nike Air Max ciascuno, quelle scarpe da ginnastica cool
che costavano tipo mille corone. Le mie erano verdi, quelle di Sanela rosa. A Rosengård nessuno le aveva e noi ci sentivamo strafighi. Stavamo bene con papà, capitava perfino di
ricevere una paghetta da cinquanta corone, ben oltre il necessario per una pizza e una Coca.
Era un “papà della domenica” molto divertente.
Ma la situazione s’incasinò. Sanela era molto brava a correre. Nei sessanta metri era la
più veloce della Scania nella sua categoria; papà era fiero come un pavone e
l’accompagnava in auto agli allenamenti. «Bene, Sanela. Ma sai fare di meglio» diceva. Era il
suo ritornello, «Meglio, meglio, non accontentarti», e quella volta in macchina c’ero anch’io.
Qualcosa non andava. Sanela era taciturna. Si sforzava per non piangere.
«Cos’è successo?» le chiese papà.
«Niente» rispose mia sorella, e allora lui ripeté la domanda e alla fine lei raccontò tutto.
Erano successe un sacco di cose nuove, non è necessario entrare nei dettagli, sono affari
di Sanela. Ma mio padre è come un leone: se accade qualcosa ai suoi figli diventa una furia,
specialmente quando si tratta di Sanela, l’unica femmina. Così scoppiò un gran casino con interrogatori e inchieste dei servizi sociali e conflitti sulla nostra tutela e orrori del genere. Io non
ci capivo granché. Avrò avuto circa nove anni.
Era l’autunno del 1990. Anche se tutti cercavano di tenermi fuori da queste cose, io ovviamente intuivo. In casa c’era molta agitazione, anche se non era la prima volta: mia sorella
maggiore faceva uso di droghe, roba pesante, nascondeva tutto in casa e c’era spesso
casino intorno a lei, personaggi loschi che telefonavano e una gran paura che succedesse
qualcosa di grave. Un’altra volta la mamma era stata fermata per ricettazione. Qualche conoscente le aveva detto: «Puoi tenermi questa collana?» e lei lo aveva fatto, ovviamente in
buona fede. Ma poi venne fuori che si trattava di merce rubata, un giorno la polizia fece irruzione da noi e arrestò la mamma. Ho un ricordo vago, come una strana sensazione, tipo:
«Dov’è la mamma? Perché non c’è più?».
Arrivavano sempre nuovi dispiaceri, e io cercavo di starne alla larga. Andavo fuori a correre, o a giocare a calcio. Non che fossi il ragazzino più equilibrato del quartiere, o la più
grande promessa: ero solo uno dei tanti ragazzini che tiravano calci a un pallone, anzi peggio, perché avevo degli scatti di rabbia spaventosi, davo testate alla gente e litigavo con i
compagni di squadra. Ma avevo il calcio. Era roba mia e giocavo tutto il tempo, in cortile, al
campetto e a scuola durante l’intervallo.
Andavamo alla Värner Rydén allora, Sanela in quinta e io in terza, e non c’erano dubbi su
chi fosse più bravo! Sanela era stata costretta a crescere molto in fretta, per fare da seconda
mamma a Keki e occuparsi della famiglia quando le sorelle maggiori erano andate via. Si era
presa una responsabilità incredibile. E rigava dritto. Non era certo il tipo di ragazzina che
veniva convocata in presidenza per una strigliata, e perciò, quando il preside ci chiamò entrambi, mi preoccupai molto. Se avessero convocato me soltanto sarebbe stato tutto normale,
semplice routine, ma stavolta la cosa riguardava tutti e due. Era morto qualcuno? Di che cosa
poteva trattarsi?
Mi venne il mal di pancia, e ci avviammo lungo il corridoio della scuola. Ero irrequieto. Ma
quando entrammo, papà era seduto lì in compagnia del preside, o di chi diavolo era, e allora
mi rasserenai. Papà di solito significava cose piacevoli, ma lì di piacevole non c’era niente.
L’atmosfera era tesa e solenne: cominciai a tremare, non ci capivo molto, solo che si trattava
di mamma e papà. Ma adesso so. Adesso, nel mettere insieme questo libro, i frammenti del
puzzle sono andati al loro posto.
L’11 novembre 1990 i servizi sociali avevano completato la loro indagine, e papà aveva
ottenuto sia l’affidamento di Sanela sia il mio. L’ambiente, a casa di mamma, era stato ritenuto inadatto, anche se non era lei la causa principale. Mamma piangeva e piangeva, certo, e
ci picchiava con i mestoli di legno e non ci ascoltava molto, e aveva avuto sfortuna con gli
uomini e niente andava per il verso giusto... Ma amava i suoi figli. Soltanto era cresciuta in un
certo modo, e credo che papà questo lo capisse.
Andò da lei quello stesso pomeriggio: «Non volevo che tu arrivassi a perderli, Jurka».
Ma pretendeva un giro di vite, e con papà non si scherza in questo genere di situazioni.
Le sue furono certamente parole dure – «Se le cose non migliorano, non vedrai più i
bambini» eccetera – e cosa poi accadde di preciso non so. So che Sanela andò a stare da lui
per qualche settimana, mentre io restai ancora da mamma, nonostante tutto. Ma nemmeno
quella era una buona soluzione. Sanela non stava bene, da papà. Lei e io lo trovavamo
spesso addormentato sul pavimento, e sul tavolo c’erano lattine di birra e bottiglie. «Papà,
svegliati, svegliati!» Ma lui andava avanti a dormire. “È una cosa strana” pensavo. Perché mai
farà così? Volevamo essere d’aiuto ma non sapevamo che pesci prendere. Magari aveva
freddo? Lo coprivamo con asciugamani e coperte perché stesse caldo, per il resto non ci capivo granché. Probabilmente Sanela ne sapeva un po’ di più. Si era accorta dell’umore
ballerino di papà e di come s’infiammasse facilmente e urlasse come un demonio, e credo
che questa cosa la spaventasse. Inoltre sentiva la mancanza del suo fratellino Zlatan. Così lei
voleva tornare da mamma, mentre per me era tutto l’opposto: io avevo nostalgia di papà. Una
di quelle sere gli telefonai e forse dovetti sembrargli disperato. Senza Sanela mi sentivo solo.
«Non voglio rimanere qui. Voglio stare da te.»
«Vieni» disse. «Ti mando un taxi.»
Ci furono nuove indagini dei servizi sociali, e, nel marzo del 1991, mamma ebbe
l’affidamento di Sanela e papà il mio. Alla fine io e mia sorella fummo separati, ma siamo
sempre rimasti uniti, nonostante negli anni ci siano stati alti e bassi. Ma siamo terribilmente
legati. Sanela oggi fa la parrucchiera. Certe volte la gente va nel suo salone e dice:
«Accidenti, quanto somigli a Zlatan!» e allora lei risponde sempre: «Stronzate, è lui che
somiglia a me». È un tipo tosto. Né io né lei abbiamo avuto la vita facile.
Mio padre, Šefik, si era trasferito nel 1999 da Hårds väg, a Rosengård, a Värnhemstorget,
a Malmö. Ha un cuore grande, come avrete già capito, era pronto a morire per noi, ma con lui
le cose non andarono esattamente come mi ero aspettato. Lo conoscevo solo come il “papà
della domenica”, quello degli hamburger e del gelato, mentre adesso dovevamo condividere
la vita quotidiana. Io me ne accorsi subito, c’era come un vuoto a casa di papà. Mancava
qualcosa, qualcuno, una donna forse. C’erano un televisore, un divano, una libreria, due letti,
ma niente di più, niente che rendesse l’atmosfera accogliente; c’erano lattine di birra sui tavoli
e sporcizia sul pavimento, e quando a volte gli veniva un guizzo e si metteva a tappezzare
faceva una parete e poi piantava lì: «Il resto lo faccio domani». Ma non finiva mai. Cambiavamo casa di frequente e non riuscivamo mai a raggiungere una certa normalità. E poi il vuoto
non era solo fisico.
Papà si occupava della manutenzione di condomini ed era reperibile a tutte le ore.
Quando tornava a casa nella sua tuta da lavoro, con tutte quelle tasche piene di cacciaviti e
arnesi, si sedeva accanto al telefono o davanti alla tv e non voleva essere disturbato. Era
come sprofondato in se stesso, e spesso infilava gli auricolari e ascoltava musica popolare
jugoslava. Va matto per la musica popolare della sua terra, ha anche inciso lui stesso qualche
disco. Quando è dell’umore, è uno showman. Ma allora stava quasi sempre immerso nel suo
mondo e, se capitava che si facesse vivo qualche mio amico al telefono, gli sibilava: «Non
devi chiamare qui!».
Non potevo portare a casa i miei amici e, se per caso erano stati loro a cercarmi, non riuscivo neppure a venirlo a sapere. Non potevo toccare il telefono, e non avevo nessuno con cui
parlare. Sapevo però che, se un problema si faceva serio, papà era lì per me. Allora avrebbe
fatto qualsiasi cosa, si sarebbe fiondato in città e avrebbe cercato di sistemare tutto.
Aveva un modo di camminare che faceva sobbalzare la gente. «E quello chi diamine è?»
Ma delle cose normali, tipo di quello che era successo la mattina a scuola o sul campo di calcio o con gli amici, non gliene fregava niente: se non mi accontentavo di parlare allo specchio
mi toccava uscire. È vero che nei primi tempi viveva con noi anche Sapko, il mio fratellastro,
quindi certe volte parlavo con lui, che all’epoca aveva circa diciassette anni... ma non ho
grandi ricordi, e non molto tempo dopo papà lo buttò fuori di casa. Avevano avuto dei litigi
mostruosi, anche questa è una faccenda triste, chiaro, e così rimanemmo soltanto io e papà.
Eravamo soli, ognuno nel proprio angolino, visto che nemmeno lui si portava a casa degli
amici. Stava seduto per conto suo e beveva. Non c’era compagnia per nessuno. Ma soprattutto non c’era niente da mangiare.
Io stavo fuori tutto il tempo a giocare a calcio e a pedalare su bici rubate, e spesso tornavo a casa affamato come un lupo, spalancavo lo sportello del frigorifero e pensavo: “Ti
prego, ti prego, fa’ che ci sia dentro qualcosa!”. Ma no, niente, sempre il solito: latte, burro,
pane e, nel migliore dei casi, del succo di frutta, Multivitamine, confezione da quattro litri,
comperato al negozio arabo perché costava meno. E poi birra, ovviamente: Pripps Blå e
Carlsberg, confezione da sei con la plastica intorno, a volte non c’era nient’altro, solamente
birra, e il mio stomaco urlava. C’era una sofferenza in quei momenti che non dimenticherò
mai. Domandate a Helena! Il nostro frigorifero dev’essere pieno zeppo, lo ripeto in continuazione. Qualche tempo fa mio figlio Vincent piangeva perché voleva la pasta e i maccheroni erano sul fuoco. Strillava perché il cibo non era ancora pronto, e io avrei voluto urlare:
«Se solo sapessi quanto sei fortunato!».
Ero capace di frugare in tutti i cassetti, in ogni minimo angolo, a caccia di una polpettina di
carne. Mi saziavo a fette di pane tostato, ero capace di divorare un intero filone. Oppure correvo a casa da mamma, anche se non sempre venivo accolto a braccia aperte. Era piuttosto
un: «Che diavolo, perché deve venire qui anche Zlatan? Šefik non gli dà da mangiare?», e
certe volte mi prendevo una strigliata: «Credi che i soldi crescano sugli alberi? Vuoi mangiarci
anche la casa?!». Però, alla fine, ci aiutavamo a vicenda.
Intanto, da papà, cominciai a condurre una piccola guerra contro la birra: vuotavo nel
lavandino qualche lattina, chiaramente non tutte perché se ne sarebbe accorto subito. Succedeva di rado che mi beccasse. C’era birra dappertutto, sui tavoli e sugli scaffali, e spesso raccoglievo le lattine in grandi sacchi neri della spazzatura e andavo a portare i vuoti alla raccolta differenziata. Mi davano cinquanta centesimi a lattina, e a volte riuscivo a racimolare
cinquanta o anche cento corone. Le lattine erano tante e io ero felice dei soldi, ma è ovvio,
non era una faccenda divertente.
Come tutti i ragazzini in quella situazione, imparai a capire con precisione di che umore
fosse papà. Sapevo esattamente quando non era il caso di parlargli. Il giorno dopo che aveva
bevuto, per esempio, era abbastanza tranquillo; il secondo giorno andava peggio. In certe circostanze era capace di infiammarsi in un lampo, altre volte era incredibilmente generoso e
magari mi dava cinquecento corone così, per niente. A quei tempi facevo raccolta di figurine
dei calciatori. Dentro ogni pacchetto c’erano un chewingum e tre figurine. “Ohi ohi, chissà chi
troverò?” mi chiedevo. “Maradona?” Il più delle volte rimanevo deluso, soprattutto quando
erano solo noiose stelle svedesi di cui non me ne fregava niente. Ma un giorno papà mi fece
una delle sue sorprese e tornò a casa con uno scatolone intero pieno di pacchetti di figurine.
Fu una vera festa, io li aprii e trovai tutti i giocatori brasiliani più fighi... è un bellissimo ricordo.
Ogni tanto io e papà guardavamo la tv insieme e chiacchieravamo, e tutto andava a gonfie vele. Ma altri giorni lui era ubriaco fradicio. Ho ancora davanti agli occhi immagini semplicemente spaventose, e quando diventai un po’ più grande accettai di scontrarmi con lui
anche duramente. Non mi tiravo indietro come mio fratello. Gli dicevo: «Tu bevi troppo,
papà», e avevamo dei litigi pazzeschi, scontri totalmente insensati. Ero capace di tenergli
testa anche quando gli leggevo in faccia che mi avrebbe urlato: «Ti sbatto fuori di casa» e
cose del genere. Volevo dimostrare che sapevo dire la mia, e di tanto in tanto succedeva un
gran casino. Ma lui non mi toccava mai, neanche con un dito. Anzi sì, una volta mi alzò in aria
due metri e poi mi mollò sul letto, ma questo solo perché ero stato cattivo con Sanela, che era
la luce dei suoi occhi. Fondamentalmente era la persona più buona del mondo, e io adesso
capisco che non aveva una vita facile. «Lui beve per annegare i suoi dispiaceri» diceva mio
fratello, e forse non era tutta la verità. Ma di certo la guerra nell’ex Jugoslavia l’aveva colpito
molto duramente.
Della guerra non ho mai capito un granché. Non mi raccontavano mai niente. Mi proteggevano, tutti si sforzavano tantissimo in questo senso, e io non capii nemmeno perché
mamma e le mie sorelle a un certo punto iniziarono a vestirsi di nero. Lo fecero perché la mia
nonna materna era morta sotto un bombardamento in Croazia: la piangevano tutti, tranne me
che non dovevo sapere, e non dovevo curarmi del fatto che le persone fossero serbe o bosniache o chissà cos’altro.
Ma quello che soffriva di più era papà. Veniva da Bijeljina, in Bosnia. Era stato muratore
laggiù, e tutta la sua famiglia e i vecchi amici abitavano ancora in quella città che adesso,
all’improvviso, era diventata un inferno. Bijeljina fu praticamente violentata, e non è poi così
strano che papà riprese a definirsi musulmano, niente affatto. I serbi invasero la città e giustiziarono centinaia di musulmani, credo che lui conoscesse molti di loro. Tutta la sua famiglia
fu costretta alla fuga. L’intera popolazione di Bijeljina fu sostituita dai serbi, che presero possesso delle case vuote e anche della vecchia stamberga di papà. Qualcuno semplicemente
entrava e si appropriava della tua casa. Ecco perché papà, dopo il lavoro, non aveva mai
tempo per sé: aspettava tutte le sere i notiziari alla tv o qualche telefonata dal suo Paese. La
guerra lo divorava, e seguirne gli sviluppi divenne per lui un’ossessione. Stava seduto lì da
solo e beveva e soffriva, e ascoltava la sua musica e io stavo ben attento a tenermi fuori casa
o me ne andavo dalla mamma.
Da papà c’eravamo solo io e lui. C’era del vuoto, come ho detto. Invece a casa di mamma
era un casino totale. Gente che andava e veniva, urla, baccano. Mamma si era trasferita al
quinto piano di un condominio nella stessa strada della vecchia casa, al 5a di Cronmans väg:
abitava sopra zia Hanife, o Hanna, come la chiamavo io. Anche a casa di mamma c’erano un
bel po’ di cose che non andavano. Una delle mie sorellastre sprofondò sempre più nella
droga e mamma era arrivata al punto di sussultare ogni volta che suonava il telefono o che
bussavano alla porta: «Non ne abbiamo avute a sufficienza, di disgrazie? Che c’è adesso?».
Tutte quelle preoccupazioni l’hanno fatta invecchiare prima del tempo e resa ultrasospettosa
verso tutto ciò che passa per casa. Non molto tempo fa mi ha chiamato sconvolta: «Zlatan,
c’è della droga nel frigo!». Io sono scattato come una molla e ho telefonato subito a Keki: «Ma
che cazzo, c’è della droga nel frigo di mamma?!». Lui non ci capiva niente, ma poi si è accesa una lampadina: quello di cui parlava mamma era tabacco da masticare. L’avevo procurato io a mio fratello.
«Tranquilla, mamma, è soltanto tabacco.»
«Stessa porcheria.»
È rimasta veramente segnata dagli anni della nostra giovinezza, e avremmo certamente
dovuto essere un po’ più educati. Ma l’educazione era qualcosa che non avevamo mai imparato. Conoscevamo solo la durezza. Mi ricordo una volta che, da ragazzo, ero su da mia
sorella, quella delle droghe. Se n’era andata molto presto di casa e faceva dentro e fuori dai
centri di recupero, ma ricascava sempre nel vizio e alla fine mamma ruppe i ponti con lei, oppure fu mia sorella stessa a farlo, non importa. Non conosco con precisione i retroscena. In
ogni caso fu una faccenda molto pesante, ma noi abbiamo questa tendenza in famiglia:
siamo vendicativi e drastici, diciamo: «Non vogliamo vederti mai più» e cose del genere.
Quella volta dunque ero da mia sorella nel suo piccolo appartamento. Forse era il mio
compleanno, ricordo che lei aveva comperato dei regali ed era anche gentile, a suo modo.
Ma poi io ebbi bisogno di andare in bagno e allora lei mi bloccò, in preda al panico. «No, no»
gridava, e corse lì dentro a trafficare. Capii che qualcosa non andava, e poi vidi che c’erano in
giro un bel po’ di quei maledetti aggeggi. Ma, come ho già detto, cercavano di tenermene
lontano, e io avevo i miei interessi, le mie bici e il mio calcio, e poi i miei sogni su Bruce Lee e
Muhammad Ali. Io volevo diventare come loro.
Papà aveva un fratello maggiore di nome Sabahudin nella ex Jugoslavia. Era nato nel
1944 e lo chiamavano Sapko, mio fratello maggiore ha preso il nome da lui. Sabahudin
faceva il pugile, ed era un vero talento. Gareggiava per il BK Radnicki nella città di Kragujevac e diventò campione jugoslavo con il suo club e membro della Nazionale. Ma un giorno,
nel 1967, novello sposo e a soli ventitré anni, andò a fare il bagno nel fiume Neretva: c’erano
delle forti correnti e credo anche che lui avesse un qualche difetto al cuore o ai polmoni. Sta
di fatto che fu trascinato sul fondo e annegò... Fu un duro colpo per la famiglia, e dopo
quell’episodio mio padre diventò un po’ un fanatico della boxe. Aveva tutti i grandi incontri di
pugilato registrati e su quei vecchi nastri, oltre a Sabahudin, c’erano Ali, Foreman e Tyson, e
poi tutti i film di Bruce Lee e Jackie Chan.
Era questo quello che guardavamo quando ci facevamo compagnia davanti alla tv. La
televisione svedese era come se non esistesse, noi vivevamo in un mondo completamente
diverso. Sono dovuto arrivare a vent’anni, prima di vedere il mio primo film svedese, e non
avevo la minima conoscenza degli eroi o dei campioni sportivi svedesi, tipo Ingemar Stenmark o i grandi tennisti. Ma Ali, lui sì che lo conoscevo! Che leggenda! Lui seguiva il suo stile
a prescindere da cosa dicesse la gente. Non chiedeva mai scusa e questo per me era grandioso. Andava per la sua strada. Sempre. Così bisognava essere, e io gli presi in prestito certi
modi di dire, «Sono il più grande», cose così. C’era bisogno di tenere un atteggiamento da
duro a Rosengård, e se ti arrivava all’orecchio qualche insulto – la cosa peggiore era essere
chiamato checca –, be’, non ti potevi tirare indietro.
Il più delle volte, comunque, non litigavamo fra di noi. Non si caga nel proprio letto, come
usavamo dire. Eravamo piuttosto noi di Rosengård contro tutti gli altri. Una volta, al festival di
Malmö, vidi un sacco di ragazzi di Rosengård, tipo duecento, che inseguivano un tipo da solo.
Non sembrava esattamente uno scontro alla pari, detto in tutta onestà. Ma siccome erano
ragazzi del mio quartiere, cominciai a correre con loro, e non credo che quel tipo sia stato
così bene, dopo. Eravamo arroganti e sfrenati. Facevamo i duri, ma certe volte non era così
facile.
Quando io e papà abitavamo dalle parti della Stenkulaskolan, facevo spesso tardi dalla
mamma e allora ero costretto a ritornare a casa attraverso un tunnel buio che passa sotto
Amiralsgatan e che sbuca di fronte al tunnel di Annelund. Una volta, molti anni prima, papà
era stato rapinato e malmenato brutalmente proprio in quel punto ed era finito all’ospedale
con un polmone perforato. Finivo per pensarci spesso, anche se ovviamente cercavo con
tutte le forze di evitare: ma più cercavo di ricacciare quel pensiero, più ritornava a galla. In
quel quartiere correvano anche i binari di una ferrovia, là, su in alto, e una strada; c’erano poi
un orribile vicoletto, alcuni cespugli e due lampioni, uno proprio davanti al tunnel e un altro
all’estremità opposta. Per il resto era buio, e faceva paura. Perciò i lampioni erano diventati i
miei punti di riferimento. Correvo dall’uno all’altro come un matto, con il cuore che scoppiava,
e per tutto il tempo pensavo: “Di sicuro lì dentro è in agguato qualche bastardo, come quelli
che hanno aggredito papà”, e poi pensavo in modo totalmente maniacale: “Se riesco a correre davvero veloce sono al sicuro”, e ritornavo a casa con il fiatone, altro che Muhammad
Ali!
Un’altra volta papà portò me e Sanela a fare il bagno ad Arlöv e dopo io andai a casa di
un amico; proprio quando arrivò il momento di tornare attaccò a piovere. Diluviava e io pedalai sotto l’acqua come un idiota, e una volta arrivato entrai in casa barcollando, bagnato
fradicio. Abitavamo in Zenithgatan allora, abbastanza lontano da Rosengård, ed ero totalmente esausto. Tremavo e avevo mal di pancia, un male assurdo. Non riuscivo a muovermi.
Stavo raggomitolato nel letto, vomitavo, avevo le convulsioni. A un certo punto deliravo, e
papà entrò in camera e sì, certo, lui è quello che è, i suoi frigoriferi erano vuoti e beveva
troppo. M quando è veramente necessario non c’è nessuno come lui: chiamò un taxi, mi
prese in braccio in quell’unica posizione in cui riuscivo a stare, tipo gamberetto, e poi mi portò
giù alla macchina che aspettava. Ero leggero come una piuma, allora. Papà era grande e
grosso e fuori di sé, era come un leone in gabbia, e gridò alla tassista: «Questo è mio figlio.
Se ne sbatta delle regole del traffico, pago io le multe, tra cinque minuti voglio essere
all’entrata dell’ospedale». La donna fece come le aveva detto, passò un paio di volte col
rosso e poco dopo arrivammo al reparto pediatrico dell’ospedale di Malmö. La situazione era
ormai critica, da quello che avevo capito. Dovevano farmi un’iniezione nella schiena. Papà
aveva sentito dire qualche storia di gente che era rimasta paralizzata e immagino che sbraitò
una sfilza di insulti e minacce.
Avrebbe messo sottosopra l’intera città se qualcosa fosse andato storto. Ma poi si calmò.
Finalmente mi fecero quell’iniezione nel midollo spinale: io ero steso sulla pancia e
singhiozzavo. Venne fuori che avevo la meningite. L’infermiera abbassò le tapparelle e
spense tutte le luci, doveva esserci buio totale intorno a me. Poi mi imbottirono di medicine,
mentre papà rimase a vegliarmi. Ma alle cinque del mattino dopo aprii gli occhi: la crisi era
passata, e ancora oggi non so che cosa avesse potuto provocarla. Forse all’epoca mi trascuravo troppo, non seguivo esattamente una dieta equilibrata.
Ero piccolo di statura e piuttosto gracile a quei tempi, eppure dentro di me avevo trovato
la forza per combattere quella battaglia.
Dimenticai in fretta quella storiaccia e, invece di restarmene in casa a rimuginare, mi misi
in cerca di stimoli. Avevo un fuoco dentro, e, proprio come papà, mi infiammavo facilmente.
Erano anni difficili, adesso l’ho capito. Papà aveva alti e bassi, spesso era del tutto assente
oppure improvvisamente rabbioso: «Stai a casa ogni tanto!», «Non puoi pensare solo ai fatti
tuoi!». Per come la vedeva lui, se ti capitava qualche casino, dovevi rialzarti e comportarti da
uomo, non da ragazzino. Non c’erano alibi che reggessero. Nessun: «Oggi ho mal di pancia.
Sono un po’ giù». Niente del genere! Imparai a restituire sempre il colpo e ad andare avanti,
ma anche, non bisogna dimenticarlo, a fare sacrifici. Quando acquistammo un nuovo letto per
me, all’Ikea, papà non poteva permettersi le spese di trasporto. La consegna a domicilio costava un buon cinquecento corone extra o qualcosa del genere, perciò che cosa dovevamo
fare? Semplice. Papà si trasformò in Superman: portò il letto sulla schiena per tutta la strada
dall’Ikea a casa, un’autentica follia, chilometro dopo chilometro, e io lo seguivo con le testate.
Non pesavano niente al confronto. Eppure non riuscivo a stargli dietro. «Fai con calma, papà.
Fermati, ogni tanto.» Ma lui procedeva come un carro armato. Aveva quello stile macho, e
dovevate vederlo quando compariva con il suo fare da cowboy alle riunioni dei genitori a
scuola. Tutti si chiedevano: «Ma chi è quello lì?». La gente lo notava. Incuteva rispetto, e gli
insegnanti di sicuro non osavano lamentarsi di me tanto quanto avrebbero voluto: «Con quel
tipo dobbiamo andarci un po’ cauti!».
Mi hanno chiesto spesso, ovviamente, che cosa avrei fatto se non fossi diventato un calciatore. Non ne ho la più pallida idea. Forse sarei diventato un criminale. Io e i miei amici del
quartiere combinavamo parecchie cazzate. Non che ce ne andassimo in giro a rubare per
professione, ma succedevano comunque un bel po’ di cose in maniera del tutto spontanea, e
non solo con le biciclette. C’era un bel viavai anche dai grandi magazzini, e spesso era
l’azione stessa a eccitarmi. I furtarelli mi stimolavano, e devo essere grato che papà non lo
venne mai a sapere. Papà beveva, è vero, ma le sue regole erano ferree: bisognava fare il
proprio dovere e così via... Sicuramente non rubare era in cima alla lista, questo è garantito.
Se mi avesse scoperto sarebbe stato il finimondo.
Quella volta che ci beccarono ai grandi magazzini Wessels con le nostre giacche a vento
imbottite, ebbi un culo pazzesco. Avevamo rubato merce per un valore di millequattrocento
corone, non si trattava delle solite caramelle. Ma venne a prenderci il papà del mio amico, e
quando da noi arrivò una lettera della polizia, Zlatan Ibrahimovi è stato sorpreso a rubare, bla
bla bla, feci in tempo a stracciarla prima che papà la vedesse. Mi andò bene e continuai a
rubacchiare, perciò insomma, l’avete capito, sarei potuto finire male.
Ma una cosa posso dire con sicurezza: non avrei mai fatto cazzate con la droga. Per motivi naturali ero totalmente contro. Non buttavo via solo la birra di papà, gettavo anche le
sigarette della mamma. Odiavo la droga e qualsiasi genere di schifezze e sono dovuto arrivare a diciassette o diciotto anni prima di ubriacarmi per la prima volta e vomitare
nell’androne del palazzo come un adolescente qualsiasi: dopo quella volta non ci sono state
molte sbronze, soltanto un collasso nella vasca da bagno dopo il primo scudetto con la Juventus. Ci voleva Trezeguet, quel serpente, a sfidarmi con i suoi shottini! Io e Sanela andavamo giù duro anche con Keki, se lo avessimo beccato a fumare o a bere gli avremmo spezzato
le ossa, tipo.
Era una faccenda un po’ speciale, questa del fratellino. Ci prendevamo cura di lui. Per le
questioni sentimentali andava da Sanela, per quelle un po’ più toste veniva da me. Io mi impegnavo, cercavo di tenerlo d’occhio, ma per il resto non ero esattamente un santo, e non ero
sempre così gentile verso amici e compagni di squadra. Anzi, spesso facevo cose aggress-
ive. Quel genere di cose che oggi mi mandano in bestia se qualcuno osa farle ai miei figli.
Questo non va dimenticato. Avevo una specie di doppia personalità già allora.
Ero al tempo stesso disciplinato e turbolento, e su questa base costruii la mia filosofia, decisi il mio stile: accompagnare sempre le chiacchiere a grandi prestazioni. Quindi non mi piaceva chi diceva parole a vuoto del tipo: «Io sono il migliore, e tu chi sei?», ovviamente no,
non c’è niente di più idiota, ma neppure chi faceva grandi imprese per poi limitarsi a balbettare quattro stupidate come le stelle dello sport svedese. Io sarei diventato il migliore, ma
me ne sarei anche vantato. Non che fossi convinto di diventare una stella, venivo pur sempre
da Rosengård! Ma forse sono diventato quello che sono anche per questa stramba filosofia.
Ero disordinato, ero matto, ma avevo anche carattere. A scuola arrivavo sempre in orario.
Facevo fatica ad alzarmi la mattina, mi succede tutt’ora, ma facevo sempre i miei compiti...
vabbe’, quasi sempre. Con la matematica non avevo la minima difficoltà. Bam bam, ed ecco
che vedevo la risposta corretta. Era un po’ come sul campo di calcio. Immagini e soluzioni mi
apparivano improvvisamente. Ma non ero bravo a scrivere bene tutti i passaggi e l’insegnante
credeva che copiassi. Non ero esattamente il ragazzo dal quale la gente si aspettava buoni risultati scolastici, ero piuttosto il tipo che mandavano fuori a calci dalla scuola dell’obbligo. Eppure studiavo veramente, recuperavo il tempo perso in vista delle verifiche per poi naturalmente dimenticare tutto quanto il giorno dopo. Non ero proprio una bestia, ecco, solo avevo
difficoltà incredibili a stare seduto fermo, tiravo gomme ai compagni durante le lezioni e
cazzate del genere.
Erano anni inquieti. Cambiavamo casa di continuo, non so esattamente perché: restavamo di rado più di un anno nello stesso posto, e gli insegnanti sfruttavano questa informazione
a loro vantaggio. «Devi andare alla scuola della tua zona» dicevano, non per pignoleria burocratica ma perché vedevano una possibilità di liberarsi di me. Passando di scuola in scuola
avevo difficoltà a farmi degli amici, mentre a casa papà era preso tra il suo lavoro massacrante e la sua guerra, e il suo bere, e un fischio nelle orecchie che non gli dava tregua.
Aveva come uno scampanellio che gli tormentava continuamente la testa.
Perciò sempre più spesso dovevo badare a me stesso da solo e cercavo di non curarmi di
tutto il caos che regnava nella mia famiglia. C’era sempre qualcosa che non andava come
doveva.
Sapete, noi dei Balcani siamo gente dura. Mia sorella, quella delle droghe, aveva rotto
definitivamente con la mamma e con noi, e forse c’era da aspettarselo, dopo tutti i casini con
la tossicodipendenza e i centri di recupero. Ma anche l’altra mia sorellastra fu radiata dalla
famiglia. La mamma semplicemente la cancellò, e io non so neanche di preciso per quale
motivo. Era per via di qualche bega che aveva a che fare con un fidanzato, un ragazzo
jugoslavo. Lui e mia sorella avevano litigato e mia madre, per qualche ragione, aveva preso
le parti del ragazzo. Così mia sorella aveva dato di matto e lei e la mamma si erano urlate
cose tremende e non era stato certo un bel momento. Ma dai, non poteva essere la fine del
mondo! Non era certo la prima volta che si litigava, nella nostra famiglia. Ma la mamma è orgogliosa, davvero troppo orgogliosa, e di sicuro sia lei sia mia sorella svilupparono una qualche forma di blocco. È qualcosa che riconosco. Anch’io non riesco a dimenticare, sono capace di ricordarmi dell’entrataccia di un avversario per anni. Mi restano in mente le bastardate
ai miei danni, e so essere incredibilmente vendicativo. Ma quella volta si superarono i limiti.
Eravamo stati in cinque fratelli a casa di mamma, e all’improvviso ci ritrovavamo in tre: io,
Sanela e Keki, e non c’era nulla che potessimo fare. Era come scolpito nella pietra: la sorellastra non faceva più parte della famiglia, e gli anni passarono.
Ma quindici anni più tardi suo figlio telefonò a mia madre. La mia sorellastra aveva dunque
avuto un bambino, un nipote della mamma, in altre parole.
«Ciao nonna» aveva detto, tipo, ma mamma non ne volle sapere di lui.
«Mi spiace» gli disse soltanto, e mise giù.
Quando lo seppi non volevo crederci. Sentii un groppo in gola. Non posso descriverlo.
Avrei voluto sprofondare. Non si fa così! Per nessuna ragione! Ma c’è così tanto orgoglio
nella mia famiglia che rende ogni cosa difficile, e io posso solo ringraziare Dio di aver avuto il
calcio.
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A Rosengård avevamo diversi campetti tutti più o meno decenti, anzi, no, quello che
chiamavamo campetto degli zingari era piuttosto disastrato. Non è che gli albanesi oppure i
turchi stessero tutti in un posto: non era il Paese dal quale venivano i tuoi genitori che contava, ma il campetto in cui andavi a giocare. Ognuno stava nel suo, e il nostro, quello del
palazzo dove abitava la mamma, si chiamava Törnrosen. C’erano un’altalena, un’area giochi,
un palo da bandiera e un campo da calcio dove giocavamo tutti i giorni.
Certe volte gli altri non mi volevano in squadra, dicevano che ero troppo piccolo. Allora
m’infiammavo all’istante.
Detestavo essere escluso. E odiavo perdere. Ma la cosa più importante non era vincere,
erano le finte e il bel gioco. Erano quelle grida di stupore: «Oh, oh! Wow! Guarda quello che
combina!». Si trattava di fare impressione sugli altri ragazzi con giochetti sempre nuovi, e
bisognava esercitarsi ed esercitarsi fino a conoscerli meglio di tutti. A un certo punto le madri
gridavano dalle finestre.
«È tardi, la cena è pronta. A casa, su.»
«Subito, subito» rispondevamo noi, e intanto andavamo avanti a giocare, e poteva pure
arrivare il buio o piovere o succedere qualsiasi cosa.
Eravamo davvero instancabili.
In quel campetto lo spazio era limitato, bisognava essere rapidi a vedere il gioco e con i
piedi.
Per me in particolare, che ero piccolo ed esile, era una necessità: ero spesso vittima di
tackle molto duri ed ero praticamente costretto a inventarmi sempre nuovi numeri per portare
a casa le caviglie, e anche per sentire quelle grida di meraviglia che mi piacevano tanto.
Spesso andavo a dormire con il pallone e pensavo a come migliorare le mie giocate: a occhi
chiusi, vedevo il film della partita del giorno dopo.
Il mio primo club si chiamava MBI, Malmö Boll och Idrottsförening – Associazione calcistica e sportiva di Malmö. Avevo solo sei anni quando cominciai, giocavamo su un campo sterrato dietro alcune baracche verdi. Io andavo agli allenamenti in sella a bici rubate, e non
dovevo essere un tipo facile. Gli allenatori ogni tanto mi rimandavano a casa per qualche
cazzata e io già rispondevo per le rime e mi sentivo ripetere: «Sta’ attento, Zlatan!». Mi indispettiva, e mi sentivo confuso. Nell’MBI c’erano sia stranieri sia svedesi. I loro genitori si lamentavano per tutti quei trucchi da circo che avevo imparato al campetto, a un certo punto li
mandai all’inferno una volta per tutte e cambiai qualche altra squadra prima di sbarcare
all’FBF Balkan. Lì sì che tirava tutt’altra aria!
All’MBI i paparini svedesi gridavano: «Su avanti, ragazzi, datevi una mossa. Ben fatto!».
Al Balkan si sentiva piuttosto: «In culo a tua madre!». C’erano slavi pazzi che fumavano come
ciminiere e lanciavano scarpe. Pensavo: “Magnifico, proprio come a casa! Qui sì che mi ci ritrovo!”. L’allenatore veniva dalla Bosnia: aveva giocato ad alto livello in Jugoslavia, e per noi
diventò un po’ come un padre. Certe volte ci accompagnava a casa in macchina, e ogni tanto
mi allungava qualche corona per un gelato o per placare la mia fame atavica.
Per un certo periodo giocai in porta, non so esattamente perché. Facile che fossi andato a
dire al portiere titolare qualcosa del tipo: «Non vali niente, io so fare di meglio, e poi mio papà
è più forte del tuo!». Ma durante una partita mi infilarono un sacco di gol e allora diedi di
matto. Sbraitai che erano tutti una massa di stronzi. Che il calcio era una merda. Che il
mondo intero era pazzo, e che avrei cominciato con l’hockey, piuttosto: «L’hockey sì che è
uno sport, razza di idioti! Io diventerò un giocatore professionista! Andate a farvi fottere!».
Poi però andai a controllare questa cosa dell’hockey e... accidenti, quanta roba occorreva!
Una vera e propria armatura! Che naturalmente costava una cifra. Perciò non restava che abbandonare in fretta l’idea e continuare con quello sport di merda, il calcio. Almeno smisi di
giocare in porta e passai a fare l’attaccante, e diventai veramente forte.
Un giorno dovevamo giocare una partita importante, io non ero ancora arrivato al campo
ed erano tutti tesi: «Dov’è Zlatan? Dov’è Zlatan?». Mancava solo qualche minuto al fischio
d’inizio, l’allenatore e i miei compagni di sicuro avrebbero voluto strozzarmi. «Dove si sarà
cacciato? Come diavolo può non venire a una partita tanto importante?» Poi videro
all’orizzonte un ragazzino che pedalava come un disperato in sella a una bicicletta rubata e
che stava puntando dritto sull’allenatore. «Non vorrà mica investirlo?» No, frenai bruscamente
nella ghiaia proprio davanti al suo naso e mi precipitai direttamente in campo. Gli finì della
sabbia negli occhi, lo coprii di polvere dalla testa ai piedi: era furioso. Ma mi lasciò giocare e
mi sembra di ricordare che vincemmo.
Eravamo un bel gruppetto. Una volta passai il primo tempo di una partita in panchina per
punizione, avevo fatto qualche altra bravata delle mie. Eravamo sotto quattro a zero contro
una squadra di fighetti, il Vellinge: praticamente era un match tra noi immigrati, le blatte, contro i figli di papà, c’era un sacco di tensione nell’aria e io ero talmente furioso che quasi scoppiavo. Come poteva tenermi in panchina quell’idiota?
«Ma che ti salta in mente?» dissi all’allenatore.
«Calma, calma. Tra un po’ ti metto.»
Entrai nel secondo tempo e feci otto gol. Vincemmo otto a cinque e prendemmo per il culo
i fighetti. Sì, ero davvero bravo: ero tecnico, e avevo già una buona visione di gioco. Nel campetto vicino a casa di mamma, ero diventato un piccolo maestro nell’inventarmi dei numeri
pazzeschi in piccoli spazi. Eppure sono stufo di tutti quei pappagalli che adesso vanno in giro
a ripetere: «Avevo visto subito che Zlatan sarebbe diventato qualcosa di speciale, bla bla bla.
Gli ho insegnato tutto io, praticamente. Lui era il mio migliore amico». Tutte stronzate.
Nessuno vide nulla. O almeno, non videro tutto quello che hanno detto di aver visto dopo.
Non arrivò nessun grande club a bussare alla mia porta, ero solo un moccioso. Non c’era
nessun: «Ah, quel piccolo talento dobbiamo tenercelo stretto!» ma piuttosto: «Chi ha fatto entrare la blatta?» e già allora ero piuttosto discontinuo: ero capace di farne otto in una partita, e
poi di andare totalmente fuori forma per settimane.
Stavo anche parecchio in compagnia di un ragazzo che si chiamava Tony Flygare, avevamo lo stesso insegnante di svedese. Anche suo padre e sua madre venivano dai Balcani e
anche lui era un po’ un duro. Non abitava a Rosengård ma subito fuori, in Vitemöllegatan.
Eravamo dello stesso anno, lui era nato a gennaio e io a ottobre, e questo aveva il suo peso:
lui era più grande e robusto e veniva visto come un talento più promettente di me. Era tutto
un Tony di qui, Tony di là, e «Guardalo, che giocatore!» e io finii un po’ nella sua ombra. Ma
forse fu un bene, che ne so. Imparai a stringere i denti, e a battermi da una posizione di
svantaggio. E poi, come si diceva, a quei tempi non è che fossi proprio una grande promessa.
Ero un selvaggio, un mezzo matto, incapace di tenere a freno gli sbalzi d’umore. Continuavo
a criticare aspramente giocatori e arbitri, e cambiavo un club dopo l’altro. Giocai nel Balkan,
ritornai all’MBI e poi di nuovo al Balkan e poi al BK Flagg.
Era un casino, non c’era nessuno che mi accompagnasse agli allenamenti, e certe volte
mi capitava di lanciare un’occhiata ai genitori degli altri che stavano a bordo campo.
Mio padre non c’era mai lì: né in mezzo agli jugoslavi né agli svedesi, e io non ricordo di
preciso che cosa pensassi. Era così e basta. Me la cavavo da solo. Ero abituato. Ma forse mi
bruciava comunque. Non saprei. Alla propria vita si finisce per fare l’abitudine, e io tenevo
tutto questo genere di cose a una certa distanza. Papà era quello che era: fantastico, ma
aveva i suoi alti e bassi. Non facevo conto su di lui come gli altri facevano conto sui loro genitori, però di sicuro ogni tanto mi dicevo: «Diavolo, pensa se avesse visto questo numero da
brasiliano...».
Papà attraversava anche momenti in cui si fissava con dei progetti per me assurdi. A un
certo punto voleva che diventassi avvocato. Non è che io ci credessi molto. Nel mio ambiente
non si diventava giuristi di fama. Si facevano cose pazze e si sognava di diventare dei duri.
Non si aveva nessun sostegno da parte dei genitori, nessun «Vuoi che ti aiuti con i compiti?»
o «Devo spiegarti un po’ di storia svedese?». No, niente del genere. Erano lattine di birra e
musica popolare jugoslava e frigoriferi vuoti e la guerra dei Balcani.
Eppure, certe volte papà trovava qualche momento per parlare di calcio con me, e io ne
ero sempre felice. Un giorno mi disse, non lo dimenticherò mai, c’era qualcosa di solenne
nell’aria: «Zlatan, è ora che cominci a giocare in un grande club».
«Come, un grande club? Cos’è un grande club?»
«Una buona squadra, Zlatan. Una squadra al vertice, tipo il Malmö!»
Cosa c’era di tanto speciale nel Malmö? Non sapevo niente di queste faccende, di quello
che era ok oppure no. Ma conoscevo il club, ci avevo giocato contro. L’avevo incontrato con il
Balkan, e pensai: “Perché no? Se lo dice papà...”. Non avevo idea di dove fosse il loro stadio,
come non conoscevo in generale niente della città. Malmö era vicina, forse, ma era un altro
mondo. Dovevo arrivare a diciassette anni prima di mettere piede in centro, non sapevo niente di quella vita. Imparai il tragitto per arrivare al centro sportivo, e lo raggiungevo pedalando per tipo mezz’ora con il cambio dentro un sacchetto di plastica del supermercato.
Chiaro, ero nervoso. Nel Malmö si faceva sul serio, non era il solito «Vieni che tiriamo quattro
calci al pallone, ragazzo!». Qui bisognava fare provini e dimostrare di avere talento. Io mi accorsi subito di non essere come gli altri e mi preparai a fare armi e bagagli e tornarmene a
casa. Ma già il secondo giorno mi sentii dire da un allenatore che si chiamava Nils: «Sei il
benvenuto in squadra».
«Sta dicendo sul serio?»
Allora avevo tredici anni e c’erano già un paio di altri stranieri, fra cui il mio vecchio amico
Tony Flygare. Per il resto c’erano solo svedesi doc, tipi da quartieri alti del genere Limhamn.
Io mi sentivo un marziano. Non solo perché papà non aveva una villa lussuosa e non veniva
mai alle partite, ma anche perché io parlavo in maniera diversa. Io dribblavo. Mi infiammavo
come una miccia, e attaccavo briga in campo. Una volta mi diedero il rosso perché stavo urlando contro i miei compagni di squadra.
«Non puoi fare così!» disse l’arbitro.
«Ma vaffanculo pure tu», sbraitai, e lasciai il campo.
Fra gli svedesi doc cominciava a covare il malumore. I loro genitori mi volevano fuori di lì
al più presto, e io pensai per la millesima volta: “Me ne fotto di loro. Cambio di nuovo
squadra. Oppure punto sul taekwondo. È più figo. Il calcio è merda”. Qualche padre imbecille
nella squadra fece addirittura girare una petizione: «Zlatan deve andarsene dal club», c’era
scritto, tipo, e un sacco di genitori sottoscrissero quella richiesta. Andavano in giro a passarsela di nascosto: «Zlatan è fuori posto qui, se ne deve andare! Firmate qua sotto, bla bla
bla».
Era assurdo! Ok, avevo fatto a botte con il figlio di quel papà da cui era partita la petizione. Avevo subito una serie di brutti tackle e non ci avevo visto più. Gli avevo dato una testata, a essere sinceri. Ma dopo mi ero pentito, ero corso in bicicletta all’ospedale per chiedergli
scusa. Era stato un comportamento idiota, è vero, ma una raccolta firme! Andiamo! Quando
arrivò all’allenatore, Åke Kallenberg, lui si limitò a fissare quel foglio: «E questo cosa
sarebbe?».
E lo stracciò. Era in gamba, Åke. Be’, insomma, in gamba! Mi lasciò in panchina quasi un
anno intero negli juniores, e come tutti gli altri pensava che dribblassi un po’ troppo e strigliassi un po’ troppo i compagni di squadra, che avessi l’atteggiamento sbagliato eccetera. Ma
imparai una cosa importante in quegli anni: per essere rispettato, un ragazzo come me deve
essere cinque volte meglio di tutti i Leffe Persson o come diavolo si chiamavano. Deve allenarsi dieci volte più duramente. Altrimenti non ha nemmeno una chance. Da nessuna parte!
Specialmente se è un ladro di biciclette.
Dopo quella storiaccia della testata dovevo stare molto attento a come mi muovevo. La
disciplina non era un problema, non ero un caso disperato. Ma il campo d’allenamento del
Malmö era a sette chilometri da casa e spesso dovevo farmela a piedi: qualche volta la
tentazione era troppo grande, soprattutto se mi capitava di vedere una bella bici. Una volta ne
adocchiai una gialla con su un sacco di scatole e pensai: “Perché no?”. Così la presi. Ma
dopo un po’ cominciai a farmi delle domande, tipo c’è qualcosa di strano in queste scatole, e
allora capii: era la bicicletta di un postino, stavo andando in giro con la posta del quartiere!
Così saltai giù e lasciai la bici poco lontano. Mica volevo rubare anche le lettere della gente!
Un’altra volta mi portarono via l’ultima bicicletta che avevo rubato, chi la fa l’aspetti, e io
stavo impalato lì fuori dal campo a pensare al da farsi: la strada verso casa era lunga e io ero
affamato e impaziente, per cui fregai una bici nuova che era lì fuori dagli spogliatoi. Ruppi il
lucchetto come al solito, e ricordo che quella bici mi piacque. Era una buona bicicletta e io
stavo sempre attento a parcheggiarla un po’ lontano da dove l’avevo presa, in modo che il
vecchio proprietario non ci capitasse davanti; conoscevo tutti i trucchi del mestiere. Ma tre
giorni più tardi tutta la squadra fu convocata per una riunione. Io avevo già allora il complesso
per certe cose, dato che le riunioni di solito significano guai e strigliate e io cominciai subito a
cercare qualche modo astuto di discolparmi: «Non sono stato io», tipo. «È stato mio fratello.»
Effettivamente la riunione riguardava il furto della bicicletta dell’allenatore in seconda.
«C’è qualcuno che l’ha vista?»
Nessuno l’aveva vista. Nemmeno io! Voglio dire, in quella situazione tieni la bocca chiusa.
È così che funziona! Fai il finto tonto: «Oh, che peccato, poverino, anche a me hanno fregato
la bici una volta...».
Ma subito mi venne l’angoscia: l’avevo fatta grossa! La bici dell’allenatore in seconda! “Gli
allenatori vanno rispettati” pensavo. O, più esattamente, intendevo che bisogna ascoltarli e
imparare le loro cose, gioco a zona, tattica, tutto il pacchetto, ma al tempo stesso non ascoltare. E andare avanti comunque con i dribbling e lo show. Ascolta, non ascoltare! Era la mia
filosofia. Ma rubare le loro bici? Non mi pareva che rientrasse nel concetto. Diventai nervoso
e mi avvicinai al viceallenatore: «Ecco, è successo questo» dissi. «Ho preso in prestito io la
tua bici un momento. Era un po’ un’emergenza. Non succederà più! Tranquillo, domani te la
riporto.»
Misi insieme il sorriso più mesto e credo che in qualche modo andò a segno. Il mio sorriso
mi aiutò parecchio in quegli anni ed ero capace di tirare fuori anche una battuta scherzosa in
caso di estrema necessità. Ma non era facile: io non ero soltanto la pecora nera (per cui se
spariva qualche tuta davano la colpa a me, peraltro giustamente), ero anche il pezzente.
Mentre gli altri fin dall’inizio avevano avuto le ultime scarpette dell’Adidas o della Puma, con
inserti in pelle di canguro e robe del genere, io avevo comperato le mie prime all’Ekohallen
per cinquantanove corone e novanta centesimi: erano un paio di scarpe che stavano proprio
a fianco ai pomodori e alle verdure, e con quelle andavo avanti. Non avevo mai niente per cui
pavoneggiarmi in quel senso.
Quando andavamo all’estero con la squadra, molti altri ragazzi di Limhamn avevano con
sé duemila cocuzze come spiccioli per le piccole spese. Io ne avevo tipo venti, eppure papà
qualche volta aveva persino rinunciato a pagare l’affitto del mese per mandare anche me.
Preferiva essere sbattuto fuori piuttosto che vedermi costretto a rimanere a casa. Erano bei
gesti da parte sua, ma non potevo comunque reggere il confronto con gli altri.
«Vieni, Zlatan, andiamo a prendere una pizza o un hamburger, andiamo a comprare
questo e quest’altro.»
«Naaa, magari più tardi. Adesso non ho fame! Preferisco rilassarmi un attimo, invece.»
Cercavo di evitare le spese extra e di essere figo comunque. Non funzionava granché.
Entrai in un periodo d’insicurezza. Non è che me ne fregasse di essere come gli altri... O
forse un po’ sì! Volevo imparare i loro modi, come l’etichetta e roba del genere. Ma più che altro seguivo il mio, di stile; era la mia arma, in un certo senso. Li vedevo i compagni che
venivano dal mio genere di sobborghi e che cercavano di scimmiottare i ricchi. Non ce la
facevano mai, per quanto si sforzassero, e io pensavo: “Farò il contrario, ci andrò giù ancora
più pesante con il mio stile”. Invece di dire: «Ho solo venti corone», cominciai a dire: «Non ho
neanche un centesimo». Era più figo. Più borderline. Io ero un duro di Rosengård. Io ero diverso. Quella diventò la mia identità, mi ci trovavo sempre meglio e non me ne fregava niente
di non conoscere neppure di nome gli idoli dei ragazzi.
Qualche volta facevamo i raccattapalle alle partite della prima squadra. Una volta il Malmö
incontrò il Göteborg, un big match, e i miei compagni andarono completamente fuori di testa:
volevano gli autografi di tutte le grandi stelle biancoblù, soprattutto di un tale che si chiamava
Thomas Ravelli e che era l’eroe degli eroi per aver parato alcuni calci di rigore a Usa ’94. Personalmente non avevo mai sentito parlare di lui, ma mi guardai bene dal dire qualcosa. Non
volevo fare brutta figura, e poi ovviamente i Mondiali li avevo visti anch’io. Ma venivo da
Rosengård! Me ne fottevo altamente degli svedesi, io avevo fatto il tifo per i brasiliani, per
Romário e per Bebeto e così via, e l’unica cosa che mi interessava di quel Ravelli erano i suoi
calzoncini. Cercavo di capire dove avrei potuto rubarne un paio uguali.
Dovevamo vendere i biglietti di una lotteria per raccogliere fondi per il club, e io non avevo
la più pallida idea di che cosa diamine fosse questa lotteria. Non avevo mai sentito parlare di
gente come quel “Loket” della tv?* Comunque cominciai ad andare in giro per il quartiere a
bussare alle porte: «Salve, mi chiamo Zlatan. Scusate se disturbo. Non volete per caso comprare un biglietto della lotteria del Malmö?».
Non funzionò neanche un po’. Vendetti più o meno un biglietto, ma andò peggio con i calendari dell’Avvento. Di quelli ne vendetti tipo zero, e alla fine papà fu costretto a comprare
tutto lui per non farmi fare brutta figura. Non era giusto. Non ce lo potevamo permettere, noi,
non avevamo bisogno di altre cianfrusaglie in casa, e io non fui neanche particolarmente felice di poter aprire tutte le finestrelle di tutti i calendari già a novembre. Era un’autentica
stronzata, e non capisco come si possano mandare in giro dei ragazzi a mendicare a quel
modo.
Noi giocavamo a calcio ed eravamo un’annata di gente tosta. C’erano Tony Flygare, Gudmunder Mete, Matias Concha, Jimmy Tamandi, Markus Rosenberg, c’ero io... Tutti ragazzi in
gamba. Io miglioravo in continuazione, eppure le lamentele continuavano. Erano soprattutto i
genitori a non volersi arrendere: «Ecco che ricomincia». «Ecco che dribbla di nuovo!» «Lui
non è adatto alla squadra!»
Mi mandavano in bestia. Chi diavolo erano per stare lì a giudicarmi? Si è scritto anche
troppo sul fatto che io meditavo di abbandonare il calcio: quello non è vero, ma a un certo
punto stavo veramente per cambiare club. Non avevo nessun paparino nelle vicinanze che mi
difendesse, o che mi comprasse i vestiti più costosi. Io dovevo arrangiarmi da solo, e dappertutto c’erano quei distintissimi papà svedesi e i loro pargoli snob a spiegare perché ero
sbagliato. Chiaro che mi incazzavo! Inoltre ero inquieto. Io volevo avere azione, azione!
Avevo sempre bisogno di qualcosa di nuovo.
Johnny Gyllensjö, l’allenatore della squadra giovanile, lo venne a sapere e affrontò
l’argomento con il club. «Avanti» disse, «mica tutti possono essere biondi e pettinati... Stiamo
per perdere un grande talento.» E così prepararono un contratto che papà sottoscrisse. Mi
davano millecinquecento corone al mese, un bello stimolo si capisce, e io mi sforzavo sempre
di più ma ancora non brillavo più di tanto.
Era ancora soprattutto Tony a spiccare, e io cercavo di imparare tutto quello che potevo
per diventare almeno altrettanto bravo. Tutta la mia generazione conosceva i giochetti dei
brasiliani e quei numeri fantastici, e su questo ci pungolavamo a vicenda. C’era qualcosa del
campetto di casa anche al Malmö, e quando avevamo a disposizione dei computer scaricavamo i video delle giocate di Ronaldo, Romário e degli altri brasiliani. Li guardavamo e li riguardavamo, finché non capivamo perfettamente i movimenti: com’è che fanno? Com’è che fun-
ziona quella finta?
Poi ci esercitavamo sul campo, ancora e ancora, e alla fine ripetevamo quelle giocate in
partita. Eravamo in molti a farlo, ma io andavo un passo oltre. Approfondivo. Ero più meticoloso con i dettagli. Diventò quasi un’ossessione.
Quei numeri a effetto erano sempre stati il mio modo per mettermi in mostra, e continuavo
a dribblare, per quanto i papà e gli allenatori si lamentassero. Volevo imparare la tecnica,
perciò non mi adeguavo totalmente alle richieste. Io volevo essere diverso. Volevo seguire
anche gli allenatori, ed ero migliorato in questo, ma non era sempre facile: sicuramente ero
influenzato dalla situazione che avevo a casa. C’erano molte tensioni che avevo bisogno di
scaricare.
Alla Sorgenfriskolan avevano messo un’insegnante di sostegno solo per me. Mi arrabbiai
moltissimo. Ok, ero disordinato. Forse ero anche il peggiore di tutti. Ma un’insegnante di
sostegno... Andiamo! Avevo cinque, ossia il massimo del punteggio, in educazione artistica e
quattro in inglese, chimica e fisica. Quindi non ero esattamente un giovane tossico. Avevo a
malapena tirato una boccata da una normale sigaretta. Ero solo irrequieto e facevo un sacco
di cazzate. Eppure si parlava addirittura di mettermi in una scuola speciale. Dentro di me
cominciavo a ticchettare come una bomba. C’è bisogno di dire che ero bravo anche in educazione fisica? Forse in classe ero un tantino distratto e avevo difficoltà a stare seduto fermo
davanti ai libri, ok. Ma ero anche capace di concentrarmi, se parliamo di tirare un pallone o
delle uova. Un giorno ci fecero giocare a hockey e quella famosa insegnante di sostegno
venne a guardarci. A ogni minima mossa che facevo eccola lì, come a voler porre rimedio. A
un certo punto andai in bestia: tirai una cannonata e la centrai dritto in testa. Lei rimase completamente scioccata, e continuava a fissarmi incredula; dopo telefonarono a papà per parlare di aiuto psichiatrico e scuola speciale e tutto quel genere di cose, e certamente capite
che non erano gli argomenti giusti di cui discutere con lui. Nessuno può parlare male dei suoi
figli, tantomeno insegnanti che li perseguitano. Andò su tutte le furie e marciò sulla scuola con
il suo mitico stile da cowboy: «Chi cazzo siete voi, eh? Venire a parlare di aiuto psichiatrico?
Ci finirete di sicuro tutti quanti voi al manicomio, ma mio figlio non ha nessun problema, lui è il
ragazzo migliore che c’è, andate all’inferno!».
Era il prototipo dello slavo pazzo, e non molto tempo dopo quella famosa insegnante
smise di venire. Le cose migliorarono un po’ e mi ritornò la fiducia in me stesso. Ma la faccenda in sé! Un’insegnante speciale solo per me! È una cosa che ancora adesso mi fa impazzire. Certo, magari non ero un bravo bambino ordinato, ma non si possono selezionare i
ragazzi a quel modo! Non è giusto!
Se oggi qualcuno dovesse trattare Maxi e Vincent come se fossero diversi, mi incazzerei
a morte. Garantito. Diventerei peggio di papà quel giorno! Quella storia del trattamento spe-
ciale mi è rimasta dentro, mi fece proprio star male. Ok, forse sul lungo periodo mi rese più
forte, non so, ma sul breve mi rovinò l’esistenza.
Sapete, un giorno avevo un appuntamento con una ragazza, e non ero particolarmente
sicuro con le ragazze a quei tempi. Il tipo con l’insegnante di sostegno alle calcagna, pensa
che figo! Solo chiederle il numero di telefono mi lasciava in un bagno di sudore! Ai miei occhi
era una tipa fantastica, e riuscii giusto a spiccicare: «Ti va di vederci qualche volta dopo la
scuola?».
«Certo, senz’altro» rispose.
«Che ne diresti di Gustav alla tal ora?»
Gustav è la piazza Gustav Adolf che si trova fra il Triangolo e la piazza Grande in centro a
Malmö, e a lei sembrò andare bene. Ma quando poi io arrivai e di lei non c’era ombra cominciai a essere terribilmente nervoso. Non era la mia zona, mi sentivo insicuro. Perché non arriva? Forse non le piaccio più? Passarono un minuto, poi due, tre, dieci minuti, e alla fine non
ce la feci. Era la più tremenda delle umiliazioni. “Di sicuro mi ha tirato il bidone” pensavo. “Chi
mai vorrebbe avere un appuntamento con me?” E così me ne andai. “Chi se ne frega di
quella. Io diventerò comunque una stella del calcio.”
Ma in realtà avevo fatto la cosa più stupida. L’autobus era solo un po’ in ritardo, e lei arriv lì subito dopo che ero andato via e ci rimase male tanto quanto me.
* Leif “Loket” Olsson ha condotto per anni il popolarissimo show svedese Bingolotto.
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Ero stato ammesso per le superiori alla Borgarskolan, corso socioeconomico con speciale indirizzo calcistico, e avevo grandi aspettative. Mi dicevo: “Adesso cambierà tutto! Adesso diventer veramente figo!”. Ma in realtà fu un vero shock. Ok, un po’ ero preparato.
Avevo pur sempre i miei ragazzi perbenino di Limhamn in squadra, ma ora in giro per
scuola c’erano anche le ragazze e altri tipi di ragazzi, soggetti tutti azzimati che se ne stavano
negli angoli a fumare. Da dove venivo io ci si vestiva in tuta e scarpe da ginnastica, con tanto
di marchi Adidas o Nike bene in vista. Erano le cose più cool, si pensava, e io andavo sempre
in giro così. Quello che non capivo era che equivaleva ad andare in giro con su scritto in
fronte: Rosengård! Era come un marchio. Come se avessi ancora alle calcagna quella
famosa insegnante di sostegno.
Alla Borgarskolan vedevo le felpe firmate Ralph Lauren, le Timberland e la camicia, e
basta! Io non avevo quasi mai visto un ragazzo con la camicia prima, e mi resi subito conto
che urgevano provvedimenti. C’era una quantità assurda di ragazze molto carine, ma non era
pensabile avvicinarle con l’aria del peggior buzzurro di periferia. Ne parlai con papà e ne
nacque la litigata del secolo. Esisteva qualcosa che si chiamava contributo per gli studi.
Erano settecentonovantacinque corone al mese e per papà era ovvio che se le sarebbe intascate lui, dal momento che sosteneva il costo del mio mantenimento, come amava ripetere. Io
gliela posi in un’altra prospettiva: «Non posso mica essere l’ultimo degli imbecilli a scuola!».
In qualche modo accettò il ragionamento. Ottenni il mio contributo per gli studi, un conto in
banca e una di quelle carte di credito prepagate. Il contributo arrivava il venti di ogni mese, e
molti dei miei amici erano già lì davanti al bancomat alle 23.59 del giorno prima ad aspettare,
matti d’impazienza. «Non sarà mezzanotte fra poco, tipo? Dieci, nove, otto...» Io ero un
tantino più rilassato, ma il mattino dopo avevo comunque già prelevato una buona parte del
contributo ed ero corso a comprare un paio di jeans Davis. Erano i meno cari, costavano duecentonovantanove corone, e forse ci aggiunsi anche qualche polo in piquet, tre per novantanove corone.
Provai stili diversi ma nessuno funzionava: avevo sempre Rosengård scritto in faccia. I
vestiti nuovi non mi stavano bene, o almeno questa era la mia impressione. Ero stato piccolo
per tutta la vita ma quell’estate crebbi in maniera spropositata, tredici centimetri in qualche
mese, e dovevo avere un’aria piuttosto stranita. Avevo bisogno di farmi valere, molto semplicemente, e per la prima volta in vita mia cominciai veramente a frequentare il centro,
cazzeggiando al Burger King, al Triangolo, e in Lilla Torg.
Facevo anche cose un po’ più brutte, e non soltanto per il gusto del brivido. Oltre ai vestiti
mi occorrevano gli accessori giusti, altrimenti non avevo nessuna chance nel cortile della
scuola. Così per esempio fregai a un ragazzo il suo Minidisc Sony. Avevamo degli armadietti
fuori dalle aule con piccole serrature con il codice, e da un amico avevo saputo il numero segreto di uno di quei famosi fighetti. In un momento in cui non c’era andai all’armadietto e...
cinque a destra, tre a sinistra e via in sella alla bici con il Minidisc ad ascoltare le sue canzoni
e a sentirmi superfigo. Ma evidentemente non bastava. Ancora non avevo granché da offrire,
restavo sempre un ragazzo di periferia. Un mio amico, anche lui di Rosengård, era stato più
dritto: si era messo con una ragazza di buona famiglia e si era fatto amico suo fratello, così
da prendere in prestito i suoi vestiti. Un bel trucco, senz’altro, anche se non funzionava fino in
fondo. Noi dei sobborghi non riuscivamo mai a integrarci davvero, eravamo diversi.
Comunque il mio amico adesso girava con addosso le marche più fighe e costose, aveva una
tipa cool e si dava un sacco di arie. Io mi sentivo uno zero. Dovevo accontentarmi di andare
avanti con il calcio.
Ma non girava per il verso giusto nemmeno su quel fronte. Al Malmö ero riuscito a entrare
negli juniores e giocavo con ragazzi che avevano un anno più di me, e già quella era stata
un’impresa. Eravamo un gruppo fantastico, una delle squadre migliori del Paese nella nostra
categoria, ma io stavo quasi sempre in panchina. Così aveva deciso Åke Kallenberg. Un allenatore può ovviamente far giocare chi vuole, ma sono convinto che non si trattasse solo di
una scelta tecnica. Quando davo il cambio a qualcuno facevo spesso gol. Non ero male. Ma
ero sbagliato per altri versi, questo pensavano.
Si diceva che non contribuivo abbastanza al gioco di squadra. «I tuoi dribbling non portano avanti il gioco!» Sentivo questo genere di commento centinaia di volte, e sentivo anche
mormorare: «Quello Zlatan, per esempio! Non è un mezzo squilibrato?». Non si trattava più di
raccolte di firme ma poco ci mancava, ed è vero: io avevo spesso da ridire con i compagni di
squadra; urlavo e parlavo troppo in campo; arrivavo a mandare affanculo anche gli spettatori.
Non che si trattasse di cose gravi, ma avevo il mio carattere e il mio stile. Ero un tipo di giocatore diverso da quello che loro volevano e mi incazzavo. Non ero del tutto a mio agio nel
Malmö, erano in tanti a vederla così.
Ricordo che ci qualificammo per la finale del campionato, e ovviamente eravamo su di giri.
Ma Åke Kallenberg non mi mise in campo. Anzi, non mi portò neppure in panchina.
«Zlatan è infortunato» disse davanti a tutti, e io sobbalzai. Come, infortunato? Che razza
di sciocchezza era? Glielo andai a dire. «Ma cosa stai facendo? Come puoi dire una cosa del
genere?»
«Tu sei infortunato» ripeté, e io non volevo crederci. Perché tirava fuori una storia di
questo tipo proprio ora che dovevamo giocare la finale?
«Lo dici soltanto perché non vuoi farmi giocare.»
Ma niente, lui mi considerava infortunato e io ci diventai matto. Era tutto un segreto, nessuno diceva come stavano le cose, nessuno aveva le palle per farlo. Comunque il Malmö
vinse la finale senza di me e non fu esattamente un bene per la mia autostima. Certo, sì, io
avevo detto un sacco di cose arroganti in quei mesi, come quando il mio insegnante d’italiano
mi sbatté fuori dall’aula e io risposi: «Chi se ne frega. Imparerò comunque la lingua quando
diventerò un calciatore professionista in Italia», e la cosa forse suona divertente sapendo poi
come è andata a finire.
Ma allora le mie erano solo parole di sfida, non è che ci credessi veramente. Come avrei
potuto, quando non ero nemmeno titolare nella squadra juniores?
Il Malmö è tipo la squadra più bella del Paese. Quando papà era arrivato in Svezia, negli
anni Settanta, dominava il campionato, era perfino arrivata a una finale di Champions League
(o Coppa dei Campioni, come si chiamava allora) e quasi nessuno degli juniores riusciva a
entrarci, la dirigenza preferiva prendere giocatori da altri club importanti. Ma quell’anno la
situazione era cambiata. Senza che nessuno capisse veramente perché, le cose andavano
male e la squadra, che era sempre stata ai vertici del campionato, rischiava di retrocedere.
Giocavano male. La situazione economica era disastrosa, non c’erano soldi per acquistare
giocatori e così, finalmente, diversi giovani del vivaio si vedevano offrire una chance in prima
squadra. Potete immaginare quanto parlare si facesse fra noi juniores! «Chi prenderanno?
Lui oppure lui?»
Toccò a Tony Flygare, ovviamente, e poi a Gudmunder Mete e a Jimmy Tamandi. Quanto
a me, non mi prendevano nemmeno in considerazione: ero l’ultimo che poteva essere scelto.
Almeno così credevo. Perfino l’allenatore degli juniores mi teneva in panchina, perché la
prima squadra avrebbe dovuto chiamarmi? Non dovevo neppure sperarci, anche se non ero
meno bravo di Tony, Mete e Jimmy e l’avevo dimostrato tutte le volte che ero entrato in
campo. Dove stava il problema, eh? Che cos’avevano in mente? Tutti questi pensieri mi
ronzavano in testa, e mi convinsi sempre più che dietro c’era un sacco di politica.
Forse faceva figo essere diverso e un po’ più arrogante degli altri, ma alla lunga si rivelava
uno svantaggio. Quando si arriva al dunque, non si vogliono stranieri squilibrati, teste matte
fissate con i giochetti brasiliani. Il Malmö era pur sempre il più orgoglioso club svedese.
All’epoca del massimo splendore tutti i giocatori erano biondi e diligenti e avevano nomi tipo
Bosse Larsson e dicevano solo cose carine e gentili, dopodiché non avevano preso in
squadra molta gente di origine straniera. Ok, c’era stato Yksel Osmanovski, che allora
giocava nel Bari. Anche lui veniva da Rosengård, ma era un tipo tranquillo. Io avevo il mio
contratto da dilettante e dovevo accontentarmi di quello e dell’Under 20.
L’Under 20 era una squadra che avevano creato in concomitanza con il liceo del calcio
alla Borgarskolan. Negli juniores si arrivava fino ai diciotto anni, nell’Under 20 il limite d’età
era appunto venti. Non eravamo stati presi in tanti, non abbastanza per formare una squadra,
ma l’idea era di impedirci di lasciare il club, e spesso giocavamo con i ragazzi della seconda
squadra, facevamo amichevoli contro squadre di Terza Divisione e così via. Non era niente di
straordinario, ma io avevo un’ulteriore possibilità di mettermi in mostra.
A volte ci allenavamo con la prima squadra, e allora rifiutavo di adeguarmi a certe regole
non scritte. Normalmente uno junior non si mette a fare dei dribbling del cazzo in tali circostanze, evita di entrare duro e non si mette a gridare cose tipo: «Idiota!» a qualche stella della
prima squadra. Ma io pensavo: “Perché no? Non ho niente da perdere”. Davo tutto. Ci andavo giù duro e sì, me ne accorgevo che parlavano di me, «Chi si crede di essere e bla bla
bla», e io rispondevo: «Andate all’inferno!» e tiravo dritto. Facevo il mio gioco. Mettevo su la
mia aria spavalda e certe volte mi sentivo addosso anche lo sguardo di Roland Andersson,
l’allenatore della prima squadra.
All’inizio si accesero in me grandi speranze, ma poi furono soffocate da tutto lo schifo che
accadeva intorno. Dopo un po’ iniziai a dirmi: “Di sicuro avrà sentito qualche lamentela sul
mio conto” e mi sentivo sempre più deluso. Non avevo molto successo neanche altrove, tantomeno a scuola: ero ancora timido e insicuro e spesso in pausa pranzo mi avventavo sui piatti senza scambiare due parole con nessuno. Mangiavo come un lupo, in mensa, anche
perché non sapevo mai a casa come fosse la situazione sul fronte del cibo. Delle altre cose
più o meno me ne sbattevo: studiavo sempre meno e a casa c’erano un sacco di casini.
Era come un campo minato, io mi facevo in disparte e mi dedicavo ai miei numeri brasiliani al campetto e agli allenamenti, a scuola stavo molto davanti al computer, e nella mia
stanza appendevo foto di Ronaldo. Lui era il migliore. Non solo per le finte e per i gol ai Mondiali, Ronaldo era fantastico a tutti i livelli. Era esattamente il tipo che volevo diventare: un
ragazzo che faceva la differenza. I giocatori della Nazionale svedese che sfigati erano? Non
c’era nessuna superstar, nessuno di cui si parlasse in giro per il mondo. Ronaldo invece era il
mio eroe, lo studiavo su Internet e cercavo di imparare i suoi movimenti, e credo che diventai
piuttosto bravo. Avanzavo danzando con il pallone.
Ma che cosa ci ricavavo? Niente, pensavo allora. Ero convinto che il mondo fosse
ingiusto, che ragazzi come me non avevano alcuna possibilità e che non sarei mai diventato
un campione, qualsiasi qualità potessi avere. Ecco qual era la situazione. Ero tagliato fuori.
Ero sbagliato e dovevo trovare altre strade, ma non avevo la forza di impegnarmici seriamente. Andai solo avanti a giocare, e uno di quei giorni avevo un incontro con l’Under 20 sul
campo numero uno, che adesso non esiste più, ma era un campo in erba e si trovava proprio
accanto al Malmö Stadion. Dopo la partita, non mi ricordo più contro chi giocavamo, venni a
sapere che Roland Andersson, il mister della prima squadra, voleva parlarmi. Fui preso dal
panico.
“Cos’ho combinato stavolta? Ho rubato una bici? Ho dato una testata a qualcuno o portato
via troppe tute?” Ripassai mentalmente tutte le cazzate che avevo fatto, e non erano poche,
ma non capivo come qualcuna di queste potesse essere arrivata fino a lui, e cominciai a
pensare a mille giustificazioni. Ecco, Roland è un tipo chiassoso, con un vocione profondo. È
simpatico, ma piuttosto severo. Uno che domina la scena, insomma, e credo che il mio cuore
andasse a mille. Roland Andersson, avevo sentito dire che aveva giocato il Mondiale ’78 in
Argentina: non era soltanto una delle vecchie glorie del Malmö, aveva giocato anche in
Nazionale! Un tipo di tutto rispetto, insomma, e adesso era seduto alla sua scrivania, senza
l’ombra di un sorriso. Aveva l’aria molto seria, e pensai tipo: “Ecco, adesso mi ribalta”.
«Salve Roland. Come va? Mi cercavi?»
Cercavo sempre di fare un po’ il disinvolto, un po’ il duro. Era una cosa che mi portavo dietro fin dall’infanzia: mai farsi vedere deboli o colpevoli.
«Siediti.»
«Ok, non ti scaldare. Non ho ucciso nessuno, giuro.»
«Zlatan, è ora che smetti di giocare con i mocciosi.»
“Con i mocciosi? Ma di che sta parlando?” pensai. “E cosa ho fatto adesso ai ragazzini?”
«Cosa, cosa?» dissi. «Ti riferisci a qualcosa di speciale?»
«È ora che cominci a giocare con i grandi.»
Io continuavo a non capire.
«Eh?»
«Benvenuto in prima squadra, ragazzo» continuò lui, e quella sensazione francamente
non la posso descrivere, non ci riuscirò mai. Era come se mi avessero sollevato a dieci metri
da terra, e ci scommetto che, una volta fuori, fregai un’altra bici e mi sentii il ragazzo più figo
della città.
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Al Malmö avevamo una cosa che si chiamava il Miglio.
Il Miglio era un maledetto, lunghissimo percorso. Partivamo di corsa dallo stadio in
direzione della torre del serbatoio idrico, poi giù lungo Limhamnsvägen, passando davanti a
tutte quelle case care come il fuoco e con la più spettacolare vista sul mare. Ce n’era una in
particolare, ricordo, che era rosa e magnifica e noi pensavamo tipo: “Wow, chissà chi è che ci
abita lì dentro... Quanto devono essere ricchi sfondati?”.
Poi continuavamo verso Kungsparken, passavamo sotto un tunnel e quindi arrivavamo
alla Borgarskolan, in posizione perfetta per essere visti da tutte le ragazze e dai fighetti figli di
papà. Quanta forza mi dava questa cosa! Era la mia rivincita. Eccomi lì, il buzzurro di
Rosengård che quasi non aveva il coraggio di parlare con una ragazza, a correre con campioni del Malmö come Mats Lilienberg eccetera. Era una sensazione incredibile, e io cercai di
sfruttarla un po’.
All’inizio ci davo dentro. Ero nuovo in prima squadra e volevo dimostrare quanto valevo.
Ma poi colsi il punto focale della faccenda: certo, bisognava allenarsi con serietà e tutto, ma
l’importante ovviamente era far colpo sulle ragazze. Per questo io, Tony e Mete mettemmo a
punto un certo numero di trucchi: per esempio correvamo i primi quattro chilometri e poi, in
Limhamnsvägen, deviavamo come nulla fosse verso la fermata dell’autobus. Nessuno se ne
accorgeva. Ci mettevamo in coda al gruppo, così potevamo staccarci, aspettare tranquillamente l’autobus e salirci sopra. Ovviamente ridevamo come matti. Che gran figata! Ma nel
superare il resto della squadra dovevamo abbassarci giù piatti per non farci vedere. Alla fine
di quella lunga strada saltavamo giù, perfettamente riposati e molto prima degli altri, e ci nascondevamo in qualche angolo. Quando la squadra passava di corsa ci accodavamo, ed
eravamo belli freschi per passare baldanzosi davanti alla scuola. “Wow!” pensavano sicuramente le ragazze, “quei ragazzi sembrano proprio forti come tori!”
Un’altra volta, mentre percorrevamo il Miglio, dissi a Tony e Mete: «Basta con questo
autobus. Freghiamo una bici, invece». Credo che fossero un po’ titubanti ad accettare, e poi
non avevano la stessa esperienza che avevo io nel settore. Ma riuscii a convincerli, e rubai
una bicicletta filando via con loro sul portapacchi. Queste erano le nostre imprese. Io non ero
esattamente il ragazzo più maturo della città, e del resto Tony era un cazzone pure lui. Ricordo che a un certo punto gli venne la fissa dei film porno, così un giorno andò a noleggiarne
uno e a comprare della cioccolata anziché correre, e poi ci sedemmo a mangiarla mentre gli
altri della squadra facevano il loro miglio di allenamento.
Per fortuna Roland Andersson credeva alle nostre giustificazioni. O magari non ci credeva. Era bravo. Ci capiva, era una persona di spirito. Ma è chiaro, in squadra iniziavano i
mugugni: «Chi si crede di essere quel ragazzo, Zlatan? Perché non dimostra un po’ di
umiltà?», e mi toccava sentire la stessa vecchia solfa: «Dribbla troppo. Non pensa alla
squadra». Una parte di queste cose era giusta, assolutamente! Però c’era anche invidia: i
giocatori avvertivano subito la concorrenza, e io non ero solo un imbroglione.
Lavoravo come un mulo, e non mi accontentavo degli allenamenti con il Malmö. Giocavo
anche nel campetto vicino a casa della mamma, ora dopo ora. E poi in strada. Uscivo per
Rosengård e gridavo ai ragazzini: «Vi do dieci corone se riuscite a fregarmi la palla!», e non
era solamente un gioco: serviva ad affinare la mia tecnica, a migliorarmi nella protezione del
pallone con il corpo.
Quando non facevo le acrobazie con i ragazzini, mi dedicavo ai videogiochi di calcio.
Ero capace di giocare dieci ore di fila, e spesso vedevo soluzioni di gioco che poi applicavo nella vita reale. Era Football Round the Clock, si può dire. Ma nel Malmö, agli allenamenti, non era come nei videogiochi, e forse esageravo con i miei numeri. All’improvviso, era
come se fosse piovuto in squadra qualcosa di totalmente irrazionale, un ragazzo che non
riuscivano a capire. Voglio dire, non c’è nessuno che non si adatti a questa o a quella
situazione, o che non scelga cosa dire e cosa non dire in un dato contesto. Ma io... io venivo
da un altro pianeta, e continuavo a combinare pazzie in stile Rosengård.
Nel club, poi, c’era una buona dose di nonnismo. Noi giovani dovevamo portare i borsoni
e tutto il resto ai vecchi ed essere a loro disposizione. Per me era ridicolo, e fin dal principio
l’atmosfera non era delle migliori. All’inizio della stagione Tommy Söderberg, il CT della
Nazionale, aveva pronosticato che avremmo vinto il titolo, ma da allora era andata storta una
cosa via l’altra e adesso il club rischiava di finire in Seconda Divisione. Era la prima volta in
oltre sessant’anni, i tifosi erano inferociti e i veterani della squadra avevano una pressione
enorme sulle spalle.
Sapevano tutti che cosa avrebbe significato per la città la retrocessione: un’autentica catastrofe. Quindi non era certo il momento giusto per party e brasilianate. Ma sapete, io ero
ancora al settimo cielo per essere stato preso in prima squadra e volevo dimostrare tutto il
mio valore. Ok, lo ripeto, non era il momento più adatto, ma quella smania ce l’avevo nel
sangue. Ero in un nuovo gruppo, volevo stupire tutti e mi rifiutavo di farmi schiacciare.
Quando Jonni Fedel, il portiere, già il primo giorno gridò: «Dove cazzo sono i palloni?», io rimasi di sasso, soprattutto quando mi accorsi che tutti mi guardavano e parevano aspettarsi
che li andassi a prendere io. Ma non ci pensavo nemmeno, non quando qualcuno mi si rivolgeva in quel modo.
«Se li vuoi, vatteli a prendere!» replicai, e non era il modo consueto di rispondere, al
Malmö.
Era di nuovo lo stile di periferia, ma avevo l’appoggio di Roland e dell’allenatore in
seconda, Thomas Sjöberg. Lo sentivo, anche se loro credevano soprattutto in Tony: lui poté
giocare e fece anche gol all’esordio. Io ero una riserva e quindi cercavo di impegnarmi ancora
di più in allenamento. Ma non serviva, e imprecavo. Forse avrei dovuto accontentarmi e non
avere fretta, ma non è così che funziono. Non vedevo l’ora di entrare in campo e spaccare
tutto. Ma sembrava non ci fossero speranze, finché il 19 settembre incontrammo l’Halmstad a
Örjans Vall.
Si trattava di un match decisivo. Se avessimo vinto o pareggiato, saremmo rimasti in
Prima Divisione, in caso contrario ci aspettavano i playout: tutti erano nervosi e impauriti.
All’inizio del secondo tempo il nostro attaccante, Niklas Gudmundson, fu portato fuori in
barella e io sperai di poter entrare in campo. Ma niente, da Roland neppure uno sguardo, il
tempo passava e non succedeva nulla. Eravamo sull’uno a uno, e a noi naturalmente
sarebbe bastato, ma a un quarto d’ora dal termine anche il nostro capitano Hasse Mattisson
s’infortunò e subito dopo l’Halmstad segnò il gol del vantaggio. Vidi impallidire tutta la
squadra.
Finalmente Roland mi fece entrare e, mentre tutti gli altri erano ancora sotto shock, io
partii in quarta carico di adrenalina. Avevo diciassette anni. Era la Prima Divisione e sugli
spalti c’erano diecimila spettatori. Sulla mia maglia c’era scritto Ibrahimovi. Era... wow, grandioso, del tipo: «Provate a fermarmi!», e subito feci un tiro in porta che sfiorò la traversa. Ma
poi, proprio negli ultimi minuti, l’arbitro ci diede un rigore. Potete capire... Era una questione di
vita o di morte. Segnando avremmo salvato l’onore del club, altrimenti sarebbe stato il disastro. Tutti i ragazzi della vecchia guardia erano titubanti, nessuno osava farsi avanti per tirare. C’era davvero troppo in gioco, così si fece avanti quel bullo di Tony: «Ci penso io!».
Un bel coraggio. Adesso, a posteriori, penso che qualcuno avrebbe dovuto fermarlo. Era
troppo giovane per farsi carico di una responsabilità del genere, e ho impressa in mente
l’immagine di lui che prende la rincorsa mentre tutta la squadra tratteneva il respiro, o distoglieva lo sguardo. Fu orribile. Il portiere parò, dopo aver fatto una piccola finta per ingannare Tony, e perdemmo. Da quel momento Tony finì nel congelatore, povero ragazzo, e so di
giornalisti che videro in quell’errore un significato simbolico.
Fu il momento in cui gli passai davanti nella gerarchia. Tony non fece mai veramente
ritorno ai vertici, e invece io potei giocare di più. Feci sei apparizioni in campionato, sempre
entrando a partita in corso, e diventai sempre più bravo. In una qualche intervista Roland mi
definì un diamante grezzo, un’immagine che fece presa, così che presto cominciarono a farsi
avanti i ragazzini dopo le partite a chiedere il mio autografo. Non che fosse una gran cosa,
però ricordo che mi caricava, e che pensavo di dover diventare ancora più forte, per non deludere quei ragazzini.
«Guardate qui!» avrei voluto gridare loro. «Questa è la cosa più bella del mondo!» e in realt era un po’ strano, o no? In fondo non avevo ancora fatto niente di eccezionale. Eppure
spuntavano giovani fan come dal nulla, e a me venne ancora più voglia di dare spettacolo.
Quei ragazzini in un certo senso mi davano ragione sul mio modo di giocare. Mica sarebbero
venuti, se fossi stato il più noioso della squadra! Cominciai a giocare per loro, e già dal primo
momento feci molta attenzione a concedere ogni singolo autografo che mi venisse chiesto.
Nessuno doveva rimanere senza. Ero giovane anch’io, capivo esattamente che cosa
avrebbero provato se gli amici avessero avuto un autografo e loro no, e volevo rendere felici
quei ragazzini.
«Tutti contenti?» chiedevo sempre prima di scappare via, e in generale succedevano così
tante cose intorno a me che non mi curavo granché dei casini della squadra.
In un certo senso era folle. Io stavo diventando un nome mentre il mio club attraversava la
crisi più nera di tutto il secolo. Quando perdemmo in casa anche contro il Trelleborg, i tifosi
sugli spalti piangevano e gridavano a Roland di andarsene. Dovette perfino intervenire la polizia per proteggerlo; ci furono una sassaiola contro il pullman del Trelleborg e incidenti. Le
cose non migliorarono certo qualche giorno più tardi, quando fummo umiliati dall’AIK e la disfatta fu totale.
Retrocedemmo. Per la prima volta in sessantaquattro anni il Malmö non avrebbe giocato
in Prima Divisione, e negli spogliatoi i giocatori sedevano sconsolati nascondendosi la faccia
sotto asciugamani e magliette, mentre i dirigenti cercavano di incoraggiare e consolare o che
altro. Mentre crescevano la frustrazione e la vergogna, molti di sicuro pensavano che io fossi
una specie di diva che aveva pensato solo a fare i suoi bei numeri anche in partite così determinanti. Ma io fondamentalmente me ne sbattevo. Avevo altro a cui pensare. Era successa
una cosa incredibile.
Era stato proprio appena dopo il mio passaggio in prima squadra. Ci stavamo allenando
sul campo numero uno e certo, eravamo il Malmö, eravamo o eravamo stati l’orgoglio della
città. Ma non venivano in molti ad assistere agli allenamenti, soprattutto in quel periodo. Però
quel pomeriggio fece la sua comparsa un vecchio dai capelli grigio ferro. Lo scorsi da lontano,
ma senza riconoscerlo. Notai solo che ci fissava dagli alberi giù in fondo al campo, e mi sentii
un po’ strano, come se intuissi qualcosa: cominciai a fare ancora più numeri. Passò però del
tempo prima che capissi davvero.
Per tutta l’infanzia avevo dovuto arrangiarmi da solo, intorno a me avevo avuto come il
vuoto e sì, certo, papà aveva anche fatto enormi sacrifici, tipo rinunciare a pagare l’affitto pur
di farmi partecipare ai viaggi con la squadra. Ma non era mai stato come gli altri papà che vedevo. Non veniva a vedermi alle partite, né mi aveva incoraggiato con la scuola. Aveva avuto
il suo bere e la sua guerra e la sua musica slava. Ma non potevo proprio crederci: quel vecchio era davvero papà! Era venuto a vedermi, e io rimasi letteralmente senza parole. Mi sembrava di sognare e cominciai a giocare con un’energia assurda. Incredibile, papà è qui! Era
pazzesco. «Guarda, papà, guarda» avrei voluto gridare, «tuo figlio è il giocatore più forte del
mondo!»
Credo che sia stato uno dei momenti più importanti per me. Giuro. Avevo di nuovo mio
padre. Non che prima non l’avessi avuto, nei momenti critici era sempre intervenuto come
l’incredibile Hulk. Ma qui era qualcosa di nuovo, e dopo corsi da lui e gli parlai in modo così,
un po’ disinvolto, come se fosse la cosa più naturale del mondo che fosse lì.
«Allora?»
«Bravo, Zlatan.»
Era assolutamente pazzesco. Papà doveva essere fuori di testa. In breve diventai la sua
droga, cominciò a seguire tutto quello che facevo, veniva ad assistere a ogni singolo allenamento. La sua casa diventò una specie di museo dedicato alla mia carriera: ritagliava ogni
singolo articolo, ogni piccolo trafiletto, e così ha sempre continuato a fare. Chiedetegli oggi di
una qualsiasi delle mie partite, ce le ha registrate in testa, e ha anche ogni singola parola che
è stata scritta a commento; e poi tutte le maglie e le scarpe che ho indossato, i premi e i Palloni d’Oro svedesi. C’è tutto, e non in disordine, come succedeva prima: ogni cosa è al suo
posto, è capace di trovarla nel giro di un secondo, ha tutto sotto controllo.
A partire da quel giorno, sul campo numero uno, cominciò a vivere per me e per il calcio,
e credo che lo abbia fatto stare meglio. Non aveva avuto una vita facile. Era solo. Sanela
aveva rotto con lui per via del bere e del suo caratteraccio, e di tutte le parole dure che aveva
detto sulla mamma, e questo lo aveva profondamente ferito. Sanela era la luce dei suoi occhi,
e lo sarà sempre, ma adesso per lui non c’era più. Lei aveva tagliato i ponti, un’altra di quelle
vicende pesanti di casa mia, e papà aveva bisogno di qualcosa di nuovo. Cominciammo a
parlare tutti i giorni, e questa cosa diventò un nuovo stimolo anche per me. “Wow, il calcio
può davvero fare grandi cose” pensavo, e ci diedi dentro con ancora maggiore energia. Che
cos’era mai una retrocessione in Seconda Divisione, ora che papà era diventato il mio supporter più sfegatato?!
Però non sapevo che fare. Giocare in Seconda Divisione o cercare di cambiare aria?
C’era stato qualche articolo in cui si diceva che l’AIK mi aveva messo gli occhi addosso, ma
non avevo idea di quanto fosse vero, né di quanto fossi davvero richiesto sul mercato: in
fondo non ero neppure titolare nel Malmö, perciò sia io sia papà eravamo esitanti. Avevo diciotto anni e dovevo firmare il contratto con la prima squadra, ma continuavo a rimandare.
Tutto appariva incerto, in particolare da quando Roland Andersson e Thomas Sjöberg erano
stati esonerati. Erano stati loro due a credere in me quando tutti gli altri si lagnavano. Avrei
potuto giocare di più, se fossi rimasto? E poi non ne avevo la più pallida idea: quant’ero bravo
veramente?
Non avevo nessuna visione precisa della cosa. Avevo firmato un bel po’ di autografi ai
ragazzini, ma naturalmente non significava nulla, e la fiducia in me stesso continuava a subire
alti e bassi, la prima ondata di ebbrezza per essere stato promosso in prima squadra cominciava a svanire. Ma poi incontrai un ragazzo di Trinidad e Tobago. Successe durante il precampionato. Lui era un tipo a posto, era in prova da noi e un giorno, dopo l’allenamento, mi si
avvicinò:
«Ehi, ragazzo» disse.
«Sì, cosa c’è?»
«Se non diventi professionista entro tre anni, sarà solo colpa tua!»
«Che cosa vorresti dire?»
«Hai sentito.»
Altroché se avevo sentito.
Ma mi ci volle un po’ per digerirlo. Poteva essere vero? Se l’avesse detto qualcun altro,
difficilmente ci avrei creduto, ma quel ragazzo aveva l’aria di saperne, era stato in giro per il
mondo, e fui come percorso da una scossa. Era come diceva lui? Ero sul serio una grande
promessa? Cominciai a crederci. Mi impegnai ancora di più.
Hasse Borg, il vecchio difensore della Nazionale ed ex professionista in Germania, era diventato in quel periodo il nostro direttore sportivo e mi mise subito gli occhi addosso. Immagino che avesse capito il mio talento, e cominciò a parlare con i giornalisti, tipo: «Ehi, salve
gente, dovreste tenere d’occhio quel ragazzo», e nel febbraio dell’anno successivo si
presentò all’allenamento un reporter che lavorava per il «Kvällsposten» e si chiamava Rune
Smith. Era un tipo in gamba, sarebbe poi diventato quasi un amico, e dopo avermi visto
giocare chiacchierammo un po’, lui e io, nulla di straordinario. Parlai del Malmö e della
Seconda Divisione e dei miei sogni di diventare professionista in Italia, come Ronaldo, e
Rune annotava e sorrideva, e io non so di preciso che cosa si aspettasse da me, non avevo
nessuna esperienza di giornalisti a quei tempi. Ma ne venne fuori una cosa grandiosa. Nel
suo articolo Rune scrisse cose tipo: «Assaporare questo futuro nome da copertina, ZLATAN,
è eccitante. E lui lo è, eccitante. Un tipo di giocatore completamente diverso, una carica di dinamite in attacco», e poi citava di nuovo quella faccenda del diamante grezzo e io nell’articolo
parlavo un po’ da bullo e poco da fighetto svedese.
Quell’articolo fece scattare qualcosa. Adesso, dopo gli allenamenti, i giovani tifosi mi accerchiavano sempre più numerosi e iniziavano ad arrivare anche non poche ragazzine, e
perfino qualche adulto. Era l’inizio di tutta quell’isteria, di tutto quello «Zlatan, Zlatan!» che
sarebbe poi proseguito per il resto della mia vita e che all’inizio era così irreale. «Che cosa
sta succedendo? È proprio di me che parlano?»
Mentirei se non dicessi che era fantastico. Voglio dire, che cosa credete? Era tutta la vita
che cercavo di ottenere un po’ d’attenzione e adesso all’improvviso ecco che comparivano
degli ammiratori e mi stavano lì davanti con gli occhi sgranati e volevano avere il mio autografo. Chiaro che era una figata, era il massimo dello stimolo. Mi riempiva di adrenalina.
Volavo.
Sapete, ho sentito alcuni vip dire cose tipo: «Oh, che fatica, tutta quella gente che strilla
sotto le mie finestre. Vogliono il mio autografo. Povero me!». Sono tutte stronzate. Questo è
proprio il genere di cose che ti dà la carica, credetemi, soprattutto se si è fatta la vita che ho
fatto io, e si è stati ragazzini di periferia. È come se a un certo punto ti puntassero addosso il
riflettore più potente. È chiaro, c’erano cose che ancora non capivo, l’invidia e via dicendo,
quell’atteggiamento per cui molti vogliono tirare giù chi emerge, soprattutto se viene dal posto
sbagliato e non si comporta da bravo svedese perbene. C’era anche chi mi punzecchiava.
Sentivo dire a destra e a sinistra: «Tu hai avuto fortuna» e «Chi ti credi di essere?».
Io rispondevo diventando ancora più insolente. Che cos’altro potevo fare? Non ero stato
educato a chiedere scusa. Nella mia famiglia non si usa dire: «Scusa, scusa, quanto mi dispiace che ti sei arrabbiato!». Noi rispondiamo per le rime. Meniamo le mani se è necessario, e
non ci fidiamo della gente così per principio. Tutti in famiglia hanno preso le loro batoste, e
papà diceva sempre: «Non fare niente in modo precipitoso. La gente vuole solo sfruttarti». Io
ascoltavo, e riflettevo. Ma non era facile. In quel periodo Hasse Borg cominciò a corrermi dietro nel suo completo più elegante per convincermi a firmare il contratto con la prima
squadra.
Era molto insistente e la cosa mi lusingava, mi sentivo importante. Ma con il nuovo allenatore, Micke Andersson, non sapevo ancora quanto avrei potuto effettivamente giocare: in attacco sembrava voler puntare su Niclas Kindvall e Mats Lilienberg, tenendomi come riserva, e
io non volevo andare in Seconda Divisione e fare panchina.
Ne discussi con Hasse Borg: si possono dire un sacco di cose di lui ma non credo sia un
caso se ha avuto successo negli affari. Ha uno stile molto diretto, è tutto un: «Ehilà ragazzo,
come butta?», è un demonio della persuasione. Con me tirava fuori le esperienze della sua
stessa carriera sportiva, e ripeteva: «Vedrai che questo contratto è la cosa giusta, ragazzo.
Punteremo su di te e la Seconda Divisione sarà un vivaio perfetto, avrai la possibilità di crescere. Tu firma e basta!» e io sentivo di essere d’accordo.
Cominciai ad avere fiducia in Hasse. Mi telefonava in continuazione e mi dava consigli, e
io pensavo: “Hasse sa sicuramente il fatto suo. È pur sempre stato professionista in Germania e via dicendo, e sembra veramente avere a cuore il mio futuro”. «Gli agenti sono tutti
dei ladri» diceva sempre, e io gli credevo.
In quel periodo c’era anche un tipo che mi corteggiava, Roger Ljung. Dopo il ritiro era diventato un agente e voleva prendere la mia procura. Ma papà era scettico e io non sapevo
nulla di procuratori. Di che cosa si trattava? Perciò presi per buono il ragionamento di Hasse,
«Gli agenti sono dei ladri», e firmai il suo contratto. Il club mi diede un monolocale a Lorensborg, non lontano dallo stadio, e anche un cellulare, il che significava parecchio – quello a
casa di papà non avevo mai potuto usarlo – e infine uno stipendio mensile di sedicimila corone.
Ma in campo cominciò male. Il primo incontro della stagione fu in trasferta contro una
banda di mezze seghe, il Gunnilse, e avremmo dovuto stravincere. Ma la squadra non era
unita, e in più io rimasi a lungo seduto in panchina. Diavolo, era così che sarebbe andata? Il
pubblico era noioso e tirava vento e quando finalmente entrai in campo mi beccai subito una
brutta gomitata nella schiena. Io restituii il colpo all’avversario, bang, così senza mezzi termini, e poi andai anche a fare storie con l’arbitro che mi aveva dato il cartellino giallo. Quella
storia fece scoppiare un casino, sia in campo sia sui giornali, e Hasse Mattisson, il nostro
capitano, continuava a dire che io diffondevo energia negativa.
«In che senso, negativa? Io sono solo carico.»
«Tu non lasci mai perdere» ripeteva, e poi avanti con un sacco di spropositi sul fatto che
non ero per niente la stella che credevo e che anche gli altri sapevano fare benissimo i numeri che facevo io, soltanto non se ne vantavano tutto il tempo, credendosi dei gran
Maradona. Io la presi male. C’è un’immagine di me mentre sono lì fuori dal pullman a Gunnilse con l’aria imbronciata.
Poi però passò. Cominciai a giocare meglio, e oggi devo dare ragione a Hasse Borg: la
Seconda Divisione mi diede la possibilità di migliorare, in un certo senso dovevo essere grato
per la retrocessione dell’anno prima.
Abbastanza presto arrivarono altre novità. Era pazzesco. Non ero ancora esattamente un
Ronaldo, e i quotidiani svedesi di solito non si agitano granché per il calcio di Seconda Divisione, che allora era chiamata ancora con il nome un po’ ridicolo di Superettan... ma i giornali
della sera adesso facevano il paginone centrale con titoli del tipo: La Superdiva della Superettan, sugli spalti spuntavano ogni domenica più tifose, e tutti i giocatori più anziani della
squadra si domandavano: «Che cosa cazzo sta succedendo?». Effettivamente non era facile
da capire, tanto meno per me. Sugli spalti c’era gente che appendeva striscioni con su scritto
«Zlatan è il re» e lanciava urla da concerto rock quando mi esibivo in un dribbling. Di che
cosa si trattava? Non lo sapevo, e ancora non lo so fino in fondo. Ma immagino che a molti piacesse vedere i miei numeri e le mie acrobazie, e sentivo un sacco di «Wow» e «Oh, oh,
oh!», proprio come sul campetto di casa, e mi esaltavo.
Crescevo di una spanna quando la gente mi riconosceva in città, quando le ragazzine
strillavano e i ragazzini correvano lì con i loro quaderni degli autografi, allora io ci andavo giù
ancora più duro con il mio stile. Ma è chiaro, qualche volta esageravo. Con il primo stipendio
presi la patente seguendo un corso accelerato. Per un ragazzo di Rosengård si può dire tranquillamente che la macchina è fondamentale: a Rosengård la gente non si vanta di avere
l’appartamento più lussuoso o la villa con piscina, si vanta della macchina, e se uno vuol far
vedere che ha avuto successo nella vita lo fa con quella. A Rosengård guidano tutti, con o
senza patente, e quando ebbi la mia Toyota Celica in leasing io e i miei amici eravamo
sempre in giro.
Per fortuna nel frattempo mi ero anche calmato un po’. Tutto lo scalpore sui giornali mi
aveva indotto a comportarmi bene, o almeno un po’ meglio, e quando i miei amici cominciarono con i furti d’auto e questo genere di cose, dissi loro: «Io ormai ho chiuso con quella
roba».
Ma avevo comunque bisogno di qualche botta di adrenalina, e così una sera io e un
amico andammo in macchina su Industrigatan, dove si radunavano tutte le prostitute di
Malmö. Industrigatan non è lontana da Rosengård, io c’ero stato non poche volte da
ragazzino. Una volta avevo perfino lanciato un uovo in testa a una di quelle donne, solo come
bravata, una cosa molto poco simpatica, lo ammetto. Ma a quei tempi non è che riflettessi
granché. Comunque, quando quella sera io e il mio amico arrivammo lì sulla Toyota
vedemmo una prostituta china sul finestrino di una macchina, proprio come se stesse parlando con un cliente, e allora ci dicemmo: «Divertiamoci un po’ con quel maiale». Perciò
frenai di colpo proprio davanti a lui, ci precipitammo fuori e urlammo: «Polizia! Mani in alto!».
Era una gran stronzata, io agitavo perfino una bottiglia di shampoo come la più improbabile delle pistole, ma quel signore, un vecchio, si spaventò a morte, partì a razzo e scomparve. Noi non ci pensammo più, era solo una cosa che avevamo fatto così, tanto per fare.
Ma, tornando verso il centro, a un certo punto sentimmo delle sirene e dietro di noi, su una
macchina della polizia, era seduto quel vecchio. “Che succede adesso? Di cosa si tratta?”.
Chiaro, avremmo potuto dare gas e filarcela, non sarebbe stata la prima volta. Ma ecco,
avevamo le cinture allacciate e tutto quanto, e poi a ben vedere non avevamo fatto niente di
male. Perciò ci fermammo, da bravi ragazzi.
«È stata solo una stupidaggine» dicemmo. «Abbiamo finto di essere dei poliziotti. Niente
di grave, no? Ci dispiace tanto» e gli agenti più che altro risero, non era questa gran faccenda, tutto sommato.
Ma poi ecco che spunta un cretino, uno di quei fotografi che stanno lì ad ascoltare la radio
della polizia tutto il santo giorno; fece partire un flash e io, idiota, sorrisi pure da un orecchio
all’altro perché sapete, tutto il circo mediatico era una cosa nuova per me. Era ancora
emozionante finire sui giornali, a prescindere che fosse per il gol del secolo o per un fermo
della polizia. Per questo sorrisi come un pagliaccio, e il mio amico si spinse anche oltre: mise
in cornice l’articolo e lo appese al muro. E quel vecchio, lo sapete che cosa fece? Rilasciò un
sacco di interviste in cui diceva che lui in realtà era la persona più brava del mondo, un uomo
di chiesa che aiutava solo le prostitute. Ma andiamo! Così, la storia ebbe un sacco di strascichi e si disse addirittura che certi grandi club rinunciarono a prendermi per via di questa faccenda. Probabilmente erano tutte cazzate.
Ma da quel momento in poi la febbre sui giornali aumentò. Alcuni compagni si lamentavano di me e dicevano: «Ne ha ancora da imparare!», «È ancora molto grezzo», e in realt li capisco. Non dev’essere stato facile. Avevano sicuramente bisogno di farmi abbassare
un po’ la cresta. Ecco che arrivavo io dal nulla e ricevevo più attenzione in una settimana di
quanta ne avevano avuta loro in tutta la carriera. Come se non bastasse iniziarono a comparire su quelle squallide tribune nei buchi di provincia dove giocavamo in quella stagione diversi
tipi tutti azzimati e con i Rolex d’oro, gente che non aveva affatto l’aria di essere del posto e
che teneva gli occhi puntati su di me.
A posteriori non so dire quando iniziai a capire, o forse addirittura a rifletterci, ma cominciò
a girare voce che quei tali fossero osservatori di grandi club europei, e che fossero lì per visionare me. Quel ragazzo di Trinidad e Tobago mi aveva preparato alla cosa, è vero, ma mi
sembrava ancora del tutto irreale. Cercai di parlarne con Hasse, ma lui scantonava, sembrava non apprezzare l’argomento.
«È vero, Hasse? Ci sono club all’estero che sono interessati a me?»
«Calma, ragazzo.»
«Ma quali sono?»
«Non è niente» rispose lui. «E noi non vogliamo venderti.» Io pensai: “Certamente, ok,
tutta questa fretta non c’è”, e cercai invece di ridiscutere il mio contratto.
«Fai cinque buone partite di fila e ne riparliamo» disse Hasse, e io così feci: ci diedi dentro
di brutto per cinque, sei, sette partite, e così ci sedemmo al tavolo a fare quattro chiacchiere
sulle nuove condizioni.
Avrei avuto un aumento di stipendio di circa diecimila corone, più altre diecimila un po’ più
avanti, e per me eravamo a posto così. Ma poi andai da papà e, quando gli mostrai tutto orgoglioso il nuovo contratto, lui non rimase altrettanto impressionato. Adesso era il mio sostenitore più accanito e invece di interessarsi solo della guerra o di altro passava intere giornate a
informarsi su tutto quello che riguardava il calcio. Quando lesse il paragrafo sulla mia eventuale cessione a club stranieri sobbalzò.
«Ma che diavolo» disse, «qui non c’è scritto niente di quanto intascherai tu!»
«E quanto dovrei intascare?»
«Ti dovrebbero dare il dieci per cento sul prezzo del cartellino. Se no è sfruttamento!» Io
pensai che il dieci o il venti per cento l’avrei preso volentieri, ma non capivo come avremmo
potuto ottenerlo: se ci fosse stato spazio per una clausola del genere, Hasse me ne avrebbe
parlato, o no? Decisi di domandarglielo. Non volevo arrendermi così facilmente, dopotutto.
«Senti» gli dissi, «non posso avere una percentuale se vengo venduto?»
Ovviamente non mi aspettavo niente di diverso da quel: «Sorry, ragazzo, non è così che
funziona». Lo riferii a papà. Pensavo che si sarebbe arreso, del tipo: «Se non funziona così,
non funziona così», invece neanche per sogno. Si incazzò tantissimo e volle il numero di telefono di Hasse. Chiamò una, due, tre volte, alla fine riuscì a parlargli e non si accontentò di un
no per telefono. Pretese un incontro, perciò fu deciso che ci saremmo trovati alle dieci del
mattino nell’ufficio di Hasse, e vi lascio immaginare... Io diventai piuttosto nervoso. Papà non
è esattamente il tipico svedese che dice: «Scusi tanto se disturbiamo». Lui è il tipo che urla e
fa casino, e io ero preoccupato che esagerasse, e detto in tutta sincerità non è che in effetti fu
un colloquio granché equilibrato. Non ne ho un ricordo chiarissimo, ma, a quanto dice papà,
andò storta quasi da subito. Lui cominciò a schiumare rabbia e a picchiare i pugni sul tavolo:
«Mio figlio è forse un cavallo?».
No, ovviamente non ero un cavallo, questo Hasse Borg lo ammetteva.
«Perché allora lo trattate come un cavallo?»
«Noi non lo stiamo trattando come...»
Andarono avanti così per un pezzo, a quanto dice papà, e alla fine lui dichiarò che il
Malmö non avrebbe più visto nemmeno la mia ombra. Non avrei giocato un solo secondo di
più se il contratto non veniva riscritto, e allora Hasse Borg cominciò a impallidire. Posso immaginare. Papà non è il tipo con cui si scherza, come si diceva, è un vero leone, e riuscimmo
a inserire quella famosa clausola del dieci per cento che era destinata a pesare parecchio.
Onore a papà per questo.
Tutta quella faccenda avrebbe forse dovuto diventare una lezione su cui riflettere, ma gli
agenti erano sempre dei ladri e io mi fidavo ancora di Hasse. Era pur sempre il mio mentore,
una specie di papà extra, tipo. Mi invitò in campagna, nella sua casa di Blentarp, e mi fece
conoscere la moglie, i figli, il suo cane e tutti i suoi animali, e io gli chiesi consiglio perfino
quando acquistai la mia Mercedes Cabriolet a rate.
Al tempo stesso, come posso dire, la situazione diventava sempre più tesa. La mia autostima cresceva, e io osavo sempre di più. Feci diversi gol da urlo, e tutte le finte alla brasiliana che avevo provato per ore e ore cominciavano a riuscirmi alla perfezione. Tutta la fatica
fatta per imparare quelle cose alla fine si stava ripagando. Negli juniores quelle finte mi
avevano fruttato per lo più critiche, e avevo sentito i genitori lagnarsi. Ma adesso arrivavano
l’esultanza e gli applausi dalle tribune, e io capii subito che quella era la mia occasione. Molti
forse si lamentavano ancora, ma non era più altrettanto facile aprire bocca ora che grazie a
me vincevamo le partite e il pubblico mi amava.
I cacciatori di autografi e le ovazioni e gli striscioni nel mare di pubblico mi davano forza,
entrai nello spirito giusto. In trasferta contro il Västerås, allo scadere del tempo ricevetti un
passaggio da Hasse Mattisson. La partita era praticamente terminata, ma io vidi la possibilità
per una gran giocata: andai via a due avversari (fra cui Majstovic) con un pallonetto, uno dei
miei giochetti, e sparai la palla in rete.
Chiusi la stagione da capocannoniere della squadra, con dodici gol, e contribuii così al
ritorno del Malmö nella massima serie. Non ero più solo un individualista, come sostenevano
alcuni. Cominciavo a fare la differenza, e l’isteria intorno a me non faceva che crescere, e sapete, a quell’epoca nelle interviste non dicevo solo un sacco di stupidate. Sui media non
avevo ancora preso nessuna batosta. Ero praticamente me stesso di fronte ai giornalisti e
raccontavo quali macchine avrei voluto avere e quali videogiochi facevo, e dicevo cose del
tipo: «C’è soltanto uno Zlatan» e «Zlatan è Zlatan», non il massimo dell’umiltà. Ero qualcosa
di totalmente nuovo, altro che i soliti: «La palla è rotonda» e via dicendo. Era un esprimersi
più libero, che veniva dal cuore. Io parlavo quasi come a casa, e perfino Hasse Borg riconobbe che ero popolare e che fra i cespugli del centro sportivo si aggiravano degli osservatori.
«Ma dobbiamo mantenere il sangue freddo» ripeteva.
Più avanti venni a sapere che gli telefonava almeno un procuratore di mercato al giorno.
Io ero ricercatissimo, e suppongo che già allora lui avesse capito che potevo diventare
l’ancora di salvataggio per l’economia del club. Diventai la sua pepita d’oro, come scrissero i
media più tardi. Un giorno venne da me e mi chiese: «Che ne diresti di un viaggetto?».
«Senz’altro, volentieri!»
Mi spiegò che si trattava di una piccola tournée per andare a visitare diversi club che
erano interessati ad acquistarmi, e io pensai: “Oddio, sta succedendo davvero”.
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6
Da un certo punto di vista, si era svolto tutto troppo in fretta. Fino a poco tempo prima ero un
ragazzino difficile negli juniores. Adesso tutto aveva preso a girare vorticosamente. Hasse
Borg e io stavamo raggiungendo in macchina il centro di allenamento dell’Arsenal a St Albans, a nord di Londra. Potete immaginare. Vidi Patrick Vieira, Thierry Henry e Dennis Bergkamp fuori, sul campo. Ma la cosa straordinaria era che avrei incontrato Arsène Wenger in
persona. Wenger era arrivato all’Arsenal da poco; era il primo allenatore non inglese nella
storia del club e i giornali erano usciti con titoli del genere Arsène Who?, chi diavolo è questo
Arsène Wenger? Ma già alla seconda stagione portò a casa il double, ovvero vinse sia il campionato sia la Coppa d’Inghilterra, e diventò un mito. Mi sentii davvero un ragazzino quando
mettemmo piede nel suo ufficio.
Eravamo io, Hasse Borg e un agente del quale non ricordo più il nome, e io fui percorso
da un brivido quando incontrai lo sguardo di Wenger. Era come se cercasse di guardarmi
dentro, di scoprire chi fossi veramente. Sapete, lui è un tipo che tiene in grande considerazione i profili psicologici dei suoi giocatori, tipo: «Sono emotivamente stabili?» e via
dicendo. È meticoloso, come tutti i grandi allenatori. Io non dissi molto all’inizio, mi limitavo a
stare seduto in silenzio, un po’ impacciato, ma dopo poco persi la pazienza. C’era qualcosa in
Wenger che mi dava sui nervi. Di quando in quando scattava in piedi e andava a vedere chi ci
fosse fuori della sua finestra, sembrava voler avere il controllo totale della situazione, e poi
continuava a battere su un unico tasto.
«Puoi fare un provino con noi» diceva. «Puoi fare un tentativo. Un test.»
Per quanto io volessi comportarmi bene, quelle parole mi facevano girare le palle.
«Datemi un paio di scarpette da calcio. Farò il provino. Lo faccio adesso, subito» dissi, e
allora Hasse Borg intervenne: «Stop, stop, questa la risolviamo noi, tu non devi fare nessun
provino, assolutamente», e certo, io capii il suo discorso. O sei interessato, o non lo sei. Accettare un provino significa deprezzarti, ti mette in posizione di inferiorità, e così rifiutammo
cortesemente. «We are sorry, Mr Wenger, but we are not interested», e di questa faccenda
naturalmente si fece poi un gran parlare.
Ma sono sicuro che prendemmo la decisione giusta, e proseguimmo alla volta di Montecarlo, dove anche il Monaco era interessato. Ma dicemmo di no anche a loro e pure al Verona, e poi ce ne tornammo a casa.
Era stato un viaggio tosto, senza dubbio, ma non ne venne fuori niente di concreto, e
scommetto che non fosse nemmeno nelle intenzioni del club. Doveva essere soprattutto un
viaggio di formazione per tutti, per capire meglio come andavano le cose giù sul Continente.
Quando rientrammo a Malmö era pieno inverno e si gelava. Mi ammalai: qualche strana
forma di influenza. Per la prima volta ero stato convocato in Nazionale Under 21 ma fui
costretto a rimandare il debutto, e immagino che diversi osservatori se ne tornarono a casa
delusi. Li avevo alle costole dappertutto. Detto onestamente, non è che avessi molto il controllo su questa cosa. In realtà conoscevo un po’ solo un tizio, un danese, John Steen-Olsen
si chiamava. Era così tanto tempo che mi teneva d’occhio per conto dell’Ajax che avevo
cominciato a salutarlo. Ma non davo alla cosa nessuna importanza. Era solo una parte di tutto
quel circo, e non sapevo distinguere le chiacchiere dalla verità. La faccenda aveva assunto
contorni più concreti dopo il nostro viaggio, è vero, ma io non riuscivo ancora a crederci:
vivevo alla giornata e ricordo che avevo veramente voglia di partire per il ritiro con il Malmö.
Dovevamo andare a La Manga. Erano i primi giorni di marzo ed era meraviglioso potersene andare via, fuggendo dall’inverno svedese. Mi sentivo leggero, il sole splendeva. La
Manga è una sottile striscia di terra sulla costa sud-orientale della Spagna, una località balneare con lunghe spiagge di sabbia e bar, ma c’è anche un centro sportivo dove i grandi club
vanno spesso ad allenarsi nel precampionato.
Io dividevo la stanza con l’islandese Gudmunder Mete. Giocavamo insieme fin da quando
eravamo esordienti e nessuno dei due era mai stato in ritiro in un posto del genere. Non
avevamo esattamente un’idea delle regole, la prima sera arrivammo a cena in ritardo e ci
beccammo una multa. Ci facemmo una risata sopra e il mattino dopo ce ne andammo
all’allenamento, niente di che. Ma a bordo campo vidi una figura nota. Si trattava di quel
famoso John Steen-Olsen e io sussultai – “È venuto anche qui?” – e lo salutai: «Ciao, ciao!».
Altro non ci fu, rifiutavo di farmi delle illusioni. Ormai mi ero abituato a vederlo ovunque. Ma il
giorno dopo ecco comparire anche un altro tizio. Venni a sapere poi che era il capo degli osservatori dell’Ajax e Hasse Borg sembrava piuttosto teso.
«Adesso le acque cominciano a muoversi! Adesso le acque cominciano a muoversi!» ripeteva, e io rispondevo: «Ok, molto bene!».
Andavo avanti a giocare e basta. Ma non era proprio facile ignorare tutti quei balletti intorno a me. Tutt’a un tratto i personaggi dell’Ajax erano diventati tre, era arrivato anche
l’allenatore in seconda, e avevo sentito da Hasse che altri erano in viaggio. Era un’autentica
invasione, e per l’amichevole del giorno dopo, contro i norvegesi del Moss, sul posto c’erano
perfino il mister in persona, Co Adriaanse, e il direttore sportivo Leo Beenhakker.
All’epoca non avevo idea di chi fosse Beenhakker. Non sapevo niente dei boss del calcio
europeo, ma capii subito che quello era un pezzo grosso. Se ne stava per conto suo a fumare
un sigaro, con i suoi lunghi capelli bianchi e gli occhi penetranti. È stato detto che somiglia
allo scienziato pazzo di Ritorno al futuro, ma in questo caso ne è una versione molto più seria. Beenhakker irradiava potere e freddezza. Sembrava un po’ un mafioso, e quindi mi andava a genio. È con quello stile che sono cresciuto, e non mi stupiva affatto che Beenhakker
avesse allenato il Real Madrid e vinto tre campionati, una Coppa di Spagna e due Super-
coppe di Spagna con loro. Si vedeva che era lui quello che dominava e decideva, e correva
voce che fosse capace di scorgere il potenziale nei giovani giocatori come nessun altro. Io
pensai: “È arrivato il momento di mostrare quello che so fare”. Ma, ovvio, c’erano molte cose
che non sapevo. Per esempio non sapevo che Beenhakker aveva ripetutamente cercato di indurre Hasse Borg a fissare il prezzo del mio cartellino e che Hasse si era sempre rifiutato
perché non voleva essere vincolato a una somma.
«Il ragazzo non è in vendita» gli aveva risposto, e di sicuro era una mossa intelligente, ma
anche un azzardo. Beenhakker aveva fatto sapere: «Se non mi dite un prezzo, non ci vengo
neppure a La Manga!».
«È un problema tuo. Lascia perdere, allora» aveva concluso Hasse Borg, o almeno così
dice lui, e Beenhakker si era piegato. Ci aveva raggiunto in Spagna, e la prima cosa che
avrebbe visto sarebbe dunque stata la nostra amichevole con il Moss.
Non ho nessun ricordo di Beenhakker a bordo campo, quel giorno. Vidi soltanto John
Steen-Olsen, e l’allenatore, Co Adriaanse, giù dietro la porta avversaria. Ma evidentemente
Beenhakker si era arrampicato sopra una di quelle tribunette per avere una veduta d’insieme
migliore ed è chiaro, doveva essere preparato a una delusione: non sarebbe certo stata la
prima volta che faceva un lungo viaggio per vedere un talento poi non all’altezza delle aspettative. L’intera faccenda poteva risolversi in niente. Era un’ipotesi molto concreta. Vedevo
che i tizi dell’Ajax ogni tanto parlavano fra di loro, e io mi sentivo un tantino nervoso. Fremevo.
A un certo punto, nel corso del primo tempo, ricevetti un passaggio da destra, mi trovavo
appena fuori dell’area di rigore. Erano le 15.37, se dobbiamo credere al filmato un po’
tremolante che si trova su YouTube. All’improvviso vidi la possibilità per una giocata. Era una
di quelle visioni che mi si creano semplicemente nella testa, una di quelle scene-lampo che
attraversano rapidissime i miei pensieri e che non sono mai riuscito esattamente a spiegare. Il
calcio non è una cosa su cui si sta a riflettere, nel calcio le cose succedono e basta, e così,
invece di stoppare la palla, superai due avversari con un tocco sotto e scattai in avanti. Li superai in velocità e riagganciai la palla qualche metro dentro l’area di rigore, ritrovandomi così
nella posizione in cui un colpo di tacco mi appariva la cosa più naturale. Lo feci. Colpii la palla
di tacco mandandola oltre un altro avversario, corsi ancora avanti, tirai di sinistro al volo, e...
c’è sempre quell’attimo in cui uno se lo chiede, fa in tempo a pensare, nonostante sia solo
questione di una frazione di secondo: “Andrà in rete? Uscirà?”. Be’, quella volta fischiò dentro
dritta. È stata una delle giocate più belle che abbia mai fatto e mi precipitai verso il
centrocampo con le braccia tese urlando una sola parola. I giornalisti presenti erano sicuri
che gridassi: «Zlatan, Zlatan!», ma dai... perché avrei dovuto urlare il mio nome? Gridavo:
«Spettacolo, spettacolo».
Sì, fu un gol-spettacolo, e posso soltanto immaginare quello che passò nella mente di
Beenhakker. Dovette perdere la testa, difficilmente poteva aver mai visto qualcosa di simile.
Ma più tardi sarei venuto a sapere che aveva anche cominciato a preoccuparsi. Aveva trovato
quello che stava cercando, è vero: un giocatore alto che era pericoloso in attacco e tecnico, e
capace di fare come su ordinazione il gol del secolo. Ma non era tanto ingenuo da non
rendersi conto che con quello show avevo alzato le mie quotazioni alle stelle, e che se qualche altro grande club avesse avuto lì i suoi spioni sarebbe partita un’asta folle. Così decise di
agire senza ulteriori indugi: saltò giù dalla tribunetta e andò a cercare Hasse Borg.
«Voglio incontrare subito quel ragazzo» disse, perché sapete, nel mondo del calcio non si
tratta mai solo del giocatore ma anche della persona che c’è dietro: non ha nessuna importanza che il ragazzo in campo sia fantastico, se poi ha l’atteggiamento sbagliato. È tutto il pacchetto, che compri.
«Non so se si può fare» disse Hasse Borg.
«Come sarebbe, che non si può fare?»
«Mi sa che non abbiamo tempo. Abbiamo un sacco di impegni in programma e roba del
genere», e io credo che allora Beenhakker cominciò a sudare freddo, perché ovviamente
aveva capito tutto.
Non si trattava di nessun maledetto impegno. Hasse Borg doveva praticamente essere in
estasi. All’improvviso si ritrovava in mano tutte le carte vincenti, e adesso voleva fare il difficile
e calare tutti gli assi a sua disposizione.
«Ma cosa stai dicendo? È un ragazzo. Siete in ritiro. Chiaro che il tempo c’è.»
«Forse, ma... Solo un momento, allora» disse Hasse, o qualcosa del genere, e così si accordarono per incontrarci all’albergo di quelli dell’Ajax, che si trovava non molto lontano.
Ricordo il tragitto in macchina, con Hasse che continuava a martellarmi il cervello con
quanto fosse importante avere un atteggiamento gentile e positivo. Ma io ero tranquillo. In un
altro momento probabilmente sarei stato nervoso, ma dopo un gol del genere ti senti padrone
del mondo. Allora è facile avere la sensazione di essere il più grande.
Io e Hasse Borg entrammo all’hotel e stringemmo la mano a tutto il gruppo, «How do you
do?» eccetera, e facemmo quattro chiacchiere in termini generici. Io sorridevo e dicevo che il
calcio era la mia vita e che sapevo che essere un calciatore di alto livello significava lavorare
duro e via dicendo. Era un teatrino in cui tutti mostravano le loro migliori intenzioni ma è ovvio, sotto sotto c’erano serietà e diffidenza. Tutti mi studiavano. Chi è questo qui in realtà? E
soprattutto ricordo l’espressione di Leo Beenhakker quando si chinò in avanti e disse: «If you
fuck me I’ll fuck you two times back».* La cosa mi fece una certa impressione.
Era esattamente il mio genere di discorso, e Beenhakker aveva quel lampo negli occhi,
nel dirlo. Ma è chiaro, lui e i suoi ragazzi avevano certamente fatto le loro indagini: di sicuro
sapevano tutto di me, anche della faccenda di Industrigatan, però le sue parole andavano interpretate come una sorta di avvertimento, no?, e ricordo che facemmo ritorno al nostro albergo solo un quarto d’ora più tardi, e che non riuscivo a stare seduto fermo.
Esiste un gioco, sul campo. E ne esiste un altro sul mercato dei trasferimenti: a me piacciono entrambi, e ormai conosco un certo numero di trucchi. So quando devo starmene zitto e
so quando devo fare la guerra. Ma l’ho imparato sulla mia pelle. All’inizio non sapevo niente
di niente, ero solamente un ragazzo che voleva giocare a calcio, e dopo l’incontro a La
Manga non sentii più parlare dell’Ajax per un bel pezzo.
Poi, un giorno, ero in giro su una Mercedes Cabrio blu (non quella che avevo ordinato,
un’auto sostitutiva) senza nessuna meta precisa. Mi sentivo bene, rilassato, e sul sedile posteriore tenevo una pallina nel caso in cui mi fosse venuta la voglia di fermarmi a fare qualche
numero. Era una giornata assolutamente qualsiasi a Malmö, in altre parole. Mancava ancora
qualche settimana all’inizio del campionato e avrei dovuto giocare una partita con la
Nazionale Under 21 a Borås, ma per il resto era tutto tranquillo. C’era solo da andare agli allenamenti, stare con gli amici e giocare ai videogiochi. A un certo punto ecco che squilla il
telefono. Era Hasse Borg. Niente di straordinario di per sé, ci sentivamo di continuo. Ma stavolta la sua voce era diversa.
«Sei occupato?» mi domandò, e come avrei potuto rispondere di sì?
«No, no.»
«Ma sei pronto? Te la senti?»
«Ma sì, certo. Perché?»
«Sono arrivati.»
«Chi?»
«Quelli dell’Ajax. Vieni all’Hotel S:t Jörgen. Ti stiamo aspettando» disse, e certo, naturale,
mi misi subito in moto.
Parcheggiai lì fuori e il cuore mi batteva forte. Capivo che adesso eravamo davvero in
ballo, e avevo detto a Hasse Borg che volevo essere venduto per una cifra record. Volevo entrare nella storia. C’era stato un giocatore svedese che era andato all’Arsenal per quaranta
milioni di corone, ed era una bella cifra allora, e poi un norvegese, John Carew, per il quale il
Valencia ne aveva sborsati settanta. Era il record in Scandinavia, e io avevo una certa speranza di batterlo, solo che... io avevo diciannove anni! Non era facile essere tosti al momento
giusto.
Noi di periferia andiamo in giro in tuta e ok, avevo provato altri stili alla Borgarskolan, ma
non aveva funzionato. Per cui giravo ancora con indosso una qualche tuta Nike e un cappellino in testa, certo non il look ideale per quell’appuntamento. Quando misi piede al S:t
Jörgen fui accolto da John Steen-Olsen, e capii che l’intera faccenda era top secret. L’Ajax è
una società quotata in Borsa e se qualcosa fosse trapelato si sarebbe rischiata la diffusione di
informazioni riservate. Ma proprio in quel momento scorsi Cecilia Persson, e sobbalzai. Che
ci faceva lì Cecilia? Non mi aspettavo certo di incontrare qualcuno di Rosengård al S:t
Jörgen. Quello era un altro mondo, lontano anni luce dai sobborghi, eppure lei era lì.
Eravamo cresciuti nello stesso palazzo, era la figlia della migliore amica di mia madre. Ma
tutt’a un tratto mi ricordai: lei lì all’albergo ci lavorava, faceva la donna delle pulizie esattamente come la mamma, e adesso mi stava guardando con aria sospettosa, tipo: «Che cosa
ci fa Zlatan qui in compagnia di individui del genere?». Io le feci segno di tacere, non dire niente, tipo, e poi salii sull’ascensore ed entrai in una sala conferenze: c’erano Beenhakker, il
suo uomo dei conti e poi Hasse Borg, ovviamente. Avvertii all’istante che c’era qualcosa di losco nell’aria.
Hasse era nervoso, tutto adrenalina, ma naturalmente fece il disinvolto: «Ehilà ragazzo!
Capisci, vero, che non possiamo dire una sola parola su questa cosa, non ancora. Ma ci vorresti andare all’Ajax? Loro ti vogliono» e anche se l’avevo intuito, nel sentirlo fui percorso
come da una scossa.
«Certamente!» risposi. «L’Ajax è una buona scuola.» E allora tutti annuirono, ci furono un
sacco di sorrisi e via dicendo.
Però c’era qualcosa che non mi tornava, e io strinsi mani e sentii dire che, come prima
cosa, avrei negoziato il mio contratto personale. Per qualche ragione Beenhakker e i suoi a
quel punto uscirono dalla stanza e io restai solo con Hasse Borg. Che cosa cazzo aveva,
Hasse? Teneva sotto il labbro la presa di tabacco più grossa del mondo, e mi mise davanti
agli occhi un bloc-notes.
«Guarda qui. Io avrei pensato questo per te» disse, e io esaminai quel foglio. C’era scritto
centosessantamila al mese, e naturalmente erano un sacco di soldi, era... wow, davvero avrò
questo stipendio? Ma non avevo la più pallida idea se fosse un buon compenso a livello di
mercato, e glielo dissi.
«È una buona cifra?»
«Diavolo, certo che sì» fece Hasse. «È quattro volte quello che guadagni adesso!», e io
pensai ok, ha ragione, sono un sacco di soldi, e capii quanto lui fosse sotto pressione.
«D’accordo» dissi.
«Splendido, Zlatan! Congratulazioni!» Poi uscì, doveva discutere ancora qualche altro
punto, mi disse, e quando tornò aveva un’aria tutta orgogliosa: sembrava aver concluso
l’affare del secolo.
«Ti pagano loro anche la tua nuova Mercedes, sai», e naturalmente era un bel colpo
anche quello, pensavo, e risposi: «Wow, fantastico!».
Ma ancora non sapevo niente di più sull’affare, e non mi passò nemmeno per la testa che
quella faccenda della macchina fosse poca cosa per loro, perché cosa credete? Che fossi
veramente preparato a quelle trattative?
Non ero preparato proprio per niente! Non sapevo nulla di quanto guadagnavano i calciatori, o di quanto andava via in tasse in Olanda, e non avevo nessuno che me lo dicesse o
che rappresentasse i miei interessi. Ero un ragazzo di diciannove anni che veniva da
Rosengård, non sapevo niente del mondo. Su certe cose avevo più o meno lo stesso controllo che poteva avere Cecilia, lì fuori, e come già sapete credevo che Hasse Borg fosse mio
amico, il mio secondo padre, tipo, e non mi sfiorò mai l’idea che lui pensava solo a un’unica
cosa: far guadagnare soldi al club.
Dovette passare un bel po’ di tempo prima che capissi il motivo di quell’atmosfera tanto
tesa al momento del mio arrivo: era ovvio, i tizi in giacca e cravatta si trovavano nel pieno
della loro trattativa. Non avevano ancora stabilito il prezzo del mio cartellino, e il motivo per
cui mi avevano convocato in tutta fretta era che è più semplice combinare un trasferimento se
prima si raggiunge l’accordo economico con il giocatore, perché così si sa di quanti soldi si
sta parlando; inoltre, se si è tanto astuti da fare in modo che il ragazzo abbia lo stipendio più
basso di tutta la squadra, sarà più facile per il nuovo club mettere sulla bilancia qualcosa in
più per quello di provenienza. Io fui molto semplicemente sfruttato in quel gioco strategico.
Ma di questo allora non sapevo nulla. Uscii dalla hall dell’albergo e lanciai un urlo di gioia,
o qualcosa del genere, e fui anche molto bravo a tenere la bocca cucita. L’unico che avevo
tenuto informato sulla faccenda, dopo La Manga, era mio padre, e lui saggiamente era piuttosto scettico. Non si fidava mai della gente così di primo acchito. Ma ormai era fatta, e il
giorno dopo andai a Borås per giocare con la Nazionale Under 21 contro la Macedonia.
Giocavamo gli Europei di categoria ed era il mio debutto, sarebbe dovuta essere una gran
cosa. Ma io, com’è naturale, avevo la mente altrove: ricordo che incontrai Hasse Borg e Leo
Beenhakker di nuovo e firmai il contratto, perché finalmente avevano concluso le trattative.
Eppure fummo costretti a tenere segreta la cosa fino alle due di quel pomeriggio, quando
la notizia sarebbe stata resa pubblica in Olanda, e venni a sapere che un’intera squadra di
osservatori stranieri era venuta a vedermi. Avevano fatto il viaggio per niente. Io ero pronto
per l’Ajax e viaggiavo sulle nuvole, e un po’ distrattamente domandai a Hasse Borg: «Per
quanto sono stato venduto?». La sua risposta non la dimenticherò mai. Ricordo che dovette
ripetermelo. Non avevo capito, forse perché può essere che la prima volta mi aveva detto la
cifra in gulden, e non conoscevo il cambio. Ma quando poi mi resi conto di quanti soldi erano,
non stavo più nella pelle.
Ok, avevo sperato in una cifra record. Avevo desiderato superare John Carew, ma vedere
quel numero nero su bianco era un’altra cosa: ottantacinque milioni! Ma soprattutto nessuno
svedese, nessuno scandinavo, neppure Henrik “Henke” Larsson, né John Carew, erano stati
venduti per una cifra neanche lontanamente paragonabile.
Ovviamente, intuii che si sarebbero versati fiumi d’inchiostro. Ok, non è che non si fosse
mai parlato di me fino ad allora, ma quando il giorno dopo comperai i giornali... era tutta
un’orgia di Zlatan. Era Il ragazzo dai piedi d’oro. Era Zlatan l’incredibile. Era Zlatan questo e
quest’altro, e io leggevo e godevo. Ricordo che io e Christian “Chippen” Wilhelmsson e
Kennedy Bakircioglü uscimmo a bere qualcosa a Borås ed eravamo seduti a un caffè con una
bibita e una brioche quando ci comparve davanti un gruppetto di ragazze e una di loro disse,
un po’ timidamente: «Sei tu il ragazzo da ottantacinque milioni?». E cosa volete rispondere, a
una domanda del genere?
«Altroché» dissi, «certo che sono io», e intanto il cellulare continuava a squillare.
La gente mi faceva i complimenti e si congratulava. Tutti tranne una persona, vale a dire
mia madre: lei era completamente fuori di sé. «Sant’Iddio Zlatan, cos’è successo?» gridò.
«Sei stato rapito? Ti hanno fatto del male?» perché sapete, mi aveva visto in televisione, e
non aveva capito cosa avessero detto di preciso, e normalmente se vieni da Rosengård e finisci sui media di solito si tratta di cattive notizie.
«Tranquilla, mamma, sono solo stato venduto all’Ajax» dissi io, e allora lei si arrabbiò: «E
perché non mi hai detto niente? Perché si devono venire a sapere queste cose dalla televisione?». Ma poi si calmò, mi viene veramente da commuovermi quando ci ripenso.
Il giorno dopo io e John Steen-Olsen partimmo per l’Olanda e io indossavo quella
maglietta rosa e quella giacca di pelle che erano le cose più fighe che avevo, e tenni una conferenza stampa ad Amsterdam. Era un autentico casino, con fotografi e giornalisti seduti un
po’ dappertutto, e io ero al settimo cielo. Tenevo lo sguardo basso. Ero felice e insicuro, ero
grande e piccolo nello stesso tempo, e per la prima volta in vita mia assaggiai lo champagne
e feci una smorfia tipo: «Ma che è ’sta roba?». Soprattutto, però, ricevetti la maglia numero
nove dalle mani di Beenhakker: era quella che aveva indossato Van Basten prima di passare
al Milan.
Era quasi troppo, e in quello stesso periodo dei ragazzi fecero un documentario su me e
sul Malmö intitolato Blådårar – Matti da legare. Quegli stessi ragazzi mi seguirono ad Amsterdam e mi filmarono in un autosalone Mitsubishi mentre vado in giro con la mia giacca di pelle
e guardo tutte le macchine.
«Fa un po’ strano entrare qui e semplicemente scegliere. Ma immagino che ci si debba
abituare», dico io, e m’illumino.
Era quella prima sensazione inebriante che tutto all’improvviso fosse diventato possibile.
Era una vera e propria favola.
La primavera era nell’aria. Un giorno andai allo stadio dell’Ajax e rimasi lì in piedi sulla
tribuna deserta con un leccalecca in bocca e l’aria pensierosa. I giornalisti, intanto, erano
come impazziti. Scrivevano storie sul ragazzo del ghetto che era riuscito a realizzare il suo
sogno e il giorno dopo scrivevano che Zlatan aveva avuto un assaggio della sua nuova vita e
del lusso. Tutto questo succedeva a poche settimane dall’inizio del campionato di Prima Divisione svedese. Hasse Borg aveva ottenuto che rimanessi al Malmö ancora per sei mesi,
perciò andai da Amsterdam direttamente all’allenamento.
Faceva un po’ freddo, quel giorno. Io indossavo un berretto nero e un giaccone grigio col
cappuccio, avevo i capelli tagliati di fresco ed ero felice. Non incontravo i miei compagni di
squadra da un po’ e adesso erano tutti lì seduti nello spogliatoio con il giornale sulle ginocchia
a leggere della mia “vita lussuosa”. Potete vedere la scena in Blådårar: io entro, rido, mi levo
la giacca e urlo di gioia, un «Sììì!» selvaggio, e a quel punto loro alzano lo sguardo. Quasi mi
fanno pena. Hanno tutti un’aria mogia. Sono verdi d’invidia, è chiaro, e il peggiore è Hasse
Martinsson, quello che aveva litigato con me a Gunnilse. Lui sembra distrutto, ma è un
ragazzo a posto. È il capitano della squadra e ha le migliori intenzioni, perciò ci prova: «Non
c’è che da congratularsi. È una figata pazzesca! Devi saltare sul treno» dice, ma non frega
nessuno, men che meno la telecamera. L’inquadratura scivola dai suoi occhi tristi a me, e io
sto seduto lì sulla panca e ghigno, felice come un bambino.
Forse, in quei giorni, ero caduto in preda a una specie di mania: dovevano accadere continuamente nuove cose. Volevo sempre azione, azione, come per tenere vivo lo show, ecco,
e perciò facevo un sacco di cazzate: mi feci delle ciocche bionde nei capelli e... mi fidanzai.
Non che fosse una cazzata fidanzarsi con Mia Olhage: lei era un tipo a posto, studiava web
design ed era bionda e carina e in gamba. Ci eravamo conosciuti l’estate prima a Cipro, dove
lei lavorava in un bar, e scambiati i numeri di telefono. Ma c’era come una febbre, in quel fidanzamento... e siccome io non avevo ancora nessuna remora con i media, ne parlai con il
solito Rune Smith. A un certo punto lui mi domandò: «Che cosa ha ricevuto la ragazza come
regalo di fidanzamento?».
«Che regalo e regalo? Ha ricevuto Zlatan, no?»
Ha ricevuto Zlatan!
Era uno di quei commenti che mi uscivano e basta, una battuta che mi veniva naturale e
che suonava da bullo, perfettamente in stile con la mia immagine. Tuttora viene continuamente tirata in ballo. Ma qualche settimana più tardi Mia non ricevette proprio più niente,
ruppi il fidanzamento: un po’ perché un amico mi aveva messo in testa che poi entro un anno
mi sarei dovuto sposare, e un po’ perché di quelle cose così improvvise, in generale, ne
facevo un sacco.
Giravo a mille. La prima giornata di campionato si stava avvicinando e potete immaginare,
avrei dovuto dimostrare di valere quegli ottantacinque milioni: il giorno prima Anders Svensson e Kim Källström avevano segnato due reti nelle rispettive partite di esordio e già si mormorava che io non avrei saputo reggere il mio nuovo status di star. Forse ero soltanto un
ragazzino sopravvalutato. Come tante volte in quegli anni, si diceva che ero solo gonfiato dai
media, e io mi sentivo obbligato a dimostrare il mio valore. Ricordo che tutto lo stadio di
Malmö ribolliva. Era il 9 aprile.
Ero maledettamente orgoglioso della mia Mercedes Cabrio blu, ma quando Rune Smith
mi intervistò, prima della partita, non volli farmi fotografare accanto alla macchina. Non volevo
apparire troppo spaccone, temevo che poi l’avrei pagata. Avevo diciannove anni e tutto era
successo molto in fretta: la mia carriera aveva avuto una svolta, ma quel desiderio di rivalsa
verso tutti quelli che non avevano creduto in me e che avevano sottoscritto raccolte di firme e
così via, lo covavo da un pezzo. Ero stato spinto dalla voglia di rivincita e dalla rabbia fin da
quando avevo cominciato a giocare.
La prima partita era contro l’AIK, un inizio certo non facile. L’ultima volta che ci avevamo
giocato eravamo stati umiliati e spediti in Seconda Divisione e adesso, in vista di questa stagione, molti vedevano l’AIK tra i favoriti per la vittoria finale. E poi, cos’eravamo noi? Una neopromossa risalita dalla Seconda senza nemmeno essere arrivata prima in campionato. Eppure la stampa ci stava addosso, e si diceva che in gran parte fosse a causa mia, il ragazzo
da ottantacinque milioni. Lo stadio di Malmö era tutto esaurito, quasi ventimila spettatori, e io
feci di corsa il lungo corridoio dal pavimento celeste, uscii sul campo e mi arrivò il boato. Era
fantastico, certo, si trattava del nostro ritorno in Prima, eppure... è difficile da spiegare.
Era tutto un turbinio di foglietti di carta colorati, la gente sollevava cartelli e striscioni e
quando ci schierammo sul campo gridò qualcosa, all’inizio non capii cosa; poi realizzai che
stavano cantando il loro amore per il Malmö, ma anche il mio nome. Era un coro incredibile e
su quegli striscioni c’erano scritte cose tipo: «Buona fortuna Zlatan», e io stavo lì in campo,
ero carico a mille e mi portai la mano all’orecchio come a dire: «Di più, di più». A dirla tutta, gli
scettici avevano ragione almeno su un punto: sembrava proprio lo scenario perfetto per un
flop perché era tutto troppo bello per essere vero.
Alle nove meno un quarto fu fischiato il calcio d’inizio e il frastuono aumentò. A quei tempi,
per me la cosa più importante non era fare gol. Era lo show, erano i numeri, tutte quelle cose
in cui mi esercitavo tenacemente. Nei primi minuti feci un tunnel su un terzino dell’AIK e alcuni dribbling, ma poi sparii dal gioco, l’AIK prese possesso della partita ed ebbe occasioni su
occasioni. Soffrimmo fino alla mezz’ora.
Però poi cercai di rilassarmi: ricevetti una palla fuori area da Peter Sörenson, e all’inizio
non pareva proprio un’occasione fantastica. Ma feci una finta che spiazzò il mio marcatore,
poi trascinai la palla in avanti con un colpo di tacco e sparai una cannonata in rete e... fu
come se tutto lo stadio mi arrivasse addosso in un urto, fu come un’esplosione. Mi lasciai andare in ginocchio in un gesto di esultanza mentre tutto lo stadio urlava: «Zlatan, Zlatan, SuperZlatan» e tutto questo genere di cose.
Al nono minuto della ripresa ebbi un altro bel pallone da Sörenson. Mi trovavo sul lato
destro e mi portai verso il lato corto dell’area: non sembrava esserci spazio per il tiro, e tutti
credevano che avrei passato. Invece tirai comunque in porta. Feci gol da quella posizione impossibile e a quel punto il pubblico impazzì completamente. Percorsi il campo camminando
con le braccia tese in alto e... l’espressione che avevo! Significava potere, significava:
«Eccomi qui, bastardi capaci solo di lagnarvi di me che cercavate di allontanarmi dal calcio».
Era rivincita, era orgoglio, e tutti quelli che avevano pensato che quegli ottantacinque
milioni fossero esagerati adesso dovevano stare muti. Non dimenticherò mai i giornalisti, nel
dopopartita. Avevano gli occhi che luccicavano, e uno di loro disse: «Se io dico Anders
Svensson e Kim Källström, che cosa mi rispondi tu?».
«Io dico Zlatan, Zlatan», e la gente rise. Dopo le interviste uscii nella sera primaverile e mi
mossi verso la mia Mercedes Cabrio: era fantastico anche soltanto quello.
Ma ci volle un bel po’ per raggiungerla. Ovunque c’erano ragazzini e ragazzine che volevano il mio autografo, e perciò andai avanti a firmare per un tempo eterno, nessuno doveva
rimanere senza, faceva parte della mia filosofia: dovevo ripagare chi credeva in me. Soltanto
dopo aver accontentato tutti salii in macchina e mi allontanai a razzo, mentre i fan mi salutavano sventolando i loro quaderni degli autografi.
Ma non era ancora finita, il giorno dopo arrivarono i giornali e cosa credete? Avevano
scritto qualcosa?
Avevano scritto pagine su pagine, ed evidentemente quando eravamo retrocessi dovevo
aver detto tipo: «Voglio che la gente si dimentichi di me. Non devono sapere che esisto. Poi
quando torneremo colpirò come un fulmine in campo», e i giornali adesso avevano tirato fuori
quella battuta.
Diventai il fulmine che colpisce, diventai mille altre cose, non c’era limite alla fantasia, e si
cominciò perfino a parlare di “Febbre di Zlatan” nel Paese. Ero dappertutto, su tutti i media, e
si diceva che non erano solo i ragazzini e le ragazzine a leggere gli articoli che parlavano di
me: era l’impiegata della posta, era il vecchio della drogheria, e sentivo scambi di battute del
genere: «Salve, come ti butta? Come stai?».
«Credo di essermi beccato la Febbre di Zlatan.»
Viaggiavo come sulle nuvole. Era tutto incredibile. Alcuni ragazzi fecero perfino una canzone che divenne un vero tormentone nazionale. La gente l’aveva come suoneria sul cellulare: «Oh oh oh, ah ah ah, io e Zlatan siamo della stessa città», cantavano. E poi:
«SuperZlatan se ne va, il suo tempo passerà, però l’artista l’abbiamo avuto noi, Halmstad e
AIK ve lo potete scordare voi», e voglio dire: come la gestisci una cosa del genere, quando
tutti cantano di te!
A essere onesti, comunque, c’era anche l’altro lato della medaglia, e lo vidi nella terza
partita di campionato. Era il 21 aprile e incontravamo il Djurgården fuori casa, a Stoccolma.
Il Djurgården era la squadra che era retrocessa con noi in Seconda Divisione e con la
quale eravamo tornati su, loro come primi in classifica e noi come secondi. L’anno prima ce le
avevano date di brutto in Superettan, battendoci all’andata per due a zero e al ritorno per
quattro a uno, perciò sotto quell’aspetto è chiaro che avevano un vantaggio psicologico; ma il
Malmö aveva battuto sia l’AIK sia l’Elfsborg per due a zero nelle prime due partite, e soprattutto aveva me. Ne parlavano tutti, Zlatan, Zlatan, ero un argomento che scottava più della
lava, e girava voce che il CT della Nazionale, Lars Lagerbäck, quel giorno fosse in tribuna per
vedermi giocare.
Tutte queste attenzioni, ovviamente, non mi attiravano solo simpatie. Alla vigilia del
match, uno dei giornali della sera intervistò la difesa del Djurgården al completo. Sul paginone centrale comparivano tre ragazzi grandi e grossi a braccia conserte e sopra di loro il
titolo: «Fermeremo il divo sopravvalutato Zlatan». Mi aspettavo un’atmosfera pesante in
campo. Era un incontro molto sentito, chiaro che ci sarebbero stati toni duri, eppure non potei
fare a meno di rabbrividire quando misi piede nello stadio di Stoccolma.
I tifosi del Djurgården grondavano odio, o se non era proprio odio era comunque la peggiore forma di pressione psicologica che avessi mai sperimentato: «Noi odiamo Zlatan, noi
odiamo Zlatan!» rimbombava tutt’intorno. Lo stadio intero mi fischiava e sentivo un sacco di
altri cori, con insulti contro me e mia madre.
Non avevo mai vissuto niente di simile, e ok, un po’ lo potevo anche capire: i tifosi non potevano mica scendere in campo e giocare loro, perciò cosa facevano? Davano addosso al
giocatore migliore della squadra avversaria, cercando di innervosirlo. È così che funziona nel
calcio. Ma lì si superarono i limiti, e io m’infuriai, scesi in campo contro il pubblico, più che
contro gli avversari proprio come contro l’AIK, passò un po’ di tempo prima che entrassi veramente in partita.
Ero marcato strettissimo. Avevo quei tre del giornale sempre addosso, e nei primi venti
minuti il Djurgården dominò. Ma al ventunesimo Peter Ijeh, un ragazzo nigeriano arrivato
quell’anno con la fama del bomber (e che infatti l’anno dopo sarebbe diventato capocannoniere del campionato) ebbe un passaggio da Daniel Majstorovi, il nostro centrale, che poi
sarebbe diventato un mio caro amico. Ijeh segnò l’uno a zero e poi al sessantottesimo regalò
un assist a Joseph Elanga, che si liberò di un difensore e mise dentro il due a zero. Il pubblico
fischiava a più non posso, urlava che io non valevo niente, che ero uno zero. Io non avevo
fatto nessun gol, proprio come quei tre famosi difensori avevano pronosticato, ed era vero,
fino a quel momento non ero stato granché brillante.
Avevo fatto un po’ di numeri e un bel colpo di tacco vicino alla bandierina, ma per il resto
era più la partita di Ijeh e di Majstorovi che la mia, e non c’era aria di magia quando due
minuti più tardi ricevetti la palla più o meno a metà campo. Ma le cose erano destinate a cambiare, perché d’improvviso superai un avversario, successe e basta, e poi un altro, e sentii in
testa come una voce: “Sì, sono leggero, ho il controllo totale” e avanzai ancora.
Fu come una danza, e, anche se allora non me ne resi conto, superai dribblando quei
famosi difensori del giornale, uno dopo l’altro, e conclusi infilando il pallone in rete di sinistro.
A dirla tutta, non fu solo una sensazione di gioia. Fu anche una vendetta. “Questo è per voi”
pensavo, “questo è per i vostri cori e il vostro odio”, e immaginavo che il mio scontro col pubblico sarebbe continuato anche dopo il fischio di chiusura.
Voglio dire, avevamo umiliato il Djurgården (la partita si chiuse sul quattro a zero), e invece sapete che cosa successe? Fui circondato dai tifosi del Djurgården, e nessuno voleva
più insultarmi o mettermi le mani addosso. Volevano il mio autografo. Mi stavano addosso
come pazzi.
Sapete, all’epoca non amavo nessun film tanto quanto Il Gladiatore e c’è una scena lì, la
conoscerete tutti, in cui l’imperatore scende nell’arena e chiede al gladiatore di levarsi la
maschera. Il gladiatore lo fa e dice: «Il mio nome è Massimo Decimo Meridio... e avrò la mia
vendetta, in questa vita o nell’altra».
Era così che mi sentivo, o che volevo sentirmi: volevo stare lì davanti al mondo intero e
mostrare a tutti quelli che avevano dubitato di me chi ero veramente, e nessuno avrebbe potuto fermarmi.
* «Se provi a fottermi, io ti fotterò due volte.»
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7
Era high chaparral, come dico sempre. Era un gran casino, e io ne sparavo di tutti i colori, tipo
che con me la Svezia avrebbe vinto i Mondiali! Forse all’inizio era anche una cosa divertente,
che ne so, ma non lo fu più altrettanto quando in Nazionale ci entrai per davvero.
Successe in aprile anche quello. Avevo appena fatto quel famoso gol contro il Djurgården,
e i giornali erano letteralmente impazziti. Ero sempre sulle prime pagine, non davo certo l’idea
di una persona modesta e la cosa mi dava un tantino di angoscia: i veterani come Patrik Andersson e Stefan Schwarz avrebbero forse creduto che ero un inutile montato?
Una cosa era essere la stella del Malmö, un’altra la Nazionale! C’erano ragazzi che
avevano vinto la medaglia di bronzo a Usa ’94, autentiche icone in altre parole, e, che ci crediate o no, avevo ben presente quella faccenda che in Svezia non ci si mette in mostra, specialmente quando si è nuovi in un gruppo. Le mie batoste me l’ero prese quando giocavo da
ragazzino, adesso volevo essere ben accetto, volevo inserirmi nel gruppo, ma non cominciò
granché bene. Partimmo per un ritiro in Svizzera e i giornalisti mi ronzavano continuamente
intorno. Era quasi imbarazzante. «Diavolo» volevo dire, «c’è Henke Larsson laggiù, andate
da lui piuttosto!», ma ecco, non potevo tirarmi indietro. In una conferenza stampa, a Ginevra,
mi domandarono se pensavo di assomigliare a qualche altro famoso giocatore nel mondo.
«No» fu la mia risposta, «di Zlatan ce n’è uno solo.» Quanto era modesto da uno a dieci?
Capii immediatamente che dovevo riparare.
Mi ripromisi di mantenere un profilo basso, e, detto sinceramente, non ebbi bisogno di
sforzarmi granché. Mi sentivo intimidito di fronte ai grandi nomi, e, a parte Marcus Allbäck,
con cui dividevo la stanza, non parlavo quasi con nessuno. Stavo in disparte. «È un tipo originale. Una mosca bianca!» scrivevano i giornali e, certo, faceva scena. L’interessantissimo
artista Zlatan, tipo.
Ma in realtà ero soltanto insicuro, e non volevo far incazzare altra gente, soprattutto non
Henke Larsson che per me era un vero idolo! Giocava nel Celtic, a quei tempi, e proprio
quell’anno aveva vinto la Scarpa d’Oro come miglior marcatore europeo. Henke era fortissimo, e quando seppi che saremmo partiti titolari in attacco contro la Svizzera fu per me una
grande emozione.
Era un’altra di quelle cose irreali che mi succedevano ormai ogni giorno, e in vista
dell’incontro diversi giornali fecero lunghi servizi su di me. Volevano presentarmi con tutti i
dettagli del caso in vista del mio debutto internazionale, e in uno di quegli articoli comparve
anche una qualche direttrice didattica della Sorgenfriskolan, sapete, no, la scuola dove mi
avevano affibbiato l’insegnante di sostegno, per dire che ero l’allievo più negligente che
aveva avuto in trentatré anni o giù di lì. Ero «Il discolo della Sorgenfri», «Un One Man Show».
Un sacco di bla bla bla, insomma. D’altro canto c’erano anche molte aspettative intorno alla
mia presenza in Nazionale, e io avvertivo la pressione.
Ma non fu esattamente un successo. Nel secondo tempo fui sostituito e non misi più piede
in campo nelle sfide importanti di quell’anno, quelle delle qualificazioni ai Mondiali contro Slovacchia e Moldavia. Lagerbäck e Söderberg, i due CT, puntarono su Henke e Allbäck: forse
mi avrebbe fatto bene partire più in sordina, in fondo non ero quasi nemmeno titolare nella
squadra.
Ricordo il mio debutto in Nazionale in casa, a Stoccolma. Dovevamo giocare contro
l’Azerbaigian a Råsunda, e io ero ancora molto smarrito nel gruppo. Stoccolma per me era un
altro mondo, era un po’ come dire New York. Mi sentivo sperduto e insicuro, la città traboccava di belle ragazze in modo incredibile e io mi guardavo intorno...
Lo stadio di Råsunda era pieno, o quasi, c’erano oltre trentamila spettatori. I miei compagni sembravano sicuri di sé e abituati all’ambiente, io mi sedetti in panchina sentendomi
come un bimbetto. Ma dopo un quarto d’ora di gioco accadde qualcosa. Il pubblico cominciò
a rumoreggiare. Urlavano il mio nome ed è una cosa che non riesco a descrivere, mi sentii
caricare a molla. Mi venne la pelle d’oca. In campo, c’erano tutte le nostre star: c’era Henke,
c’era Olof Mellberg, c’erano Stefan Schwarz e Patrik Andersson... ma non erano i loro nomi
che invocavano. Invocavano il mio, e io non stavo neanche giocando. Era quasi troppo, non
riuscivo a capacitarmene: che cosa avevo fatto, in definitiva? Solo qualche partita in Prima Divisione! Eppure ero più popolare di gente che aveva giocato ad altissimi livelli e vinto il bronzo
ai Mondiali. Era assolutamente folle, e tutti quelli che erano in panchina mi guardavano. Ma
se fossero contenti oppure infastiditi, questo proprio non lo so. So solo che non capivano
neanche loro, perché era qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che non era mai successo
prima. A un certo punto mi chinai per allacciarmi le scarpe, solo per fare qualcosa, o forse
perché ero nervoso, fu come una scossa elettrica. Il pubblicò credette stessi per iniziare il
riscaldamento e urlò «Zlatan, Zlatan» sempre più forte, come impazzito, e ovviamente io fui
veloce ad allontanare la mano dalla scarpa. Voglio dire, ero seduto in panchina e prendere in
mano lo show in quella situazione sarebbe stato una gaffe clamorosa, così cercai di rendermi
invisibile.
Ma in segreto, ovviamente, godevo. Sentivo un brivido fantastico. L’adrenalina cominciò a
pompare, e quando Lars Lagerbäck mi chiese davvero di entrare mi precipitai in campo, felice
e forte come non mai. Dagli spalti era tutto un «Zlatan, Zlatan». Conducevamo per due a zero
e io entrai e impiegai pochi minuti per segnare il terzo gol con una di quelle magie che avevo
imparato al campetto. Tutta Råsunda e la sera si illuminarono, e perfino Stoccolma sembrava
essere diventata la mia città. Solo che in un certo senso portavo sempre Rosengård in giro
con me. Una volta, quell’anno – ero di nuovo a Stoccolma con la Nazionale – andammo
all’Undici, il night club di Tomas Brolin, e ce ne stavamo lì tutti tranquilli. Allora uno dei miei
amici cominciò a tormentarmi. «Zlatan, Zlatan, mi dai la chiave della tua camera?»
«Perché, che ci vuoi fare?»
«Niente, niente. Ma me la dai?»
«Ok, ok.»
Gliela diedi e non ci pensai neanche più. Ma quando rientrai in albergo nella notte l’amico
era ancora lì, aveva chiuso a chiave il guardaroba e aveva un’aria misteriosa.
«Che cos’hai lì dentro?» chiesi.
«Niente di speciale» rispose. «Ma non toccare.»
«Eh?»
«Possiamo farci un sacco di soldi, Zlatan!»
Lo sapete di cosa si trattava? Di un’autentica follia: una fila intera di costosi giacconi
Canada Goose che aveva rubato all’Undici. Perciò, a essere sinceri, non è che frequentassi
proprio le compagnie più serie. Intanto al Malmö cominciarono un po’ gli alti e bassi. Era una
cosa strana quella di stare in un club quando già ero stato venduto a un altro, e non ero
sempre molto presente. Certe volte mi incazzavo per nulla. Esplodevo. La domenica prima
della partita in trasferta contro l’Häcken ero stato ammonito per proteste e nell’aria c’era
parecchia tensione, tipo: “Cosa si inventerà stavolta quel matto di Zlatan?”.
L’Häcken era allenato da Thorbjörn Nilsson, una vecchia stella, e in squadra c’era Kim
Källström, che conoscevo dall’Under 21. Le prime fasi della partita furono molto ruvide, e,
come ho detto, io sono uno che non dimentica, ricordo ogni singolo intervento scorretto. Così,
poco dopo, atterrai Kim Källström da dietro e diedi una gomitata a un altro avversario, fui espulso e non ci vidi più. Sulla via degli spogliatoi tirai giù a calci un qualche altoparlante e un
microfono, e, certo, il tecnico del suono che aveva disposto quelle attrezzature non la trovò
una bella idea. Mi disse: «Idiota», allora io mi voltai di scatto e mi diressi verso di lui: «Chi
sarebbe un idiota?». Il nostro magazziniere si mise in mezzo e venne fuori un casino infinito,
da lì un sacco di titoli sui giornali e circa sette milioni di consigli da ogni dove; che avrei
dovuto cambiare comportamento e bla bla bla, altrimenti all’Ajax rischiava di andare male...
quante stronzate! L’«Expressen» intervistò perfino uno psicologo secondo il quale dovevo
cercare aiuto, e io reagii immediatamente: chi cavolo è questo qui? E cosa ne sa?
Non avevo bisogno di nessuno psicologo, avevo soltanto bisogno di calma e tranquillità,
ma non fu affatto divertente restare fuori e vedere il Göteborg umiliarci per sei a zero. La fortuna d’inizio stagione era svanita, e piovevano le prime critiche anche sul nostro allenatore,
Micke Andersson. Io non avevo niente contro di lui, ma neppure questo gran rapporto. Se
avevo qualche problema, andavo direttamente da Hasse Borg.
C’era però una cosa che cominciava a irritarmi: trovavo che Micke avesse troppo rispetto
per i più anziani della squadra. Forse ne aveva paura, di sicuro non era granché contento di
me dopo che mi ero guadagnato un’altra espulsione contro l’Örebro. C’erano delle tensioni e
un giorno in allenamento esplosero: stavamo giocando una partitella e Micke faceva l’arbitro;
ebbi uno screzio con Jonni Fedel, il portiere, uno dei più anziani della squadra, e ovvio, Micke
decise a suo favore. Io vidi rosso e lo affrontai.
«Tu hai paura dei vecchi. Hai paura perfino dei fantasmi!» sbraitai. Sul campo c’erano un
sacco di palloni e io cominciai a prenderli a calci, pum, pum, pum. Volarono via come proiettili
andando a finire sulle automobili parcheggiate fuori e facendo scattare gli allarmi. L’aria
cominciò a riempirsi di sirene e tutto si fermò, e io stavo lì, furioso, mentre i compagni mi fissavano a occhi sgranati. Micke Andersson cercò di calmarmi e io gli gridai: «Ma chi sei, mia
madre?».
Ero furibondo e me ne andai negli spogliatoi. Vuotai il mio armadietto, strappai l’etichetta
con il mio nome e dichiarai che non sarei tornato mai più indietro. Adesso basta! Addio
Malmö, grazie e tanti saluti, manica di idioti. Poi saltai sulla mia Toyota Celica e per un po’
non mi feci più vedere agli allenamenti. Giocavo alla PlayStation e andavo in giro con gli
amici invece. Era un po’ come se bigiassi, e ovviamente a un certo punto Hasse Borg mi telefon, era fuori di sé: «Dove sei? Dove sei? Devi ritornare subito!».
Così feci. Dopo quattro giorni ricomparvi, di nuovo buono e gentile, e onestamente non ho
mai creduto che il mio scatto d’ira fosse stato poi chissà che. Sono cose che succedono nel
calcio, fa parte del gioco, negli sport c’è molta adrenalina. Inoltre non mi restava ancora molto
tempo al Malmö, ormai stavo per andare in Olanda, e non volevo altri stupidi strascichi o punizioni. Piuttosto mi domandavo in che modo mi avrebbero ringraziato e congedato.
Solo qualche mese prima c’era stata la crisi, nel Malmö, la cassa era in rosso di dieci
milioni e non c’era stata la possibilità di acquistare un grande giocatore. Adesso era il club più
ricco di Svezia, io avevo procurato loro un capitale più che sostanzioso. Perfino Bengt Madsen, il presidente, aveva detto ai giornali: «Di giocatori come Zlatan ne nasce solo uno ogni
quindici anni!», per cui no, non era così strano aspettarsi una bella festa d’addio, o quanto
meno un: «Grazie per quegli ottantacinque milioni», specialmente dopo che, soltanto una settimana prima, avevamo festeggiato la partenza di Niclas Kindvall di fronte a trentamila
spettatori nella partita contro l’Helsingborg. Ma mi accorgevo che tutti avevano un po’ paura
di me, ero ancora in tempo a mandare all’aria l’affare con l’Ajax con una delle mie follie.
In ogni caso si stava avvicinando la mia ultima partita nel campionato svedese. Era in programma il 26 giugno fuori casa contro l’Halmstad, e io mi caricai per dare un bello spettacolo
d’addio. Non è che fosse una gran cosa per me, credetemi. Con il Malmö ormai avevo chiuso,
nella mente ero già ad Amsterdam, ma in ogni caso una fase della mia vita si avviava a concludersi. Ricordo che gettai un’occhiata all’elenco dei convocati per Halmstad appeso alla
parete dello spogliatoio, e che poi lo guardai una seconda volta.
Il mio nome non c’era, non ero neppure convocato. Ovviamente capii. Era la mia punizione. Era il modo di Micke di far vedere chi era a decidere, e ok, lo accettai, che cos’altro potevo fare? E nemmeno mi arrabbiai quando lui spiegò ai giornalisti che ero sotto pressione e
che «Zlatan ha bisogno di riposare», come se mi avesse escluso perché era tanto premuroso
da pensare in primo luogo alla mia salute. Ma ero talmente ingenuo da credere che la dirigenza stesse comunque organizzando qualcosa almeno con i tifosi.
Poco tempo dopo fui convocato nell’ufficio di Hasse Borg, e lo sapete, no, che non amo
queste cose: credo sempre che mi aspetti una lavata di capo o roba del genere. Ma in quel
periodo ne succedeva davvero una al giorno, perciò andai semplicemente lì senza neanche
provare a indovinare per cosa fosse. Quando arrivai lì c’erano Hasse e Bengt Madsen che se
ne stavano lì con un’aria un po’ austera e solenne e io mi domandai: di cosa si tratterà?
Cos’è, un funerale?
«Zlatan, il nostro periodo insieme si avvicina alla conclusione.»
«Non avrete mica intenzione...»
«Vogliamo dirti...»
«Vorreste ringraziarmi qui dentro?» dissi, guardandomi intorno.
Ci trovavamo nello squallido ufficio di Hasse, ed eravamo in tre.
«Perciò non intendete farlo di fronte ai tifosi?»
«Ecco» disse Bengt Madsen, «si dice che porti sfiga farlo prima di una partita.»
Io mi limitai a guardarlo. Che porti sfiga?
«Avete ringraziato Niclas Kindvall di fronte a trentamila persone e mi sembra che sia andata piuttosto bene, comunque.»
«Sì, certo, ma...»
«Cosa, ma?»
«Volevamo darti questo regalo.»
«E cosa diavolo è questo aggeggio?»
Era un pallone, un soprammobile di cristallo.
«È un ricordo del club.»
«Questo dunque sarebbe il vostro grazie per gli ottantacinque milioni?»
Che cosa s’immaginavano? Che me lo sarei portato ad Amsterdam e avrei versato una
lacrimuccia ogni volta che lo guardavo?
«Volevamo esprimerti la nostra gratitudine.»
«Non lo voglio. Potete tenervelo.»
«Ma tu non puoi mica...»
Potevo. Mollai giù quel coso di cristallo sul tavolo e me ne andai.
Quello fu il mio congedo dal club, né più né meno. Certo, non è che la cosa mi avesse
riempito di gioia, ormai ero in partenza e, detto sinceramente, cos’era il Malmö? La mia vera
vita cominciava adesso, e più ci pensavo, più mi appariva grandioso.
Non solo sarei andato all’Ajax, ero anche l’acquisto più costoso del club: forse l’Ajax non
era il Real Madrid o il Manchester United, ma era senza dubbio un grande club. Solo cinque
anni prima era arrivato a giocare la finale di Champions, e sei anni prima aveva vinto la
Coppa. Nel corso della sua storia il club aveva avuto giocatori del calibro di Cruijff, Rijkaard,
Bergkamp, Kluivert e Van Basten, soprattutto lui, un gigante, e io avrei indossato la sua
maglia. Era una cosa pazzesca, ma anche, iniziavo a capirlo, una dannata pressione.
Nessuno sborsa ottantacinque milioni senza volere in cambio qualcosa, ed erano passati
tre anni dall’ultima volta che l’Ajax aveva vinto il campionato: per un club del genere era un
piccolo scandalo. L’Ajax è la squadra più famosa d’Olanda e i tifosi pretendono che si vinca.
Quindi si trattava di darsi da fare e dimenticare qualsiasi atteggiamento da bullo, insomma di
non esordire esattamente con qualche: «Io sono Zlatan, voi chi cazzo siete?». Avrei dovuto
inserirmi senza traumi e imparare la cultura.
Ma intanto continuavo a far parlare di me anche fuori dal campo. Ritornando da Göteborg
a Bottnaryd, fuori Jönköping, fui fermato per eccesso di velocità. Chiaramente andavo a
centodieci su una strada dove c’era il limite di settanta, non una grande infrazione mi viene da
dire pensando a cosa avrei combinato più avanti, ma la patente andò in fumo e i giornali non
si limitarono ai titoloni. Ne approfittarono per tirare fuori di nuovo la famosa storia di Industrigatan. Fecero interi elenchi delle mie bravate e delle mie espulsioni e tutto ovviamente arriv anche in Olanda; così anche se la dirigenza del club di sicuro era già al corrente di buona
parte di quelle imprese, adesso pure i giornalisti di Amsterdam si misero in moto. Per quanto
volessi fare il bravo ragazzo, diventai un bad boy prima ancora di cominciare.
Un altro nuovo arrivato era un ragazzo egiziano, Mido, che veniva dal Gent. Entrambi ci
facemmo immediatamente la fama di essere teste matte, e come se non bastasse cominciai
a sentirne di ogni su quel famoso allenatore che avevo incontrato in Spagna, Co Adriaanse.
Doveva essere una specie di poliziotto terribile che sapeva tutto dei giocatori, e giravano
storie orrende sulle sue punizioni, fra le altre quella subita da un portiere che aveva osato
rispondere al cellulare durante un incontro tattico: aveva dovuto passare un’intera giornata al
centralino del club, senza conoscere una parola di olandese, ed era stato un: «Pronto, pronto,
non capire» tutto il santo giorno. E poi c’era la faccenda di quei tre ragazzi della primavera
che erano stati fuori a fare baldoria e a cui poi era toccato di rimanere stesi sul campo mentre
gli altri gli passavano sopra con le scarpe da calcio. Di storie così ne giravano un sacco, ma
non è che fossi preoccupato.
Ogni allenatore si porta dietro le sue leggende e le sue storie raccapriccianti, e in realtà a
me piacciono i tipi che esigono disciplina. Mi trovo bene con i mister che tengono le distanze
con i loro giocatori e non entrano troppo in intimità, perché è così che sono cresciuto. Nessuno ha mai detto: «Povero piccolo Zlatan, certo che potrai giocare». Non ho mai avuto un
papà che veniva agli allenamenti e pretendeva che tutti dovessero essere gentili con me,
neanche per sogno. Ho dovuto sempre arrangiarmi da solo e preferisco mille volte essere
rimproverato e litigare con l’allenatore ma poter giocare perché sono bravo, piuttosto che essere suo amico e poter giocare solo perché gli vado a genio. Non voglio manfrine, mi
mandano solo in confusione. Io voglio giocare a calcio, nient’altro.
Ero comunque nervoso quando feci le valigie e partii per l’Olanda. L’Ajax e Amsterdam
erano qualcosa di totalmente nuovo e mi ricordo il viaggio aereo, e l’atterraggio, e l’incaricata
del club che venne a prendermi all’aeroporto.
Si chiamava Priscilla Janssen ed era la factotum dell’Ajax, io mi sforzai di essere carino e
gentile e andammo subito d’accordo. Fu un buon inizio, e salutai anche l’altro tizio che aveva
con sé. Era un ragazzo della mia età che sembrava un po’ timido, ma che parlava un ottimo
inglese. Veniva dal Brasile, mi disse. Aveva giocato nel Cruzeiro, una squadra famosa laggiù,
lo sapevo perché ci aveva giocato anche Ronaldo. Proprio come me, anche lui era nuovo
nell’Ajax, e aveva un nome lungo che non afferrai esattamente. Ma aggiunse che potevo
chiamarlo Maxwell e ci scambiammo i numeri di telefono. Poi Priscilla mi accompagnò con la
sua Saab Cabrio alla piccola casa a schiera che il club mi aveva procurato a Diemen, un paesino poco lontano dalla città, e lì rimasi con un letto Hästens, un televisore da sessanta pollici
e nient’altro, a giocare alla PlayStation e a domandarmi che cosa sarebbe successo.
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Dovermi arrangiare da solo non era un grosso problema. Se c’era qualcosa che avevo imparato durante la mia infanzia e adolescenza era badare a me stesso, e mi sentivo il ragazzo più
figo d’Europa.
Ero diventato professionista ed ero stato venduto per una cifra da capogiro, ma la casetta
che mi aveva dato il club era comunque vuota. Mi pareva in capo al mondo e non avevo mobili né altro che desse un senso di casa, e a dirla tutta, ben presto anche il frigorifero cominciò
a essere vuoto. Non che andassi nel panico per quello o mi tornasse in mente tutta la mia infanzia o cose del genere. Era tutto a posto, avevo avuto il frigorifero vuoto anche nel mio appartamento a Lorensborg. Ero già abituato un po’ a tutto. Ma a Malmö, d’altro canto, non
avevo mai dovuto soffrire la fame: non solo perché m’ingozzavo come un idiota al ristorante
del club – e spesso mi ficcavo anche qualcosa di extra sotto la tuta, dessert di riso alla frutta
e cose del genere che mi tenevano in piedi la sera –, ma anche perché avevo una madre in
Cronmans väg e degli amici.
A Malmö c’erano un sacco di possibilità per evitare di cucinare e di preoccuparsi per un
frigorifero vuoto. Ma adesso, lì a Diemen, ero tornato al punto di partenza. Era semplicemente ridicolo. Non avevo neppure una scatola di cornflakes in casa ed ero quasi senza
soldi: me ne stavo seduto lì sul mio letto Hästens, e telefonavo praticamente a tutti quelli che
conoscevo: amici, papà, mamma, mio fratello minore e mia sorella. Ero solo, irrequieto e affamato e alla fine riuscii a mettermi in contatto con Hasse Borg.
Pensavo che lui avrebbe potuto mettere in piedi un accordo, o magari prestarmi un po’ di
soldi e fare in modo che l’Ajax lo rifondesse più avanti. Sapevo che Mido aveva fatto qualcosa
del genere con il suo vecchio club. Ma non era possibile.
«Non posso farlo» disse Hasse Borg. «Devi arrangiarti da solo», e io mi infuriai.
Era stato lui a vendermi, non aveva forse il dovere di aiutarmi in una situazione del
genere?
«Perché no?»
«Perché non è possibile.»
«È dov’è il mio dieci per cento?»
Non ebbi nessuna risposta e mi arrabbiai, ma ok, lo ammetto, potevo incolpare solo me
stesso: non avevo capito che doveva passare un mese prima di avere lo stipendio. Come se
non bastasse, avevo avuto anche un problema con la macchina, la mia Mercedes Cabrio.
Aveva una targa svedese e non potevo viaggiare con quella in Olanda. L’avevo appena
presa, e l’idea era naturalmente di usarla per andarmene in giro ad Amsterdam, invece avevo
dovuto venderla subito e ordinare al suo posto un’altra Mercedes, una SL 55, e questo non mi
aveva reso esattamente più ricco.
Perciò adesso me ne stavo seduto lì a Diemen, senza un soldo e affamato, a sentirmi dire
da papà che ero stato un cazzone a comprare una macchina del genere per poi rimanere
senza un soldo. Indubbiamente era vero, ma non mi aiutava. Continuavo a non avere nulla in
casa e a odiare i frigoriferi vuoti.
Fu allora che mi ricordai di quel brasiliano dell’aeroporto. Tra i nuovi giocatori, oltre a me e
a Mido, c’era lui, Maxwell; frequentavo abbastanza entrambi, non soltanto perché eravamo
tutti e tre nuovi, ma anche perché mi trovavo più a mio agio con i neri e i sudamericani. Erano
più divertenti, mi sembrava, più rilassati e non invidiosi come gli altri. Gli olandesi non desideravano altro che di andare via e finire in Italia o in Inghilterra, perciò si sorvegliavano a vicenda tutto il tempo – chi è messo meglio? – mentre gli africani e i brasiliani erano soprattutto
contenti di essere lì. Era tutto un: «Che figata, giochiamo nell’Ajax!». Io mi sentivo più a mio
agio con loro, mi piacevano quell’umorismo e quell’atteggiamento. Maxwell poi non era affatto
come gli altri brasiliani che avrei conosciuto. Non era di certo un party animal, un ragazzo che
aveva bisogno di sfondarsi di feste a intervalli regolari, piuttosto il contrario: era incredibilmente sensibile, un ragazzo legatissimo alla famiglia, uno che telefonava a casa di continuo.
È una gran persona, e se dovessi dire qualcosa di negativo di lui, è che è troppo buono.
«Maxwell, sono in crisi» gli dissi al telefono. «Non ho in casa neanche una scatola di cornflakes. Posso venire da te?»
«Ovviamente» rispose. «Vieni pure anche subito.»
Maxwell abitava a Ouderkerk, un piccolo centro di sette, ottomila abitanti: mi trasferii da lui
e dormii su un materasso per terra per tre settimane, fino al giorno del primo stipendio, e non
fu un brutto periodo. Facevamo da mangiare insieme e parlavamo dell’allenamento e degli altri giocatori e della nostra vecchia vita in Brasile e in Svezia. Lui mi raccontò della sua
famiglia e dei suoi due fratelli cui era molto legato, questo lo ricordo bene, perché uno dei due
morì in un incidente d’auto non molto tempo dopo.
Fu nel periodo da lui che mi diedi una regolata, e che la tensione cominciò ad allentarsi.
Riacquistai quella sensazione di vivere veramente una cosa fantastica, e iniziai anche bene il
precampionato. Segnavo a raffica contro le squadre minori che incontravamo, e facevo un
sacco di numeri, proprio come credevo di dover fare. L’Ajax era pur sempre famoso per il suo
gioco divertente e tecnico, e i giornali scrivevano cose tipo: «Ohi, ohi, sembra proprio valerli i
suoi ottantacinque milioni, che giocatore!». Certo, mi accorgevo che Adriaanse era duro con
me, ma credevo che facesse parte del suo stile. Ne avevo sentite talmente tante su di lui!
Dopo ogni partita dava un voto a ognuno, il più alto era dieci, e a me una volta diede
cinque nonostante avessi fatto una valanga di gol. «Tu hai fatto cinque gol, ma anche due
passaggi sbagliati. Quindi meriti un cinque.» Ok, le pretese erano alte, ma andavo avanti e
credevo che niente potesse fermarmi. Fra l’altro ricordo una chiacchierata con un ragazzo
che non aveva la più pallida idea di chi fossi.
«Ma sei bravo?» mi chiese.
«Forse non dovrei essere io a rispondere.»
«I tifosi della squadra avversaria di solito ti fischiano?» continuò.
«Come dei dannati.»
«Ok. Allora devi essere bravo» decise, e questa cosa non l’ho mai dimenticata. Se sei
bravo, ottieni fischi e insulti. È così che funziona.
A fine luglio ci fu l’Amsterdam Tournament, un classico torneo precampionato di alto livello che si svolge ogni anno in Olanda. Quella volta, oltre a noi, avrebbero partecipato Milan,
Valencia e Liverpool. Fantastico. Era la mia occasione per presentarmi agli occhi dell’Europa,
e mi accorsi immediatamente di essere capitato dentro a qualcosa di totalmente diverso dal
campionato svedese. A Malmö avevo tutto il tempo del mondo con il pallone tra i piedi, qui
tutto andava incredibilmente più in fretta.
Nella prima partita incontrammo il Milan, che attraversava un periodo di appannamento,
ma negli anni Novanta aveva dominato il calcio europeo. In campo cercai di non fare troppo
caso al fatto che avessero giocatori del calibro di Maldini: ce la misi tutta, e guadagnai dei
calci di punizione, e applausi, e feci un certo numero di belle cose. Ma era un match tosto e
finimmo per perdere per uno a zero.
Nella partita successiva incontrammo il Liverpool, che avrebbe fatto incetta di titoli
quell’anno e aveva forse la più forte difesa della Premier League con il finlandese Sami
Hyypiä e lo svizzero Stéphane Henchoz. Henchoz quell’anno non era stato solo incisivo, ma
anche protagonista di un episodio di cui si era parlato parecchio: nella finale della Coppa
d’Inghilterra aveva bloccato con la mano un tiro sulla linea di porta e, con quella scorrettezza
non vista dall’arbitro, aveva contribuito alla vittoria del Liverpool.
Sia lui sia Hyypiä mi stavano attaccati alle caviglie. A un certo punto, però, riuscii a raggiungere la palla vicino alla bandierina e puntai verso l’area di rigore dov’era in attesa Henchoz.
Non avevo ovviamente molte possibilità. Ero stretto. Potevo darla dietro oppure provare a saltarlo.
Provai a fare una finta praticamente da fermo, un giochetto fighissimo che Ronaldo e
Romário facevano spesso: era uno dei numeri che guardavo sul computer da ragazzino e che
provavo per ore e ore fino a riuscire a farlo anche nel sonno, così da non aver poi neanche
bisogno di pensarci per tirarlo fuori in partita. Si chiamava l’Elastico o il Serpente, perché a
farlo bene dà l’idea di un serpente che ti si contorce lungo il piede. Ma non è così facile. Devi
tenere l’esterno del piede dietro il pallone e portarlo prima rapidamente a destra e poi
all’improvviso a sinistra con la punta per poi scappare via, bam, bam, rapido come una
scheggia e mantenendo un controllo totale della palla incollata al piede.
Avevo utilizzato quella finta molte volte al Malmö, in Seconda Divisione, ma mai contro un
difensore di livello mondiale come Henchoz... L’avevo già sentito contro il Milan,
quell’atmosfera da grande calcio mi eccitava. Era più divertente dribblare contro gente tosta.
Filò liscia e basta, swish, swish: Stéphane Henchoz volò a destra e io lo saltai. Tutto il Milan,
presente a bordocampo, balzò in piedi urlando d’incredulità. Lo stadio esplose.
Era stata una giocata fantastica, e dopo, quando i giornalisti mi circondarono, dissi quelle
famose parole, e giuro che non pianifico mai quello che dirò. Succede e basta e succedeva
spesso in quel periodo, prima che imparassi a essere più cauto con i media. «Prima sono andato a sinistra» dissi, «e lui pure. Poi sono andato a destra, e lui pure. Quindi me ne sono andato sulla sinistra, e allora lui è andato a comprarsi una salsiccia.» Quella frase fu citata
ovunque, diventò celebre. Ci fecero perfino uno spot, e girò voce che il Milan fosse interessato a me. Fui definito il nuovo Van Basten e tutto questo genere di cose, e io pensavo
tipo: “Wow, sono un grande. Sono il brasiliano di Rosengård” e veramente, sarebbe potuto
essere l’inizio di una stagione fantastica.
Invece stava per iniziare un periodo pesante, e adesso, risultati alla mano, è facile
scorgere i segnali premonitori che c’erano stati fin dall’inizio: da una parte c’erano le mie
colpe, non mi comportavo bene, andavo a casa troppo spesso e cominciavo a calare di peso
e a essere davvero troppo smilzo; dall’altra c’era Co Adriaanse. Mi criticava pubblicamente,
anche se non in maniera così pesante per il momento. Sarebbe venuto di peggio dopo il suo
esonero, quando avrebbe detto che c’era qualcosa che non andava dentro la mia testa.
All’inizio era solo la stessa vecchia solfa, che giocavo troppo per me stesso, e io cominciai a
capire che perfino un numero come quello che avevo fatto con Henchoz non necessariamente viene apprezzato nell’Ajax, se non porta a qualcosa di concreto. Piuttosto può essere
visto come un tentativo di mettersi in mostra, di fare il figo con il pubblico anziché giocare per
la squadra.
All’Ajax giocavano con tre attaccanti anziché con due com’ero abituato. Io dovevo stare al
centro, e non scivolare sulle fasce e fare un sacco di giochetti individuali. Dovevo essere più
una prima punta, che faceva salire la squadra e che soprattutto faceva gol, e detto sinceramente cominciai a domandarmi se quella faccenda del calcio olandese così tecnico e divertente fosse ancora vera. Era come se avessero deciso di diventare più simili al resto
d’Europa, ma interpretare i segnali non era così facile.
C’erano tante di quelle cose nuove, io non capivo la lingua né la cultura e l’allenatore non
parlava con me. Non parlava con nessuno. Era un’autentica sfinge. Si aveva l’impressione
che fosse sbagliato anche solo guardarlo negli occhi, tipo, e io persi la mia scioltezza. Smisi
di fare gol, e allora il mio bel precampionato non mi fu più di alcuna utilità, piuttosto il contrario. Tutti quei titoloni e i paragoni con Van Basten mi si ritorsero solamente contro, e
cominciai a essere visto come una delusione, un acquisto sbagliato. Persi il posto a vantaggio
di Nikos Machlas, un greco che frequentavo parecchio.
Ecco, in quei momenti, quando vengo escluso e perdo la forma, mi continuano a ronzare
in testa le stesse domande: dov’è che sbaglio? Come faccio a uscire da questa situazione?
Ho questa tendenza. Non sono proprio il tipo che se ne va sempre in giro tutto soddisfatto
tipo: «Io sono Zlatan, fanculo!». Al contrario, continuo a domandarmi: avrei dovuto fare
questo o quest’altro? E poi guardo gli altri: che cosa posso imparare da loro? Cos’è che
manca in me? Quasi in ogni momento penso ai miei errori e anche alle cose buone che ho
fatto, però. Dove posso migliorare? Sempre, sempre mi porto a casa qualcosa dalle partite e
dagli allenamenti, ed è abbastanza faticoso, sapete. Non rimango mai veramente soddisfatto,
nemmeno quando dovrei esserlo, ma mi aiuta a migliorare. All’Ajax però rimasi bloccato in
quei pensieri, e non avevo nessuno con cui parlare davvero.
Così parlavo coi muri di casa e trovavo che la gente fosse tutta idiota, e ovviamente telefonavo ai miei e mi lamentavo. Fumavo letteralmente di rabbia. Eppure non posso veramente
dare la colpa a nessuno. Tutto mi sembrava soltanto sempre più forzato, e non mi sentivo per
niente bene, era come se già non sopportassi più la vita in Olanda. Un giorno andai da Beenhakker e gli chiesi: «Che cosa dice l’allenatore di me? È contento, o cosa?», e Beenhakker è
un tipo completamente diverso da Adriaanse, lui non vuole avere solo soldatini ubbidienti.
«Tranquillo. Va tutto bene. Abbiamo pazienza con te» rispose.
Ma io avevo nostalgia di casa e non mi sentivo apprezzato, né dall’allenatore né dai
giornalisti e neppure dai tifosi. I sostenitori dell’Ajax, credetemi, non sono persone con cui
scherzare. Sono abituati a vincere, tipo: «Che diavolo, avete vinto solo tre a zero?».
Quando ottenemmo solo un pareggio con il Roda ci tirarono addosso sassi, tubi di ferro e
bottiglie di vetro, io fui costretto a fermarmi allo stadio e chiedere protezione. C’erano un
sacco di cose che non andavano e invece di quello «Zlatan, Zlatan» che avevo sentito
all’inizio, adesso ricevevo fischi e insulti, non dai tifosi della squadra avversaria, questo
sarebbe stato del tutto normale, ma dai nostri. Era pesante.
Ma in questo sport devi farti andar bene la situazione, e lì si poteva anche capire. Io ero
l’investimento più costoso del club, non dovevo essere un panchinaro ma il nuovo Van
Basten e fare un gol dopo l’altro. Mi sforzavo veramente più che potevo. Mi sforzavo troppo, a
essere sinceri.
Una stagione calcistica è lunga, si sa, e non puoi far vedere tutto in una sola partita. Ma
era quello che cercavo di fare. Quando entravo volevo spaccare il mondo e perciò mi bloccavo, credo. Suppongo che non avessi imparato ancora a gestire realmente la pressione,
nonostante tutto. Quegli ottantacinque milioni cominciavano a pesare come un maledetto
zaino, e io passavo molto tempo seduto in casa a Diemen.
Non ho idea di cosa credevano che facessi i giornalisti a quei tempi, di sicuro molti si immaginavano che io e Mido, tipo, ce ne andassimo in giro per la città a cazzeggiare allegramente. In realtà me ne stavo in casa a giocare ai videogiochi, giorno e notte, e se avevamo
un lunedì libero volavo a casa la domenica sera e ritornavo col volo delle sei la mattina del
martedì, andando direttamente all’allenamento. Non frequentavo nessun locale, niente roba
del genere, ma questo comunque non faceva di me un professionista.
Non avevo la minima serietà, devo dirlo, ed ero disordinato con i ritmi e col cibo e a
Malmö facevo un sacco di cazzate. Mi divertivo con i petardi illegali che lanciavamo dentro i
giardini della gente. Erano fumo e zolle d’erba e altre schifezze che volavano in aria, erano un
sacco di folli viaggi in macchina perché è così che funziona: se non succede niente nel calcio,
devo fare in modo che ci sia qualcos’altro a darmi la carica. Ho bisogno di azione, ho bisogno
di slancio, di vitalità, e non mi comportavo certo da atleta.
Continuavo a calare fortemente di peso, mentre come punta dell’Ajax sarei dovuto essere
ben piazzato e farmi avanti a cornate. Invece ero sceso a settantacinque chili, o anche meno.
Ero diventato magrissimo, e probabilmente ero anche stanco. Non avevo fatto vacanze ma
due precampionati nell’arco di sei mesi e, quanto all’alimentazione, cosa credete? Mangiavo
malissimo: le uniche cose che sapevo fare erano tostare il pane e cuocere i maccheroni, tipo.
Anche sui giornali la musica era cambiata: non c’era più nessun «Un altro successo per
Zlatan», c’erano piuttosto «Zlatan esce sotto una pioggia di fischi» o «Zlatan è fuori forma», è
questo e quest’altro. E poi c’erano i miei gomiti.
Se ne faceva un gran parlare.
Cominciò tutto in una partita contro il Groningen, quando diedi una gomitata sulla nuca a
uno dei loro. L’arbitro non vide nulla, ma il tipo crollò a terra e fu portato fuori in barella.
Quando ritornò in campo dopo l’intervallo era ancora un po’ stordito, ma il peggio fu che la
Federazione olandese volle studiare le riprese televisive e decise di squalificarmi per cinque
giornate. Non era esattamente ciò di cui avevo bisogno, anzi, era una vera batosta. E
ricominciò pure peggio dopo la squalifica: tirai un’altra gomitata sulla nuca a un avversario, e
ovviamente anche lui fu portato fuori in barella. Era come se avessi dato inizio a un nuovo
gioco imbecille, e, anche se la seconda volta riuscii a schivare la squalifica, finii ai margini
della squadra. Era una situazione pesante, i tifosi erano furiosi, e telefonai a Hasse Borg. Era
un’idiozia, ma è il genere di cose che si fa quando ci si trova in situazioni disperate.
«Cazzo, Hasse, non è che potresti ricomprarmi?»
«Ricomprarti? Stai dicendo sul serio?»
«Portami via di qui. Io non ce la faccio più.»
«Avanti, Zlatan, non ci sono soldi per farlo, lo capisci anche tu. Devi avere pazienza.»
Ma io mi ero rotto di avere pazienza, volevo giocare di più, e avevo una terribile nostalgia
di casa. Mi sentivo completamente perso, ero solo e volevo di nuovo la mia vecchia vita. Invece che cosa ottenni? Una nuova batosta!
Cominciò quando scoprii che in squadra ero quello che guadagnava di meno. Era un po’
che ne avevo il sentore, e alla fine fu tutto chiaro. Ero stato l’acquisto più costoso del club,
preso per essere il nuovo Van Basten, eppure guadagnavo meno di tutti, e voglio dire: da che
cosa dipendeva? Immaginarlo non era poi tanto difficile...
Ricordate le parole di Hasse Borg, no? «Gli agenti sono dei ladri» e via dicendo, e in un
maledetto lampo capii: mi aveva imbrogliato. Aveva finto di essere dalla mia parte, ma in realt aveva agito solo a favore del Malmö. Più ci pensavo, più mi era tutto chiaro e più mi incazzavo. Già dall’inizio Hasse aveva fatto in modo che nessuno si mettesse fra noi, nessuno
che potesse rappresentare i miei interessi. Così alla firma del contratto me n’ero rimasto in
quella sala dell’Hotel S:t Jörgen come un idiota nella mia tuta sportiva a farmi fregare da quei
tizi in giacca e cravatta con le loro lauree in Economia. Fu come un pugno nello stomaco.
Il denaro non è mai stato la cosa più importante per me, ma essere fregato e sfruttato, essere visto come l’immigrato ignorante che si può imbrogliare e sul quale guadagnare dei soldi
mi mandò in bestia, e andai dritto al sodo. Telefonai a Hasse Borg.
«Che cazzo è questa storia? Ho il peggiore contratto di tutto il club.»
«Ma che stai dicendo?»
Lui faceva il finto tonto, sapete.
«E dov’è il mio dieci per cento?»
«Li abbiamo investiti in un fondo assicurativo in Inghilterra.»
In un fondo assicurativo? E che diavolo era? Non mi diceva nulla, e allora dissi ok, può
essere qualsiasi cosa un’assicurazione, anche un sacchetto di plastica pieno di banconote,
un secchio nel deserto.
«Voglio i miei soldi adesso.»
«Non è possibile» disse lui.
I soldi erano vincolati, erano investiti in un qualche modo del quale non avevo la più pallida idea, e decisi di andare a fondo della questione. Per prima cosa mi procurai un agente,
perché questo almeno avevo cominciato a capirlo: gli agenti non sono dei ladri. Senza non
hai nessuna chance. Senza aiuto stai lì a farti fregare dai tizi in giacca e cravatta. Tramite un
amico trovai un ragazzo che si chiamava Anders Carlsson e che lavorava all’IMG a Stoccolma.
Anders era ok, anche se mancava un po’ di slancio. Era uno di quei ragazzi che non
sputano mai la gomma da masticare per strada, o che non superano mai i limiti, voleva
comunque fare un po’ il duro senza però riuscirci mai in maniera naturale. Ma mi aiutò molto
nei primi tempi. Riuscì a procurarsi quelle famose carte relative all’assicurazione e lì arrivò il
secondo shock: non c’era più scritto dieci per cento della somma di trasferimento, ma otto per
cento, e io domandai: «Che cos’è questa storia?».
Avevano pagato un anticipo d’imposta salariale, mi dissero, e allora pensai: “Che accidenti sarebbe? Anticipo d’imposta salariale!”. Non ne avevo mai sentito parlare, e lo dissi
chiaro e tondo: questa cosa non sta in piedi, è un nuovo trucco. Bastò che Anders Carlsson
facesse un po’ di pressione, e io riebbi quel famoso due per cento, d’improvviso non c’era più
nessun anticipo d’imposta salariale. A quel punto tutto crollò, avevo chiuso con Hasse Borg.
Fu una lezione che non dimenticherò mai. Mi segnò, detto molto sinceramente, e non
pensate neanche per un secondo che oggi non abbia un preciso controllo sui miei soldi e
sulle mie condizioni. Qualche tempo fa Mino mi ha chiamato e mi ha chiesto: «Quanto ti ha
dato l’editore per il tuo libro?».
«Non so di preciso.»
«Stronzate! Lo sai benissimo» e, ovvio, aveva ragione.
Ho il controllo totale. Non sopporto l’idea di farmi fottere di nuovo, perciò cerco tutto il
tempo di essere un passo avanti nelle trattative. Che cosa pensano? Che cosa vogliono, e
qual è la loro strategia? E poi non dimentico. Le cose mi s’imprimono nel cervello, e sì,
Helena dice sempre che non dovrei rimuginare così tanto: «Sono stufo di odiare Hasse
Borg», tipo.
Ma no, io non lo perdono, non c’è possibilità. Non si fa così con un ragazzo alle prime
armi. Non fingi di essere un secondo padre mentre cerchi in tutti i modi di fregarlo. Ero stato il
ragazzino in cui nessuno credeva, l’ultimo che ci si aspettava venisse preso in prima squadra.
Ma poi... quando mi avevano venduto per un sacco di soldi, l’atteggiamento era cambiato. Allora si trattava di spremermi come un limone. Un momento quasi non esistevo, e l’attimo
dopo dovevo essere sfruttato al massimo. Questo non lo dimentico e penso spesso: “Hasse
Borg avrebbe fatto lo stesso se fossi stato un ragazzo di Limhamn e avessi avuto un papà
grande avvocato?”. Non credo, e già allora mi espressi sull’argomento. Dissi, più o meno, che
Hasse doveva stare attento, ma suppongo che lui non capì esattamente, e più tardi nel suo
libro scrisse che era stato il mio mentore, quello che si era preso cura di me. Tutto qui. Ma
credo che in seguito finalmente abbia capito meglio come stavano le cose: fu quando, qualche anno fa, ci capitò d’incontrarci in ascensore. Eravamo in Ungheria.
Io ero lì con la Nazionale: entrai nell’ascensore dell’albergo, al quarto piano ci fermammo
e come dal nulla salì lui. Era in città per lisciare il pelo a qualcuno, e stava annodandosi la
cravatta quando mi vide. Sapete, Hasse è tutto un: «Ehilà, ciao, come ti butta?» e via
dicendo. Disse qualcosa del genere e tese la mano. Ma non ebbe nessuna reazione da parte
mia, solamente gelo e uno sguardo torvo, e diventò terribilmente nervoso. Se ne stava lì, un
po’ imbarazzato e un po’ impaurito, e io ancora non dicevo una parola. Lo fissavo e, arrivati al
pianterreno uscii nella hall impassibile, lasciandomelo alle spalle. Fu il nostro unico incontro
da quella famosa storia.
Mi sentivo gabbato e offeso, ero quello peggio pagato e i tifosi mi fischiavano. Come se
non bastasse c’erano le gomitate. C’era tutto il fango, c’erano le liste dei miei errori, c’era la
storia di Industrigatan per la centesima volta, e poi si diceva che ero totalmente fuori fase.
C’era nostalgia del vecchio Zlatan. C’erano un sacco di chiacchiere giorno dopo giorno, e i
pensieri mi ronzavano dentro.
Cercavo soluzioni ogni ora, ogni minuto, perché no, non mi arrendevo, neanche per
sogno. Io non sono cresciuto avendo la vita facile, molti se lo dimenticano. Non sono un talento che è semplicemente volato in Europa a passo di danza, io ho lottato controvento. Genitori e allenatori mi sono stati contro fin dal primo momento, e molto di ciò che ho imparato
l’ho imparato ignorando quello che dicevano gli altri. «Quello Zlatan non fa che dribblare» si
lamentavano. «È così e cosà, è sbagliato.» Ma io sono sempre andato avanti, ho ascoltato e
non ho ascoltato, e adesso all’Ajax stavo cercando veramente di capire la cultura e di imparare come si pensava e si giocava.
Mi domandavo dove avrei dovuto migliorare e apprendevo al volo da altri, e mi allenavo
duramente. Ma, al tempo stesso, non abbandonavo il mio stile. Nessuno avrebbe potuto
togliere il sangue al mio gioco: non che fossi cocciuto o rompicazzo con i compagni tanto per
fare, semplicemente non mollavo, e quando in campo ce la metto tutta posso sembrare aggressivo. Fa parte del mio temperamento. Dagli altri pretendo tanto quanto pretendo da me
stesso. Ma chiaramente Co Adriaanse se la prese con me. Ero un soggetto difficile, ebbe a
dire più tardi, uno pieno di sé. Uno che corre da solo, e ok, lui è libero di dire quello che vuole,
non ho intenzione di replicare. Mi va bene così. L’allenatore è il boss. Posso soltanto dire che
mi sforzavo veramente per essere all’altezza.
Il nodo comunque non si scioglieva. Non succedeva nulla, tranne forse che a un certo
punto giunse voce che Co Adriaanse stava per essere esonerato, e questa era una buona
notizia, nonostante tutto.
Le avevamo prese contro il Celtic di Henke nei preliminari di Champions e poi contro il
Copenaghen una volta retrocessi in Coppa Uefa, ma non credo che siano stati i risultati a
farlo cadere. In campionato eravamo messi bene. Dovette andarsene perché non era capace
di comunicare con i giocatori. Nessuno di noi aveva contatti con lui. Vivevamo come in un
vuoto, ed è vero, mi piacciono i tipi tosti e Co Adriaanse era veramente un duro, ma passava
il limite: non c’era nessuno spirito nel suo stile da dittatore, nessun guizzo nello sguardo, niente, e noi ovviamente eravamo tutti curiosi: chi arriverà dopo?
Per un certo periodo si parlò di Rijkaard, e suonava bene non perché un buon giocatore
diventi automaticamente un buon allenatore, ma perché in ogni caso, insieme a Van Basten e
a Gullit era stato leggendario nel Milan. Invece arrivò Ronald Koeman, e anche lui lo conoscevo, era stato un fantastico specialista sui calci di punizione al Barcellona. Nel suo staff
c’era anche Ruud Krol, un altro grande ex giocatore: mi accorsi all’istante che loro mi
capivano e cominciai a sperare che le cose sarebbero cambiate.
Invece peggiorarono soltanto. Fui lasciato in panchina per cinque partite consecutive e
durante un allenamento Koeman mi mandò addirittura a casa.
«Tu non ci sei!» urlò. «Non stai dando tutto. Puoi anche andartene a casa!» e certo, me
ne andai, avevo la testa altrove. Non è che fosse questa grande faccenda, ma ovviamente
vennero fuori i titoloni. Perfino Lars Lagerbäck comparve sui giornali: disse che era preoccupato per me e si cominciò a mormorare che potevo perdere il mio posto in Nazionale. Questo
non era affatto divertente.
Quell’estate dovevano esserci i Mondiali in Corea e Giappone, ed era un appuntamento
che aspettavo da molto tempo. Come se non bastasse, cominciai a temere che la mia maglia,
il numero nove dell’Ajax, mi venisse tolta. Non che me ne importasse chissà quanto, me ne
sbatto del numero che ho sulla schiena, ma sarebbe stato un segno del fatto che non credevano più in me. All’Ajax si parlava continuamente di numeri: il numero dieci farà così, il numero undici cosà, e nessun numero era pregiato come il nove, quello che aveva avuto Van
Basten. Portarlo era un onore speciale, e se non corrispondevi all’attesa te lo toglievano, era
così che funzionava: adesso si continuava a ripetere che il mio contributo era insufficiente, e
purtroppo probabilmente era vero.
Avevo fatto solo cinque gol in campionato, in totale alla fine furono sei, per lo più ero rimasto seduto in panchina, tra i fischi che continuavano ad aumentare. Perfino i tifosi avevano
preso posizione contro di me. Quando mi scaldavo per entrare cantavano: «Nikos, Nikos,
Machlas, Machlas». Non aveva nessuna importanza quanto il greco fosse scarso, loro non
volevano in campo me, e io pensavo: “Merda, non ho ancora cominciato a giocare e ce li ho
già contro”. Se sbagliavo un passaggio, sugli spalti scoppiava la rivoluzione: fischi e urla e di
nuovo la stessa solfa: «Nikos, Nikos, Machlas, Machlas». Non bastava che giocassi poco e
male, adesso avevo anche l’ostilità dei nostri tifosi da contrastare.
In tutto ciò, stavamo per vincere il campionato, ma io non riuscivo a rallegrarmene. Non
avevo mai fatto parte seriamente della squadra, e non era più possibile chiudere gli occhi su
questa verità. Eravamo in troppi nel mio ruolo, qualcuno di noi doveva andarsene, e quel
qualcuno ero io, me lo sentivo. Si ripeteva spesso che ormai ero solo la terza scelta, dopo
Machlas e Mido. Perfino Leo Beenhakker, il mio amico, dichiarò alla stampa olandese:
«Zlatan è spesso il giocatore che dà inizio alla nostra fase offensiva, però non sa concludere
davanti alla porta». E aggiunse: «Se dovessimo venderlo, ovviamente faremo di tutto perché
vada in un buon club».
C’era aria di cessione, e le dichiarazioni si moltiplicarono. Koeman stesso disse: «Zlatan è
qualitativamente il nostro migliore attaccante, ma per indossare la maglia numero nove
dell’Ajax occorrono anche altre doti. E dubito che lui possa fare di più». Così poi arrivarono i
titoloni, «Zlatan inserito nella lista dei trasferimenti» e simili. Anche se non si riusciva a sapere
di preciso che cosa fosse vero e che cosa no, rimaneva il fatto che ero stato acquistato per
un sacco di soldi e che mi stavo rivelando una delusione. Era come se mi stessero smascherando, tipo: «Allora è davvero una star sopravvalutata».
Non ero stato all’altezza delle aspettative. Era il mio primo grosso fallimento, ma rifiutavo
di arrendermi. Gliel’avrei fatta vedere a tutti, era un pensiero che mi picchiava in testa notte e
giorno. Dovevo farlo, che venissi venduto o meno. Dovevo dimostrare il mio valore, qualsiasi
cosa fosse successa. C’era solo un problema: come farlo, se non mi facevano giocare? Era
una lama a doppio taglio, una situazione senza speranza, e io stavo lì a friggere in panchina:
“Sono scemi o cosa?”. Sembravano tornati i tempi degli juniores del Malmö.
Quella primavera ci qualificammo per la finale della Coppa d’Olanda. Dovevamo incontrare l’Utrecht al De Kuip di Rotterdam, lo stesso stadio che aveva ospitato la finale degli
Europei due anni prima, e c’era una pressione enorme. Era il 12 maggio. Sugli spalti scoppiavano petardi e altro, un casino spaventoso. Per l’Utrecht, l’Ajax è il grande nemico. Nessuna partita è più sentita, e i tifosi sembravano pazzi di odio e voglia di rivincita dopo il nostro
successo in campionato. Noi, invece, avevamo una magnifica possibilità per portare a casa il
double e dimostrare di essere veramente ritornati grandi dopo qualche anno difficile. Ma ovvio, io non avrei praticamente potuto contribuire nemmeno a quello.
Rimasi in panchina per tutto il primo tempo e per buona parte del secondo, e vidi l’Utrecht
segnare il due a uno su punizione. Noi sembrammo sparire dal campo mentre i tifosi
dell’Utrecht diventavano pazzi e non lontano da me Koeman stava lì abbacchiato nel suo
completo con la cravatta rossa, con l’aria totalmente rassegnata. “Mettimi dentro, avanti”
pensavo, e finalmente, al settantottesimo minuto, mi fece entrare. Ero impaziente e carico e
volevo tutto subito, come sempre quell’anno. Insistevamo e insistevamo ma i minuti passavano e sembrava andare tutto alla rovescia: non riuscivamo a trovare varchi, ricordo che a
un certo punto tirai una bordata a botta sicura che finì sulla traversa.
Sembrava finita, ci fu qualche minuto di recupero ma non c’erano più speranze. I tifosi
dell’Utrecht stavano già festeggiando: in tutto lo stadio sventolavano le loro bandiere, si sentivano i loro canti e ormai mancavano trenta, venti secondi. Ma arrivò un lungo passaggio in
area di rigore, che superò diversi difensori dell’Utrecht e raggiunse Wamberto, uno dei nostri
brasiliani; probabilmente era in fuorigioco, ma il guardalinee non lo vide, lui mise il piede sulla
palla e calciò in rete, e fu incredibile. Ci eravamo salvati all’ultimo secondo di recupero: i tifosi
dell’Utrecht si misero le mani nei capelli, erano disperati. Ma ovviamente non era ancora finita.
Bisognava giocare i supplementari, e all’epoca molti supplementari nelle coppe si decidevano attraverso il golden gol (o sudden death, come si dice nell’hockey): la prima squadra
a segnare avrebbe vinto la partita. Al quinto minuto mi arrivò un passaggio da sinistra, io
saltai e colpii di testa e subito dopo ripresi la palla. La misi giù con il petto, mi marcavano
stretto ma riuscii a girarmi e a tirare di sinistro. Venne fuori un tiro un po’ sporco, la palla rimbalz sull’erba, ma era ben angolata e finì in rete. Io mi strappai la maglia e mi precipitai fuori
verso sinistra, completamente pazzo di gioia e magro come un’acciuga. Mi si vedevano le
costole.
Era stato un anno duro. La pressione era stata micidiale e il mio gioco aveva subito
un’involuzione per lunghi periodi. Ma adesso ero tornato. Quella era la mia, di rivincita.
Gliel’avevo fatta vedere a tutti quanti, lo stadio era in delirio. L’aria vibrava letteralmente di felicit da una parte e di delusione dall’altra, e soprattutto mi ricordo Koeman che corse verso di
me e mi urlò all’orecchio per sovrastare il frastuono: «Thank you very much! Thank you very
much!».
Era una gioia impossibile da descrivere, e io correvo e correvo intorno al campo con tutta
la squadra dietro, e sentivo sciogliersi ogni tensione.
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Ero il tipico, dannato slavo, pensava lei, uno che gira sulla sua macchina lussuosa con la musica a volume troppo alto. Insomma, quindi non il tipo giusto per lei. Ma di questo io all’epoca
non sapevo nulla.
Io mi vedevo fighissimo, e stavo seduto lì nella mia Mercedes SL fuori dal Forex della
Stazione Centrale di Malmö mentre Keki era dentro a cambiare dei soldi. La stagione in Olanda era finita, e può essere stato prima oppure dopo i Mondiali in Corea e Giappone, non me
lo ricordo ma non ha nessuna importanza, io comunque ero lì e quella tipa era scesa dalla
macchina come una furia. Era arrabbiata per qualcosa.
“Chi cavolo sarà?” pensai.
Non l’avevo mai vista prima, e sì che all’epoca avevo Malmö abbastanza sotto controllo.
Tornavo non appena ne avevo l’occasione e credevo di sapere quasi tutto della città. Ma
quella ragazza... dov’era stata nascosta? Non era soltanto carina, aveva anche un atteggiamento aggressivo tipo: «Non rompetemi le palle», e poi era anche un po’ più grande di me.
La cosa sembrava interessante, così mi informai in giro: chi è? Che tipo è? Da un conoscente
venni a sapere che si chiamava Helena, e ok, Helena, pensai. Non riuscivo a dimenticarla;
ma non ci fu nessun seguito, mi succedevano così tante cose intorno che nulla faceva veramente presa, anche se un giorno tornai a Stoccolma con la Nazionale, e lì, insomma... Da
dove vengono tutte quelle belle ragazze? È pazzesco, ce ne sono dappertutto. Io e alcuni
amici una sera andammo al Café Opera e ovviamente si creò una gran ressa. Come al solito
sondai il terreno con quel famoso sguardo che mi ero portato appresso da Rosengård, tipo:
«C’è qualche problema? C’è qualcuno che cerca guai?». C’è sempre qualcosa.
A quei tempi, tra l’altro, andava meglio. Era prima che tutti iniziassero a fotografarmi con i
loro telefonini, e molti senza chiedere neanche il permesso: mi sparano quel maledetto flash
in faccia e certe volte vedo rosso, vado in bestia, ve lo racconterò più avanti. Ma quella sera
stavo solo facendo girare lo sguardo nel locale e d’improvviso la vidi, wow, è proprio la tipa
del Forex!
Mi avvicinai e le dissi: «Ehi ciao, vieni da Malmö anche tu, vero?» e lei iniziò a dirmi un
sacco di cose, lavoro di qua e di là, io non ci capivo niente. Quelle faccende legate alla carriera mi erano totalmente incomprensibili allora, e probabilmente fui un bel po’ arrogante.
Avevo quello stile, all’epoca.
Non volevo entrare in confidenza con nessuno. Ma dopo me ne pentii, avrei dovuto
mostrarmi più gentile, e fui contento quando la incontrai una terza volta a Malmö. Cominciai a
incontrarla in continuazione. Guidava una Mercedes SLK che era spesso parcheggiata in Lilla
Torg, e di lì ci passavo spesso. Intanto io avevo dato via la Mercedes SL e mi ero preso una
Ferrari 360 rossa. L’intera città lo sapeva. Era tutto un: «Guarda, sta passando Zlatan», ed è
vero, se volevo passare inosservato quella macchina non era certo una buona idea. Ma
dovete sapere che i tizi che mi avevano venduto la Mercedes mi avevano assicurato: «Sei
l’unico del Paese ad averla!». Erano solo chiacchiere da venditori. Ne avevo vista un’altra
identica in centro quella stessa estate e mi ero detto: “Andatevene all’inferno, ho chiuso con
questa macchina” e così avevo telefonato a un concessionario Ferrari e avevo chiesto:
«Avete una macchina già pronta da portare via?». Mi risposero di sì e allora ero andato là e
l’avevo ritirata dando indietro la mia SL come parte del pagamento. Era un’idiozia, a quei
tempi non ero granché ricco ma me ne fregai.
Perciò adesso me ne andavo in giro a bordo di una Ferrari e mi sentivo molto figo, e certe
volte dunque la vedevo sulla sua Mercedes nera, quella ragazza che si chiamava Helena, e
pensavo tipo: “Devo fare qualcosa, non posso mica limitarmi a guardare”. Dal mio conoscente
ottenni il suo numero di cellulare, e ci pensai su un po’. Dovevo telefonare?
Decisi di mandarle un sms, tipo: «Ciao, come va? Credo che ci siamo incrociati ogni
tanto» e conclusi firmandomi: «Quello della rossa», quello con la Ferrari rossa; lei mi rispose
firmandosi: «Quella della nera» e io pensai: “Magari è un inizio, il principio di qualcosa,
chissà”.
La chiamai e ci vedemmo, niente di straordinario all’inizio, solo qualche pranzo e cose
così. Ma un giorno l’accompagnai alla sua tenuta in campagna, gettai un’occhiata
all’arredamento, con tutte quelle tappezzerie eleganti e le stufe di maiolica, e detto in tutta
sincerità restai abbastanza impressionato. Era qualcosa di totalmente nuovo per me. Non
avevo mai conosciuto una ragazza single che vivesse a quel modo, e ancora non avevo
capito di preciso che mestiere facesse. Si occupava in qualche modo del marketing della
Swedish Match, ma mi resi conto che doveva avere una posizione di tutto rispetto nel suo
settore e la cosa mi piaceva.
Helena non era affatto come le ragazzine che avevo conosciuto prima: niente isterie,
proprio neanche l’ombra, lei era tosta. Le piacevano le automobili. Se n’era andata via di casa
a diciassette anni e si era fatta strada lavorando, e io non ero per niente una superstar per lei.
«Avanti, Zlatan, tu non eri esattamente Elvis» mi disse qualche tempo dopo ripensando ai
nostri primi incontri. Per lei ero solo un ragazzo un po’ matto che si vestiva male ed era totalmente immaturo, e certe volte questa cosa mi faceva incazzare.
«Evil super bitch deluxe», rispondevo, o «Evilsuperbitchdeluxe» in un’unica parola, in un
unico respiro, perché lei correva sempre di qua e di là con tacchi a spillo vertiginosi, i jeans
attillati, le pellicce e altra roba di questo genere. Era come il Tony Montana di Scarface ma in
versione femminile, mentre io andavo in giro sempre in tuta. Era tutto talmente sbagliato fra
noi che in qualche modo pareva giusto, e insieme ci divertivamo. «Zlatan, tu sei completamente fuori di testa. Ma un sacco divertente» diceva, e io speravo che lo pensasse davvero.
Stavo bene con lei.
Però, in ogni caso, Helena veniva da una famiglia bene di Lindesberg, una di quelle
famiglie in cui dicono: «Tesoro, puoi essere così gentile da passarmi il latte», mentre noi,
come ho già detto, più che altro a tavola ci minacciamo di morte. Molte volte lei non capiva
neanche quel che dicevo: io non sapevo niente del suo mondo, come lei non sapeva niente
del mio. Ero undici anni più giovane e abitavo in Olanda, ed ero una testa matta che aveva
degli amici criminali. Non era esattamente la situazione ideale per pensare a un futuro insieme.
Quando io e alcuni amici quell’estate andammo a Båstad per imbucarci a una festa che lei
aveva organizzato durante la settimana del tennis con tutte le persone famose possibili e immaginabili, non volevano lasciarci entrare, di certo non volevano far entrare i miei amici. Qualche settimana dopo scoppiò un altro macello per via di alcune automobili che Helena ci aveva
prestato e che avevano partecipato a imprese che ovviamente, quando gliele raccontai, lei
non approvò. Insomma, c’erano continuamente casini.
Una volta, per esempio, avevo giocato con la Nazionale a Riga e atterrai a Stoccolma la
sera tardi, e con Olof Mellberg e Lars Lagerbäck presi un taxi per lo Scandic Park Hotel. Era
stata una partitaccia e non avevamo nulla da festeggiare: avevamo pareggiato zero a zero
contro la Lettonia nelle qualificazioni per i Mondiali e sapete, io ho sempre avuto difficoltà a
dormire dopo le partite, specialmente quando ho giocato male, perché mi continuano a passare in testa gli errori che ho fatto. Così decisi di andare in centro con qualche amico e fare
una puntatina allo Spy Bar, in Stureplan. Era tardi, e salii di qualche piano.
Non ero lì da molto tempo quando una ragazza mi si avvicinò. Era molto su di giri, io
avevo gli amici nelle vicinanze. Se vi capita di vedermi in giro, potete star certi che ho degli
amici con me lì da qualche parte. Non è soltanto per via del casino che ho sempre intorno, è
anche una questione di carattere. Finisco facilmente in compagnia dei bad boys. Ci attiriamo
a vicenda, e la cosa non mi disturba neanche un po’: sono simpatici come può esserlo chiunque altro, ma è chiaro, può scoppiare qualche scintilla. Quella ragazza dunque mi venne vicino e disse qualcosa di stupido. Cominciò a provocarmi, e all’improvviso comparve suo fratello e mi strattonò, e non avrebbe dovuto farlo.
I miei amici non sono gente con cui si scherza. Uno di loro prese il tizio e un altro la
ragazza, e io pensai subito: “No, in questa storia non voglio entrarci”. Volevo andarmene, ma
era la prima volta che andavo allo Spy Bar, era tardi e c’era casino e non trovavo l’uscita. Finii
invece nei bagni, e intanto di là era già scoppiato un macello e mi prese male. Avevo appena
giocato in Nazionale. “Qui salteranno fuori dei titoloni” pensai, “scoppierà qualche scandalo”,
e a quel punto arrivò il capo della sicurezza del locale e non era più cordiale come prima.
«Il proprietario vuole che lasci il locale.»
«Di’ pure a quel maiale che anch’io non desidero altro» sibilai. Così mi accompagnarono
fuori.
Erano le tre e mezza del mattino, lo so per certo perché venni ripreso da una telecamera
di sorveglianza, e cosa credete? Che quei tali trattarono il filmato secondo la privacy o roba
simile? Neanche per sogno. Finì tutto all’«Aftonbladet», e il giorno dopo ero in prima pagina,
da non credere, come se avessi ammazzato sette persone. Tutti i giornali strombazzarono la
notizia che ero stato denunciato per molestie. Molestie? Ma vi rendete conto? Pazzesco.
Come al solito, i fortunati a cui per caso capitava di sfiorarmi conquistavano l’attenzione dei
media.
Ritornai ad Amsterdam. Dovevamo giocare una partita di Champions contro il Lione, fra le
altre cose, e io rifiutai di parlare con i giornalisti; al mio posto lo fece Mido. Noi bad boys ci
davamo una mano a vicenda. Ma ne avevo davvero abbastanza, e non mi meravigliai quando
saltò fuori che era stato lo stesso «Aftonbladet» a fare in modo che quella ragazza mi denunciasse, e allora dichiarai pubblicamente: «Adesso quel giornale lo sistemo io. Gli farò causa».
Ma cosa credete? Non ottenni niente, solamente delle scuse, e da allora cominciai a stare
sempre più in guardia. Stavo cambiando.
C’erano state troppe bassezze sui giornali. Certo, non è che volessi leggere stronzate
tipo: «Zlatan si allena, Zlatan è bravo, Zlatan si comporta come si deve». Questo no. Ma adesso si erano superati i limiti, e volevo spostare di nuovo l’attenzione sul mio modo di giocare.
Sembrava che fosse passata un’eternità dall’ultima volta che era stato scritto qualcosa di positivo sull’argomento.
Anche i Mondiali erano stati una delusione. Avevo avuto delle aspettative enormi, ma per
un certo periodo rischiai di non andarci per niente. Ma Lagerbäck e Söderberg alla fine mi
convocarono. Loro mi piacevano entrambi, soprattutto Söderberg, la mascotte di tutta la
squadra. Una volta, durante un allenamento, lo sollevai da terra e l’abbracciai per pura gioia.
Gli ruppi due costole. Quasi non poteva camminare, ma non se la prese. Ricordo che in ritiro
dividevo la stanza con Andreas Isaksson, il terzo portiere, un bravo ragazzo. Ma quelle sue
abitudini! La prima sera andò a letto alle nove. Io stavo lì a marcire di noia, poi mi suonò il cellulare e oh, finalmente qualcuno con cui parlare! Ma Andreas sbuffò e io misi giù. Non volevo
disturbare. In realtà sono una persona gentile, sapete. Ma la sera dopo il telefono suonò alla
stessa ora e lui dormiva anche stavolta, o almeno faceva finta.
«Oh, ma che cazzo, Zlatan» sibilò, e allora io risposi per le rime: voglio dire, che storia è
questa? Dormire alle nove?
«Se apri ancora la bocca butto il tuo letto dalla finestra» lo avvertii e chiaramente fu una
buona risposta, non solo perché stavamo al ventesimo piano ma perché fece il suo effetto.
Il giorno dopo avevo una stanza tutta per me, fantastico, ma per il resto non avevo così
tanti successi sul piano personale. Quanto al calcio giocato, eravamo nel cosiddetto gruppo
della morte, con Inghilterra, Argentina e Nigeria, e c’era una tale atmosfera, degli stadi così
belli, dei campi talmente perfetti che io desideravo più che mai di poter giocare. Tuttavia ero
considerato troppo inesperto e mi lasciarono a lungo in panchina. Eppure fui comunque
votato il miglior giocatore dell’incontro, non ricordo esattamente quale, in un sondaggio telefonico. Del tutto folle! Ero stato scelto come uomo-partita senza essermi neppure tolto la tuta.
Era di nuovo la famosa vecchia Febbre di Zlatan. In concreto giocai solo cinque minuti contro
l’Argentina e uno spezzone di gara contro il Senegal, negli ottavi, dove tra l’altro ebbi anche
un buon numero di occasioni. Trovavo che Lars e Tommy insistessero troppo con gli stessi
undici e non offrissero chance a noi giovani. Ma così era, e quando fummo mandati a casa rientrai direttamente ad Amsterdam.
Avevo una strategia: non curarmi di quello che dicevano gli altri come facevo prima, ma
tirare dritto. Quello era l’obiettivo, ma non fu di grande aiuto, almeno non all’inizio della nuova
stagione, che cominciò più o meno com’era finita – in panchina. La lotta per i posti in attacco
era sempre dura, e io avevo i miei detrattori: tra questi c’era quel Johan Cruijff che aveva
sempre parlato male di me e che già allora era lì con le sue critiche sul mio modo di giocare.
Ma succedeva anche altro. Il mio amico Mido dichiarò pubblicamente di voler essere ceduto, e non era una gran mossa, detto in tutta onestà: lui non era esattamente un diplomatico,
era uno come me o perfino peggio. Più tardi, dopo essere stato confinato in panchina contro il
PSV, entrò negli spogliatoi e ci chiamò tutti quanti mezze seghe. Era imbestialito e le sue non
furono esattamente delle belle parole, e io risposi dicendo che se c’era una mezza sega lì
dentro quella era lui. Allora lui prese un paio di forbici che erano lì su una panca e me le
lanciò contro, una cosa completamente folle. Quelle forbici mi sfiorarono la testa sibilando,
andarono a colpire dritte la parete di clinker formando una crepa ed è ovvio, io saltai su e gli
tirai uno schiaffo. Ma nel giro di dieci minuti uscimmo abbracciati, e molto tempo dopo sono
venuto a sapere che il nostro team manager mise da parte quelle forbici come un ricordo, tipo
qualcosa da mostrare ai figli: erano queste qui che Zlatan quasi si beccò in faccia...
Comunque sia, c’erano un po’ alti e bassi con Mido. Con la storia delle forbici
nell’ambiente aveva perso altra stima. Koeman l’aveva multato e messo in disparte. Ma c’era
anche un altro ragazzo in lotta con me per una maglia da titolare. Era Rafael Van Der Vaart,
un olandese, tipo piuttosto arrogante come molti dei ragazzi bianchi della squadra, anche se
lui non veniva esattamente dai quartieri alti. Era cresciuto in una roulotte e aveva fatto una
vita da zingaro, come diceva lui stesso, e giocato a calcio in strada usando le bottiglie di birra
come pali. Questo, diceva, aveva affinato la sua tecnica, e a soli dieci anni era stato iscritto
nell’accademia giovanile dell’Ajax: aveva lavorato sodo ed era diventato bravo, nessun dub-
bio. Solo l’anno prima era stato nominato miglior talento europeo o qualcosa del genere. Ma
cercava di fare il duro e voleva mettersi in mostra, e comandare, e già dall’inizio ci fu un’aspra
concorrenza fra noi.
Adesso Van Der Vaart si era infortunato a un ginocchio e con sia lui sia Mido fuori causa
avrei potuto giocare titolare in casa contro il Lione. Era il mio debutto in Champions League e,
naturalmente, era una cosa fantastica. La Champions era un mio vecchio sogno e nello stadio c’era un’atmosfera strepitosa. Io ero riuscito a far venire un sacco di amici, una decina di
persone all’incirca, e avevo procurato loro dei posti a ridosso del campo. Ricordo che molto
presto ricevetti una palla dal finlandese Jari Litmanen. Mi piaceva, quel ragazzo. Aveva giocato nel Barcellona e nel Liverpool, era appena arrivato da noi e aveva avuto subito un effetto
spronante su di me. Molti ragazzi nell’Ajax giocavano più che altro per se stessi, non desideravano nient’altro che di essere venduti a qualche club più importante, e spesso si aveva la
sensazione che giocassimo più gli uni contro gli altri che contro gli avversari. Ma Litmanen
giocava veramente per la squadra. Appena ricevuto il pallone da lui, comunque, scattai verso
il fondo sulla sinistra e mi trovai di fronte due del Lione, uno davanti e un altro sulla destra.
Era una situazione molto simile a quella contro Henchoz nella partita con il Liverpool, ma adesso gli avversari erano due. Ero bloccato verso la linea di fondo. Feci un doppio passo
spostandomi verso sinistra ma ancora mi stavano addosso entrambi. Sembravo chiuso ma
poi indovinai un’apertura in mezzo a loro, un piccolo corridoio, e prima ancora di finire di
pensarci c’ero passato attraverso ed ero in area: vidi uno spiraglio e tirai a giro sul secondo
palo, la palla colpì il legno e finì in rete. Impazzii.
Non era un gol qualunque, era stato spettacolare, e corsi come un matto verso i miei
amici per esultare con loro, e dietro di me veniva tutta la squadra, fuori di sé dalla gioia. Dopo
venti minuti feci anche un altro gol. Era pura magia. Doppietta al debutto in Champions,
cominciarono a girare voci che mi voleva la Roma e anche il Tottenham.
Di solito, per me, se è tutto ok con il calcio, non esiste più alcun problema al mondo. Ma
sul piano privato le cose non andavano granché bene. Non ero riuscito ad ambientarmi ad
Amsterdam, mi trovavo ancora in una specie di vuoto. Tornavo a casa in Svezia troppo
spesso, e combinavo cazzate; poi mantenevo i contatti con Helena, più che altro tramite sms,
senza realmente sapere che cosa stavamo facendo: era solo una pazzia, oppure c’era qualcosa di più?
In ottobre giocammo nelle qualificazioni per gli Europei contro l’Ungheria a Råsunda. Essere di nuovo lì era una bella sensazione. Non avevo dimenticato le urla dell’anno prima, ma
la vigilia fu tesa perché alcuni giornali di Stoccolma avevano scritto tipo che io ero un pallone
gonfiato che si faceva avanti a gomitate. In più quella era una partita fondamentale: se
avessimo perso, addio qualificazione. Insomma, c’era la sensazione che sia io sia la
Nazionale avessimo un bel po’ di cose da dimostrare. Ma l’Ungheria segnò l’uno a zero dopo
soli quattro minuti. Noi costruivamo le occasioni, ma non riuscivamo a concludere. Finché, al
settantaquattresimo minuto, arrivò un cross da Mattias Jonson e io saltai per colpire di testa.
Il portiere uscì alla disperata e cercò di respingere la palla con i pugni, e non so se colpì
anche la palla, ma sicuramente colpì me. Tutto divenne nero. Crollai a terra.
Rimasi in stato d’incoscienza per cinque, dieci secondi e quando rinvenni i giocatori
stavano tutti in cerchio intorno a me e non ci capivo niente. Che c’è? Cos’è che succede?
Dagli spalti veniva un frastuono terribile, e i miei compagni avevano l’aria insieme contenta e
preoccupata.
«Abbiamo segnato!» disse Kim Källström.
«Davvero? E chi l’ha fatto?»
«Tu, l’hai messa dentro di testa!» Ricordo che mi sentivo stordito e avevo la nausea: arriv una barella e mi ci stesi sopra.
Fui portato fuori dal campo, ma a quel punto sentii nuovamente dagli spalti il coro:
«Zlatan, Zlatan». L’intero stadio lo gridava, e io salutai il pubblico con la mano. Mi diede davvero la carica e tutta la squadra si accese. Ok, non si andò oltre l’uno a uno e avremmo
dovuto vincere e Kim Källström fra l’altro si era procurato un rigore chiaro come il sole che
l’arbitro non volle vedere. Ma io mi ricordo soprattutto quella sensazione, stare così male e al
tempo stesso così bene. Non molto tempo dopo mi ammalai in un altro modo, di una influenza terribile che colpì solo duecentocinquanta persone in Svezia, e anche allora successe
qualcosa d’inatteso che avrebbe dato una nuova svolta alla mia vita.
Era il giorno prima della vigilia di Natale e stavo a casa di mia madre. Forse non avevo
avuto un inizio di stagione devastante, ma ero comunque abbastanza soddisfatto. Avevo segnato cinque reti in Champions League, più che in campionato, e ricordo che Koeman mi
aveva detto: «Senti un po’, Zlatan, esiste anche un campionato, sai?», ma io funzionavo così,
un avversario più forte mi stimolava di più. Comunque fosse, adesso ero a casa, a
Rosengård.
Eravamo liberi fino ai primi di gennaio, poi saremmo andati in ritiro in Portogallo e infine al
Cairo per un’amichevole. Io avevo veramente bisogno di riposare, ma a casa di mamma si
stava stretti, la gente gridava e faceva casino e litigava di continuo. Non c’era pace da nessuna parte. Eravamo io, mamma, Keki e Sanela, e di solito festeggiavamo il Natale come tutti
gli altri, una semplice cena e poi lo scambio dei regali, e sarebbe potuto essere molto piacevole, assolutamente. Ma quella volta avevo proprio l’impressione di non farcela. Avevo mal di
testa e dolori in tutto il corpo e soprattutto bisogno di andare via e trovare un po’ di tranquillità,
o almeno di parlare con qualcuno al di fuori della famiglia: a chi potevo telefonare?
Tutti hanno i loro impegni a Natale, il Natale è sacro. Ma Helena, forse? Provai, senza
grandi speranze. Lei era sempre presa dal suo lavoro, oppure probabilmente era dai genitori
a Lindesberg. Invece no, rispose, era nella sua tenuta in campagna. «Il Natale non mi piace»
aggiunse.
«Mi sento così male» dissi.
«Povero!»
«Non ce la faccio proprio a sopportare il casino che c’è qui a casa!»
«Vieni qui allora» suggerì. «Mi occuperò io di te», e, detto in tutta onestà, mi lasciò un po’
sorpreso.
Finora eravamo usciti a bere qualcosa insieme, e fatto casino, ma ancora non mi ero mai
fermato da lei a dormire. Però il suo programma mi sembrava perfetto, per cui levai le tende
tipo: «Sorry mamma, devo andare».
«Perciò adesso non festeggi neppure più il Natale con noi?»
«Sorry.»
In campagna Helena mi mise a letto, e fuori era tutto tranquillo e c’era silenzio, esattamente quello di cui avevo bisogno. Era davvero bello, e non mi sembrava per niente strano
essere con lei anziché con la mia famiglia. Era naturale e al tempo stesso eccitante. Ma non
per questo guarii.
Stavo malissimo, e il giorno dopo era la vigilia di Natale e avevo promesso a mio padre di
passare a trovarlo. Papà non festeggia il Natale. Se ne sta lì tutto solo in casa come al solito
a fare le sue cose e sapete, io e lui avevamo un rapporto molto stretto dopo quel famoso
giorno al campo numero uno a Malmö. Era come se tutta la faccenda dell’infanzia, quando a
lui non importava realmente di me, fosse sparita, e diverse volte lui era stato in Olanda a
vedere le mie partite. Era in parte per fargli una specie di omaggio che avevo cambiato il
nome sulla maglia da Zlatan a Ibrahimovi. Ma quando andai da lui lo trovai di nuovo ubriaco
fradicio e davvero non ce la facevo a sopportarlo, neppure per un secondo, e poco dopo ero
di nuovo da Helena.
«Già di ritorno?»
«Sì, già di ritorno.»
Fu a grandi linee tutto quello che ebbi la forza di dire. Poi cominciai a star male da morire,
con la febbre a quasi quarantuno. Lo giuro. Mai stato tanto male in vita mia. Si trattava di una
qualche forma di influenza acuta, eravamo solo qualche centinaio nel Paese ad averla presa.
Per tre giorni Helena dovette farmi la doccia e le spugnature e cambiare le lenzuola che
erano fradice di sudore: io deliravo e mi lamentavo, e tutto questo cambiò qualcosa tra noi.
Fino a quel momento per lei ero stato soprattutto quello jugoslavo spaccone. Quello che
giocava al mafioso a bordo di automobili appariscenti, e che era molto divertente, questo sì, o
almeno così speravo io, ma che forse non era esattamente il ragazzo per lei.
Adesso ero ridotto a un rottame, e a lei in qualche modo questo piacque, almeno ora così
dice. Diventai umano. Quando cominciai a stare meglio lei andava a noleggiare dei film, e fu
allora che per la prima volta vidi dei polizieschi svedesi, Martin Beck e via dicendo, e per me
fu un’esperienza sorprendente. Cavolo, davvero la Svezia sa fare queste cose?! Ero completamente assorbito: stavamo lì seduti insieme a guardare un film dopo l’altro, ed era bellissimo, ma non è che ci mettemmo insieme subito, niente affatto.
Helena andava e veniva da casa. Usciva per andare al lavoro e rientrava per accudirmi.
Certo, delle volte non ci capivamo, e ancora non sapevamo che cosa volessimo l’uno
dall’altra ed eravamo ancora diametralmente opposti e sbagliati e via dicendo. Ma cominciò lì,
credo. Stavo bene con lei, e tornato in Olanda mi mancava: dove sarà adesso, tipo? «Non
puoi venire qui?» le chiesi, e lei lo fece. Mi venne a trovare a Diemen. Fu bello, ma non si può
certo dire che rimase impressionata dalla mia casetta a schiera, anche se mi ero ambientato
un po’ di più e almeno il frigorifero lo tenevo sempre pieno.
Ma lei sostiene che allora dovette lavarmi i pavimenti, che in quella casa era tutto un disastro e che avevo all’incirca tre piatti e per giunta spaiati; che le pareti erano pazzesche, lilla,
gialle e color albicocca, che la moquette verde non c’entrava niente con il resto e che insomma, era un disastro. Inoltre io mi vestivo in modo pietoso, me ne stavo per ore lì a letto
con i miei videogiochi e quindi c’erano cavi e sporco dappertutto. Ordine zero.
«Evil super bitch» dicevo io.
«Evilsuperbitchdeluxe», in un unico respiro.
Quando Helena se ne andò iniziai a sentire la sua mancanza. Cominciai a telefonarle
sempre più di frequente. Da allora mi calmai un po’. Questa qui è una ragazza di classe, accidenti! Mi insegnava delle cose, tipo come sono fatte le posate da pesce, e come si beve il
vino! A quei tempi credevo che si buttassero giù anche i migliori vini d’annata come fossero
bicchieri di latte. Ma no, no, bisognava sorseggiarli. Cominciavo a capire. Ma è chiaro, non è
che avessi una gran predisposizione. Continuavo ad andare su a Malmö molto di frequente, e
non solo per stare dietro a Helena.
Un giorno io e alcuni amici andammo alla sua tenuta in campagna e rovinammo i vialetti di
ghiaia, e lei si incazzò a morte e sbraitò che erano stati perfettamente rastrellati e che adesso
era tutto distrutto, e certo, mi sentii in colpa. Dovevo fare qualcosa per rimediare. Così
mandai lì il mio fratellino. Lui arrivò e gli fu messo in mano un rastrello, ma nella nostra
famiglia non ne sappiamo niente di rastrelli o cose del genere. Perciò Keki non fece esattamente un gran lavoro, e io mi sentii dire che ero sempre un fuori di testa, ma per fortuna
spassoso.
Un’altra volta regalai a Helena un Sony Vaio, un notebook. Ma poi litigammo, e allora io
non volevo più che si tenesse il computer. Così diedi un nuovo incarico a Keki: «Vai a riprenderlo» gli dissi, e Keki di solito ubbidisce. Andò lì e cosa credete?
«Scordatevelo» disse Helena. Lei non avrebbe restituito un bel niente, e non molto tempo
dopo tornammo a essere amici. Ma era un casino. C’era la mia passione sfrenata per i petardi, fra le altre cose. Li compravamo da un tizio che li fabbricava illegalmente in casa, erano
veramente forti. Conoscevamo un ragazzo che aveva un chiosco di salsicce a Malmö, un
bravo ragazzo, e un giorno decidemmo di fare una piccola esplosione lì da lui, solo per divertimento. Ci occorreva una macchina che non fosse riconducibile a noi, e siccome Helena
aveva un certo numero di contatti lo chiesi a lei: «Non è che potresti procurarmi una jeep?» e
come no, lei ci procurò una Lexus, convinta che ci servisse per andarci in giro e basta.
Invece andammo vicino al chiosco e infilammo uno di quei petardi dentro la cassetta delle
lettere, che saltò in aria. Un boato, e andò in milioni di pezzi. La stessa notte, già che eravamo in pista, telefonammo a Keki.
«Vuoi divertirti un po’?» gli chiesi, e lui probabilmente non l’avrebbe affatto voluto, ma andammo a casa della sua ragazza, dove stavano tutti dormendo, e lanciammo altri due petardi
in giardino. Ci fu un botto pazzesco anche lì, e un sacco di fumo e zolle di prato che
volavano. Ovviamente la ragazza fece un balzo: «Cosa diavolo è stato?» e Keki fece il finto
tonto: «Cristo santo, cosa può essere successo? Che cosa strana! Che paura».
Dunque, lo capite, quelle erano ragazzate, il genere di cose di cui avevo sempre avuto
bisogno e che a volte succedono tutt’ora, ma è chiaro, l’epoca dell’Ajax fu il mio periodo peggiore. Era prima che Mino Raiola e Fabio Capello mi dessero un po’ una regolata.
Ricordo quando comprai i mobili per mio fratello maggiore all’Ikea. Poteva scegliere quello
che voleva, già allora avevo cominciato ad aiutare la mia famiglia. Col tempo comprai a mia
madre una casa a schiera a Svågertorp e a mio padre un’automobile, anche se lui naturalmente è terribilmente orgoglioso e non voleva accettare niente. Quella volta all’Ikea avevo
con me un amico e avevamo tutti gli acquisti su quei grossi carrelli. Casualmente, uno di quei
carrelli andò un po’ troppo in là oltrepassando la cassa, e il mio amico colse al volo
l’occasione, era un ragazzo sveglio, e io lo incitai: «Su, vai, vai!» e così ci portammo via un
bel po’ di cose gratis, e ovviamente ci piacque.
Ma non crediate che fosse una questione di soldi, lo ripeto. Era il brivido. Era l’adrenalina,
era come ai grandi magazzini da bambino, anche se è chiaro, a volte sorgeva qualche problema. Come la volta della Lexus, per esempio. Fu vista nei pressi delle esplosioni e per
Helena fu imbarazzante, finì in cattiva luce per colpa mia, e poi ci fu anche la volta della
Porsche Cayenne.
Helena ce l’aveva procurata allo stesso modo, ma tornando a casa da Båstad finimmo in
un fosso e l’ammaccammo un po’. Lei si incazzò di brutto, e come se non bastasse subì
anche un furto in casa. Helena aveva lavorato duro, non soltanto come promoter ma anche
nei ristoranti, per potersi comprare la tenuta in campagna, e un altro bel po’ di belle cose, mobili, una moto e uno stereo. Aveva faticato tanto per metterle insieme, perciò non dev’essere
stato piacevole per lei quando qualcuno un giorno entrò e si portò via il suo Bang&Olufsen e
un sacco di altri oggetti. Lo posso capire. Ma credeva che io sapessi chi era stato, lo crede
tutt’ora. Però io non ne ho idea, lo giuro. Le chiacchiere girano in fretta nella mia vecchia cerchia, What goes around, comes around, tipo. Sapete, una notte, mentre era parcheggiata
fuori casa di mamma, ci fu un tizio che fregò gli pneumatici della mia Mercedes SL. Io me ne
accorsi di mattina prestissimo: a quell’ora la voce aveva già cominciato a girare e sul posto
erano arrivati fotografi della polizia e giornalisti, perciò non mi feci vedere. Ma cominciai a indagare, e non passò molto tempo prima che venissi a sapere chi era stato: dopo una settimana mi avevano già restituito le gomme. Ma chi si fosse introdotto in casa di Helena, questo
non l’ho mai saputo.
Detto in tutta onestà, certe volte non capisco come abbia potuto avere così tanta pazienza
con me. Era come se all’improvviso si fosse ritrovata nella propria vita un matto. Ma ce la
fece, fu eccezionale, e credo che poi abbia potuto vedere qualche risultato.
Prima ero stato molto solo e non avevo avuto nessuno con cui confrontarmi, né sulle cose
quotidiane né su quello che mi pesava. Ma adesso iniziavo ad avere anche io delle abitudini e
qualcosa di cui avere nostalgia, e Helena cominciò a venire giù sempre più spesso e diventammo un po’ una famiglia, in particolare quando prese quel ciccione di Hoffa, il nostro
carlino, che avremmo nutrito a pizza e mozzarella in Italia.
Ma prima di allora dovevano succederne di cose. La mia carriera prese velocità, e io ebbi
delle nuove rivincite.
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10
Avvertivo molto spesso il fantasma di Marco Van Basten alle mie spalle. Avevo ereditato la
sua maglia e certo, era un confronto lusinghiero, ma cominciavo a stancarmene. Non volevo
essere un nuovo Van Basten. Io ero Zlatan, e basta. Perciò no, volevo gridare, non tiratelo in
ballo di nuovo, l’ho già sentito nominare abbastanza! Anche se era fantastico quando lui compariva lì di persona, era... wow, davvero Marco Van Basten sta parlando con me?
Van Basten è una leggenda, uno dei migliori attaccanti di sempre, non al livello di Ronaldo
forse, ma in ogni caso ha segnato trecento gol in carriera e fatto la storia nel Milan. Era un
modello per il suo stile di gioco, per i suoi spettacolari tiri al volo e per la sua grinta davanti
alla porta.
All’epoca erano passati sette o otto anni da quando aveva smesso di giocare, e circa dieci
da quando era stato eletto Fifa World Player, nel 1992. Aveva appena finito il corso di allenatore presso la Federazione olandese e sarebbe diventato assistente nella squadra giovanile
dell’Ajax, il primo passo nella sua nuova carriera, perciò era sempre nei paraggi ai nostri allenamenti.
Di fronte a lui io mi sentivo come un ragazzino, almeno i primi tempi. Poi mi abituai, ci parlavamo quasi ogni giorno e avevamo tutta una serie di gag divertenti insieme. Prima di ogni
partita mi punzecchiava, si facevano un sacco di scommesse e cose del genere.
«Allora, quanti gol pensi di fare stavolta? Io scommetto su uno.»
«Uno? Ma sei matto. Saranno almeno due.»
«Stronzate. Scommettiamo?»
«Tu quanto punti?»
Andavamo avanti così tutto il tempo, lui mi dava un sacco di consigli ed era davvero un
figo. Andava avanti dritto con le sue idee e se ne fregava di quello che pensavano i capi.
C’era qualcosa di assolutamente libero nel suo modo di pensare. A quei tempi avevo ricevuto
delle critiche perché non tornavo abbastanza indietro ad aiutare e ci avevo pensato su parecchio, domandandomi che cosa avrei potuto fare per rimediare. Lo chiesi a Van Basten.
«Non ascoltare mai gli allenatori!» mi disse.
«Eh? Come?»
«Non devi sprecare le tue energie a difendere» mi disse. «Devi usarle per attaccare. Tu la
squadra la servi al meglio attaccando e segnando reti, non sfiancandoti per tornare indietro»
e quello fu un consiglio che feci mio. Bisogna risparmiare la propria energia per fare gol.
Durante le vacanze di Natale di quell’anno partimmo per il Portogallo per il ritiro di metà
stagione. A quell’epoca Beenhakker aveva lasciato il suo posto di direttore sportivo e gli era
subentrato Louis Van Gaal. Era un tipo burbero e severo, un po’ del genere Co Adriaanse.
Voleva fare il dittatore senza però avere il minimo guizzo negli occhi. Come giocatore non era
mai stato niente di speciale, ma in Olanda godeva di grande considerazione perché, da allenatore, aveva vinto la Champions con l’Ajax e ricevuto una qualche onorificenza per
quell’impresa.
A Van Gaal piaceva parlare di sistema di gioco. Era uno di quelli, nel club, che parlava dei
giocatori come numeri: il cinque viene qui e il sei va lì e io ero felice quando non avevo a che
fare con lui. Ma in Portogallo non potei evitarlo. Un giorno andai a rapporto da Van Gaal e
Koeman per ascoltare come giudicavano il mio contributo nella prima metà della stagione.
Era uno di quegli incontri di valutazione con tanto di voto che amavano tanto all’Ajax. Entrai
dunque in una stanza e mi sedetti davanti a Van Gaal e al mister. Koeman sorrideva. Van
Gaal aveva la sua aria truce.
«Zlatan» esordì Koeman, «tu hai giocato in modo fantastico, ma avrai soltanto un otto.
Non hai lavorato abbastanza per la squadra in fase difensiva.»
«Ok, va bene» dissi, e per me era finita lì.
Koeman mi piaceva, ma non ce la facevo a sopportare Van Gaal, e pensai: “Ottimo, un
otto può anche andare. Posso farmi la mia pausa adesso?”.
«Lo sai come si gioca in difesa?»
Era stato Van Gaal a intromettersi, io guardai Koeman e anche lui sembrava irritato.
«Spero di sì» risposi.
Dopo di che Van Gaal attaccò a spiegarmelo, e credetemi, erano tutte cose che avevo già
sentito mille volte. La stessa vecchia storia su come il numero nove, vale a dire il sottoscritto,
difende sulla destra quando il dieci va a sinistra e viceversa. Nel discorso tirò un sacco di
frecciate e concluse un po’ duramente: «Hai afferrato? Le capisci queste cose?» e io lo presi
come un attacco.
«Tu puoi anche buttar giù dal letto ogni singolo giocatore alle tre di notte» dissi, «e
chiedere come devono difendere, e loro ti risponderanno anche dormendo che il nove corre
qui e il dieci lì. Lo sappiamo, e sappiamo che sei stato tu a inventare questo sistema. Ma io
mi sono allenato con Van Basten e lui pensa tutto il contrario.»
«Prego?»
«Van Basten dice che il numero nove deve risparmiare le sue energie per attaccare e fare
gol, e, detto sinceramente, ora io non so più a chi devo dare ascolto. A Van Basten, che è
una leggenda, o a Van Gaal?» dissi, e sottolineai in particolare il nome “Van Gaal”, come se
si trattasse di una qualche persona assolutamente insignificante. Voi cosa pensate? Che lui
ne fu felice?
Bolliva letteralmente di rabbia. A chi devo dare ascolto, a una leggenda o a un Van Gaal?
«Ora devo proprio andare» conclusi, e uscii.
Si tornò a vociferare che la Roma fosse interessata a me. La Roma era allenata da Fabio
Capello, un tipo veramente tosto, si diceva, che non aveva problemi a mettere in panchina o
strigliare chiunque dei suoi, anche i migliori. Era stato proprio Capello ad allenare Van Basten
al Milan durante il suo periodo di gloria, facendolo diventare più grande che mai, e ovviamente ne parlai con Marco: «Tu cosa ne pensi? La Roma non sarebbe fantastica? Pensi che
potrei farcela?».
«Resta all’Ajax» disse lui. «Devi migliorare ancora prima di poter andare in Italia.»
«Perché?»
«Laggiù è molto più dura. Qui avrai forse cinque, sei occasioni da gol a partita, ma in Italia
sono solo una o due e devi essere in grado di sfruttarle.» In una certa misura ero d’accordo.
Non ero ancora al top delle mie potenzialità. Facevo ancora pochi gol, e avevo un sacco
di cose da imparare. Dovevo diventare più decisivo in area di rigore. Ma comunque l’Italia era
stato un mio sogno fin da bambino e credevo che il mio stile di gioco sarebbe andato bene
laggiù. Perciò andai dal mio agente, Anders Carlsson: «Allora? Cosa bolle in pentola?» e Anders cercò di mostrarsi scrupoloso. Controllò la situazione e dopo qualche giorno si rifece
vivo. Ma che cosa aveva da riferirmi?
«Al Southampton sarebbero interessati» disse.
«Ma che cazzo dici? Al Southampton? Southampton! Ti sembra forse il mio livello?»
Il Southampton!
A quell’epoca avevo comprato una Porsche Turbo. Un’auto stupenda ma pericolosa come
poche, detto francamente. Sembrava quasi di stare su un go-kart. Ci impazzivo, su quel
giocattolo. Io e un mio amico l’avevamo guidata nello Småland, dalle parti di Växjö, e io ci
avevo dato dentro. Avevo toccato i duecentocinquanta, nulla che non avessi già fatto, ma il
problema fu che quando rallentammo sentimmo le sirene della polizia.
Gli sbirri ci stavano inseguendo, e io pensai: “Ok, situazione spinosa, che faccio? Posso
fermarmi e dire mi dispiace, ecco qui la mia patente. Ma poi, i titoli dei giornali?”. Li volevo
davvero? E un dibattito su Zlatan che guida come un pazzo nel traffico avrebbe aiutato la mia
carriera? Difficilmente. Guardai nello specchietto. Eravamo su una strada a doppio senso,
con traffico intenso sull’altra corsia, e la polizia era tipo quattro macchine dietro di noi. Non
potevano andare da nessuna parte, erano bloccati, e io avevo una targa olandese, quindi non
avrebbero potuto rintracciarmi. Pensai: “Fanculo, non hanno nessuna possibilità”, e quando
arrivammo su una strada più larga ingranai la seconda e accelerai. Ci diedi dentro come un
dannato, arrivai a toccare i trecento, e quelle famose sirene si continuavano a sentire, uiii, uiii,
ma sempre più debolmente. La macchina della polizia scomparve in lontananza, e alla fine,
quando non la vedemmo più nello specchietto, svoltammo sotto un tunnel e ci fermammo lì
ad aspettare come in un film, e ce la cavammo.
Ci furono diversi episodi del genere con quella macchina, e mi ricordo che una volta ci
portai anche Anders Carlsson. Doveva passare dal suo albergo e poi proseguire per
l’aeroporto, arrivammo a una curva e c’era il semaforo rosso. Ma non ce la facevo a fermarmi,
non con quella macchina. Così passai, vroouum tipo, e lui disse senza scomporsi: «Credo
che il semaforo fosse rosso».
«Davvero?» risposi. «Mi sa che non l’ho visto.» E poi giù a manetta, destra, sinistra, verso
il centro città.
Andavo come un matto e vedevo che lui stava sudando. Poi finalmente arrivammo
all’albergo, Anders aprì la portiera e scese senza dire una parola. Il giorno dopo mi telefonò,
ancora fuori di sé: «È stata l’esperienza più spaventosa della mia vita».
«Di cosa stai parlando?» gli chiesi. Fingevo di non capire.
«Del viaggio in macchina di ieri!»
Anders Carlsson non era il tipo giusto per me, era sempre più evidente. Avevo bisogno di
un agente che non fosse così rigido con le regole e con i semafori rossi. Fortuna volle che
Anders allora avesse lasciato l’IMG per mettersi in proprio, perciò mi aveva dato nuovi contratti da sottoscrivere, ma siccome io non avevo ancora firmato, ero libero. Ma cosa avrei fatto
della mia libertà? Non ne avevo la più pallida idea, e a quei tempi non avevo molte persone
con cui parlare seriamente di calcio.
Avevo Maxwell, lui sì, e qualche altro della squadra, ma non molti; c’era una tale concorrenza che non sapevo di chi potevo fidarmi, soprattutto quando si trattava di agenti e di passaggi di procura. Ogni giocatore dell’Ajax voleva passare a qualche grande club, e avevo la
sensazione che avrei avuto bisogno di una persona esterna all’ambiente. Così pensai a Thijs.
Thijs Slegers era giornalista. Mi aveva intervistato per «Voetbal International» e mi era
piaciuto subito. Dopo l’intervista ci eravamo sentiti spesso al telefono, era diventato un po’
uno con cui confrontarmi, e credo che lui già allora avesse le idee chiare. Sapeva com’ero, e
quali tipi mi andavano a genio, perciò un giorno feci il suo numero per spiegargli la situazione.
«Devo cambiare agente. Chi sarebbe il più adatto per me?» domandai, e Thijs è proprio
un tipo gentile.
«Fammici pensare!» disse. Gli lasciai il suo tempo, non volevo fare le cose di fretta.
«Ascolta» disse poi. «Ci sono due nomi che mi vengono in mente. Uno è quello della societ che lavora per Beckham. Gente tosta. E poi c’è un altro tizio. Ma, ecco...»
«Cosa?»
«È un mafioso.»
«Mafioso mi suona bene!» dissi.
«Sospettavo che l’avresti detto.»
«Magnifico. Organizza un incontro!»
Il tizio in questione non era affatto un mafioso. Semplicemente, gli piaceva seguire quello
stile. Si chiamava Mino Raiola, e si dà il caso che avessi già sentito parlare di lui. Era l’agente
di Maxwell e, proprio attraverso di lui, Mino stesso aveva cercato di mettersi in contatto con
me qualche mese prima. Perché sapete, è così che lavora Mino, passa sempre attraverso degli intermediari. Gli piace ripetere: «Se approcci di persona, ti metti in posizione di svantaggio.
Eccoti lì, con in mano il berretto e l’espressione di chi è venuto a chiedere». Ma con me non
gli era andata granché bene, perché io avevo fatto il figo e detto a Maxwell: «Se ha qualcosa
di concreto da proporre, che si faccia vivo lui. Altrimenti non mi interessa». Ma Mino mi aveva
solo fatto sapere: «Di’ a questo Zlatan di andare a fare in culo», e anche se al momento me
l’ero presa, ovviamente, adesso che ero venuto a sapere un po’ di cose su di lui la cosa mi
pungolava. Sono cresciuto con quello stile, va’ a farti fottere e via dicendo. Mi trovo a mio
agio con questo modo di parlare da duro, e intuivo che Mino e io dovevamo avere un po’ lo
stesso background. Nessuno dei due aveva avuto niente gratis.
Mino è nato a Nocera Inferiore nel salernitano. Quando lui aveva un anno la sua famiglia
si era trasferita in Olanda e aveva aperto un ristorante-pizzeria a Haarlem, dove lui da
bambino faceva le pulizie, lavava i piatti e faceva il cameriere all’occorrenza. Ma le cose
erano migliorate con il tempo, e crescendo Mino aveva cominciato a prendere in mano la gestione economica del locale. Era come se a un certo punto avesse deciso di farsi strada nella
vita. Già da adolescente faceva mille cose, studiava giurisprudenza, aveva affari ovunque e
imparava le lingue. Era un combattente. E poi gli piaceva il calcio, ma non era un gran giocatore. Così aveva deciso di diventare un agente.
In Olanda, ai tempi, esisteva un sistema demenziale per il quale i giocatori dovevano essere venduti secondo una tariffa prefissata che si basava sull’età e su una sfilza di statistiche.
Mino vi si oppose. Aveva poco più di vent’anni quando sfidò la Federazione, e non cominciò
certo la sua nuova carriera con dei pesci piccoli: nel 1993 vendette Bergkamp all’Inter e nel
2001 aveva fatto in modo che Nedved andasse alla Juventus per quarantuno milioni di euro.
Mino non era eccessivamente noto, non ancora, ma si diceva che fosse in ascesa e
senza paura e pronto a mettere in campo qualsiasi astuzia per ottenere buone condizioni per
i suoi assistiti: la cosa mi suonava bene. Era esattamente il mio stile. Non volevo certo avere
intorno qualche ragazzino gentile: volevo andare via dall’Ajax e ottenere un buon contratto,
perciò decisi di fare veramente colpo su questo famoso Mino.
Quando Thijs combinò un incontro per noi all’Hotel Okura di Amsterdam, indossai la mia
bella giacca di pelle di Gucci. Non avevo nessuna intenzione di fare di nuovo il buzzurro in
tuta da ginnastica e di farmi fregare un’altra volta. Mi misi anche l’orologio d’oro e presi la
Porsche. Per sicurezza parcheggiai proprio davanti all’albergo, eccomi qui, tipo, e poi feci il
mio ingresso all’Okura. Che albergo, Gesù! Si trova proprio sull’Amstel Kanal, ed è incredibilmente elegante e lussuoso. Pensai subito: “Questo è il momento, adesso devo mostrarmi
cool”. Proseguii verso il ristorante giapponese che c’era all’interno. Avevamo un tavolo prenotato lì, ma non sapevo che tipo di persona cercare, immaginavo un tizio in completo gessato
con un orologio d’oro ancora più grosso del mio. Ma che razza di individuo era quello che entr dopo di me? In jeans e T-shirt Nike e con quella pancia enorme, sembrava davvero uno dei
Soprano.
Chi diavolo è questo qui? Dovrebbe essere un agente, quella specie di gnomo ciccione?
E quando ordinammo, che cosa credete? Che arrivò un piattino di sushi con avocado e
gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque, e lui divorò tutto come un dannato. Ma poi cominciò a parlare, e sentii proprio quel linguaggio grintoso, diretto, senza giri di
parole, e allora capii subito: questo sì che quadra, questo va dritto al sodo. Dissi a me stesso:
con questo tipo ci voglio lavorare, la pensiamo allo stesso modo, e mi preparai alla stretta di
mano che avrebbe siglato l’inizio della nostra collaborazione.
Ma sapete cosa fece, quel bastardo sfacciato? Tirò fuori quattro fogli formato A4 che
aveva stampato da Internet, e sopra c’era una sfilza di nomi e di cifre, tipo: Christian Vieri
ventisette partite, ventiquattro gol; Filippo Inzaghi venticinque partite, venti gol; David
Trezeguet ventiquattro partite, venti gol. Per ultimo c’era il mio, Zlatan Ibrahimovi venticinque
partite, cinque gol.
«Credi che possa venderti, con una statistica del genere?» disse, e io pensai: “Che razza
di aggressione è questa?”. Ma non mi scomposi.
«Se avessi fatto venti gol, anche mia madre sarebbe riuscita a vendermi» replicai, e allora
lui tacque, e oggi so che avrebbe voluto scoppiare a ridere. Ma quella volta portò avanti il suo
gioco. Non voleva perdere la sua posizione di vantaggio.
«Hai ragione. Ma tu...»
“Che cavolo c’è adesso?” pensai. Sembrava in arrivo un altro attacco.
«Tu ti credi tanto figo, eh?» mi domandò Mino.
«Di cosa stai parlando?»
«Credi di potermi impressionare con il tuo orologio, la tua giacca e la tua Porsche. Ma non
è così. Proprio per niente. Io trovo che siano tutte cazzate.»
«Ok!»
«Vuoi diventare il migliore del mondo? Oppure quello che guadagna di più, per poter andare in giro con tutto questo genere di gingilli?»
«Sì, il migliore del mondo!»
«Bene! Perché se diventi il migliore del mondo, arriverà anche il resto. Ma se insegui solo
il denaro, allora non otterrai niente, capisci?»
«Capisco.»
«Allora pensaci su e poi fammi sapere» disse, e così concludemmo l’incontro.
Ci salutammo e io mi dissi ok, allora ci penserò su. Posso anche fare un po’ il figo e farlo
aspettare. Ma non mi ero nemmeno seduto in macchina e già cominciai ad agitarmi. Lo
chiamai subito: «Ascolta, io non ce la faccio ad aspettare, voglio cominciare a lavorare con te
adesso, subito».
Lui rimase in silenzio.
«Ok» disse poi. «Ma se vuoi lavorare con me, dovrai fare come dico io.»
«Certo, assolutamente.»
«Dovrai vendere le tue macchine. Dovrai vendere i tuoi orologi e cominciare ad allenarti
tre volte più duramente. Perché la tua statistica fa schifo.»
La tua statistica fa schifo! Riflettei su questa cosa, ed è chiaro, avrei potuto dirgli che se
ne andasse affanculo. Vendere le mie macchine? Che cosa c’entrava lui? Però, sotto sotto,
sentivo che aveva ragione, e, dopo qualche giorno, passai a lui la mia Porsche Turbo. Meglio
così, detto francamente. Mi sarei solo ammazzato, con quella macchina. Ma non finì lì.
Cominciai ad andare in giro con la noiosissima Fiat Stilo del club e misi da parte il mio
orologio d’oro: al suo posto usavo uno squallido Nikeur. Ricominciai ad andare in giro in tuta.
Iniziai ad allenarmi come un pazzo, mi sfinivo letteralmente. Fino a quel momento ero stato
poco esigente con me stesso, credevo di essere il più figo di tutti, ma avevo avuto un atteggiamento completamente sbagliato. In realtà avevo segnato troppo pochi gol ed ero stato
troppo indolente. Van Basten aveva ragione. Mino aveva ragione. Non ero sufficientemente
motivato.
Cominciai a dare tutto quello che avevo negli allenamenti e nelle partite. Ma è vero, non è
facile cambiare nell’arco di una notte. Si comincia con il massimo rigore e poi non se ne ha
più la forza. Per fortuna non avevo nessuna possibilità di sgarrare, Mino mi stava addosso
come una sanguisuga.
«A te piace quando ti dicono che sei il migliore, eh?»
«Sì, forse.»
«Ma non è vero. Tu non sei il migliore. Tu sei una merda. Non sei niente. Devi lavorare
più duro.»
«La merda sei tu. Non fai altro che lamentarti. Vieni tu, ad allenarti.»
«Vai a farti fottere!»
«Vai a farti fottere tu!»
Il nostro rapporto si fece un po’ teso, o per meglio dire, sembrava teso. Ma eravamo cresciuti allo stesso modo: con tutti quei «Tu non sei niente» eccetera cercava di spingermi a
cambiare atteggiamento, e credo veramente che ci riuscì. Cominciai a dire quelle cose a me
stesso: «Tu sei uno zero, Zlatan. Tu sei una merda. Non vali nemmeno la metà di quello che
credi! Devi fare di più».
Questa nuova sfida mi stimolava, rafforzò la mia mentalità da vincente. Non se ne parlava
più di essere mandato a casa dal mister. Davo tutto in ogni singola situazione e volevo vincere anche l’incontro o la gara più insignificante, anche la partitella di allenamento. Avevo
male agli adduttori della coscia sinistra, ma me ne fottevo. Non avevo intenzione di arrendermi. Non mi curavo nemmeno del fatto che continuasse a peggiorare, stringevo i denti, ero
un uomo! Diversi miei compagni erano già infortunati e non volevo dare nuovi problemi
all’allenatore, così spesso giocavo imbottito di antidolorifici. Cercavo di ignorare quel dannato
dolore. Ma Mino vide, e capì subito. Voleva che lavorassi duro, non che andassi in pezzi.
«Non puoi più andare avanti così» disse. «Non puoi giocare in queste condizioni.» E allora alla fine presi la cosa sul serio e mi feci visitare da uno specialista, e venne deciso che
sarei stato operato.
Fu un intervento non da poco, e dopo cominciò la fase di riabilitazione nella piscina del
club. Non fu uno scherzo. Mino disse al fisioterapista che mi seguiva che avevo avuto la vita
troppo facile: «Il ragazzo ha solo corso un po’ in giro e giocato. Adesso deve lottare e sbattersi per davvero!».
Mi misero addosso un cardiofrequenzimetro, e una qualche specie di giubbetto salvagente che mi teneva a galla, e poi dovevo correre nell’acqua come un matto, e alla fine
avevo letteralmente la nausea. Crollavo sul bordo della piscina. Non riuscivo neanche a
muovermi. Ricordo che una volta mi scappava da pisciare, e non ce la facevo più a trattenermi, ma di arrivare fino al bagno non se ne parlava proprio. Non ce l’avrei mai fatta. C’era un
buco accanto al bordo della piscina e la feci lì in quel buco, non avevo altra scelta. Ero completamente distrutto.
All’Ajax avevamo una regola: in mensa non potevamo andare a servirci del cibo prima che
ci dicessero «Prego», e di solito io scattavo non appena sentivo la prima sillaba. Ero sempre
affamato come un lupo. Adesso non ce la facevo neppure a sollevare la testa, e mentre di là
mangiavano, restavo steso sul bordo della piscina come un rottame.
Andai avanti così per due settimane, e la cosa strana è che non era soltanto una tortura.
C’era qualcosa di piacevole in quel dolore. Godevo nello svuotarmi completamente, e cominciavo a capire cosa volesse dire lavorare duro. Entrai in una nuova fase, mi sentivo forte
come non mi succedeva da tempo, e quando tornai dalla riabilitazione davo tutto sia sul
campo sia in allenamento, e i risultati finalmente arrivarono. Dominavo.
La fiducia in me stesso aumentò, e gli striscioni allo stadio diventavano sempre di più,
«Zlatan, the Son of God», e questo genere di cose. I tifosi cantavano per me. Diventai più
forte che mai ed era meraviglioso, è ovvio, ma... certe cose non cambiano. Quando qualcuno
brilla altri diventano invidiosi, e nella squadra c’erano già non poche tensioni, soprattutto fra i
giocatori più giovani che volevano mettersi in mostra per essere venduti ai grandi club.
Immagino per esempio che Rafael Van Der Vaart non fosse felice dei nuovi sviluppi. Rafael era diventato anche lui una delle star della squadra ed era probabilmente uno dei giocatori più popolari del Paese. In ogni caso era l’idolo di quei tifosi che non amavano vedere la
squadra zeppa di stranieri, e Koeman lo nominò capitano nonostante Rafael avesse solo ventun anni. Con quella fascia al braccio faceva la ruota come un pavone, inoltre era diventato la
preda più ambita dalla stampa scandalistica da quando si era messo con una ragazza
famosa e forse non era del tutto facile per lui accettare i miei successi sul campo in quella
situazione. Di sicuro Rafael vedeva se stesso come la grande star e non voleva avere concorrenza. E poi desiderava ardentemente di essere venduto, come tutti noialtri. Era disposto
a tutto per emergere. D’altro canto, è pur vero che lo conoscevo poco, e nemmeno me ne
curavo.
Era l’inizio estate del 2004 e le tensioni fra noi non sarebbero esplose che in agosto. Allora, in maggio e giugno, la situazione era ancora abbastanza tranquilla. Avevamo vinto di
nuovo il campionato e Maxwell era stato nominato miglior giocatore, ero felice per lui. Se c’è
qualcuno a cui auguro qualsiasi bene, è lui. Andammo a Haarlem per festeggiare al ristorante-pizzeria dov’era cresciuto Mino, e lì parlai con sua sorella. Voleva chiedermi una cosa,
mi disse, una cosa che riguardava suo fratello.
«Mino ha cominciato ad andare in giro su una Porsche Turbo» spiegò. «È un po’ strano.
Non è esattamente il tipo di macchina che ha sempre avuto prima. Questa cosa ha per caso
a che fare con te?»
La Porsche mi mancava, ma speravo che adesso fosse in mani più sicure. Quell’estate
volevo davvero tenermi lontano dalle pazzie e concentrarmi solo sul calcio. Ci sarebbero stati
gli Europei in Portogallo. Era il primo grande torneo che avrei giocato da titolare. Ricordo
quando mi chiamò Henke Larsson. Henke per me era un modello. Giocava nel Celtic, allora,
e dopo l’estate sarebbe passato al Barcellona. Dopo la sconfitta con il Senegal ai Mondiali
2002 aveva dichiarato: «Non giocherò più in Nazionale. Voglio dedicarmi alla famiglia» e ovviamente cose così bisognava accettarle, soprattutto da uno come lui.
Ma la sua mancanza si sentiva. Agli Europei eravamo inseriti nello stesso gruppo
dell’Italia, avevamo bisogno di tutti i giocatori più forti... Scommetto che la maggior parte di
noi avesse perduto la speranza di avere in squadra Henke. Ma appunto, un giorno mi chiamò
per dirmi che aveva cambiato idea, e che voleva esserci, e la cosa mi illuminò.
Avremmo giocato io e lui titolari in attacco. Era una grande notizia per me, e ricordo che
ogni giorno che passava l’attesa cresceva e si parlava sempre più del fatto che questo poteva
essere il mio grande balzo in avanti sulla scena internazionale. Capii che avrei avuto addosso
gli occhi di molti osservatori e allenatori stranieri. Nei giorni precedenti la nostra partenza, tifosi e giornalisti mi stavano addosso come impazziti e già in situazioni del genere era un conforto avere Henke. Lui stesso era stato al centro di questi assedi mediatici, ma il casino
cominciava a passare tutti i ragionevoli limiti e non dimenticherò mai quando gli chiesi:
«Diavolo, Henke, che cosa devo fare? Se c’è qualcuno che dovrebbe sapermelo dire, questo
sei tu. Come devo gestire tutto questo casino?».
«Mi spiace, Zlatan. A partire da adesso sei solo. Un tale circo non l’ha mai vissuto nessun
altro giocatore prima, qui in Svezia.» Ed era vero.
Comparve per esempio un norvegese con una maledettissima arancia. Di arance si parlava fin da quando John Carew, del Valencia, aveva criticato pubblicamente il mio stile di
gioco e io avevo risposto: «Quello che John Carew fa con un pallone da calcio, io posso farlo
con un’arancia». Adesso quel giornalista norvegese era lì e voleva che gli facessi vedere che
cosa sapevo fare. Ma andiamo, perché avrei dovuto rendere famoso anche quel tizio? Perché
avrei dovuto prestarmi alla sua buffonata?
«Puoi prendere la tua arancia, sbucciarla e mangiartela. Le vitamine ti faranno bene» gli
suggerii, e ovviamente, si scrissero mille cose anche su questo, tipo quant’è presuntuoso e
arrogante... e si sentiva ripetere sempre più spesso che la mia relazione con i media era tesa.
Ma, onestamente, era poi così strano?
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11
Nessuno sapeva di Helena e di me, nemmeno sua madre. Avevamo giurato di mantenere il
segreto. La minima voce su di me diventava un titolone, e non volevamo che i giornalisti
cominciassero a frugare e scavare nella nostra relazione prima ancora che noi stessi sapessimo in che cosa ci eravamo imbarcati. Facevamo di tutto per tenere nascosta la nostra storia.
All’inizio traemmo forse vantaggio dalle nostre diversità. Nessuno avrebbe mai potuto capacitarsi che io stessi con una come lei, una donna in carriera di undici anni più grande. Se
venivamo visti nello stesso posto, un albergo o qualcosa del genere, nella testa della gente
l’associazione non scattava, ed era una fortuna. Ma tutto questo giocare a rimpiattino aveva
un prezzo.
Helena perdeva amici e si sentiva sola e isolata, mentre io ero sempre più arrabbiato con i
media. L’anno prima era successa una cosa: mi trovavo a Göteborg per giocare con la
Nazionale contro San Marino. Nell’Ajax le cose avevano cominciato a girare e io ero di buon
umore, così parlai in lungo e in largo come ai vecchi tempi, anche con un giornalista
dell’«Aftonbladet». Non avevo affatto dimenticato cosa si era inventato il giornale con quella
faccenda dello Spy Bar, ma non volevo essere vendicativo e perciò chiacchierai a ruota libera, anche sulla possibilità di metter su famiglia in futuro: niente di straordinario, soltanto discorsi vaghi, tipo: «Sarebbe bello avere dei figli un giorno o l’altro, in futuro». Ma sapete che
cosa fece quel giornalista? Costruì l’articolo come un annuncio personale: «Vuoi vincere la
Champions League con me? Ragazzo atletico di 21 anni, capelli scuri e occhi scuri, cerca
donna di pari età per relazione seria» scrisse, e voi che cosa credete? Mi incazzai maledettamente. Ma dov’era il rispetto? Un annuncio personale! Volevo farlo a pezzi, quel bastardo, e perciò non fu un bene che già il giorno seguente ci incontrassimo nella mixed zone
dello stadio.
Al giornale avevano già saputo che ero furibondo, credo che qualcuno della Nazionale
fosse andato a informarli, perciò adesso lui voleva chiedere scusa in modo da ricucire i rapporti tra me e il giornale, già allora giravano un sacco di soldi intorno al mio nome. Ma credetemi, non era proprio il momento più adatto. Riuscii comunque a mantenermi relativamente
tranquillo e mi accontentai di sibilargli: «Che razza di pagliaccio sei? E cosa vorresti insinuare? Che ho problemi con le ragazze, o cosa?».
«Mi dispiace, volevo soltanto...» balbettò. Non riuscì a spiccicare neanche una parola
sensata.
«Con te non parlo mai più» urlai, e me ne andai, e credevo di averlo terrorizzato, o di aver
almeno convinto quelli del giornale a comportarsi con più rispetto in futuro. Invece fu anche
peggio. Vincemmo la partita per cinque a zero, io segnai due reti e cosa credete che scrisse
l’«Aftonbladet» il giorno seguente? «Forza Svezia»? «Ora ce ne andiamo agli Europei»?
Nemmeno per idea. C’era scritto: «Vergogna Zlatan!» quando non avevo fatto nessuna figuraccia né urlato contro l’arbitro.
Avevo calciato un rigore, invece, e fatto gol. Eravamo già sul quattro a zero, ero stato atterrato in area e certo, ok, Lars Lagerbäck aveva il suo elenco di rigoristi, e in testa c’era Kim
Källström, ma lui aveva appena segnato... Così pensai: “Questa è una cosa mia, sono carico”, così quando Kim si avvicinò gli nascosi la palla dietro la schiena, tipo: «Non toccare il
mio giocattolo!». Lui tese le mano.
«Dammela!»
Invece io gli diedi un cinque. Poi lui uscì dall’area, io sistemai il pallone sul dischetto e
tirai, altro non ci fu, non era la cosa più bella che avessi mai fatto e dopo me ne scusai anche,
andiamo, ma dopo: non era mica la guerra dei Balcani! Non erano mica gli scontri con la polizia nei sobborghi. Era un gol. Eppure l’«Aftonbladet» ci scrisse sopra sei pagine e io non ci
capivo niente. Perché tirare fuori annunci personali e «Vergognati Zlatan» quando andiamo
avanti a colpi di cinque a zero?
«Se qualcuno deve vergognarsi, quello è l’“Aftonbladet”», dissi alla conferenza stampa del
giorno dopo.
Dopo quell’episodio boicottai il giornale, e quando iniziarono gli Europei in Portogallo non
c’era la situazione ideale per ricucire. Continuai la guerra, ma senza correre rischi.
L’ultima cosa che volevo era che la mia relazione con Helena saltasse fuori. Dovevo stare
attento, ma cosa potevo fare? Sentivo la sua mancanza. «Non puoi venire qui?» le chiesi.
Non era possibile. Aveva troppo da fare. Alcuni suoi capi, però, avevano acquistato dei biglietti per gli Europei e poi avevano avuto degli impegni all’ultimo momento: «C’è qualcun altro
che vuole andare al nostro posto?» domandarono, e allora lei pensò: “Questo è un segno, ci
vado”, e si fermò qualche giorno.
Come al solito facemmo tutto di nascosto, anche in Nazionale nessuno sapeva di lei;
l’unico che sembrava aver intuito qualcosa era quel discografico, Skara-Bert, che l’aveva incontrata per caso all’aeroporto e si era chiesto cosa ci facesse una come lei in mezzo a tutti
quei tifosi con le loro maglie della Nazionale e i loro stupidi cappellini. Ma riuscimmo a tenere
segreta la cosa e io potei concentrarmi sulle partite.
Eravamo un bel gruppo, con una primadonna. La primadonna continuava a tirar fuori le
sue cazzate: «All’Arsenal, capite, facciamo così. E in effetti è così che si deve fare.
All’Arsenal queste cose le sanno, e io in quella squadra ci gioco». Roba del genere.
Io non lo sopportavo. «Mi fa tanto male la schiena» diceva. «Ohi, ohi. Non posso viaggiare sul pullman normale. Devo averne uno mio. Ho bisogno di questo e quest’altro.» Voglio
dire, ma chi diavolo era per fare il damerino con noi? Lars Lagerbäck venne a parlarmi della
faccenda: «Per favore, Zlatan, cerca di gestire questa cosa in maniera professionale. Non
possiamo permetterci dei conflitti in squadra».
«Senti» risposi, «se lui rispetta me, io rispetto lui. Punto e basta.»
Ma per il resto c’era un’atmosfera incredibile. Quando facemmo il nostro ingresso in
campo a Lisbona per l’esordio contro la Bulgaria, lo stadio sembrava letteralmente vestito di
giallo, e tutti cantavano la canzone degli Europei di Markoolios. C’era una tale carica... In
campo schiacciammo letteralmente la Bulgaria, cinque a zero, e le aspettative su di noi
cominciarono a crescere. Eppure era come se gli Europei non fossero ancora cominciati sul
serio.
Il grande match che tutti aspettavano era naturalmente quello del 18 giugno contro l’Italia
a Oporto, nell’Estádio do Dragão, e non era un segreto che gli italiani fossero desiderosi di
rivincita. Avevano solo pareggiato nella prima partita contro la Danimarca, inoltre nessuno di
loro aveva dimenticato la sconfitta in finale contro la Francia nei precedenti Europei. Con noi
erano già quasi obbligati a vincere e avevano una squadra fortissima, con Nesta, Cannavaro
e Zambrotta dietro, Buffon in porta e Christian Vieri punta; ed era pur vero che Totti, la grande
star, era stato squalificato per lo sputo a Poulsen nella partita contro la Danimarca ma, in ogni
caso, affrontare l’Italia dava un brivido dentro.
Era la partita più importante che avessi mai giocato e in tribuna c’era anche mio padre.
Tutto era solenne e intenso e me ne accorsi da subito: gli italiani avevano rispetto per me.
Era un po’ tipo: «Occhio, cosa s’inventerà adesso questo qui?», e io lottavo contro la loro
difesa e certo non era uno scherzo. Verso la fine del primo tempo Cassano, che sostituiva
Totti, segnò l’uno a zero su cross di Panucci, un vantaggio meritato. Ma nel secondo tempo
entrammo meglio in partita e costruimmo diverse occasioni. Ripeto, trovare il varco giusto
contro l’Italia non è mai facile, non a caso si dice spesso che l’Italia ha la difesa più forte del
mondo. Ma a cinque minuti dalla fine guadagnammo un calcio d’angolo da sinistra.
Lo batté Kim Källström, e in area di rigore si creò confusione. Markus Allbäck andò sulla
palla, e pure Olof Mellberg, era solo un gran casino. Ma la palla era alta: scattai in avanti e in
quell’attimo vidi Buffon uscire e Vieri sulla linea di porta. Saltai, e colpii di tacco. Un po’ tipo
mossa di kung-fu. Nelle fotografie si vede il mio tacco alla stessa altezza della spalla. Il pallone prese una traiettoria perfetta, passò sopra Christian Vieri che cercò di deviare di testa,
appena sotto la traversa, e s’infilò esattamente all’incrocio.
Giocavamo contro l’Italia. Eravamo agli Europei. Avevo segnato di tacco a cinque minuti
dalla fine. Cominciai a correre come un matto con tutti i miei compagni dietro, altrettanto impazziti, tutti tranne uno, è ovvio, che correva nella direzione opposta. Ma cosa me ne
fregava? Mi buttai a terra e tutti si tuffarono sopra, e Henke gridava: «Goditela, e basta!»
come se avesse immediatamente afferrato il punto. Il match finì in pareggio, ma ci sembrava
di aver vinto.
Riuscimmo ad arrivare fino ai quarti di finale, dove ci aspettava l’Olanda, e l’atmosfera era
bella elettrica anche quel giorno.
I sostenitori dell’Olanda, nei loro vestiti e cappelli arancioni, fischiavano e mi facevano
buuu! come se fossi nella squadra sbagliata, e la partita fu incredibilmente intensa, con un
sacco di occasioni da una parte e dall’altra. Eppure al novantesimo eravamo ancora sullo
zero a zero, perciò si andò ai supplementari. Noi colpimmo sia la traversa sia un palo,
avremmo potuto tranquillamente andare in vantaggio. Ma fummo costretti ai rigori.
Tutto lo stadio era come in preghiera, la tensione si tagliava con il coltello, e come al solito
molti non avevano nemmeno il coraggio di guardare. I tifosi olandesi fischiavano e cercavano
di fare guerra psicologica. Una pressione spaventosa. Ma cominciò bene. Kim Källström mise
dentro e anche Henke. Eravamo sul due a due quando venne il mio turno. Avevo in testa un
elastico per capelli nero – li portavo piuttosto lunghi – e sorridevo, non so bene perché. Mi
sentivo molto figo, nonostante tutto: ero nervoso, ma non nel panico. In porta c’era Edwin Van
Der Sar. Potevo farcela.
Oggi, quando batto un rigore, so esattamente dove andrà a finire, cioè in rete. Ma allora
ebbi una strana sensazione, e quella strana sensazione arrivò proprio nell’attimo in cui mi avvicinavo alla palla. Colpii come se dovesse essere una sorpresa anche per me dove l’avrei
messa, e sbagliai completamente. La mandai chissà dove. Fu una disfatta, uscimmo dal
torneo – anche Olof Mellberg mancò il suo rigore – e credetemi: non è un bel ricordo. Fu un
disastro. Avevamo una bella squadra e saremmo potuti andare anche più lontano. Ma, in ogni
caso, quegli Europei misero in moto un sacco di nuovi eventi.
Agosto è un periodo inquieto. Il mercato si chiude il 31 e le voci sui trasferimenti arrivano
da ogni dove. Si parla spesso di Silly Season, la stagione pazza. Non ci sono partite e i
giornali non hanno molto altro di cui scrivere: tizio andrà là? O resterà qui? Quanto lo vogliono pagare? L’aria è piena di fermento, e molti giocatori vanno sotto stress: la cosa era particolarmente evidente da noi all’Ajax.
In ogni angolo ci si lanciava sguardi nervosi: quello avrà in ballo qualcosa? E quell’altro?
E perché il mio agente non chiama? C’era molta tensione e molta invidia e anch’io ero un po’
sulle spine, ma cercavo comunque di concentrarmi sul calcio giocato. Ricordo una partita
contro l’Utrecht, dove l’ultima cosa che mi aspettavo era di essere sostituito. Quando Koeman
mi fece cenno di uscire, mi arrabbiai a tal punto che tirai un calcio a un cartellone pubblicitario
a bordo campo.
Già a quei tempi avevo preso l’abitudine di telefonare a Mino dopo le partite. Era bello potermi sfogare con lui e lamentarmi in termini un po’ generici, ma quella volta alzai veramente i
toni: «Che razza di idiota è stato a sostituirmi? Come si fa a essere così dementi?». Anche se
con Mino ci punzecchiavamo spesso, in quella situazione mi aspettavo il suo sostegno, qual-
cosa tipo: «Sono d’accordo con te, Koeman dev’essersi fumato il cervello, povero Zlatan».
Invece Mino disse: «Chiaro che ti ha sostituito. Eri il peggiore in campo. Facevi schifo».
«Che cazzo stai dicendo?»
«Non hai combinato nulla. Avrebbe dovuto tirarti fuori prima.»
«Senti...» dissi.
«Che c’è?»
«Potete andare all’inferno, sia tu che l’allenatore.»
Misi giù, feci la doccia e me ne tornai a casa a Diemen, il mio umore non era certo migliorato. Ma quando arrivai vidi che c’era qualcuno davanti alla porta. Era Mino. Che faccia tosta
aveva, quell’idiota, e quasi non ero ancora sceso dalla macchina che cominciammo di nuovo
a urlarci addosso.
«Quante volte devo dirtelo?» sbraitò lui. «Facevi schifo, e non devi prendere a calci i cartelloni pubblicitari, cazzo! Devi cercare di crescere!»
«Vaffanculo.»
«Fottiti!»
«Fottiti tu!»
«Io voglio andarmene da qui» urlai.
«Puoi trasferirti a Torino, allora.»
«Che cazzo stai dicendo?»
«Forse ho qualcosa in ballo con la Juventus.»
«Come?»
«Hai sentito», e, sì, avevo sentito. Semplicemente non riuscivo ad afferrare, non nella mia
agitazione.
«Mi hai procurato un ingaggio alla Juventus?»
«Forse.»
«Sei così meraviglioso, dannatissimo idiota?»
«Non c’è ancora niente di definito, ma ci sto lavorando» disse, e io pensai: “Cavolo, la Juventus... altro che Southampton!”.
All’epoca la Juventus era forse il club migliore d’Europa. Ci giocavano stelle del calibro di
Thuram, Trezeguet, Del Piero, Buffon e Nedved, ed è vero che l’anno precedente avevano
perso la finale di Champions contro il Milan, ma sulla carta non esisteva nessuna squadra al
loro livello. I giocatori erano tutti delle superstar, e il club aveva appena ingaggiato Fabio
Capello, l’allenatore-demonio ex Roma che mi voleva da diversi anni. Cominciavo veramente
a sperarci. Avanti, Mino, portami a Torino!
Il direttore generale della Juventus di quegli anni era Luciano Moggi. Moggi era un tipo col
pelo sullo stomaco che conosceva i giochi di potere e che era venuto su dal nulla, diventando
uno degli uomini più potenti del calcio italiano. Era il re del mercato dei trasferimenti, ed era
riuscito a trasformare la Juventus: sotto la sua direzione il club aveva vinto più volte il campionato. Ma non era esattamente la trasparenza fatta persona. Veniva soprannominato Lucky
Luciano. Intorno a lui c’erano stati parecchi scandali con bustarelle e doping e processi e
porcherie varie e voci secondo cui aveva legami con la camorra. Erano stronzate, ovviamente. Ma l’aria del mafioso ce l’aveva davvero. Gli piacevano i sigari e i completi eleganti e
come negoziatore non si tirava indietro di fronte a nulla, così si diceva. Era un maestro della
trattativa, un osso durissimo. Ma Mino lo conosceva.
Erano vecchi nemici, per così dire, che alla fine erano diventati amici. Mino aveva chiesto
un incontro a Moggi già ai tempi in cui stava cercando di avviare la sua attività come procuratore, ma non era stato un buon inizio. Il giorno dell’appuntamento l’anticamera dell’ufficio di
Moggi era zeppa di gente. C’erano tipo venti persone là dentro, tutte erano impazienti e
speravano di poter parlare con Moggi, e invece non succedeva niente. Il tempo passava e
passava e alla fine Mino si stufò e andò via incazzato nero. Che razza di rispetto era, trascurare un appuntamento a quel modo? La maggior parte degli altri presenti aveva di sicuro accettato la situazione, non ci si scontra inutilmente con Moggi, era un pezzo grosso! Ma Mino
non ha nessun rispetto per questi atteggiamenti. Se lo trattano male, lo trattano male e basta.
Perciò cercò Moggi in città, e lo trovò al ristorante frequentato dal club, l’Urbani.
«Tu non hai avuto rispetto» gli disse.
«E chi sarebbe lei?» disse Moggi.
«Questo lo vedrai il giorno che vorrai acquistare un giocatore da me» ruggì Mino, e per
molto tempo continuò a detestare Moggi.
Addirittura si presentava ad altri boss del calcio italiano dicendo: «Mi chiamo Mino, e sono
contro Moggi», e siccome Moggi era una persona che si faceva facilmente dei nemici, era
una battuta che spesso faceva effetto.
Il problema era che Mino prima o poi sarebbe stato costretto a fare affari con Moggi. Nel
2001 la Juventus voleva prendere Nedved, uno dei big di Mino. Mino aveva in ballo anche il
Real Madrid, e lui e Nedved dovevano incontrare Moggi a Torino per discutere dell’eventuale
accordo. Ma Moggi decise di puntare forte e convocò all’incontro anche giornalisti, fotografi e
tifosi. Mise in piedi un intero comitato di benvenuto prima ancora che le trattative fossero iniziate, e né Nedved né Mino riuscirono a smarcarsi. Anche Mino voleva vedere Nedved alla Juventus, e paradossalmente quel colpo di mano gli offriva la possibilità di concludere il contratto al rialzo, ma per la prima volta rimase anche impressionato da Moggi. La prima volta si
era forse comportato da bastardo, ma sapeva il fatto suo. Così fecero la pace e diventarono
amici. «Mi chiamo Mino. E sono per Moggi», tipo. Un bel cambiamento. Non che si facessero
tanti complimenti, ma c’era del rispetto.
Quanto a me, molti club avevano raffreddato il loro interesse, solo Moggi si era entusiasmato sul serio. Portarmi a Torino, però, non sarebbe stato semplice. Moggi non aveva molto
tempo per noi. Riuscimmo a incontrarlo in segreto una mezz’ora a Montecarlo, durante il
Gran Premio di Monaco di Formula Uno, suppongo fosse lì per affari. Dovevamo vederci in
una saletta vip dell’aeroporto, ma c’era un traffico pazzesco e non riuscivamo ad avanzare
con la macchina. Fummo costretti a scendere e a correre, e Mino non è certo un grande atleta. È un ciccione. Ansimava ed era fradicio di sudore. Non si era certo fatto bello per
l’incontro: indossava degli shorts hawaiani, una maglietta Nike e scarpe da jogging senza
calze, e ormai era completamente zuppo. Arrivammo nella famosa saletta vip dell’aeroporto e
lì dentro c’era fumo dappertutto. Luciano Moggi, in completo elegantissimo, era alle prese con
un grosso sigaro; si capiva subito che era un individuo di potere. Era abituato che la gente facesse come diceva lui. Fissò Mino: «Ma come ti sei combinato?».
«Sei qui per controllare il mio look o per parlare di affari?» sibilò Mino di rimando, e fu lì
che tutto cominciò.
In quello stesso periodo giocammo una partita con la Nazionale a Stoccolma contro
l’Olanda. Era soltanto un’amichevole, ma nessuno di noi aveva dimenticato la sconfitta agli
Europei, e volevamo ovviamente dimostrare di poterli battere. Tutta la squadra desiderava
quella rivincita ed entrammo in campo per fare la partita, belli aggressivi, e già nelle prime fasi
di gioco ricevetti un pallone fuori dall’area di rigore. Subito ebbi addosso quattro olandesi –
uno di loro era Van Der Vaart – e tutti mi strattonavano. Io mi feci largo con prepotenza e riuscii a passare la palla a Mattias Jonson che era libero. Lui segnò l’uno a zero, e un attimo
dopo Van Der Vaart era lì a terra dolorante. Dovettero portarlo fuori in barella ma non era niente di grave, avrebbe forse saltato una o due partite. Però andò a dire ai giornali che gli
avevo fatto male intenzionalmente. Nel leggere le sue dichiarazioni sobbalzai. Che razza di
stronzate erano? Non c’era stato nemmeno un calcio di punizione, come poteva parlare di
fallo intenzionale? E quello dovrebbe essere il capitano della mia squadra!
Gli telefonai: «Ascolta, mi dispiace per il tuo infortunio. Ti chiedo scusa, ma non l’ho fatto
apposta, capito?». Ai giornalisti ripetei la stessa cosa. Lo dissi cento volte. Ma Rafael andava
avanti con quella solfa, e io non riuscivo a capire. Perché va in giro a gettare fango su un suo
compagno di squadra? Non aveva nessun senso. Oppure sì?
Cominciarono a frullarmi in testa dei dubbi, perché non dimentichiamo che era agosto, ed
era in corso il mercato. Forse voleva lasciare il club col pretesto di un contrasto? Non sarebbe
stata la prima volta che veniva usato quel trucco, e in più il ragazzo aveva dalla sua parte
anche i giornalisti.
Lui era olandese. Era il cocco dei giornali scandalistici mentre io ero il bad boy e via
dicendo, lo straniero. «Stai facendo sul serio?» gli chiesi quando lo incontrai all’allenamento,
e chiaramente sì, faceva sul serio.
«Ok, ok» dissi io. «Allora te lo dico un’ultima volta. Non l’ho fatto apposta. Mi hai sentito?»
«Ti ho sentito!»
Eppure non arretrò di un millimetro, e l’atmosfera era sempre più tesa. La squadra si divise in due fazioni. Gli olandesi stavano dalla parte di Rafael, e gli stranieri dalla mia. Alla fine
Koeman convocò una riunione; ormai ero fuori di me per quella storia. Come si poteva accusarmi di una cosa del genere? Ribollivo letteralmente di rabbia, e lì alla riunione, al terzo piano
del nostro ristorante, ci sedemmo tutti in cerchio e si capì subito che la faccenda era seria. La
dirigenza pretendeva che ci riconciliassimo. Eravamo due giocatori chiave e dovevamo per
forza firmare la pace. Ma non sembravano esserci esattamente delle aperture. Rafael andò
giù più pesante che mai: «Zlatan l’ha fatto apposta» disse, e io vidi rosso.
Ma perché non la piantava?
«Io non ti ho fatto male intenzionalmente, e lo sai. Ma se provi ad accusarmi ancora ti
spezzo tutt’e due le gambe, e questa volta di proposito» dissi, e chiaro, tutti quelli dalla parte
di Van Der Vaart attaccarono subito: «Vedete? Vedete? È aggressivo. È pazzo». Koeman
cercò di calmare un po’ gli animi: «Ora cerchiamo di non esagerare, sistemeremo tutto».
Ma l’impresa era difficile. Un giorno fummo convocati anche da Van Gaal. Ci eravamo già
scontrati in passato e non era un gran vantaggio dovermi presentare da lui in compagnia di
Van Der Vaart. Non mi sentivo certo circondato da amici, e Van Gaal attaccò subito con il suo
linguaggio autoritario.
«Qui comando io» disse.
“Grazie del chiarimento” pensai.
«E io vi dico» continuò, «deponete le armi. Quando Rafael sarà guarito, dovrete giocare
insieme!»
«Assolutamente no» replicai. «Fin quando ci sarà lui in campo, io non gioco.»
«Ma che stai dicendo?» rispose Van Gaal. «Lui è il mio capitano, e tu giochi per lui! Dovrai sacrificarti per la squadra!»
«Il tuo capitano?» chiesi. «Che stronzate sarebbero? Rafael dichiara ai giornali che io gli
ho fatto male intenzionalmente, che razza di capitano è? Attacca i suoi compagni di squadra?
Io con lui non ci gioco, punto e basta. Mai più. Potete dire quello che volete.»
E poi me ne andai. Era un azzardo, ma traevo forza dal fatto di avere in ballo la Juventus.
Non c’era ancora niente di scritto ma ci speravo veramente, e ne parlai con Mino: «Come sta
andando? Che cosa dicono?».
Intanto c’erano partite in continuazione, e il 22 agosto dovevamo incontrare il NAC Breda
in campionato. I giornali scrivevano ancora del mio scontro con Van Der Vaart ed erano
schierati più che mai dalla sua parte. Lui era il favorito. Io il teppista che l’aveva azzoppato.
«Preparati a essere fischiato» mi disse Mino. «Il pubblico ti odierà.»
«Bene» risposi.
«Bene?»
«È il genere di cose che mi stimola, lo sai. Gliela farò vedere.»
Ero carico. A mille. Ma la situazione non era facile, e prima della partita decisi di raccontare a Koeman della Juventus. Volevo prepararlo e questo genere di discorsi è sempre delicato, però Koeman mi piaceva. Lui e Beenhakker erano stati i primi a intuire realmente le mie
capacità nell’Ajax, e non dubitavo che mi avrebbe capito. Chi non sarebbe voluto andare alla
Juve? Ma Koeman difficilmente mi avrebbe lasciato andare senza combattere, in tempi recenti aveva anche dichiarato che certi giocatori parevano credere di essere più importanti del
club. Era chiaro che si riferisse a me. Perciò si trattava di pesare le parole, e già dall’inizio
avevo deciso di utilizzare delle frasi che mi aveva rivolto Van Gaal.
«Vorrei davvero evitare che vengano fuori casini anche su questa cosa» dissi a Koeman,
«ma la Juventus mi vuole e io spero che possiate trovare l’accordo. Un’occasione del genere
capita solo una volta nella vita.» Naturalmente, proprio come pensavo, Koeman capì, era pur
sempre stato un calciatore professionista.
«Ma io non voglio che tu ci lasci» disse. «Voglio averti ancora qui. E lotterò per questo!»
«Lo sai cos’ha detto Van Gaal?»
«Cosa?»
«Ha detto che non ha bisogno di me in campionato. Lì ve la cavate comunque. Ha
bisogno di me in Champions.»
«Ha detto davvero una cosa del genere?»
Koeman andò fuori di testa. Si incazzò con Van Gaal. Riteneva che quelle parole lo legassero mani e piedi e gli dessero meno possibilità di lottare per tenermi, e ovviamente era
proprio ciò che avevo sperato.
Ricordo comunque che scesi in campo contro il NAC Breda e pensai: “O la va o la
spacca”. Era diventato un match importante per me. Quelli della Juventus mi avrebbero di
sicuro tenuto gli occhi addosso. Ma fu veramente folle. Mancò poco che i nostri tifosi mi sputassero addosso. Fischiavano e urlavano, e in tribuna era seduto il beniamino di tutti, Rafael
Van Der Vaart, a ricevere applausi: una situazione ridicola. Io ero lo stronzo, lui la vittima innocente. Ma presto tutto sarebbe cambiato.
A venti minuti dal termine vincevamo per tre a uno. Come momentaneo sostituto di Rafael
Van Der Vaart era arrivato dal vivaio il giovanissimo Wesley Sneijder, che era un tipo in
gamba. Giocava in un modo intelligente. Fu lui a segnare il quattro a uno. Solo cinque minuti
dopo il suo gol io ricevetti la palla circa venti metri fuori dall’area di rigore. Avevo un difensore
addosso, mi scontrai letteralmente con lui e riuscii a liberarmi di forza, quindi dribblai un altro
giocatore. Ma era solo l’inizio. L’introduzione.
Continuai con una finta, e mi avvicinai all’area di rigore, poi ne feci un’altra mentre cercavo il varco per calciare. Ma con la coda dell’occhio scorgevo solo maglie avversarie. Forse
avrei dovuto passare la palla, ma non ne vedevo la possibilità. Allora mi liberai con un paio di
finte di corpo, misi a sedere in un colpo solo l’ultimo difensore e il portiere e appoggiai la palla
di sinistro nella porta ormai vuota.
Quel gol è diventato un classico del mio repertorio. Fu definito un gol alla Maradona
perché in qualche modo ricordava quello contro l’Inghilterra nei quarti dei Mondiali ’86. Avevo
saltato praticamente tutta la squadra avversaria e lo stadio esplose. I tifosi erano impazziti.
Perfino Koeman correva saltando come un matto, per quanto gli avessi appena confessato di
voler andar via. Era come se tutto l’odio nei miei confronti si fosse trasformato improvvisamente in amore, e in un trionfo.
Tutti esultavano e urlavano, tutti erano in piedi e saltavano, tutti tranne uno, ovviamente.
La telecamera fece una carrellata sugli spalti in delirio fino ad arrivare su Rafael Van Der
Vaart. Stava seduto lì in tribuna, rigido. Era rimasto completamente impassibile, nonostante il
gol, come se il mio show fosse stato la cosa peggiore che potesse succedere. Forse era effettivamente così. Quel gol era il mio grazie e arrivederci e andatevene pure all’inferno,
perché non dimentichiamolo, prima del calcio d’inizio mi avevano fischiato tutti!
Adesso invece si sentiva gridare un solo nome ed era il mio. Nessuno si curava più di Van
Der Vaart, e per tutta la sera e il giorno seguente i canali sportivi riproposero quasi ininterrottamente il mio gol. Più avanti sarebbe stato votato come il più bello dell’anno dagli spettatori
di Eurosport. Ma io, per ovvie ragioni, ero concentrato su altro. Il tempo stringeva. Il mercato
non sarebbe rimasto aperto ancora a lungo e Moggi faceva il difficile. O fingeva di farlo, era
impossibile dirlo. Moggi spiegò all’improvviso che io e Trezeguet, il grande cannoniere della
Juventus, non potevamo giocare insieme.
«Ma di che stai parlando?» disse Mino.
«Non sono adatti per giocare insieme. Non potrà funzionare» rispose lui, e la cosa non
suonava bene, proprio per niente.
Quando Moggi si metteva in testa qualcosa, non era facile fargli cambiare idea. Ma Mino
vide una scappatoia. Capì che Capello non la pensava allo stesso modo. Capello mi stava dietro da anni, e certo, Moggi era il direttore sportivo ma Capello non era un tipo con cui
scherzare. Quell’uomo è capace di far abbassare la cresta a qualsiasi star con un’occhiata. È
duro come la roccia, nel mondo del calcio è quasi un unicum. Così Mino li invitò a cena tutti e
due, ed esordì andandoci giù pesante: «È vero che Trezeguet e Zlatan non possono giocare
insieme?».
«Che razza di discorsi sono? Che c’entra questo con la nostra cena?» rispose Capello.
«Moggi ha detto che i loro stili di gioco sono incompatibili, o no, Luciano?»
Moggi annuì.
«Perciò ora vorrei sapere da Fabio se questo è vero» continuò Mino.
«Me ne frego se è vero oppure no, e dovreste farlo anche voi. Quello che succede in
campo è un problema mio. Fate soltanto in modo che Zlatan venga qui e io penserò al resto»
rispose.
A quel punto che cosa poteva fare Moggi? Non poteva mica strigliare l’allenatore, come
se ne sapesse più di lui. Fu costretto a piegarsi, e Mino vinse quel round. Li aveva portati
esattamente dove voleva. Ma non era ancora detta l’ultima parola...
Intanto ad Amsterdam si tenne il gran galà del calcio olandese. Mino e io eravamo lì per
festeggiare Maxwell, che doveva ricevere il premio come miglior giocatore del campionato, ed
eravamo entrambi felici per lui. Ma non ci furono grandi feste. Mino era completamente assorbito dalla mia trattativa, andava avanti e indietro e parlava ora con i dirigenti della Juventus
ora con quelli dell’Ajax, e sorgevano di continuo nuovi problemi e interrogativi, vuoi che si trattasse di intoppi veri, vuoi che venissero creati ad arte per migliorare le rispettive posizioni. La
situazione sembrava bloccata: la sera dopo il galà il mercato si sarebbe chiuso, e io ero
nell’incertezza totale.
Me ne stavo seduto a casa a Diemen a giocare con l’Xbox, a Pro Evolution, mi pare, o a
Call of Duty, due giochi spietati. Mi aiutavano quasi a dimenticare tutto. Ma Mino mi chiamava
ogni due minuti, era nervosissimo. La mia valigia era pronta e la Juventus aveva un aereo
privato che mi aspettava all’aeroporto. Perciò non c’erano dubbi, a Torino mi volevano. Solo
che non si arrivava a un accordo sulla cifra. C’era questo e quest’altro problema, e i vertici
dell’Ajax sembravano non credere che si trattasse di un affare serio. Gli italiani non avevano
nemmeno un avvocato sul posto ad Amsterdam, e io cercai per conto mio di fare pressione
sull’Ajax: «Da come la vedo io, per voi non gioco più. Ho chiuso per sempre!» dissi a Van
Gaal e ai suoi scagnozzi.
Ma non succedeva nulla e il tempo passava, e io ero sempre sprofondato nel mio gioco
dell’Xbox e dovreste vedermi, in questo genere di situazioni. Sono concentrato al cento per
cento. Le mie dita danzano sul controller. È come una febbre. Tutta la mia frustrazione si
riversa sul gioco. Così continuavo a smanettare mentre Mino si faceva in quattro per concludere l’affare. Era fuori di testa anche lui. Perché Moggi non poteva nemmeno mandare un
maledetto avvocato ad Amsterdam? Che razza di modo di fare era?
Poteva far parte della loro strategia, certo, chi lo sapeva? Niente sembrava sicuro, finché
Mino decise di passare al contrattacco. Telefonò al suo avvocato: «Vai subito ad Amsterdam»
disse, «e fa’ finta che rappresenti la Juventus». Il tipo volò ad Amsterdam, recitò la sua parte
e il trucco servì, perché le trattative ripartirono. Ma non si arrivava mai in porto, e alla fine
Mino andò in bestia. Telefonò di nuovo.
«Ce ne fottiamo» disse. «Prendi con te l’avvocato e vieni subito. Dovremo cercare di sistemare le cose da qui.» Così mollai il videogioco e mi misi in moto. Quasi non chiusi neanche
la porta, a essere sinceri.
Raggiunsi l’Amsterdam Arena, dove la dirigenza dell’Ajax era in riunione con l’avvocato, e
su una cosa non c’erano dubbi: tutti erano stravolti, l’avvocato andava avanti e indietro nella
stanza e ripeteva ossessivamente: «Manca soltanto una carta, un’unica carta! Poi è tutto sistemato!».
«Non facciamo in tempo. Dobbiamo andare in Italia. Mino dice che dobbiamo fregarcene»
risposi, e così raggiungemmo l’aeroporto e l’aereo privato della Juventus.
Prima di partire avevo fatto in tempo a telefonare a papà: «Pronto, pronto, ho una fretta incredibile, sto per firmare con la Juventus. Ti andrebbe di venire in Italia?» e ovvio, gli andava,
e io ne fui felice. Se fosse andata in porto si sarebbe realizzato il mio sogno di ragazzo, e allora sarebbe stato bello che ci fosse, ne avevamo passate così tante insieme... So che lui
partì senza indugi per Milano, dove un collaboratore di Mino lo aspettava per portare anche
lui negli uffici della Federazione. È lì che vengono registrati tutti i contratti durante il mercato.
Arrivò prima di me, e quando io stesso entrai con l’avvocato rimasi senza parole. Era
proprio lui? Non era il papà cui ero abituato, non quello che stava seduto in casa in tuta da lavoro ad ascoltare musica jugoslava con gli auricolari. Questo era un signore distinto in completo elegante, un uomo che sarebbe potuto passare benissimo per un pezzo grosso italiano,
e io mi sentii orgoglioso e sorpreso. Non l’avevo mai visto in giacca e cravatta.
«Papà!»
«Zlatan!»
Era bello, e dappertutto lì fuori c’erano giornalisti e fotografi. La notizia del mio probabile
trasferimento si era diffusa, ma non c’era ancora niente di ufficiale. L’orologio ticchettava. Non
c’era più molto tempo per i giochetti, e Moggi continuava a confondere le acque e a fare delle
finte, purtroppo con dei buoni risultati. Il prezzo del cartellino era sceso da trentacinque milioni
di euro, come aveva chiesto Mino, prima a venticinque, poi a venti e infine a sedici: centocinquanta milioni di corone. Certo, erano ancora un sacco di soldi, quasi il doppio di quanto mi
aveva pagato l’Ajax. Eppure non doveva essere questa gran cifra per la Juventus, che aveva
venduto Zidane al Real Madrid per settanta milioni di euro. Chiaro che avevano possibilità
economiche, quelli dell’Ajax non avrebbero dovuto preoccuparsi. Ma erano nervosi
comunque, o sostenevano di esserlo: la Juventus non era nemmeno riuscita a presentare
una fideiussione bancaria! Naturalmente, poteva esserci una spiegazione per questo. Nonostante tutti i successi, la Juventus l’anno prima aveva chiuso il bilancio in perdita per venti
milioni di euro, ma non era nulla d’insolito per un grande club, al contrario: per quanto consistenti possano essere gli introiti, le spese sembrano sempre più grandi. Mi chiedo ancora se
quella storia che non ci fosse garanzia bancaria non fosse un trucco, l’ennesima finta. La Juventus era uno dei club più importanti del mondo, senz’altro quei soldi li aveva. Ma senza
garanzia bancaria l’Ajax rifiutava di dare il via libera, e il tempo continuava a scorrere. La
situazione era disperata. Moggi stava lì sulla sua poltrona e lanciava sbuffi dal suo sigaro
enorme con l’aria di avere tutto sotto controllo, tipo si sistemerà tutto, io so quello che faccio.
Ma Mino se ne stava in piedi poco lontano da lui con i suoi auricolari e strillava ai dirigenti
dell’Ajax: «Se non firmate, niente sedici milioni. Non avrete i soldi, non avrete Zlatan! Cioè
non avrete niente! L’avete capito? Niente di niente! Ma cosa credete, che la Juventus potrebbe cercare di fregarvi? La Juventus! Voi siete matti. Però prego, fate come volete, mandate pure tutto all’aria. Accomodatevi!».
Erano parole dure, eppure non succedeva nulla, ma proprio nulla di nulla, e l’atmosfera si
faceva sempre più nervosa. Immagino che Mino avesse bisogno di sfogare la sua tensione.
Oppure era soltanto imbestialito. C’erano un sacco di palloni e trofei lì dentro, così Mino prese
un pallone e cominciò a palleggiare. Era assolutamente folle. Che diavolo stava combinando?
Non capivo. Quel pallone volava intorno e rimbalzava, e colpì anche Moggi sulla testa e sulla
spalla, e tutti si chiedevano soltanto: cosa sta facendo? Deve proprio mettersi a far cazzate
adesso, in questa situazione? Nel momento peggiore di una trattativa? Non era esattamente
il momento giusto per i giochetti.
«Piantala. Non vedi che fai male?»
«No, no, datevi una mossa voi, invece» ribatté lui. «Ce la giochiamo a palla, cercate di
prenderla, su. Luciano, in piedi, spiegaci lo schema. Adesso arriva un angolo, Zlatan. Avanti!
Di testa!»
Andò avanti per un po’ a questo modo, e onestamente non ho idea di cosa pensassero il
notaio e tutti gli altri lì dentro. Ma una cosa è chiara, Mino si guadagnò un nuovo sostenitore
quel giorno: papà. Papà rideva come un matto. Che pazzo scatenato è mai quello? Quanto è
fuori? Mettersi a palleggiare davanti a pezzi da novanta come Moggi. Era lo stile di mio padre.
Era come mettersi a cantare e a ballare nella situazione sbagliata. Era decidere di fare di
testa propria a prescindere, e da quel giorno papà non colleziona solo ritagli su di me, raccoglie anche tutto quello che si scrive su Mino. Mino è il suo matto preferito, perché ovviamente capì subito che non era soltanto un folle.
Infatti, alla fine, Mino portò a casa anche l’accordo. L’Ajax non voleva perdere sia me sia i
soldi, e la dirigenza firmò all’ultimo secondo. Erano le dieci passate, credo, e l’ufficio della
Federazione in realtà avrebbe dovuto chiudere alle sette. Ma finalmente era fatta, e mi ci volle
un momento prima di realizzare la cosa: avrei finalmente giocato in Italia?
Più tardi andammo a Torino, e lungo l’autostrada Mino telefonò al ristorante abituale della
Juventus, Urbani, e chiese che tenessero aperto! Il personale non fu difficile da convincere,
ovviamente. Quando arrivammo, poco prima di mezzanotte, fummo ricevuti come dei re, e ci
sedemmo a tavola a mangiare ripercorrendo tutta l’operazione. Io ero contento soprattutto
che papà fosse lì a vedere tutto questo.
«Sono orgoglioso di te, Zlatan» disse.
Io e Fabio Cannavaro arrivammo contemporaneamente alla Juventus e tenemmo una
conferenza stampa congiunta allo stadio Delle Alpi. Cannavaro è forte. È un tipo che scherza
e ride tutto il tempo. Mi piacque subito. Qualche anno dopo fu eletto Fifa World Player, e nei
primi tempi a Torino mi aiutò moltissimo. Ma quella volta, dopo la conferenza stampa, io e
papà volammo direttamente ad Amsterdam e lasciammo lì Mino prima di proseguire per
Göteborg, dove era in programma una partita con la Nazionale.
Fu un periodo pazzo, e non ritornai mai alla mia casa di Diemen. Me la lasciai alle spalle,
molto semplicemente, e a lungo abitai all’Hotel Le Méridien di via Nizza, a Torino. Restai lì
finché non mi trasferii nell’appartamento di Filippo Inzaghi, in piazza Castello. Perciò fu Mino
ad andare a Diemen per mettere insieme le mie cose. Ma quando entrò in casa sentì dei rumori dal piano di sopra, e trasalì. C’erano dei ladri? Si sentivano chiaramente delle voci, e
Mino salì in silenzio, pronto alla rissa.
Ma non trovò nessun ladro. Era l’Xbox che era rimasta accesa e che aveva continuato a
funzionare per tre settimane, da quando ero uscito di corsa per raggiungere l’aereo privato
della Juventus e volare verso Milano e gli uffici della Federazione.
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12
«Ibra, vieni qui!»
Fabio Capello, forse l’allenatore di maggior successo degli ultimi dieci anni, mi chiamò ad
alta voce e io pensai: “Che ho fatto adesso?”. Tutta l’angoscia della mia infanzia per le convocazioni ufficiali tornò a galla, in più Capello poteva rendere nervoso chiunque. Wayne
Rooney ha detto che quando Capello ti passa accanto ti sembra come di essere morto, più o
meno, ed è vero. Con il suo caffè in mano ti sfiorava impassibile, quasi lugubre. Certe volte
borbottava uno stringatissimo «Ciao», ma di solito filava via e basta, e ti sembrava di essere
un fantasma.
Ho detto che in Italia le stelle del calcio non saltano a comando solo perché lo dice
l’allenatore. Ma questo non vale con Capello. Chiunque si mette in riga quando compare lui.
Di fronte a Capello ci si comporta a dovere, e so di un giornalista che una volta gli fece una
domanda a proposito: «Come fa a ottenere un tale rispetto da tutti?».
«Il rispetto uno non lo ottiene. Se lo prende» rispose lui, ed è una cosa che mi era rimasta
impressa.
Quando Capello si arrabbia sono pochi quelli che osano guardarlo negli occhi, e se ti offre
una possibilità e tu non la sfrutti puoi anche andare a vendere salsicce fuori dello stadio. Nessuno va da lui a parlargli dei suoi problemi. Capello non è tuo amico. Non chiacchiera con i
giocatori, non a quel modo. Lui è il sergente di ferro, e quando ti chiama in genere non è un
buon segno. D’altro canto non puoi mai sapere. Lui distrugge e costruisce. Ricordo un allenamento, avevamo appena iniziato a provare un po’ di schemi su palla inattiva. Capello soffiò
nel fischietto e gridò: «Via tutti. Sparite da questo campo!» e nessuno ci capiva niente.
«Che cosa abbiamo fatto? Di che cosa si tratta?»
«Siete mollissimi. Siete stati un disastro!» e fummo costretti a tornare negli spogliatoi.
Non ci fu altro allenamento per quel giorno, ed eravamo un po’ confusi, ma ovviamente lui
aveva un’idea precisa. Voleva che il giorno dopo arrivassimo carichi come guerrieri, e a me
quello stile piaceva, perché, come ho già detto, non sono cresciuto a smancerie. Mi piacciono
gli uomini che hanno potere e carattere, e Capello credeva in me.
«Tu non hai niente da dimostrare, so chi sei e cosa sai fare» mi aveva detto uno dei primi
giorni, e questo mi dava sicurezza.
Potevo rilassarmi un po’. C’era stata una pressione tremenda in quelle settimane: diversi
giornali avevano criticato il mio acquisto e scritto che facevo pochi gol, che non ero il giocatore giusto per la Juventus. Molti credevano che avrei fatto panchina: come può Zlatan inserirsi in un gruppo del genere? Si faceva un gran discutere.
«Zlatan è davvero pronto per l’Italia?» scrissero.
«E l’Italia è pronta per Zlatan?» ribatté Mino, e fece benissimo.
È così che bisogna rispondere. Bisogna reagire con altrettanta forza, e certe volte mi
domando: ce l’avrei mai fatta senza Mino? Se avessi iniziato alla Juventus come avevo fatto
all’Ajax, la stampa mi avrebbe mangiato in un boccone. In Italia sono pazzi per il calcio. Il calcio è una questione di vita o di morte, e se noi in Svezia scriviamo delle partite il giorno prima
e quello dopo, in Italia ci tirano avanti per tutta la settimana. È un processo ininterrotto, e vieni
valutato di continuo. Ti esaminano dalla testa ai piedi, ed è piuttosto dura finché non ci fai
l’abitudine.
Ma adesso avevo Mino. Lui era la mia barriera di protezione, e gli telefonavo di continuo.
Voglio dire: l’Ajax era l’asilo infantile, al confronto, e se adesso in allenamento volevo andare
in rete non avevo da superare solo Cannavaro e Thuram, c’era anche Buffon in porta, e nessuno mi trattava gentilmente solo perché ero nuovo, al contrario.
Capello aveva un assistente, Italo Galbiati. Galbiati è un uomo di una certa età, io lo
chiamavo il vecchio. È una brava persona. Lui e Capello fanno un po’ il gioco del poliziotto
buono e il poliziotto cattivo. Capello dice le cose dure, grintose mentre Galbiati si occupa del
resto, e già dopo il primo allenamento il mister mi aveva mandato da lui.
«Italo, vacci giù duro con il ragazzo!» si raccomandò.
I miei compagni se n’erano andati a fare la doccia, e io ero sfinito. Sarei crollato anch’io
volentieri. Ma dall’altro lato stava arrivando un portiere della Primavera, e io cominciai a capire. Italo mi avrebbe tirato un pallone via l’altro, bam, bam. Arrivavano verso di me da tutte le
posizioni possibili, lui mi passava la palla e io dovevo tirare in porta, colpo su colpo, senza
mai lasciare l’area di rigore. Quella era la mia zona, diceva. Era lì che avrei dovuto stare e
sparare, sparare, e non se ne parlava di fare pause o di prendersela comoda. C’era un ritmo
altissimo.
«Sui palloni, con più forza, con più decisione, non esitare» gridava Italo, e quella diventò
la mia routine, un’abitudine. Certe volte arrivavano anche Del Piero e Trezeguet, ma più
spesso ero da solo. Io e Italo. Facevamo cinquanta, sessanta, cento tiri in porta. Di tanto in
tanto compariva Capello, e lui è quello che è.
«Ti tirerò fuori l’Ajax dal corpo a legnate» diceva.
«Ok, certamente.»
«Non ho bisogno di quello stile olandese. Tic-tac, tic-tac, cercare sempre il numero,
dribblare tutta la squadra. Non me ne frega niente di questa roba. Ho bisogno di gol. Lo
capisci? Devo farti entrare in testa il modo di pensare italiano. Devi acquisire il killer instinct.»
Era un processo che dentro di me era già iniziato. Avevo avuto i miei scambi di opinione
con Van Basten, e con Mino, ma non mi vedevo comunque come una vera e propria macchina da gol, anche se giocavo punta. Ero piuttosto un jolly d’attacco, e c’era ancora molto del
campetto di casa e di voglia di spettacolo nella mia testa. Però sotto la guida di Capello mi
trasformai. La sua durezza era contagiosa e diventai meno artista e più concreto, un giocatore efficace che voleva vincere a qualsiasi costo.
Non è che prima non avessi voluto vincere, ero nato con una mentalità vincente. Ma non
bisogna dimenticare che il calcio era stato il mio modo per mettermi in mostra. Era con i numeri in campo che ero diventato qualcosa di diverso da un semplice ragazzo di Rosengård.
Erano stati tutti gli «Incredibile!» e «Wow, guarda quello!» a darmi la carica. Erano gli applausi per le mie acrobazie che mi avevano fatto crescere, e avrei dato del pazzo a chi
avesse sostenuto che un brutto gol valeva quanto uno bello!
Ma adesso capivo sempre di più che nessuno ti ringrazia per i tuoi numeri e i tuoi colpi di
tacco, se poi la squadra perde. Nessuno si cura nemmeno del fatto che hai segnato una rete
da sogno se poi non si vince, così piano piano diventai più grintoso, sempre più un guerriero
in campo. Ovviamente non rinunciai del tutto a quel mio famoso “ascolta/non ascoltare”. Per
quanto duro fosse Capello, continuavo a tenermi le mie idee.
Ricordo che mi mandarono anche a lezione d’italiano. Non era sempre facile con la lingua: in campo non c’erano mai problemi, il calcio ha il suo, di linguaggio, ma fuori a volte mi
sentivo perso, e così il club mi procurò un’insegnante. Dovevo incontrarla due volte la settimana per imparare la grammatica. La grammatica? Ero tornato a scuola, o cosa? Nemmeno
per sogno. Quasi subito le dissi: «Si tenga i soldi e non dica niente a nessuno, né al suo capo
né a nessun altro. Ma se ne resti a casa. Finga solo di essere venuta qui, e non lo prenda
come un fatto personale». Lei fece esattamente come le avevo detto. Se ne andò e finse. Arrivederci e tante grazie.
Però non crediate che me ne fregassi dell’italiano. Volevo davvero impararlo, ma lo apprendevo in un altro modo: cogliendolo al volo negli spogliatoi, in albergo, avevo una certa facilit ad afferrare. Imparavo in fretta, ed ero abbastanza sicuro di me da arrischiarmi a parlare
anche se la grammatica era sbagliata. Perfino con i giornalisti attaccavo con l’italiano prima di
passare all’inglese, e credo che la cosa fosse apprezzata. Ecco qui un ragazzo che forse non
sa, tipo, ma ci prova. Facevo un po’ lo stesso con tutto, a grandi linee: ascoltavo/non
ascoltavo.
Ma è vero, sotto Capello diventai più disciplinato che mai, e in breve tempo mi trasformai
sia nella testa sia nel corpo. Ricordo la prima partita con la Juventus. Era il 12 settembre e incontravamo il Brescia, io partii in panchina. Su in tribuna d’onore c’era la famiglia Agnelli, i
proprietari, ed era chiaro, tenevano d’occhio soprattutto me: li vale i soldi che è costato, tipo?
Nel secondo tempo entrai al posto di Trezeguet. A poco più di venti minuti dal mio ingresso in
campo ricevetti una palla sul lato sinistro dell’area e mi trovai addosso due difensori. Riuscii a
liberarmi di forza, calciai in porta e feci gol. I tifosi gridavano dagli spalti: «Ibrahimovi,
Ibrahimovi!». Era fantastico, e avevo appena iniziato.
Cominciai allora a essere chiamato Ibra – fu Moggi a inventarlo – o perfino il Fenicottero,
per un certo periodo. In effetti non ero ancora abbastanza grosso. Ero alto un metro e
novantasei ma pesavo solo ottantaquattro chili, e anche Capello trovava che fosse troppo
poco.
«Hai mai fatto body-building?» mi chiese.
«Mai» risposi. Non avevo neanche mai preso in mano un bilanciere, e lui lo considerò un
piccolo scandalo. Mi fece mettere sotto torchio dal preparatore atletico in palestra e per la
prima volta in vita mia cominciai a badare a che cosa mangiavo, e ok, forse c’era ancora un
po’ troppa pasta e più avanti l’avrei pagata. Ma alla Juve si presero seriamente cura di me,
così aumentai di peso e diventai un giocatore più potente e forte fisicamente. All’Ajax lasciavano i ragazzi un po’ in balia di se stessi. Strano, a ben vedere, con tutti i giovani talenti
che avevano in casa!
Arrivai a pesare novantotto chili, e a quel punto era un po’ troppo, ero quasi goffo, e così
dovetti ridurre il body-building e fare più corsa. Con Capello non cambiò solo la mia struttura
fisica: diventai più grintoso, più veloce e meno egoista in campo, e imparai a essere un po’
sfrontato verso le grandi star. Chinare la testa non paga, me lo fece capire proprio Capello.
«Tu devi farti spazio. I campioni che giocano con te non devono inibirti, al contrario. Devi
essere stimolato dalla loro presenza» mi spiegò. E io crebbi. Ottenni rispetto, o piuttosto me
lo presi.
Passo dopo passo, diventai quello che sono oggi, quello che esce da un incontro perso
così incazzato che nessuno osa avvicinarsi, e ok, questa può anche essere una cosa negativa. Terrorizzo molti giovani compagni. Urlo e li mando affanculo, sono una bomba pronta a
esplodere.
Ma è un atteggiamento che mi porto dietro dalla Juventus, e proprio come Capello smisi di
preoccuparmi di chi fosse il compagno che avevo di fianco. Poteva chiamarsi Zambrotta oppure Nedved, se non davano tutto in allenamento non glielo mandavo a dire. Capello non mi
levò solo l’Ajax dal corpo a legnate. Fece anche di me il giocatore che arriva in un club e pretende che si vinca il campionato, a prescindere: questa mentalità mi ha aiutato molto, non c’è
alcun dubbio. Mi ha trasformato come calciatore.
Ma non riuscì a rendermi più tranquillo, questo no. In squadra, per esempio, c’era il
francese Jonathan Zebina. Prima di arrivare nella Juve aveva giocato nella Roma sotto
Capello e vinto lo scudetto nel 2001. Non credo che stesse granché bene, aveva dei problemi
personali: in allenamento giocava in modo aggressivo e poi faceva come se niente fosse. Un
giorno entrò su di me particolarmente duro, io mi piazzai davanti a lui e gli dissi in faccia: «Se
vuoi giocare pesante dillo subito, così lo faccio anch’io!».
Allora lui mi diede una testata, così d’impeto, e dopo la situazione precipitò molto in fretta.
Non ebbi nemmeno il tempo di pensare, fu un riflesso automatico. Lo colpii così, all’istante.
Non aveva nemmeno concluso la sua, di testata. Evidentemente lo colpii duro, perché andò
giù secco. Non avevo idea di che cosa aspettarmi a quel punto, forse Capello fuori di sé che
corre a cazziarmi? Invece lui rimase fermo poco lontano, l’aria glaciale, come se la cosa non
lo toccasse. Tutti gli altri ovviamente parlottavano tra loro: cos’è successo? Cos’è stato? Era
tutto un borbottio, e mi ricordo Cannavaro, con il quale ci si aiutava sempre.
«Ibra» disse, «che hai combinato?» e per un attimo mi sembrò turbato.
Ma poi ammiccò, come a dire che Zebina se lo meritava. Nemmeno a Cannavaro piaceva,
non gli piaceva come si comportava in quel periodo, mentre Lilian Thuram reagì in modo
molto diverso: «Ibra» attaccò, «tu sei giovane e stupido. Non si fa così. Sei un imbecille».
Ma più in là non andò. Un urlo echeggiò sopra il campo e c’era solo una persona che poteva gridare a quel modo: «Thuuuraaam» urlò Capello, «chiudi il becco e allontanati» e ovviamente lui ubbidì, facendosi piccolo piccolo; me ne andai anch’io, avevo bisogno di calmarmi.
Due ore più tardi vidi in sala massaggi un tipo che si teneva del ghiaccio premuto contro la
faccia. Era Zebina. Dovevo averlo preso proprio bene, era ancora dolorante e avrebbe avuto
un occhio nero per un pezzo. Moggi ci multò tutt’e due mentre Capello non prese mai alcun
provvedimento. Non ci convocò nemmeno per parlare. Disse solo: «È stata una buona cosa
per la squadra».
Tutto qui. Lui era fatto così. Era un duro. Voleva avere adrenalina. Ci si doveva poter
scornare. Una cosa non si poteva fare per nessun motivo: mettere in discussione la sua
autorità o comportarsi da presuntuosi. Allora andava fuori di testa. Ricordo quando giocammo
i quarti di finale di Champions fuori casa contro il Liverpool. Perdemmo per due a uno, e
prima del match Capello aveva messo a punto la tattica e deciso le marcature da tenere sugli
angoli del Liverpool. Ma Lilian Thuram a un certo punto aveva deciso di fare di testa sua e si
era occupato di un altro giocatore del Liverpool: in quell’occasione ci fecero gol. Più tardi,
negli spogliatoi, Capello fece la sua solita ronda, avanti e indietro, mentre noi stavamo seduti
sulle panche intorno a lui, a domandarci che cosa sarebbe successo.
«Chi ti ha detto di cambiare marcatura?» chiese a Thuram.
«Nessuno, ma ho pensato che fosse meglio così» rispose lui.
Capello prese respiro per un paio di secondi.
«Chi ti ha detto di cambiare giocatore?» ripeté.
«Ho pensato che fosse meglio così.»
Capello fece la domanda per la terza volta e ottenne la stessa risposta. Allora arrivò
l’esplosione, quella che aveva covato dentro come una bomba: «Ti ho forse detto di cambiare
giocatore? Sono io o qualcun altro che decide? Sono io, hai sentito? Sono io che dico a te
cosa fare. L’hai capito?».
Poi tirò un calcio al lettino dei massaggi, e in simili situazioni nessuno osava alzare lo
sguardo. Tutti restavano seduti lì intorno a fissare il pavimento, tutti quanti: Trezeguet, Cannavaro, Buffon, ogni singolo giocatore. Nessuno osava muoversi, e a nessuno venne mai più
in mente di prendere un’iniziativa alla Thuram. Chi avrebbe voluto trovarsi ancora davanti
quello sguardo furioso?
C’erano spesso scene di questo genere. Era tosta, le aspettative su di noi erano alte. Ma
io continuavo a giocare bene.
Capello aveva lasciato fuori Alessandro Del Piero per fare posto a me, e nessuno in dieci
anni aveva mai messo Del Piero in panchina. Accantonarlo significava mettere in discussione
il simbolo stesso del club, e questo faceva incazzare i tifosi. Fischiavano Capello e inneggiavano a Del Piero-Pinturicchio, Il capitano.
Del Piero aveva vinto cinque volte il campionato con la Juventus, e ogni anno era stato
decisivo. Aveva portato a casa la Coppa dei Campioni con il club ed era amatissimo dagli Agnelli. Era la grande stella ed era anche prezioso per la sua duttilità tattica: lui e Zidane
avevano giocato dietro Trezeguet, ma Del Piero era stato anche seconda punta e
all’occorrenza aveva persino giocato a centrocampo insieme a Nedved.
Nessun mister normale mette in panchina Del Piero. Ma Capello non era normale. Non gli
importava niente della storia o dello status, sceglieva solo la sua squadra, e io gliene ero
grato. Ma mi metteva anche sotto pressione: dovevo giocare bene il doppio quando Del Piero
era in panchina. Eppure, lentamente, cominciai a sentir gridare sempre meno il suo nome
dagli spalti: sentivo invece «Ibra, Ibra» e in dicembre i tifosi scelsero me come giocatore del
mese, e fu grandioso.
Stavo per sfondare sul serio in Italia eppure sapevo che nel calcio basta molto poco: un
momento sei l’eroe, l’attimo dopo un fallito.
Gli allenamenti speciali con Galbiati avevano dato i loro risultati, nessun dubbio.
Ricevendo palloni su palloni davanti alla porta ero diventato più efficace e più grintoso. Avevo
assimilato mentalmente un’intera sfilza di nuove situazioni di gioco e avevo meno bisogno di
pensare: succedeva tutto così, bam, bam.
Eppure, e questo non bisogna dimenticarlo, il fiuto del gol è un feeling, un istinto. O ce
l’hai o non ce l’hai. Lo puoi conquistare, certo, ma poi perderlo nuovamente quando la sensibilit e la fiducia nelle tue capacità scompaiono, e io, l’ho già detto, non mi ero mai visto come
un bomber. Io ero un giocatore che voleva fare la differenza su tutti i piani. Ero quello che voleva saper fare di tutto, ma a un certo punto, durante il mese di gennaio, la scioltezza svanì.
Per cinque partite di fila non segnai. In tre mesi feci soltanto un gol, il perché non lo so.
Successe e basta, e Capello cominciò ad attaccarmi. Tanto quanto mi aveva innalzato prima,
mi schiacciava adesso.
«Non hai fatto un cazzo. Hai giocato da schifo» mi diceva, ma al tempo stesso mi lasciava
giocare. Teneva ancora Del Piero in panchina e immaginavo che mi facesse nero per motivarmi, o almeno così speravo. È vero che Capello vuole che i giocatori abbiano fiducia in se
stessi, ma non devono diventare troppo sicuri di sé e arroganti. Lui detesta la presunzione,
perciò applica questo metodo: ti innalza e poi ti schiaccia, e io non avevo idea di che cosa
avrei dovuto subire adesso.
«Ibra, vieni qui!»
L’angoscia di essere convocato non mi passerà mai, e cominciai a chiedermi: “Ho rubato
di nuovo una bicicletta? Oppure tirato una testata al tipo sbagliato?”. Andando verso gli
spogliatoi dove mi stava aspettando, cercai di mettere insieme qualche bella scusa per discolparmi. Ma è difficile quando non sai di che cosa sei accusato. Che andasse pure come
doveva andare. Quando entrai, trovai Capello con addosso solo un asciugamano.
Aveva fatto la doccia. Gli occhiali erano appannati, e gli spogliatoi erano malandati come
al solito. Luciano Moggi amava le belle cose, ma gli spogliatoi dovevano essere spartani.
Faceva parte della sua filosofia. «È più importante vincere che avere intorno tutto bello»
usava dire, e ok, certo, su questo si può anche essere d’accordo. Ma se eravamo in quattro
contemporaneamente sotto le docce l’acqua sul pavimento saliva fino ai polpacci. Ma tanto
tutti sapevano che non serviva a nulla lamentarsi: Moggi l’avrebbe vista solo come una conferma della sua teoria: «Vedete, vedete, non è mica necessario che sia tutto fantastico per
vincere». Perciò era com’era.
Capello mi venne incontro mezzo nudo e io mi domandai di nuovo: “Cosa c’è? Cosa gli ho
fatto?”. Capello ha un certo qualcosa, specialmente quando ti trovi da solo faccia a faccia con
lui, che ti fa sentire piccolo. Lui cresce, tu ti abbassi.
«Siediti» disse, e ok, certo, naturalmente, mi sedetti. Di fronte a me c’era un vecchio televisore con un videoregistratore ancora più vecchio, e Capello v’infilò dentro una cassetta
VHS.
«Tu mi ricordi un giocatore che allenavo nel Milan» disse.
«Credo di sapere a chi ti riferisci.»
«Davvero?»
«L’ho sentito molte volte.»
«Ottimo, ma non lasciarti stressare dal paragone. Tu non sei un nuovo Van Basten. Tu hai
il tuo stile totalmente personale, e io ti vedo come un giocatore migliore. Ma Marco Van
Basten si muoveva meglio di te nell’area di rigore. Qui c’è un filmato dove ho raccolto le sue
reti. Studia i suoi movimenti. Assimilali. Impara da quelli.»
Poi Capello uscì, e io, rimasto solo negli spogliatoi, cominciai a guardare. Sì, erano veramente tutti i gol di Van Basten, e nel filmato lo si vedeva andare in rete da ogni angolo e
direzione. Il pallone entrava e lui ricompariva e ricompariva di nuovo ogni volta, e dopo dieci
minuti o un quarto d’ora che ero seduto lì iniziai a chiedermi quando sarei potuto andare via.
Capello aveva qualcuno che controllava fuori della porta? Non era impossibile. Decisi di
guardare la cassetta fino in fondo. Durava venticinque o trenta minuti, e poi ok, pensai, adesso dovrebbe pur bastare. Me ne andai, scivolando fuori come un ninja. Se devo essere
onesto non so se imparai davvero qualcosa. Ma afferrai il messaggio, che era quello solito:
Capello voleva che facessi dei gol. Dovevo farmelo entrare nella testa, nei movimenti, in tutto
il mio sistema nervoso, e sapevo che lì si giocava una questione seria.
Eravamo in vetta alla classifica in campionato, testa a testa con il Milan: continuavamo a
superarci a vicenda e perché potessimo vincere era necessario che io ricominciassi a timbrare il cartellino. Questa era la verità, nessun’altra, e ricordo che ci davo dentro in area di
rigore. Ma i difensori avversari mi toglievano il respiro, e cominciava pure a vedersi che avevo
un caratteraccio. I giocatori e il pubblico cercavano di provocarmi tutto il tempo: zingaro, vagabondo, cose su mia madre e sulla mia famiglia, dagli spalti gridavano di tutto, e succedeva
che mi infiammassi. Ci furono delle testate – o piuttosto alcuni accenni – ma lo sapete, io do il
meglio quando sono incazzato. La situazione si sbloccò il 17 aprile, quando segnai una
tripletta contro il Lecce. I tifosi non stavano più nella pelle e i giornalisti scrissero: «Dicevano
che faceva troppo pochi gol. Ne ha già fatti quindici».
Salii al terzo posto della classifica dei marcatori della Serie A. Si diceva che fossi il giocatore più importante della Juventus, venivo osannato da tutte le parti, era tutto un «Ibra!
Ibra!». Ma c’era anche altro, nell’aria.
Dietro l’angolo erano in agguato delle catastrofi.
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Non avevo idea che polizia e magistratura stessero tenendo sotto controllo il telefono di
Moggi, ed era una fortuna. Noi e il Milan lottavamo per lo scudetto, e intanto, per la prima
volta nella mia vita, mi ero messo seriamente a convivere. Helena aveva preteso troppo da se
stessa: di giorno lavorava per Fly Me a Göteborg e la sera nei ristoranti, e contemporaneamente studiava e faceva la pendolare con Malmö. Si era ammazzata di lavoro e non stava
bene, e io le avevo detto: «Adesso basta. Adesso ti trasferisci quaggiù da me», e anche se
era un gran cambiamento credo che lo considerò un sollievo. Come se finalmente potesse riprendere fiato.
All’epoca mi ero trasferito dalla casa di Inzaghi a un fantastico appartamento dagli alti soffitti nello stesso palazzo di piazza Castello. Sembrava un po’ una chiesa. Al pianterreno c’era
il Caffè Mood dove lavoravano dei ragazzi che diventarono nostri amici: certe volte ci
portavano la colazione e anche se non avevamo ancora i bambini avevamo Hoffa, il nostro
carlino, e quel ciccione era forte. Eravamo capaci di prendere tre pizze per cena, una per me,
una per Helena e una per Hoffa, e lui se la divorava tutta, dal centro verso l’esterno, ma avanzando i bordi; su quelli sbavava soltanto, trascinandoli in giro per l’appartamento. Lui era il
nostro bimbo grassoccio.
Io e Helena stavamo bene insieme, ma è chiaro, venivamo da due mondi diversi. Una
volta con la mia famiglia andammo a Dubai in business class, io ed Helena sapevamo perfettamente come ci si comporta in aereo e via dicendo. Ma i miei sono un po’ diversi: alle sei
del mattino mio fratello minore voleva un whisky e nel sedile davanti al suo era seduta mia
madre, e mamma è meravigliosa, naturalmente, ma non è tipo con cui si possa scherzare.
Non le piace che beviamo alcolici, e lo si può anche capire, considerato quello che ha dovuto
passare. Perciò si levò una scarpa, era il suo modo di affrontare il problema, e cominciò a
darla in testa a Keki, bang, bang, finché Keki s’infuriò e passò al contrattacco. Scoppiò un
parapiglia in business class alle sei del mattino e io lo lessi in faccia a Helena: avrebbe voluto
sprofondare.
A Torino avevo l’abitudine di uscire di casa intorno alle dieci meno un quarto per andare
all’allenamento, ma un giorno ero in ritardo e giravo come un pazzo per l’appartamento: forse
c’era odore di bruciato, Helena ricorda così, io non so. Quello che so con certezza è che
quando aprii il portone per mettermi in marcia, fuori c’era davvero qualcosa che bruciava.
Qualcuno aveva radunato delle rose e aveva appiccato il fuoco, e sapete, avevamo tutti il gas
nel palazzo, e nell’atrio, sotto la veranda, c’era una bombola del gas contro il muro. Sarebbe
potuta finire veramente male. Andammo a prendere dell’acqua con dei secchi e spegnemmo
le fiamme, e io potevo solo rammaricarmi di non essere uscito mezzo minuto prima, così
avrei potuto beccare quell’idiota e massacrarlo. Accendere un fuoco proprio sotto casa nos-
tra? Pazzesco! E con delle rose per di più, che sarebbero diventate nere col fuoco. Che razza
di dannato messaggio poteva essere? Rose nere!
La polizia non scoprì mai i responsabili, e a quei tempi i club non erano scrupolosi con la
sicurezza come lo sono ora. Comunque ci dimenticammo dell’episodio, non si può passare
tutto il tempo a preoccuparsi. C’era altro a cui pensare, novità quasi ogni giorno. Nei primi
tempi in città avevo fra l’altro ricevuto la visita di due pagliacci dell’«Aftonbladet», quando
stavo ancora all’Hotel Le Méridien. L’«Aftonbladet» voleva riannodare i nostri rapporti, dissero, io per loro significavo denaro, e Mino pensava che fosse ora di fare la pace. Ma lo sapete, io non dimentico. Le cose mi restano impresse. Io ricordo e restituisco sempre il colpo,
magari anche a distanza di dieci anni.
Quando i tizi dell’«Aftonbladet» arrivarono io ero ancora su in camera e credo che fecero
in tempo a scambiare quattro chiacchiere con Mino prima che scendessi. Fin dal primo momento ebbi questa sensazione: non ne vale la pena. Un annuncio personale! Una denuncia
alla polizia studiata a tavolino! «Vergognati, Zlatan!» sparato in tutto il Paese! Quando li incontrai non salutai nemmeno, mi incazzai ancora di più. Si erano forse comportati con stile,
quelli? Misi su la mia vecchia aria da bad boy e credo davvero che li spaventai a morte. Tirai
perfino una bottiglia di acqua minerale sulla testa di uno dei due.
«Se foste venuti da dove vengo io, non avreste vissuto a lungo» dissi, e forse era un
tantino pesante.
Ma ero furioso nero e probabilmente è impossibile riuscire a spiegarvi lo stress a cui ero
sottoposto. Non c’erano soltanto i media, c’erano i tifosi, l’allenatore, la dirigenza del club, i
compagni, i soldi. Dovevo rendere, e se mancavano i gol me le sentivo dire da tutte le parti.
Avevo bisogno di trovare delle valvole di sfogo. Avevo Mino, Helena, i compagni, e poi
anche cose più semplici, come le mie automobili. Mi davano un senso di libertà. Fu in quel
periodo che arrivò la mia Ferrari Enzo. La macchina era stata una delle mie richieste in sede
di trattativa. C’eravamo io, Mino, Moggi e Antonio Giraudo, l’amministratore delegato, e
Roberto Bettega, il vicepresidente e uomo-immagine del club, seduti in una stanza a discutere del mio contratto, quando Mino era saltato fuori: «Zlatan vuole anche una Ferrari
Enzo».
Tutti si erano guardati in faccia senza fiatare. Non ci aspettavamo niente di diverso.
La Enzo era l’ultima creazione della Ferrari, l’auto più aggressiva della Casa, prodotta in
soli trecentonovantanove esemplari; sul momento persino noi pensammo che forse la nostra
richiesta era un po’ esagerata. Ma Moggi e Giraudo sembravano considerarla ragionevole,
perché la Ferrari fa parte dello stesso gruppo che possiede la Juventus. «Chiaro che il
ragazzo avrà la sua Enzo», tipo.
«Nessun problema. Te ne procuriamo una» dissero, e io pensai: “Wow, in che club sono
arrivato!”.
Ma è ovvio, non avevano capito bene. Dopo la firma del contratto, Giraudo disse en
passant: «Quella macchina che dicevi è la vecchia Ferrari?» e io sussultai e guardai Mino.
«No» rispose lui. «È il modello nuovo, quello che viene prodotto in trecentonovantanove
esemplari», e Giraudo deglutì.
«Allora credo che abbiamo un problema» disse, e l’avevamo sì. Erano rimasti solo tre esemplari e c’era una lunga lista d’attesa per averli, tutti pezzi grossi. Così telefonammo a Luca
di Montezemolo e gli spiegammo la situazione, ed era molto difficile, disse lui, quasi impossibile. Ma poi si arrese. Ne avrei avuta una, ma solo se promettevo di non venderla mai.
«La terrò finché muoio» risposi, e, detto onestamente, io adoro quella macchina.
Helena invece non la ama. È troppo sportiva e aggressiva per i suoi gusti. Ma io ci vado
pazzo, e non solo per i soliti motivi: è bella, grintosa, veloce. La Enzo mi ricorda che devo lavorare più duro per meritarmela. Mi impedisce di sentirmi soddisfatto, e mi capita di guardarla
e pensare: “Se non ce la metto tutta, me la porteranno via”. Quella macchina diventò
un’ulteriore forza motrice, uno stimolo.
Come alternativa mi facevo un tatuaggio.
I tatuaggi diventarono come una droga. Dovevo averne sempre di nuovi. Non si trattava
mai di decisioni impulsive, era tutto ben ponderato. Eppure all’inizio i tatuaggi non mi piacevano, li trovavo di cattivo gusto. Ma alla fine mi lasciai tentare. Fu Alexander Östlund che
mi aiutò a orientarmi nel settore, e il mio primo tatuaggio fu il mio nome sulla pancia in bianco.
Si vede solo quando sono abbronzato. Era più che altro una prova.
Poi iniziai a osare. Sentii parlare dell’espressione Only God Can Judge Me. Potevano
scrivere quello che volevano sui giornali, urlare qualsiasi cosa dagli spalti, non mi avrebbe
comunque toccato. Solo Dio poteva giudicarmi! Mi piaceva. Uno deve andare per la sua
strada, e così mi feci tatuare quelle parole. Mi feci fare anche un drago, perché nella cultura
giapponese simboleggia il guerriero e io ero un combattente.
Ci aggiunsi anche una carpa, il pesce che va controcorrente, poi uno di quei simboli buddisti che proteggono dalla sofferenza e i cinque elementi: legno, terra, fuoco eccetera. Inoltre
mi feci tatuare la mia famiglia: le date di nascita degli uomini sulla mano destra, la destra che
sta per forza – papà, i miei fratelli, col tempo i figli – e sulla sinistra quelle delle donne, la sinistra che sta più vicino al cuore – la mamma, Sanela, ma non le sorellastre che avevano rotto
con la famiglia. Allora mi pareva ovvio, ma più avanti ci avrei pensato su un bel po’: chi fa
parte della famiglia e chi no? Ma questo, appunto, successe più avanti.
Allora ero concentrato sul calcio. Spesso è già chiaro a inizio primavera chi vincerà il campionato, qualche squadra prende il largo. Ma quell’anno fu una lotta fino all’ultimo. Noi e il Mil-
an eravamo entrambi a settantasei punti, e i giornali ci scrivevano sopra parecchio, è ovvio.
Era tutto molto drammatico. L’8 maggio dovevamo incontrarci a San Siro per la partita che
sembrava dover diventare un’autentica finale di campionato, e i più ritenevano che il Milan
avesse maggiori possibilità, non soltanto perché giocava in casa. All’andata, al Delle Alpi, era
finita zero a zero, ma era stato il Milan a dominare. Molti consideravano i rossoneri la migliore
squadra d’Europa, perciò nessuno era rimasto stupito quando il Milan aveva raggiunto nuovamente la finale di Champions. Avevamo i pronostici contro, si diceva, e la situazione non era
certo migliorata dopo il match con l’Inter.
Era stato il 20 aprile, solo qualche giorno dopo la mia tripletta contro il Lecce, e ancora
venivo osannato dappertutto. Ma Mino mi avvertì che non avrei avuto vita facile contro l’Inter.
Io ero la star. L’Inter era costretta a cercare di bloccarmi e a mettermi pressione psicologica.
«Se vuoi sopravvivere, devi rispondere con il doppio della forza con cui ti colpiscono. Altrimenti non ce la farai» mi spiegò Mino, e io come sempre risposi: «Nessun problema. I modi
duri mi stimolano».
Ma è chiaro, c’era nervosismo. Fra Inter e Juventus c’è un odio antico, e quell’anno l’Inter
aveva una difesa davvero tosta. C’era fra gli altri Marco Materazzi, che era noto per giocare in
modo aggressivo. Un anno più tardi, nel 2006, sarebbe diventato famoso in tutto il mondo per
la testata che gli rifilò Zidane nella finale dei Mondiali. Materazzi usava la provocazione sistematica e il gioco duro, non a caso spesso veniva soprannominato il Macellaio.
Gli altri difensori erano Ivan Cordoba, un colombiano basso e rapidissimo, e poi Sinisa Mihajlovic. Mihajlovic era serbo, e ovviamente si versarono fiumi d’inchiostro su questa cosa:
che il match sarebbe stato una guerra balcanica in miniatura eccetera eccetera. Tutte
stronzate. Quello che succedeva in campo non aveva niente a che fare con la guerra. Io e Mihajlovic saremmo diventati amici nell’Inter, e per me non è mai stato importante da dove
viene la gente. Me ne sbatto di questi discorsi etnici, e, detto in tutta franchezza, come potrebbe essere diversamente? Nella nostra famiglia è tutto un mix: papà è bosniaco, mamma
croata e il padre del mio fratellino è serbo. No, no, non si trattava certo di cose del genere.
Ma Mihajlovic in campo era tosto davvero. Sulle punizioni era uno dei migliori specialisti al
mondo, e poi gli piaceva provocare. Aveva chiamato Patrick Vieira «Negro di merda» in una
partita di Champions ed era finito sotto inchiesta per razzismo. Un’altra volta aveva sputato
su Adrian Mutu, che tra l’altro aveva appena cominciato a giocare per noi, ed era stato squalificato per otto partite. Insomma, Mihajlovic aveva un caratteraccio. Si accendeva come una
bomba. Non che io dia così tanto peso a queste cose, è ok per me: quello che accade sul
campo rimane sul campo. È la mia filosofia. Se sapeste esattamente quello che succede
laggiù non ci credereste: ci sono colpi proibiti e insulti, è una lotta continua, ma per noi giocatori è normale, e se dico questa cosa dei difensori dell’Inter è solo perché possiate capire
che quelli non erano tipi con cui scherzare. Erano capaci di giocare sporco e duro, e capii
subito che lì si andava davvero sul brutale, non era un incontro qualsiasi.
Infatti fu tutto un insultare me e la mia famiglia, e io rispondevo per le rime. Non c’è altra
soluzione in circostanze del genere. Se fai finta di niente, sei fregato. Devi sfruttare la tua rabbia per dare ancora di più in campo, e io quella sera giocai con grande grinta, aiutandomi in
tutti i modi con il fisico. A quell’epoca poi mi ero irrobustito parecchio, non ero più l’esile
dribblatore dell’Ajax. Ero più incisivo e più veloce. Non ero un cliente facile, insomma, e nel
dopopartita Mancini, che allora allenava l’Inter, disse: «Quel fenomeno, Ibrahimovi, quando
gioca a questo livello è impossibile da marcare».
Ma Dio sa se non ci provarono, mi facevano di quelle entrate... e io rispondevo con altrettanta grinta. Ero un selvaggio. Ero il Gladiatore, come scrissero i giornali. Già al quarto
minuto io e Cordoba ci scontrammo testa a testa e rimanemmo entrambi a terra. Io mi rialzai
tutto intontito, Cordoba sanguinava un bel po’ e zoppicò fuori del campo per essere ricucito.
Ritornò con una benda intorno alla testa, e non è che le acque si calmarono, anzi ci fu il rischio che ne venisse fuori qualcosa di più serio, ci lanciavamo sguardi ancora più cattivi. Era la
guerra, nervi tesissimi e aggressività a mille, e a un certo punto io e Mihajlovic finimmo a terra
dopo esserci strattonati a vicenda.
Per un attimo rimanemmo confusi, tipo, «Cos’è successo?». Ma poi scoprimmo di essere
a terra uno accanto all’altro e allora l’adrenalina schizzò a mille. Lui fece un movimento in avanti con la testa e anche io risposi accennando una testata: l’intenzione era quella di apparire
minaccioso, ma senza colpirlo davvero. Credetemi, se davvero gli avessi dato una testata,
non si sarebbe rialzato. Era più uno sfioramento, un modo per fargli capire: «Non ho paura di
te, bastardo!». Ma Mihajlovic si portò la mano sul volto e crollò a terra. Era tutta una recita,
ovviamente, voleva farmi espellere. Ma io non ebbi nemmeno un cartellino giallo, non in
quell’episodio.
L’ammonizione mi arrivò qualche minuto più tardi, dopo un corpo a corpo con Favalli. In
generale era una brutta partita, ma io giocavo bene, ed ero coinvolto in quasi tutte le nostre
azioni d’attacco, però anche Toldo, il portiere dell’Inter, stava giocando da dio. Poi, su un contropiede, Julio Cruz segnò di testa l’uno a zero per l’Inter. Cercammo il pareggio in tutti i modi,
ci andavamo vicini ma non riuscivamo a segnare, e la tensione si tagliava a fette.
Cordoba voleva vendicarsi e mi tirò un calcio sull’anca beccandosi un giallo. Materazzi
cercava di condizionarmi con la sua guerra psicologica e Mihajlovic continuava con i suoi insulti e i suoi tackle e io facevo una fatica bestiale. Mi facevo strada a gomitate e, lottando su
ogni pallone, mi capitò una buona occasione subito prima dello scadere del primo tempo. Ma
nulla di fatto.
Nel secondo, prima tirai un missile dalla lunga distanza colpendo l’esterno del palo,
proprio all’incrocio, poi ci provai con un calcio di punizione su cui Toldo salvò con un riflesso
incredibile.
Ma il gol non arrivò e perdemmo. Classifica alla mano, la sconfitta avrebbe potuto costarci
lo scudetto. Inoltre, quando mancava da giocare solo un minuto, io e Cordoba ci eravamo
scontrati di nuovo. Subito, come per un riflesso, lo avevo caricato con un colpo contro il
mento, oppure sul collo... Niente di grave, pensai, era parte della nostra guerra in campo, e
l’arbitro non vide. Ma il gesto ebbe delle conseguenze.
La Commissione Disciplinare esaminò i filmati dello scontro con Cordoba e decise di
squalificarmi per tre giornate con la prova tv, e questo era un disastro. Mi sarei perso la volata
finale per lo scudetto, compreso il match decisivo contro il Milan dell’8 maggio a San Siro.
«Non è una condanna onesta» dissi ai giornalisti. Con tutto quello che avevo dovuto sopportare in campo, finiva pure che a essere punito ero io.
Considerata l’importanza che avevo avuto fino a quel momento per la squadra, era un
duro colpo per tutti, e la dirigenza fece ricorso rivolgendosi al celebre avvocato Luigi Chiappero. Chiappero, che aveva difeso la Juve già all’epoca delle vecchie accuse di doping, provò
a sostenere non solo che il mio colpo era arrivato in un’azione di gioco e non a palla lontana
(cosa che avrebbe reso inapplicabile la prova tv), ma anche che ero stato oggetto di attacchi
fisici e verbali per tutto il corso della gara. Si rivolse persino a un consulente esperto di lettura
del labiale per scoprire che cosa mi gridava Mihajlovic. Ma non era facile, gran parte di ciò
che mi aveva detto era in serbocroato, e allora Mino se ne uscì con la dichiarazione che Mihajlovic aveva detto cose talmente pesanti da essere irripetibili, cose sulla mia famiglia e mia
madre.
«Raiola è soltanto un pizzaiolo» rispose Mihajlovic.
Mino non aveva mai fatto il pizzaiolo. Aveva solo dato una mano nel ristorante dei genitori
e contrattaccò: «L’aspetto migliore della dichiarazione di Mihajlovic è che finalmente ha dimostrato ciò che tutti già sapevano, ossia che ha un’intelligenza molto ridotta. Non nega nemmeno di aver provocato Zlatan. È un razzista, come ha già dimostrato in passato».
Era un gran casino. Uno scambio continuo di accuse, e Luciano Moggi, che non aveva
mai avuto paura di niente, accennò addirittura a una cospirazione pro Milan, un colpo di
mano. Le telecamere che avevano filmato il colpo a Cordoba erano quelle di Mediaset,
azienda di Berlusconi, e le immagini non erano forse giunte un po’ troppo rapidamente alla
commissione disciplinare? Perfino il ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, commentò pubblicamente l’episodio, e sui giornali c’erano battaglie quotidiane.
Ma non ci fu nulla da fare. La squalifica venne confermata, io mi sarei perso il match decisivo contro il Milan ed era uno schifo. Era stata la mia stagione, e non desideravo altro che
poter partecipare alla conquista dello scudetto. Invece avrei visto la partita dalla tribuna, ed
era pesante.
C’era una pressione spaventosa, le accuse continuavano a piovere da tutte le parti e non
si trattava più solo della mia squalifica.
Succedeva davvero di tutto. Questa era l’Italia. La Juve impose il silenzio stampa. Nessuno del club poteva parlare con i media. Niente, nessuna nuova dichiarazione sulla mia
squalifica o sul caso Cannavaro doveva disturbare la preparazione del match di San Siro.
Tutti dovevano concentrarsi al massimo sulla partita considerata una delle più importanti
dell’anno in Europa. Sia noi sia il Milan avevamo settantasei punti, era un vero finale da
brividi. La partita era l’argomento principale di conversazione in Italia e quasi tutti erano
d’accordo, anche i bookmaker: il Milan era favorito. Io, che ero ritenuto il giocatore più importante, ero squalificato. Anche Adrian Mutu lo era. Zebina e Tacchinardi erano infortunati. Di
certo non avevamo la squadra al top, mentre il Milan aveva una splendida formazione con
Cafu, Nesta, Stam e Maldini in difesa, Kaká al centro, Filippo Inzaghi e Shevchenko in avanti.
Avevo cattivi presentimenti, e non fu divertente quando scrissero che i miei scatti d’ira potevano costarci la vittoria in campionato: «Deve imparare a controllarsi. Deve darsi una
calmata»... tutto il tempo la solita solfa, perfino da Capello, ed ero a pezzi per quell’esclusione
forzata.
Ma la squadra era incredibilmente motivata. La rabbia per quello che era successo sembrava aver infiammato tutti. Al ventisettesimo minuto del primo tempo Del Piero entrò in area
da sinistra e provò a mettere la palla in mezzo, ma il cross venne respinto da Gattuso. Del
Piero rincorse il pallone che si era alzato a campanile e lo colpì in rovesciata, mettendolo in
area, dove Trezeguet anticipò tutti di testa e infilò in rete. Ma mancava ancora molto alla fine
della partita.
Il Milan iniziò il forcing del secolo e all’undicesimo del secondo tempo Inzaghi si trovò
libero di fronte alla porta. Tirò a colpo sicuro ma Buffon in uscita salvò tutto, la palla rimbalzò
oltre e Inzaghi la riprese. Ebbe una nuova occasione ma stavolta il tiro fu respinto sulla linea
da Zambrotta, prese il palo e uscì.
Ci furono occasioni a ripetizione da una parte e dall’altra, ma il risultato rimase invariato:
uno a zero per noi. Improvvisamente, eravamo tornati i favoriti per lo scudetto, e in più sarei
rientrato dalla squalifica. Il 15 maggio dovevamo incontrare il Parma in casa al Delle Alpi, e la
pressione su di me era enorme. Non solo perché era il mio ritorno in campo, ma perché dieci
tra le più prestigiose testate sportive mi avevano eletto terzo miglior attaccante in Europa
dopo Shevchenko e Ronaldo, e girava perfino voce che avrei potuto vincere il Pallone d’Oro.
Comunque fosse, avrei avuto gli occhi addosso, in particolare dopo che Capello aveva deciso
di mettere in panchina Trezeguet, l’eroe della partita con il Milan. Sentivo che ci si aspettava
da me una grande prestazione. Dovevo essere carico, ma entro un certo limite: non
dovevano esserci nuove esplosioni di rabbia e nuove squalifiche, tutti me l’avevano messo
bene in chiaro. Ogni singola telecamera intorno al campo mi avrebbe esaminato nel dettaglio,
e quando entrai in campo sentii i tifosi cantare: «Ibrahimovi, Ibrahimovi, Ibrahimovi».
Ero circondato dal casino. Avevo una voglia incredibile di giocare e segnammo quasi
subito l’uno a zero; più avanti, al ventitreesimo, dopo un calcio di punizione di Camoranesi, la
palla arrivò alta verso di me in area di rigore e sapete, ero stato criticato perché nonostante la
mia statura non ero molto bravo a colpire di testa. Salii in cielo a prendere quella palla e segnai, e fu meraviglioso. Ero tornato. Qualche minuto prima del fischio di chiusura sul tabellone
elettronico dello stadio si accese una luce intermittente: il Lecce aveva segnato il gol del due
a due contro il Milan, lo scudetto sembrava ormai nostro.
Bastava battere il Livorno nella successiva giornata per vincere il titolo, ma non ce ne fu
nemmeno bisogno. Il 20 maggio il Milan pareggiò tre a tre contro il Palermo e noi diventammo
campioni d’Italia. A Torino la gente piangeva per strada, e noi girammo per la città su un autobus scoperto. Non si riusciva quasi ad avanzare. C’era gente ovunque, e tutti cantavano e
festeggiavano come pazzi. Io mi sentivo felice come un bambino, andammo fuori a mangiare
e a fare festa con tutta la squadra e io non bevo molto spesso. Ho troppi brutti ricordi. Ma
quella volta tutte le barriere crollarono.
Avevamo vinto il campionato, era incredibile. Nessuno svedese ci era mai riuscito dopo il
1968, quando Kurt Hamrin aveva vinto con il Milan, e sa Dio se non avevo fatto la mia parte.
Fui nominato dall’Associazione Italiana Calciatori miglior giocatore straniero del campionato e
calciatore più amato dell’anno, era il mio scudetto, e bevevo e bevevo, incitato senza sosta
da David Trezeguet: «Altra vodka, altri shottini» continuava; lui è francese e molto chiuso
come persona, ma vorrebbe essere argentino – in Argentina c’è nato – e quella sera era
veramente scatenato. Era tutto un vodka di qua, vodka di là. Non era possibile dire di no, così
io mi ubriacai di brutto, e quando arrivai in piazza Castello mi girava tutto intorno e pensai:
“Adesso mi faccio una doccia, magari aiuterà”. Ma non appena muovevo la testa il mondo intero mi veniva dietro, e alla fine mi addormentai nella vasca da bagno. Fui svegliato da
Helena che stava ridendo di me come una matta. Ma le ho fatto giurare di non dire mai una
parola su questa cosa.
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Moggi era quello che era, ma si faceva rispettare, e chiacchierare con lui era piacevole. Era
un uomo che faceva succedere le cose. Era diretto, aveva molto potere e capiva al volo. Il
rinnovo del mio contratto ovviamente era un appuntamento importante. Speravo di ottenere
delle condizioni migliori, e davvero non volevo provocare Moggi, piuttosto tenere un atteggiamento cortese e trattarlo come il pezzo grosso che era.
Ma c’era un dettaglio: avevo con me Mino, e Mino non è precisamente uno che s’inchina.
È matto come un cavallo. Entrò nell’ufficio di Moggi e andò a sedersi al suo posto con i piedi
sulla scrivania, come se fosse a casa sua.
«Oh!» gli feci, «lui sarà qui a momenti, stai buono. Siediti qui con me.»
«Va’ a farti fottere e stattene tranquillo» mi rispose, e in realtà non mi aspettavo niente di
diverso.
Mino è fatto così, ma ormai sapevo che a trattare è un genio. Un vero maestro. Eppure
temevo che potesse rovinarmi le cose, e quasi mi sentii male quando Moggi entrò, con il suo
sigaro e tutto il resto, e ruggì: «Ma che cavolo ci fai, lì al mio posto?».
«Siediti e cominciamo a discutere.» Ovviamente Mino sapeva quel che faceva, si conoscevano bene, lui e Moggi.
Avevano tutta una sfilza di gag di quel genere, e alla fine io migliorai concretamente il mio
contratto, ma soprattutto ottenni una promessa: continuando a giocare bene e a essere importante per il club, sarei diventato il giocatore meglio pagato della squadra, disse Moggi, e io
fui soddisfatto. Ma poi cominciarono i casini, e fu il primo segnale che qualcosa non andava.
Quel secondo anno stavo spesso in camera con Adrian Mutu in albergo e in ritiro, e non
mi capitava spesso di annoiarmi. Mutu è romeno, ma è arrivato in Italia, all’Inter, già nel 2000,
conosceva la lingua e tutto il resto ed era un grande aiuto anche per me. Ma era anche uno a
cui piaceva divertirsi. Quante storie aveva da raccontare! Io me ne stavo lì sdraiato sul letto
della nostra stanza d’albergo e ridevo e ridevo. Era assolutamente pazzesco. Nel periodo al
Chelsea era un continuo far festa. Sei sere su sette usciva. Ma, ovviamente, alla lunga non
poteva durare: fu beccato positivo alla cocaina e il Chelsea lo mise alla porta chiedendo un
risarcimento milionario per la rottura unilaterale del contratto. Ma adesso era di nuovo pulito e
tranquillo e potevamo ridere di tutta quella follia. Come potrete capire, io non avevo molto da
dire su quel fronte: che cos’era, al confronto, essersi addormentati una volta nella vasca da
bagno?
Al club, nel frattempo, era arrivato anche Patrick Vieira, e posso dire che si sentì subito:
era un tipo tosto, non a caso ci scontravamo spesso in allenamento. Io non me la prendo con
il più debole, ma con i duri rispondo testa a testa, e alla Juventus ero diventato peggio che
mai. Ero un guerriero. Un giorno stavo correndo sul campo e Vieira aveva la palla.
«Passami quella cazzo di palla!» gridai.
Patrick Vieira era stato il capitano dell’Arsenal. Con i Gunners aveva vinto tre titoli in
Premier League ed era diventato campione del mondo e d’Europa con la Francia, quindi non
era certo uno qualsiasi, ma io non mi facevo problemi a parlargli chiaro. Me lo potevo permettere, voglio dire, eravamo tutti delle star, non aveva senso che ci leccassimo il culo a vicenda.
«Chiudi il becco e corri» mi gridò di rimando.
«Tu passami la palla e io mi calmo» risposi, e allora scattò la rissa e dovettero intervenire
per dividerci.
Ma non era niente, solo la dimostrazione che avevamo tutti e due una mentalità vincente.
Non puoi essere gentile, in questo sport. Se c’era qualcuno che lo sapeva, quello era Vieira:
lui è il tipo che dà tutto in ogni situazione, e io vidi che impatto ebbe il suo arrivo su tutta la
squadra. Per pochi giocatori ho oggi lo stesso rispetto. C’era una meravigliosa qualità nel suo
gioco, ed era una sensazione incredibile avere lui e Nedved dietro di me a centrocampo.
Iniziai bene anche la mia seconda stagione alla Juve.
Contro la Roma ricevetti una palla da Emerson proprio sulla linea di metà campo, ma invece di metterla giù la colpii di tacco facendola passare sopra la testa di Samuel Kuffour. Feci
quel campanile perché avevo visto che la metà campo della Roma era vuota. Partii come una
freccia e Kuffour cercò di starmi dietro. Non aveva nessuna possibilità di tenermi, provò a tirarmi per la maglia e cadde. Io misi giù il pallone e continuai a correre finché il portiere, Doni,
venne fuori in uscita disperata e allora, bang, tirai una mina di esterno destro all’incrocio.
«Mamma mia, che gol», come dissi più tardi ai giornalisti, sembrava veramente iniziata una
grande stagione.
Ricevetti il Pallone d’Oro svedese, il premio come miglior giocatore dell’anno, e ovviamente fu bello ma non privo di complicazioni. Era l’«Aftonbladet» a organizzare la cerimonia,
e io con loro avevo un conto aperto. Così me ne restai a casa. Torino stava organizzando i
Giochi olimpici invernali dell’anno seguente. La città brulicava di gente, c’erano feste e concerti in piazza Castello e la sera io ed Helena ce ne stavamo in terrazza a guardare. Stavamo
bene insieme, e decidemmo di fare un figlio. Cioè, decidere è una parola grossa. Lasciammo
che succedesse, credo che una cosa del genere non si possa programmare. Deve capitare e
basta. Quand’è che si sa, di essere pronti?
Certe volte andavamo a Malmö per fare visita ai miei. Helena all’epoca aveva venduto la
sua tenuta e spesso stavamo a casa di mia madre, nella villetta a schiera che le avevo comperato a Svågertorp. Di tanto in tanto mi divertivo un po’ con il pallone sul suo prato, ma un
giorno tirai una bordata improvvisa. Così calciai con una forza incredibile e feci un grosso
buco nello steccato. Mamma naturalmente voleva ammazzarmi, ha carattere, quella donna.
«Adesso mi aggiusti immediatamente lo steccato. Su, marsch!» mi gridò, ed è chiaro, in
situazioni del genere esiste un’unica via d’uscita: obbedire. Io ed Helena prendemmo la macchina e andammo in un centro di bricolage lì vicino, ma non era possibile comprare delle singole assi. Fummo costretti a prendere un intero steccato e nella macchina non entrava in
nessun modo. Così me lo caricai sulla schiena e lo portai per due chilometri, come quando
mio padre aveva portato in spalla il mio letto. Arrivai a casa sfinito, ma mamma fu soddisfatta,
e quella era la cosa principale.
Andava tutto bene, ma in campo stavo perdendo buona parte della mia scioltezza. Cominciavo a sentirmi pesante. Ero arrivato a novantotto chili e non tutti di muscoli. Spesso
mangiavo pasta due volte al giorno ed era troppo, mi resi conto, e così diminuii sia gli esercizi
in palestra sia l’alimentazione per cercare di ritrovare la forma. Ma c’erano anche altri casini.
Che cosa stava succedendo a Moggi, per esempio? Stava facendo qualche giochetto dei
suoi? Non capivo.
C’era ancora in ballo il rinnovo del mio contratto, ma lui tirava per le lunghe. Continuava
ad accampare pretesti per rimandare. Era sempre stato un amante dei dribbling, ma adesso
stava esagerando. «La prossima settimana» diceva. Poi diventava: «Il mese prossimo».
C’era sempre qualcosa. Era un’altalena continua e alla fine mi stancai. Dissi a Mino: «Chi se
ne fotte. Firmiamo! Non ne posso più di queste cose».
Avevamo messo a punto un contratto che sembrava decente e io pensai: “Ora basta,
voglio liberarmi di questo peso”. Ma non successe niente neppure allora, o, per essere più
precisi, Moggi fece sapere che bene, ottimo, nel giro di poco avremmo firmato. Ma prima
dovevamo giocare in Champions contro il Bayern Monaco. Eravamo in casa, a Torino. Il loro
centrale, Valérien Ismael, non mi mollò un istante, e all’ennesima entrata dura io gli tirai un
calcio e mi beccai il giallo. Però purtroppo le cose non finirono lì.
Al novantesimo minuto ero giù in area di rigore e chiaro, avrei dovuto mantenermi calmo.
Conducevamo per due a uno e il match era quasi terminato. Ma ero arrabbiato con Ismael, gli
mollai un calcetto e l’arbitro mi mostrò il secondo cartellino giallo. Venni espulso, e, ovvio,
Capello non fu affatto contento. Mi strigliò. Ma ci stava, era stato un gesto inutile e stupido, e
naturalmente era compito suo riprendermi.
Ma Moggi, che c’entrava lui con questa faccenda? Invece se ne uscì che a quel punto il
nostro accordo non valeva più. Avevo bruciato la mia occasione, disse, e io vidi rosso.
Dovevo perdere un accordo da milioni di euro a causa di un unico errore?
«Di’ a Moggi che non firmerò, qualsiasi proposta mi faccia» dissi a Mino. «Voglio essere
venduto.»
«Pensa bene a quello che dici» replicò Mino.
Ci avevo pensato. Non accettavo questo trattamento, e la cosa significava guerra, nient’altro. Perciò Mino andò da Moggi e disse come stavano le cose: «Sta’ attento con Zlatan,
lui è cocciuto, e un po’ matto, rischi di perderlo», e due settimane più tardi Moggi si fece effettivamente vivo con il contratto. Ce lo aspettavamo. Non voleva perdermi. Però non era ancora
finita. Mino prendeva appuntamento per degli incontri e lui li rimandava, tirando fuori delle
scuse. Era in viaggio, doveva fare questo e quest’altro, ricordo tutto perfettamente. Mino mi
chiamò: «C’è qualcosa che non quadra» disse.
«In che senso? Che cosa?»
«Non l’ho ancora capito. Ma Moggi è un po’ strano» e presto non sarebbe stato l’unico a
pensarlo.
Lo si sentiva nell’aria. All’interno del club stava succedendo qualcosa, e non si trattava
della vicenda di Lapo Elkann, anche se quella era già stata abbastanza grossa. Lapo l’avevo
incontrato qualche volta, ma non posso dire che ci fu un vero contatto fra noi. Un ragazzo del
genere vive su un pianeta tutto suo. Era un playboy e un’icona della moda, e con la Juve non
aveva praticamente nulla a che fare. Erano Moggi e Giraudo a comandare, non gli Agnelli.
Ma è chiaro, il ragazzo era un simbolo per il club e per la Fiat, più avanti sarebbe entrato nella
classifica degli uomini più eleganti del mondo, aveva lavorato con Kissinger, e tutto questo
genere di cose. Le sue vicende facevano scalpore.
Era scoppiato il famoso scandalo della cocaina e dei trans e Lapo era stato portato in ambulanza all’Ospedale Mauriziano, dov’era rimasto ricoverato in rianimazione. La notizia era giunta in prima pagina su tutti i giornali italiani e Del Piero e altri giocatori juventini avevano rilasciato dichiarazioni esprimendo il loro sostegno a Lapo. Ovviamente questo episodio non
aveva nulla a che fare con il calcio, ma più tardi venne visto come l’inizio della catastrofe che
investì il club.
Quando fu che Moggi stesso venne a sapere dei sospetti, non ne ho la più pallida idea.
Ma ragionevolmente la polizia doveva aver cominciato a interrogarlo molto prima che la storia
esplodesse sui media. Da quanto mi pare di capire, iniziò tutto con il vecchio scandalo del
doping – per il quale alla fine la Juventus era stata assolta. In relazione a quella vicenda, la
polizia aveva messo sotto controllo il telefono di Moggi e appreso delle cose che non avevano
a che fare con il doping, ma che suonavano comunque losche. Sembrava che Moggi cercasse di ottenere gli arbitri “giusti” per le partite della Juventus, e perciò la polizia continuò con le
intercettazioni: chiaramente saltò fuori tutto il marcio, o almeno, così sembrò a leggere tutto in
una volta, anche se io ho le mie riserve su quelle prove. Il punto fermo era che la Juventus
era la squadra più forte. Di questo sono convinto.
Come sempre, quando qualcuno domina, altri vogliono tirarlo nel fango, e non mi stupiva
affatto che le accuse venissero fuori quando stavamo per vincere di nuovo il campionato.
Stavamo per portare a casa il secondo scudetto consecutivo quando scoppiò lo scandalo, e
la situazione era grigia, lo capimmo subito. I media trattavano la faccenda come una guerra
mondiale. Ma erano balle, almeno per la gran parte. Arbitri che ci favorivano? Ma andiamo!
Avevamo lottato duramente, là in campo. Avevamo rischiato le nostre gambe, e senza avere
nessun aiuto dagli arbitri, queste sono cazzate! Io dalla mia parte non li ho avuti proprio mai,
detto in tutta franchezza. Sono troppo grosso. Se uno mi viene addosso io rimango fermo, ma
se finisco io addosso a qualcuno quello fa un volo di quattro metri. Io ho contro di me il mio
corpo e il mio stile di gioco.
Non sono mai stato amico degli arbitri, nessuno della nostra squadra lo era. No, no,
eravamo semplicemente i migliori e ci dovevano affondare, ecco la verità. C’erano anche un
sacco di aspetti poco chiari in quell’indagine. Per esempio il fatto che fosse condotta da un
certo Guido Rossi, uno che aveva degli stretti legami con l’Inter, e l’Inter guarda caso, in quel
casino riuscì a sbrogliarsela in modo stranamente facile.
Molte cose non furono portate a galla oppure furono esagerate per far apparire la Juventus come l’artefice di tutto. Anche Milan, Lazio, Fiorentina e la Federazione arbitri finirono
nei guai. Ma a noi andò peggio, perché erano le telefonate di Moggi a essere state intercettate e spulciate da cima a fondo. Eppure le prove non furono mai schiaccianti. Certo,
l’impressione su Moggi non poteva essere esattamente positiva, questo è vero. Sembrava
che facesse pressione sul capoccia italiano degli arbitri perché mandasse quelli che voleva lui
per le partite, e nelle intercettazioni lo si sente anche lamentarsi di quelli che non si erano
comportati a dovere, fra gli altri di uno che si chiamava Fandel e che aveva arbitrato il preliminare di Champions contro il Djurgården nell’agosto 2004.
Si diceva anche che, dopo la partita persa con la Reggina, nel novembre 2004, Moggi e
Giraudo avessero chiuso negli spogliatoi dello stadio l’arbitro e i guardalinee, e poi c’era pure
quella faccenda del papa. Giovanni Paolo II stava morendo e si era deciso di fermare il campionato, cosicché il Paese potesse raccogliersi intorno a lui. Ma venne fuori che Moggi aveva
telefonato al ministro dell’Interno, Pisanu, per chiedere di giocare comunque, a quanto si sosteneva perché il nostro avversario, la Fiorentina, aveva due giocatori infortunati e due squalificati.
Non ho idea di quanto ci sia di vero in tutta questa storia. Di sicuro sono cose che succedono dappertutto nel mondo del calcio, e, sinceramente, chi è che non dà mai la colpa agli arbitri? E chi non cerca di fare gli interessi del proprio club?
Anche il figlio di Moggi, Alessandro, fu trascinato nei casini. C’era di tutto un po’, c’erano
sospetti di reati fiscali, c’era dentro persino Aldo Biscardi, il conduttore del programma televisivo sul calcio più popolare d’Italia: si sosteneva che avesse ricevuto pressioni da Moggi per
insabbiare degli episodi scomodi nella sua trasmissione.
Insomma, era un casino senza fine. Si iniziò a parlare di Moggiopoli, tipo Moggi-gate, e
ovviamente, tutt’a un tratto, saltò fuori anche il mio nome. Me lo aspettavo. Chiaro che
avrebbero cercato di coinvolgere anche i giocatori migliori. Si disse che Moggi era stato intercettato a parlare con qualcuno del mio litigio con Van Der Vaart, e a dire qualcosa sul fatto
che avevo agito con grinta e usato lo stile giusto per liberarmi dal club. «Il ragazzo ha le
palle» aveva detto, o qualcosa del genere. Sembrava quasi alludere che era stato lui a inventarsi l’idea del battibecco per far partire la trattativa, e naturalmente la gente se la bevve.
La classica mossa alla Moggi, si diceva, e anche alla Ibra, probabilmente. Tutte stronzate. Lo
scontro era stato una cosa fra me e Van Der Vaart, punto. Ma in quel periodo si poteva dire
qualsiasi cosa contro il club, e le cose iniziarono a precipitare molto rapidamente.
La mattina del 18 maggio ricevetti una telefonata. Io e Helena ci trovavamo a Montecarlo
con Alexander Östlund e la sua famiglia, e venni a sapere che c’erano alcuni poliziotti davanti
alla porta di casa mia, a Torino. Volevano entrare. Avevano perfino l’ordine di perquisire
l’appartamento, e a quel punto che cosa dovevo fare? Partii senza indugi, è ovvio. Arrivai a
Torino il prima possibile, incontrai i poliziotti davanti a casa e devo dire che furono molto gentili, stavano solo facendo il loro lavoro. Ma non è che la cosa diventasse più piacevole per
questo. Dovevano verificare tutti i pagamenti che avevo ricevuto dalla Juventus, come se
fossi un criminale o qualcosa del genere. Mi chiesero se avevo accettato dei soldi in nero, e
io dissi la verità: «Mai!» e poi cominciarono a frugare in giro. Alla fine chiesi: «State cercando
queste?».
Avevo tirato fuori le carte della banca mie e di Helena e si accontentarono di quelle. Dissero: «Grazie e arrivederci, ammiriamo il tuo gioco», tipo.
La dirigenza della Juventus, Giraudo, Bettega e Moggi, si dimise in blocco, e faceva uno
strano effetto. Erano finiti dritti nel fango. Moggi disse ai giornali: «Non ho più l’anima, me
l’hanno uccisa». Il giorno dopo le azioni della società crollarono a picco alla Borsa di Milano.
La società organizzò una riunione di crisi nella nostra saletta fitness, in palestra, e non la dimenticher mai.
Moggi all’apparenza sembrava quello di sempre, ben vestito e forte. Ma era un altro
Moggi. Proprio allora era venuto a galla un nuovo scandalo che riguardava suo figlio, una
qualche storia di infedeltà matrimoniale, e lui ne parlò, di come fosse offensivo, ed ero
d’accordo: erano faccende personali che non avevano nulla a che fare con il calcio, ma non
fu quello a colpirmi di più.
Fu il fatto che cominciò a piangere, proprio lui, fra tutti noi. Fu come un pugno nello
stomaco. Non l’avevo mai visto debole prima. Quell’uomo aveva sempre avuto padronanza di
sé, aveva irradiato potere e forza. Ma allora... come spiegarlo? Non era passato molto tempo
da quando aveva giocato sporco con me invalidando il contratto e tutto il resto. E invece ad-
esso all’improvviso, ero io a provare compassione per lui. Il mondo si era rovesciato, e forse
non avrei dovuto curarmi di lui più di tanto, avrei dovuto dirgli: «Puoi solo incolpare te
stesso», o qualcosa del genere. Ma mi dispiaceva davvero per Moggi. Faceva male veder cadere in quel modo un uomo come lui, e dopo ci pensai su parecchio, e non secondo il solito:
«Non si può dare mai nulla per scontato!». Le cose cominciarono anche ad apparirmi sotto
una luce diversa. Perché aveva continuato a rimandare la nostra trattativa? Perché tante storie?
Forse per proteggermi?
Cominciavo a crederlo. Non lo sapevo, ma scelsi di interpretarla così. Doveva aver saputo
già allora che lo scandalo stava per scoppiare. Doveva aver capito che la Juventus non
sarebbe rimasta la squadra di prima, che sarebbe finita per me se lui mi avesse legato al
club, perché allora sarei dovuto rimanere alla Juventus qualsiasi cosa fosse successa. Sono
convinto che lui avesse pensato a queste cose. Moggi forse non era uno che frenava sempre
davanti al rosso, o ligio a ogni regola, ma era un professionista in gamba, si prendeva cura
dei suoi giocatori, questo lo so, e senza di lui la mia carriera si sarebbe bloccata. Di questo lo
ringrazio, e ora che tutto il mondo lo critica io sto dalla sua parte. Luciano Moggi mi piaceva.
Nel frattempo la catastrofe prese corpo. La Juventus era una nave che stava affondando,
e cominciò a girare voce che il club rischiava di essere retrocesso in Serie B se non addirittura in C. C’era un caos pazzesco, eppure non era possibile arrivare subito alla verità, non in
un colpo solo. Davvero noi che avevamo costruito una squadra del genere, e vinto due scudetti consecutivi, avremmo perso tutto per via di qualcosa che non aveva avuto niente a che
fare con il campo? Era troppo, e sembrò passare del tempo prima che la nuova dirigenza del
club afferrasse la gravità della cosa. Ricordo una telefonata da parte di Alessio Secco.
Alessio Secco era stato il nostro team manager, era lui che mi chiamava quando si fissavano gli allenamenti: «Domani attacchiamo alle dieci e trenta! Vedi di arrivare puntuale».
Erano questi i discorsi che ero abituato a sentire da lui. Adesso all’improvviso era il nuovo
direttore, una cosa veramente bizzarra, e mi era difficile prenderlo sul serio. Ma allora, in
quella prima conversazione, mi diede una dritta: «Se ricevi un’offerta, Zlatan, accetta. Questo
è il mio consiglio».
Ma fu anche l’ultima cosa gentile che mi sentii dire da lui. Subito dopo i toni s’inasprirono,
e si può anche benissimo capire. Uno a uno i giocatori se ne stavano andando: Thuram e
Zambrotta passarono al Barcellona, Cannavaro ed Emerson al Real Madrid, Patrick Vieira
all’Inter, e molti altri telefonavano di continuo ai loro agenti: «Vendimi, vendimi. Quali possibilit ci sono?».
C’era preoccupazione e disperazione nell’aria. C’erano nuove voci e nuove indiscrezioni
ogni giorno, e di consigli spassionati come quello che aveva dato a me Alessio Secco non se
ne sentirono più. Il club aveva cominciato a lottare per la propria sopravvivenza.
La dirigenza cominciò a fare di tutto per tenersi stretti quelli che erano rimasti, sfruttando
ogni clausola favorevole dei nostri contratti. Era un autentico incubo.
La mia carriera era in ascesa. Stavo per sfondare definitivamente. Sarebbe tutto crollato?
Fu un periodo inquieto, e ogni giorno che passava mi rendevo conto che dovevo combattere.
Non avevo nessuna intenzione di sacrificare un anno in B. Che poi, fosse stato solo un anno... Invece pensavo: un anno per ritornare su se ci avessero retrocessi, ancora un anno o
due per tornare ai vertici della Serie A e guadagnare un posto in Champions, e ancora probabilmente non avremmo avuto una squadra molto competitiva... I miei migliori anni da giocatore rischiavano di andare in fumo e continuavo a ripetere a Mino: «Fa’ qualsiasi cosa. Ma
portami via di qui».
«Ci sto lavorando.»
«Ti conviene...»
Era il giugno del 2006. Helena era incinta ed ero felice. Il bambino sarebbe arrivato verso
fine settembre, ma per il resto mi trovavo in una terra di nessuno. Che cosa sarebbe successo? Non ne avevo idea. In quel periodo mi stavo preparando con la Nazionale in vista dei
Mondiali in Germania. Buona parte della mia famiglia mi avrebbe raggiunto per assistere al
torneo: mamma, papà, Sapko, Sanela, suo marito e poi Keki. Come al solito, però, dovevo
pensare io a tutto quanto: alberghi, viaggio, soldi, auto a noleggio e via dicendo.
La cosa mi diede sui nervi quasi da subito, e all’ultimo minuto papà rinunciò. Così ci furono un sacco di altre storie per i suoi biglietti: che cosa dovevamo farne? A chi potevamo
darli? Di certo tutte queste cose non mi rendevano più sereno.
Inoltre cominciai a sentire di nuovo qualche fastidio agli adduttori, lo stesso disturbo per il
quale ero stato operato ai tempi dell’Ajax, e ne parlai con i dirigenti della Nazionale. Ma decidemmo che avrei giocato. Io ho un principio fondamentale: se va male, non do la colpa a
qualche infortunio. Sarebbe stupido. Voglio dire: se non te la senti per l’infortunio, perché giochi allora? Comunque tu risponda, sarà sbagliato. Si tratta solo di stringere i denti e andare
avanti, ma è vero, quel periodo fu più pesante che mai.
Poi, il 14 luglio, in Italia arrivò la sentenza sulla Juve. Ci toglievano i nostri due ultimi scudetti e perdevamo il posto in Champions, ma soprattutto venivamo retrocessi in Serie B e
avremmo iniziato la stagione con una sfilza di punti di penalizzazione, tipo una trentina.* Ero
a bordo di una nave che stava affondando.
* Poi ridotti a 9 dall’Arbitrato del CONI.
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Qualche mese prima, nel settembre 2005, avevamo giocato contro l’Ungheria nelle qualificazioni per i Mondiali allo stadio Ferenc Puskás di Budapest. Eravamo più o meno costretti a
vincere per qualificarci, e ci eravamo preparati per giorni in vista del match. Ma una volta in
campo, le cose non giravano e io non riuscivo a entrare nel gioco. Ero fiacco e fuori fase e al
novantesimo eravamo ancora sullo zero a zero. Il pubblico aspettava solo il fischio finale.
Alcuni giornali mi avrebbero chiaramente dato un voto insufficiente. Ero stato una delusione, e molti l’avrebbero vista di sicuro come una conferma: «Quello è soltanto un divo
sopravvalutato». Ma poi ricevetti una palla dentro l’area di rigore da Mattias Jonson, mi pare.
Ero defilato sulla destra e sembrava che potessi far poco. Avevo addosso un difensore, e
dribblai all’indietro senza guadagnare un metro utile. Ma mi voltai, bam, di colpo, perché non
dovete dimenticarlo, è per vivere situazioni del genere che gioco, e se a volte sembro girare a
vuoto per il campo è solo per poter scattare via in azioni rapide, improvvise. Mi portai verso il
fondo lasciando dietro il difensore e mi procurai lo spazio per il tiro. Ma la posizione era assurda, ero tutto a destra e il portiere era piazzato bene. Compagni e avversari si aspettavano
un cross, invece sparai una cannonata e sapete, da quella posizione la palla normalmente
non va dentro. Al massimo finisce sull’esterno della rete. Questo dovette pensare anche il
portiere, che non si mosse, non sollevò nemmeno le braccia. Per una frazione di secondo
credetti di aver tirato fuori. Non ero il solo. Non ci fu alcun boato nello stadio, e Olof Mellberg
scrollò la testa, come per dire: «È andata». Si girò perfino, aspettava la rimessa dal fondo
dell’Ungheria, e giù in fondo il nostro portiere Andreas Isaksson pensò: “C’è troppo silenzio, e
Olof scuote la testa. Sarà andata fuori”. Ma poi io alzai le braccia e iniziai a correre come un
pazzo dietro la porta con il sorriso sulle labbra, allora lo stadio si ridestò.
La palla non era affatto finita sull’esterno della rete, si era infilata all’incrocio da
quell’angolazione impossibile e Gabor Kiraly non aveva neppure fatto in tempo a stendere
una mano. Non molto tempo dopo l’arbitro fischiò la fine dell’incontro e non ci fu nessuna insufficienza.
Quel gol è diventato un altro pezzo pregiato del mio repertorio e ci servì per arrivare ai
Mondiali in Germania. Speravo veramente che saremmo andati lontano. Avevo bisogno di un
successo.
Effettivamente all’inizio sembrava andare tutto bene, nonostante la preoccupazione per la
Juventus. Avevamo un nuovo viceallenatore da quando si era rotta la coppia LagerbäckSöderberg, e non era uno qualsiasi. Era Roland Andersson, vi ricordate? «Zlatan, è ora che
smetti di giocare con i mocciosi», era quello che al Malmö mi aveva portato in prima squadra,
e il suo arrivo fu per me una grandissima emozione. Non lo vedevo dal giorno del suo
esonero al Malmö, ed era bello potergli dire: «Avevi ragione, Roland. Valeva la pena puntare
su di me». La critica lo aveva massacrato per avermi dato fiducia, ai tempi, molti avevano
pensato che fossi l’ultimo su cui fare affidamento. Ma ecco che eravamo di nuovo lì, Roland e
io. Le cose si erano messe bene per tutti e due, e le sensazioni della vigilia erano buone. Era
pieno di nostri tifosi, in Germania, e si sentiva dappertutto la canzone cantata dal ragazzino,
che a quei tempi era un tormentone nazionale:
Nessuno gioca a calcio come Zlatan, ho detto Zlatan
Era un bel motivetto. Ma avevo ancora male agli adduttori, e in più la mia famiglia mi dava
un sacco di problemi. Era pazzesco. Per quanto io sia uno dei più piccoli – solo Keki è più
giovane – sono diventato un po’ un papà per tutti, e là in Germania c’era continuamente qualcosa che non andava. C’era papà che aveva deciso di non venire e i suoi biglietti che erano
ancora inutilizzati, c’era l’albergo che era troppo lontano dal ritiro, Sapko che aveva bisogno
di soldi e che poi quando li ebbe non era capace di cambiarli... Inoltre Helena era incinta al
settimo mese e avevamo sempre troppo casino intorno. Prima della partita contro il
Paraguay, mentre veniva allo stadio, tutti i tifosi si accalcarono come impazziti e lei si sentì a
disagio e il giorno dopo se ne tornò a casa. Insomma, piccoli e grandi problemi.
«Zlatan, per favore, non potresti organizzare questo e quest’altro?»
Ero il capocomitiva della famiglia e non potevo concentrarmi sul gioco. Invece il telefono
squillava di continuo, erano lamentele e richieste di ogni tipo. Dovevo giocare un dannato
Mondiale eppure ero costretto a occuparmi di autonoleggi e cazzate varie!
In tutto questo, rischiavo di non giocare affatto. Gli adduttori continuavano a darmi problemi, eppure Lagerbäck era sicuro: dovevo scendere in campo. Il match d’esordio era contro
Trinidad-Tobago, ovviamente avremmo dovuto vincere e non solo con una rete di scarto. Invece ci andò tutto storto: il loro portiere fece una gran partita e non riuscimmo a segnare neppure quando rimasero in dieci. L’unica cosa positiva di quella partita accadde dopo il fischio
dell’arbitro, quando andai a salutare l’allenatore avversario, il grande Leo Beenhakker.
Rivederlo era fantastico. Mi fanno incazzare tutti quelli che vogliono prendersi il merito del
mio successo. Ma ci sono persone che hanno veramente significato molto per me: Roland
Andersson è una e Leo Beenhakker un’altra. Hanno creduto in me quando altri non mi volevano vedere neppure in foto. Spero di poter fare anch’io qualcosa di simile con qualche talento quando sarò più vecchio, di certo non mi lagnerò di quelli che sono diversi, guarda, ecco
che sta dribblando di nuovo, ecco che adesso fa questo e quest’altro, senza pensare un
passo più in là.
In un’immagine di quel dopopartita ci sono io senza maglietta che stringo la mano a Beenhakker e ho il volto illuminato, nonostante la delusione per il pareggio.
Peccato non esserci visti in circostanze migliori. Non mi girò nulla per il verso giusto durante quel maledetto Mondiale. Alla seconda pareggiammo con l’Inghilterra e ok, fu un buon ri-
sultato. Ma negli ottavi la Germania ci distrusse e io giocai male, non cerco alibi. Mi assumo
tutta la responsabilità. Una famiglia è una famiglia, è giusto prendersene cura. Ma non avrei
dovuto fare il capocomitiva e quei Mondiali furono anche una lezione per il futuro. Tornati a
casa chiarii a tutti quanti: «Potrete ancora accompagnarmi in giro, e io cercherò di organizzare tutto per il meglio in anticipo; ma una volta lì, i vostri problemi ve li gestite da soli».
Ritornai a Torino e non mi sembrava più di ritornare a casa. Dovevo andarmene in fretta,
anche perché le cose non erano certo migliorate. Anzi.
Gianluca Pessotto era alla Juve dal 1995. Con quella maglia aveva vinto tutto, ed era uno
degli uomini simbolo della squadra. Lo conoscevo piuttosto bene. Avevamo giocato insieme
due anni ed era un bravissimo ragazzo. Era incredibilmente sensibile e gentile e teneva
sempre un basso profilo, era molto riservato. Quello che successe davvero non lo so.
Pessotto aveva appena smesso di giocare ed era diventato il nuovo team manager succedendo ad Alessio Secco, che era stato nominato direttore, e forse non era stato facile per
lui passare a un lavoro d’ufficio dopo una vita da giocatore. Ma soprattutto Pessotto aveva
preso molto male la faccenda dello scandalo e la retrocessione della Juve in Serie B, e poi
erano successe delle cose in famiglia.
Uno di quei giorni si trovava nel suo ufficio, al secondo piano, proprio come al solito. Salì
sul tetto con in mano un rosario e si lanciò nel vuoto, sbattendo prima sull’Alfa 147 di Roberto
Bettega e poi su un’altra macchina prima di toccare terra. Un salto di venti metri. È un miracolo che sia sopravvissuto! Finì all’ospedale con fratture ed emorragie interne, ma se la
cavò, e tutti poterono tirare un sospiro di sollievo. Eppure il suo tentato suicidio fu considerato
un ulteriore segnale inquietante.
Nell’aria c’era un senso di disperazione, ma il nuovo presidente, Giovanni Cobolli Gigli,
teneva ancora duro: il club non intendeva lasciar andare altri giocatori. La dirigenza avrebbe
lottato con le unghie e coi denti per trattenerci, e io ovviamente ne parlai con Mino. Ne discutevamo di continuo, ed eravamo d’accordo, c’era soltanto una cosa da fare: dovevamo replicare, passare al contrattacco. Perciò Mino fece una dichiarazione alla stampa: «Siamo disposti a intraprendere le vie legali per liberarci dal club».
Non dovevamo mostrarci deboli. Se la Juventus seguiva la linea dura, avremmo risposto
con altrettanta durezza. Ma non era una guerra facile. C’era in gioco parecchio, e io parlai di
nuovo con Alessio Secco, quello che cercava di fare il novello Moggi con me e che fino a
poco prima mi comunicava solo gli orari degli allenamenti, e vidi subito che il suo atteggiamento era cambiato.
«Tu devi restare alla Juve. Lo pretendiamo da te. Vogliamo che dimostri lealtà alla
squadra.»
«Prima delle vacanze avevi detto l’opposto. Che avrei dovuto accettare un’eventuale offerta.»
«Ma adesso la situazione è cambiata. Stiamo attraversando un momentaccio. Ti offriremo
un nuovo contratto.»
«Io non rimango» dissi, «a nessuna condizione.»
La pressione aumentava di ora in ora, di giorno in giorno, ed era una situazione terribile,
potete credermi, ma io lottavo con tutto quello che avevo, con Mino, con la legge, con ogni
arma possibile. Ma non era per niente semplice. Ricevevo ancora lo stipendio dal club, e la
grossa questione era ovviamente: fin dove potevo spingermi? Anche di quello parlai con
Mino.
Decidemmo che intanto mi sarei allenato con la squadra, ma senza giocare nessuna
partita. Secondo Mino, nel contratto poteva esserci qualche clausola da sfruttare a nostro
favore, e così, nonostante tutto, partii con gli altri per il ritiro precampionato. Gli italiani che
giocavano in Nazionale non erano ancora arrivati, erano ancora in Germania e sarebbero tornati con la Coppa. Una bella dimostrazione di forza, considerato lo scandalo Calciopoli, c’era
solo da congratularsi. Ma la cosa comunque non mi aiutava.
Nel frattempo alla Juve era arrivato Didier Deschamps come nuovo allenatore. Da giocatore era stato anche lui un uomo-Juve, oltre che capitano della Francia campione del mondo
nel 1998, ed era arrivato per riportare subito la Juve in Serie A. Aveva addosso una pressione
tremenda, e venne da me già il primo giorno.
«Ibra» disse.
«Sì.»
«Voglio costruire il gioco intorno a te. Tu sei il mio giocatore più importante. Tu sei il futuro. Devi aiutarci a ritornare grandi.»
«Grazie, ma...»
«Nessun ma. Tu devi rimanere qui. Non accetto altro» continuò, e anche se ovviamente
mi dispiaceva, perché capivo quanto fosse importante per lui, non mollai di un centimetro.
«No, no, no. Io andrò via.»
In ritiro dividevo la stanza con Nedved. Eravamo amici, avevamo entrambi Mino come
agente. Ma ci trovavamo in situazioni diverse. Nedved, proprio come Del Piero, Buffon e
Trezeguet, aveva deciso di rimanere alla Juventus, e ricordo che un giorno Deschamps
venne da noi, forse per metterci a confronto, che so. Era evidente che non aveva intenzione
di arrendersi.
«Ascolta» disse, «io ho grandi aspettative su di te, Ibra. Ho accettato questo incarico in
buona parte perché qui ci sei tu.»
«Andiamo» risposi. «L’hai accettato perché è la Juve, non per me.»
«Giuro. Se vai via tu, vado via anch’io» continuò, e allora non potei fare a meno di sorridere, nonostante tutto.
«Ok, allora fai le valigie e chiama un taxi» risposi. Lui rise, come se avessi fatto una battuta.
Ma non ero mai stato così serio in vita mia. Se la Juventus lottava per la propria sopravvivenza come grande club, io lottavo per la mia come giocatore. Lo ripeto ancora, un anno in
Serie B avrebbe bloccato tutto, sarebbe stato un disastro per me.
Un altro giorno in ritiro vennero da me Alessio Secco e Jean-Claude Blanc. Jean-Claude
aveva studiato a Harvard, era un bel cervello che la famiglia Agnelli aveva chiamato per tirare
la Juventus fuori da quel casino, e ovviamente era stato molto pignolo. Le sue carte erano in
perfetto ordine e aveva preparato una proposta di contratto con tanti zeri! Io pensai subito:
non leggere neanche! Fai storie, piuttosto! Più fai casino, più vorranno liberarsi di te.
«Non voglio neanche vederla. Non firmo niente» dissi subito.
«Vorrai almeno dare un’occhiata. Abbiamo un’offerta grandiosa per te!»
«È inutile.»
«Questo non lo puoi sapere prima di averci almeno dato uno sguardo.»
«Invece sì. Perché io andrò via comunque, anche se mi offrite venti milioni.»
«Questo è irrispettoso da parte tua» sibilò Blanc.
«Pensatela come volete» dissi, e me ne andai. Ovviamente sapevo di esserci andato giù
duro, questo è sempre un rischio: nel peggiore dei casi a settembre mi sarei trovato senza
squadra. Ma ero costretto a puntare forte, dovevo assolutamente andare avanti anche se
sapevo benissimo che il mio valore sul mercato era un po’ in calo. Avevo giocato male ai
Mondiali e nell’ultima stagione con la Juventus non ero stato granché. Ero troppo pesante e
avevo segnato poco. Eppure speravo che la gente riconoscesse le mie potenzialità: soltanto
l’anno prima ero stato fortissimo, mi avevano eletto miglior giocatore straniero del campionato! “Deve pur esserci l’interesse di qualche grande club” pensavo, e Mino lavorava duro
dietro le quinte.
«Ho l’Inter e il Milan in ballo» diceva, e naturalmente andava benissimo! Una luce nel tunnel!
Ma per il momento erano solo chiacchiere vaghe, e ancora non sapevamo come fosse
realmente la mia situazione contrattuale con la Juventus. Quali possibilità avevo di liberarmi,
se il club non voleva farmi andare? Era tutto incerto, ogni giorno un giro sulle montagne
russe. Ma Mino era ottimista. Faceva parte del suo lavoro, e io non potevo fare altro che aspettare con fiducia e continuare a lottare. A quell’epoca era ormai noto ai giornali che volevo
andar via a qualsiasi costo, ma cominciò anche a trapelare che mi stava cercando l’Inter, e i
tifosi juventini che venivano a seguire gli allenamenti in ritiro iniziavano a urlarmi di tutto:
«Traditore», «Pezzo di merda» più tutta una serie di cose su mia madre, e certo non era divertente. Ma dopo un po’ che giochi ti abitui, e te le fai scivolare addosso.
A un certo punto dovevamo giocare un’amichevole contro lo Spezia, e che cosa avevo
detto sulle partite? Che non ne avrei giocate. Perciò rimasi nella mia stanza incollato alla
PlayStation. Fuori era in attesa il pullman che doveva portarci allo stadio ed erano già scesi
tutti, anche Nedved. A quanto mi pareva di capire, il pullman stava lì con il motore acceso e
c’era grande impazienza. Dove diavolo è Ibra, tipo? Aspettarono e aspettarono e alla fine
Didier Deschamps venne personalmente su in camera mia. Era furibondo.
«Perché sei ancora qui? Stiamo andando!»
Io non mi voltai nemmeno. Continuai solo a giocare.
«Hai sentito che cosa ho detto?»
«Hai sentito tu, che cosa ho detto io?» risposi. «Mi alleno, ma non gioco. L’ho detto almeno dieci volte.»
«Invece giocherai! Tu fai parte di questa squadra! Adesso muoviti! Alzati!»
Mi si avvicinò ma io non mi mossi. Continuai a giocare.
«Che razza di rispetto sarebbe questo, stare seduto qui a giocare?» ruggì. «Ti becchi una
multa, hai capito?»
«Ok.»
«Come, ok?»
«Multatemi pure. Io resto qui.»
Soltanto allora se ne andò. Era fuori di sé, e io rimasi lì con la mia PlayStation mentre finalmente il pullman si mosse. Se la situazione non era tesa prima, a quel punto lo era diventata di sicuro. La storia fu riferita ai boss, ovviamente, e dovetti pagare una multa di
trentamila euro, mi pare. Diventò una vera e propria guerra, e come in tutte le guerre si trattava di pensare in modo strategico. Come posso rispondere? Qual è il prossimo passo? I
pensieri mi ronzavano in testa senza posa.
Ricevetti delle visite segrete. Ariedo Braida, un pezzo grosso del Milan, venne a conoscermi di nascosto durante il ritiro. Uscii senza farmi beccare e ci trovammo in un altro albergo delle vicinanze per parlare di come sarebbe stato far parte del Milan. Ma, in tutta franchezza, il suo stile non mi piaceva. Era un continuo «Kaká è una stella. Tu no. Ma il Milan
può farti crescere». Il senso era un po’ che avevo più bisogno io del Milan che il Milan di me:
non mi sentii particolarmente considerato né desiderato e avrei detto volentieri «Grazie e arrivederci» anche subito. Ma la mia posizione nella faccenda non era così favorevole. Volevo
disperatamente andarmene dalla Juventus. Ma non avevo assi nella manica e, alla fine del
ritiro, fui costretto a rientrare a Torino senza nessuna offerta concreta.
Faceva caldo, era agosto, Helena si avviava al parto ed era sotto stress. Avevamo
sempre addosso dei paparazzi e io cercavo di sostenerla più che potevo, ma mi trovavo in
una terra di nessuno. Non avevo idea di che cosa mi avrebbe riservato il futuro, e sembrava
tutto difficile.
Intanto la Juve aveva un nuovo centro sportivo: tutto quello che riguardava Moggi andava
cancellato, anche i suoi vecchi spogliatoi malandati. Io continuavo ad allenarmi. Che altro potevo fare? Solo restare fedele alla mia linea. Ma era strano. Nessuno, giustamente, mi considerava più uno della squadra, e dietro le quinte il dramma continuava. L’unica cosa positiva
era che la Juventus sembrava non lottare più allo stesso modo per trattenermi.
Chi vuole avere tra i suoi un ragazzo che se ne frega di tutto e gioca solo alla PlayStation?
C’era però ancora molta strada da fare e la questione era: Milan oppure Inter? Apparentemente era una scelta facile. L’Inter non vinceva uno scudetto da diciassette anni, non era più
esattamente una squadra di punta. Il Milan era uno dei club più blasonati d’Europa. «Chiaro
che devi andare al Milan» diceva Mino. Ma io non ero altrettanto sicuro. L’Inter era stata la
squadra di Ronaldo e sembrava sinceramente interessata a me, mentre ripensavo a quello
che Braida mi aveva detto lassù in montagna: «Tu non sei ancora una vera stella!». Il Milan
aveva la squadra più forte, eppure propendevo per l’Inter. Volevo andare dalla sfavorita.
«Ok» disse Mino. «Ma sappi che l’Inter sarà una sfida totalmente diversa. Non otterrai
nessun titolo senza lottare, lì.»
Ma io non volevo niente senza lottare. Volevo avere sfide e responsabilità. Quella
sensazione mi cresceva dentro sempre più forte, e già allora capivo che cosa poteva significare arrivare in un club che non portava a casa lo scudetto da diciassette anni e vincere.
Sarebbe stato fantastico. Ma appunto, non c’era ancora nulla di definito, e soprattutto non
c’era tempo. Dovevamo abbandonare la nave che affondava e prendere al volo ciò che
veniva.
Il Milan doveva fare i preliminari di Champions, come conseguenza di Calciopoli. In realtà
il club avrebbe dovuto partecipare di diritto al torneo, ma la sentenza gli aveva tolto dei punti
in classifica e così era costretto a giocarsi la qualificazione contro la Stella Rossa di Belgrado.
L’andata era a San Siro, ed era una partita importante anche per me: se il Milan fosse entrato
in Champions, il club avrebbe avuto più fondi a disposizione per la campagna acquisti, e Adriano Galliani mi aveva detto: «Aspettiamo di vedere i risultati, poi ci faremo nuovamente sentire».
Fino a quel momento era stata soprattutto l’Inter a mostrare interesse, ma non erano
molto facili neppure loro. Moratti naturalmente sapeva della mia disperazione e ne aveva approfittato per abbassare già quattro volte la sua offerta.
Quel 9 agosto mi trovavo nel nostro appartamento di piazza Castello, a Torino. La partita
del Milan contro la Stella Rossa iniziava alle venti e quarantacinque. Io non la vidi, avevo altro
da fare. Ma al ventiduesimo, su assist di Kaká, Inzaghi segnò l’uno a zero, e un po’ di tensione nel club si allentò. Poco dopo squillò il mio telefono. Aveva suonato tutto il giorno e il
più delle volte era Mino. Infatti era ancora lui, mi comunicava che Silvio Berlusconi voleva vedermi quella sera stessa. Io feci un salto, chiaro. Non solo perché si trattava di lui, ma anche
perché era una chiara dimostrazione di interesse da parte del Milan. Eppure non ero convinto. L’Inter restava ancora la mia prima scelta. Però quel colloquio con Berlusconi non ci
avrebbe danneggiati. Anzi.
«Possiamo sfruttare questa cosa?» dissi.
«Ci puoi scommettere» rispose Mino, e si gettò sul telefono.
Chiamò subito Moratti, perché se c’è qualcosa che può mettere in moto quell’uomo è la
possibilità di arrivare davanti al Milan e a Berlusconi.
«Volevamo solo informarla che Ibrahimovi sta per cenare con Berlusconi a Milano» gli
disse Mino.
«Cosa?»
«Hanno un tavolo prenotato da Giannino.»
«All’inferno» rispose Moratti. «Vi mando immediatamente uno dei miei.»
E così mandò a Torino Marco Branca, il direttore sportivo dell’Inter. Un’oretta dopo era da
me. Branca è uno dei fumatori più incalliti che abbia mai incontrato. Andava avanti e indietro
nel nostro appartamento e riempiva il posacenere di mozziconi in un attimo. Ma lo capisco, in
quel momento aveva addosso una pressione pazzesca. Aveva ricevuto dal suo capo l’ordine
di chiudere l’affare prima che Berlusconi si chiudesse il nodo alla cravatta e uscisse per cenare da Giannino, e non era proprio rilassato all’idea di dover beffare l’uomo più potente
d’Italia. Mino sfruttò la situazione, ovvio. Gli piace quando la controparte è sotto pressione,
perché la pressione ammorbidisce la gente. Comunque partì una sfilza infinita di telefonate
con cifre e clausole che rimbalzavano avanti e indietro. Era il mio contratto. Erano le mie condizioni, e l’orologio ticchettava e Branca fumava e fumava.
«Accetti?» chiese alla fine.
Controllai con Mino.
Mino disse: «Vai!».
«Ok, accetto.»
Branca diede un’altra botta alle sue sigarette, e poi contattò Moratti. Si poteva proprio
sentire l’eccitazione nella sua voce.
«Zlatan ha accettato» disse.
Erano buone notizie. Anzi, era grandioso. Lo si capiva dal tono del presidente. Ma non era
ancora finita. Adesso i due club dovevano trovare l’accordo sul cartellino. Quanto costavo?
Questa era un’altra partita, e ovvio, se la Juventus doveva perdermi, avrebbe preteso un signor incasso. Ma prima che tutto fosse sistemato, Moratti mi chiamò.
«Sei contento?»
«Moltissimo» ripresi.
«Allora permettimi di darti il benvenuto!» disse, e, potete capire, tirai un gran respiro di
sollievo.
Tutta l’incertezza della primavera e dell’estate volò via in un secondo, e adesso a Mino
non restava altro da fare che telefonare al Milan. Certamente Berlusconi non avrebbe insistito
per cenare con me, a quel punto: se ho ben capito, non era del tempo che avremmo dovuto
parlare intorno a quel tavolo. Al Milan furono presi del tutto alla sprovvista, tipo: «Ma che succede? Adesso Ibra se ne va all’Inter?».
«Certe volte le cose possono andare molto in fretta» disse Mino.
Alla fine la Juve mi lasciò andare per ventisette milioni di euro, circa duecentocinquanta
milioni di corone. Fu la cifra più alta del calciomercato italiano di quell’anno, e potei anche
evitare quella famosa multa che avevo preso in ritiro con la Juve per aver giocato alla PlayStation. Ci pensò Mino a farla sparire come per incanto.
Moratti dichiarò alla stampa che il mio arrivo all’Inter aveva la stessa importanza di
quando aveva acquistato Ronaldo, e questo naturalmente mi andò dritto al cuore. Ero pronto
per l’Inter. Ma prima dovevo andare in raduno con la Nazionale a Göteborg e contavo su un
viaggio assolutamente tranquillo prima di cominciare a far sul serio.
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16
Giocammo a Göteborg contro la Lettonia, vincemmo per uno a zero con gol di Kim Källström
e il giorno seguente eravamo liberi. Era il 3 settembre. Il nostro compagno Olof Mellberg, capitano dell’Aston Villa, compiva ventinove anni. Ci eravamo conosciuti in Nazionale e all’inizio
lui era un tipo piuttosto chiuso, un po’ come Trezeguet, ma poi si era sciolto ed eravamo diventati amici. Adesso voleva che io e Chippen uscissimo con lui a festeggiare, e perché no?,
ci aggregammo entrambi.
Finimmo in un locale sull’Avenyn con le pareti tappezzate di fotografie. I giornali in seguito
lo descrissero come un posto “in”. Tutti i locali dove passo io il giorno dopo diventano “in”,
chissà come mai. Invece era un posto abbastanza anonimo. E quasi deserto.
Eravamo praticamente soli e ci sedemmo a bere un drink in tutta tranquillità, niente di che.
A forza di chiacchierare si fecero le undici. Alle undici scattava il coprifuoco e dovevamo essere tutti in albergo, secondo le regole della Nazionale. «Ma andiamo», ci dicemmo,
«saranno pure un po’ elastici!» Eravamo già stati fuori in precedenza e rientrati in ritardo
senza che per questo scoppiasse nessun casino. E poi era il compleanno di Olof, ed eravamo
sobri, tranquillissimi... A mezzanotte e un quarto rientrammo e ce ne andammo a letto come
bravi bambini. Tutto qui. I miei amici di Rosengård non avrebbero neanche avuto la pazienza
di ascoltare, se gliel’avessi raccontato.
Il vero problema è che io non posso nemmeno uscire a comprare il latte senza che i
giornali lo vengano a sapere. Ho gente che mi spia ovunque. E che manda sms e fotografie.
Ho visto Zlatan di qua e di là, davvero? e per non rendere la cosa noiosa si esagera un po’ e
la si racconta agli amici che esagerano ancora un altro po’. Il tutto dev’essere piccante, almeno un pochino, altrimenti che senso ha?
Ma quella volta i giornali furono più furbi del solito.
Girarono la frittata: telefonarono al nostro team manager, e non gli chiesero a che ora
eravamo tornati in albergo, ma quando scattava il coprifuoco. Lui disse la verità: «Tutti
devono essere in albergo entro le undici».
«Ma Zlatan, Chippen e Mellberg ieri sono rientrati più tardi. Abbiamo dei testimoni.»
Il team manager è un bravo ragazzo, di solito ci difende. Ma quella volta non fu abbastanza pronto, non lo si può nemmeno pretendere. Chi fa sempre la cosa giusta?
Se fosse stato furbo e avesse fatto come nei club italiani, avrebbe chiesto di poter richiamare e poi avrebbe fornito una buona spiegazione del perché eravamo stati fuori di più,
per esempio perché avevamo un permesso speciale, senza dire che l’avremmo fatta franca.
Un: «Se hanno sbagliato pagheranno» sarebbe andato benissimo. Ma il principio basilare
dovrebbe sempre essere di fare muro verso l’esterno. Noi siamo una squadra, siamo un’unità
compatta e al nostro interno ok, se qualcuno sbaglia è giusto che paghi.
Ma il team manager rispose che nessuno poteva restare fuori dopo le undici e che quindi
avevamo violato le regole. Da lì scoppiò il casino. Il mattino dopo mi chiamò: «Siete stati convocati a un incontro con Lagerbäck» disse, e si sa che non amo questo tipo di convocazioni.
D’altro canto, ho ormai una certa pratica. È dall’asilo che mi convocano. È normale, per me, è
così da una vita, e stavolta sapevo pure di che cosa si trattava. La presi con tutta calma.
Telefonai a uno dei ragazzi della sicurezza che conosco e che di solito è bene informato.
«Come butta?»
«Credo che dovrai fare le valigie» rispose, e io non capivo.
Fare le valigie? Perché ero tornato un po’ più tardi? All’inizio non volevo crederci, ma poi
lo ascoltai. Che altro potevo fare? Preparai le valigie, e non cercai neppure di inventarmi qualche scusa. La faccenda era troppo stupida per meritare lo sforzo. Per una volta, la verità andava benissimo. Quindi andai all’incontro e c’erano lì Lagerbäck e tutta la compagnia, naturalmente con Olof e Chippen. Loro non erano tranquilli come me. Non avevano la mia abitudine
a quelle situazioni. Invece io mi sentivo come a casa. Era quasi come se ne avessi sentito la
mancanza, come se fossi stato troppo diligente anziché vivere al limite.
«Abbiamo deciso di rispedirvi a casa» attaccò Lagerbäck. «Che cosa avete da dire?»
«Io vorrei chiedere scusa» disse Chippen. «È stata veramente una cosa stupida.»
«Anch’io chiedo scusa» fece Mellberg. «Ma...»
«Ma cosa?»
«Ma come pensate di gestire la faccenda con i media?» continuò lui, e ci fu una lunga discussione in merito. Per tutto il tempo io me ne restai zitto. Non avevo niente da dire e forse
Lagerbäck lo trovò un po’ strano, di solito non sono certo un tipo impacciato.
«E tu allora, Zlatan, tu che cosa dici?»
«Io non dico nulla.»
«Come, non dici nulla?»
«Proprio così. Nulla» e mi accorsi immediatamente che questo li rendeva nervosi.
Sarebbero stati di sicuro più a loro agio se avessi dato di matto. Era quello che si aspettavano. Invece la mia reazione li spiazzava, ma più loro diventavano confusi più io mi sentivo tranquillo. Il mio silenzio turbava l’equilibrio, mi metteva in posizione di vantaggio. È che
tutto all’improvviso mi sembrava così familiare! Era come ai vecchi magazzini Vessel, come a
scuola, come nelle giovanili del Malmö! Ascoltavo le pippe di Lagerbäck su quanto erano stati
chiari con le loro regolette con lo stesso interesse con cui avevo ascoltato gli insegnanti a
scuola, tipo: «Parla, parla pure, tanto io me ne sbatto». Ma una cosa mi mandò in bestia. Fu
quando lui disse: «Abbiamo deciso di rispedirvi a casa con effetto immediato. Contro il Liechtenstein non giocherete».
Non era per la partita, capiamoci, io avevo già pure fatto le valigie. Lagerbäck avrebbe potuto spedirmi anche a Kiruna e non mi sarei lamentato, poi, chi se lo inculava questo Liechtenstein? Fu quell’“abbiamo” a irritarmi. Chi c’era oltre lui?
Era lui il capo. Perché si nascondeva dietro altri? Avrebbe dovuto essere abbastanza
uomo da dire: «Io ho deciso» eccetera, allora l’avrei rispettato, ma così era da vigliacchi. Lo
fissai negli occhi con sguardo duro senza dire niente, poi andai in camera mia e telefonai a
Keki. In situazioni del genere uno ha bisogno della famiglia.
«Vieni a prendermi.»
«Che hai combinato?»
«Sono rientrato tardi ieri sera.»
Prima di partire parlai con il team manager. Io e lui abbiamo sempre avuto un buon rapporto, mi conosce meglio di chiunque altro in Nazionale e conosce la mia storia e il mio modo
di pensare. Sa che non dimentico così facilmente.
«Senti, Zlatan» disse, «io non sono preoccupato per Chippen e Mellberg. Sono ragazzi
normali, si prenderanno la loro punizione e poi torneranno, ma tu, Zlatan... Ho paura che
Lagerbäck si stia scavando la fossa da solo...»
«Vedremo» mi limitai a rispondere, e nel giro di un’ora ero sparito dall’albergo. Io e mio
fratello caricammo in macchina anche Chippen. Eravamo lui, io, Keki e un altro mio amico: ci
fermammo a una stazione di servizio, ricordo, e lì vedemmo le prime pagine dei giornali.
Dev’essere stato il ritardo che ha suscitato più scalpore della storia! In quei giorni restai in
contatto costante con Chippen e Mellberg. Volevo rassicurarli: nonostante fossi il più piccolo,
ero un po’ come un fratello maggiore per loro: «Calma, ragazzi. Questa cosa rientrerà in nostro favore. A nessuno piacciono i bravi bambini».
Ma ero sempre più arrabbiato per come era stata gestita la cosa. Lagerbäck e gli altri
facevano il gioco del noi-contro-loro. Era ridicolo. Nel primo anno al Milan mi azzuffai con un
compagno, Oguchi Onyewu. Ne racconterò più avanti, ma fu uno scontro piuttosto duro, e
nessuno pensò che fosse un bello spettacolo. Poteva finire male. Però con i media la dirigenza mi difese, disse che era un bene che io fossi così carico, o qualcosa del genere. Tennero unita la squadra, è così che si fa in Italia. Ci si difende dall’esterno e, come si dice, i
panni sporchi si lavano in famiglia. Invece con quella storia del ritardo diventammo i cattivi
ragazzi contro i buoni. Era stata gestita malissimo, e lo dissi anche a Lagerbäck quando mi
telefonò.
«Per me è tutto dimenticato» fece lui. «Sei di nuovo il benvenuto.»
«Davvero? Ma io non tornerò. Avreste potuto darmi una multa, avreste potuto fare qualsiasi cosa, ma siete andati dai giornali e ci avete messo alla gogna. E questo non lo accetto.»
Così fu.
Rifiutai l’offerta di tornare in Nazionale e quella storia sparì dalla mia testa. Avevo altro a
cui pensare. C’era solo una cosa di cui mi pentivo, avrei dovuto mettere più classe in quello
“scandalo”: starsene seduti in un locale praticamente deserto con un unico drink, e rientrare
un’ora in ritardo... Cos’è, una fiaba? Avrei dovuto almeno distruggere un bar e sfasciare una
macchina contro la fontana su in fondo all’Avenyn, e ritornare in albergo barcollando in
mutande. Questo sì, sarebbe stato uno scandalo al mio livello, non quelle cazzate.
Il rispetto non lo chiedi. Te lo prendi. È facile sentirsi piccoli quando si è nuovi in un club:
tutto è nuovo, ognuno ha il suo ruolo e il suo posto, delle gag consolidate... La cosa più semplice è fare un passo indietro, ascoltare e assorbire. Ma così perdi l’iniziativa. E perdi tempo.
Ma io ero andato all’Inter per fare la differenza e ridare al club lo scudetto dopo diciassette
anni, non potevo stare in disparte, oppure aver paura di muovermi solo perché i media mi aspettavano al varco e perché la gente aveva dei preconcetti: Zlatan è un bad boy, Zlatan ha
problemi con il suo caratteraccio e via dicendo. È facile farsi influenzare e cercare di dimostrare che sei tutto l’opposto, un ragazzo gentile. Ma allora ti lasci manipolare e non va
bene.
Non fu il massimo che quella storia di Göteborg rimbalzasse su ogni giornale italiano
proprio appena mi ero trasferito all’Inter. «Guarda, guarda, il ragazzo se ne infischia delle
regole, proprio lui che è costato così tanto. Non è che sarà un po’ sopravvalutato? Oppure
addirittura un acquisto sbagliato?» Questo si iniziava a mormorare. Peggio di tutti fece un cosiddetto esperto svedese che disse: «Per come la vedo io, l’Inter ha sempre fatto degli acquisti un po’ strani, puntano su giocatori individualisti... E adesso si sono portati in casa un altro problema».
Ma io avevo sempre in mente le parole di Capello: il rispetto bisogna prenderselo. Quindi
ok, era come entrare in un nuovo campetto a Rosengård: non puoi tornare indietro, o preoccuparti che un idiota abbia detto questo o quest’altro su di te. Devi metterti subito al centro
della scena. Così esordii con quel tono che mi portavo dietro dalla Juventus: «Sono venuto
qui per vincere».
In allenamento ce la mettevo tutta, entusiasmo e forza di volontà a mille. Ero peggio che
mai. Diventavo matto se la gente non dava il massimo in campo. Urlavo e facevo casino
quando perdevamo o facevamo una brutta partita e, in un modo del tutto diverso rispetto al
passato, ottenni il ruolo di leader. Lo vedevo negli occhi dei tifosi, dei compagni... si aggrappavano a me. Io li avrei condotti in battaglia, e al mio fianco avevo di nuovo Patrick Vieira.
Con lui accanto, nessun’impresa è impossibile. Eravamo due mostri vincenti, che davano
tutto per aumentare la motivazione e trasmettere la mentalità vincente alla squadra.
C’era però un problema nel club: Moratti, il presidente e proprietario, ha fatto di tutto per
l’Inter, ha sborsato oltre trecento milioni di euro in questi anni. Ha portato ad Appiano gente
come Baggio, Ronaldo, Crespo, Vieri, Figo e Maicon, puntando moltissimo sull’attacco. Il
problema è che era troppo generoso, troppo buono. Era capace di distribuirci dei ricchi bonus
per una singola vittoria, e io glielo feci notare. Non che abbia nulla contro bonus e altri
vantaggi, come disse Mourinho: «Non sono pirla», ma non si potevano distribuire premi per
così poco.
Secondo me dava un segnale sbagliato, solo che non è che un giocatore prende e va a
parlare col presidente tutte le volte che vuole. Ma io avevo acquisito una posizione tale nel
club che lo feci comunque. Moratti poi non è certo una persona difficile, si può parlare con lui,
e così gli dissi: «Presidente!».
«Sì, Ibra.»
«Lei deve darsi una calmata!»
«In che senso?»
«Con i bonus! Questi poi non corrono più! Diavolo, una partita vinta non è niente. Siamo
pagati per vincere e ok, se portiamo a casa lo scudetto ci dia pure un premio se vuole, ma
non dopo una sola vittoria.» Moratti parve capire e apprezzare.
Ci diede un taglio, e non fraintendetemi, non è che credessi di dover insegnare il mestiere
a Moratti, figuriamoci. Ma se vedevo qualcosa di sbagliato, qualcosa che poteva influire negativamente sulla motivazione della squadra, lo facevo notare.
La vera sfida era rompere quei cazzo di gruppetti. Li odiai fin dal primo giorno, e non dipendeva soltanto dal fatto che io venivo da Rosengård, dove ci si mischiava senza problemi:
turchi, somali, jugoslavi, arabi. Era anche perché l’avevo visto già molto chiaramente, sia alla
Juventus sia all’Ajax: tutte le squadre rendono molto meglio quando fra i giocatori c’è coesione. All’Inter era l’opposto. Là in un angolo stavano seduti i brasiliani; gli argentini stavano
in un altro e tutti gli altri in un terzo. Era così stupido.
Ok, a volte si formano un po’ dei gruppetti nello spogliatoio. Non è un bene, ma succede.
In quel caso però sei tu che scegli di stare con quelli con cui ti trovi meglio. All’Inter, invece, i
giocatori si raggruppavano per nazionalità. Era una roba da età della pietra, spesso non si salutavano nemmeno, fra gruppi. Giocavano insieme a calcio. Stop. Per il resto vivevano in
mondi separati, e questa cosa mi faceva innervosire tremendamente, e capii subito che per
vincere bisognava cambiare. Alcuni forse pensavano: “Che importanza ha con chi ci sediamo
o no a tavola?”. Credetemi, ha importanza. Se non c’è coesione fuori dal campo, dentro si
nota. Influisce sulla motivazione e sul senso di squadra. Il calcio è questione di dettagli e
questo genere di cose può essere decisivo. Così considerai come mio primo grande test da
leader porre fine a quella situazione. Ma mi accorsi che le parole non bastavano.
Andavo in giro e dicevo: «Cos’è questa storia? Perché state lì seduti tra di voi come dei
bambini?». E certamente, molti concordavano con me, altri rimanevano un po’ imbarazzati,
ma non succedeva nulla. Le abitudini erano ormai consolidate. Quelle barriere invisibili erano
troppo nette. Perciò andai nuovamente da Moratti, e stavolta fui più chiaro possibile. L’Inter
non vinceva il campionato da secoli. Volevamo andare avanti così? Dovevamo essere dei
perdenti solo perché la gente non aveva voglia di parlarsi?
«Ovviamente no» disse Moratti.
«Ma allora bisogna rompere questi dannati gruppetti. Non possiamo vincere se lo spogliatoio non è unito.»
Non credo che Moratti avesse compreso esattamente quanto fosse grave la situazione,
ma capì il mio ragionamento, ed era perfettamente in linea con la sua filosofia. Disse:
«Dobbiamo essere come una famiglia unita, nell’Inter. Parlerò con gli altri», ed effettivamente
non molto tempo dopo venne da noi. Sapete, si vedeva subito che rispetto avessero tutti per
lui. Moratti era il club. Lui non era solo quello che prendeva le decisioni, come Moggi, eravamo proprio suoi, in un certo senso. Tenne un piccolo discorso. Era veramente infiammato:
parlò di coesione e tutti mi lanciarono delle occhiate, ovviamente. Sembravano le mie parole.
«È Ibra, che sta parlando?» Molti probabilmente ne erano convinti. Ma non m’importava. Io
volevo solo mettere insieme i pezzi della squadra.
Lentamente la situazione migliorò, passo dopo passo. I gruppetti si sciolsero e tutti cominciarono a stare con tutti. Diventammo più carichi e compatti, e io andavo in giro e parlavo con
tutti e cercavo di compattare l’ambiente ancora di più. Ma è chiaro, non è che si potesse vincere il campionato solo con quello. Ricordo la prima partita, a Firenze. Era il 9 settembre, e la
Fiorentina naturalmente voleva batterci a ogni costo. Anche loro erano stati coinvolti nello
scandalo di Calciopoli, e iniziavano il campionato con quindici punti di penalizzazione: il pubblico dell’Artemio Franchi era carico di rancore.
L’Inter aveva schivato lo scandalo, molti pensavano che ci fosse sotto del marcio, e la
sensazione era che entrambe le squadre fossero subito costrette a vincere: la Fiorentina per
iniziare a fare punti e noi per metterci in corsa per lo scudetto.
Io giocai titolare con Hernán Crespo accanto. Cominciammo bene insieme, almeno in
campo, e verso la metà del secondo tempo raccolsi un lungo passaggio in area di rigore e incrociai in rete di destro. Il gol all’esordio mi diede grande tranquillità, e da quel momento diventai sempre più una cosa sola con la squadra: rifiutare l’invito a giocare in Nazionale nelle
qualificazioni agli Europei contro Spagna e Islanda fu una scelta ovvia. Volevo dedicarmi
completamente all’Inter e alla famiglia.
Io e Helena allora stavamo contando i giorni per la nascita del nostro primo figlio, e avevamo deciso che lei partorisse all’ospedale di Lund. Nonostante tutto, ci fidavamo di più della
sanità svedese. Ma non era così semplice. C’erano i media, e i paparazzi, c’era tutta la solita
isteria che ci accompagnava, così ingaggiammo dei bodyguard e informammo la direzione
dell’ospedale che chiuse il reparto della clinica. Tutti quelli che entravano venivano controllati.
All’esterno l’area era pattugliata dalla polizia e noi eravamo parecchio nervosi. C’era un odore
speciale, lì dentro. La gente correva avanti e indietro nei corridoi e si sentivano voci e urla,
non capivo se di gioia o cosa... Ho già detto che odio gli ospedali? Be’, odio gli ospedali. Io
sto bene quando gli altri stanno bene. Se la gente intorno a me sta male, comincio a stare
male anch’io, o almeno è questa la sensazione. Non riesco a spiegarlo. Ma gli ospedali mi
fanno venire il mal di pancia. C’è qualcosa nell’aria che non mi piace, e se sono costretto a
starci cerco di andarmene prima che posso.
Avevo deciso di partecipare a tutte le fasi del parto, e questo mi rendeva nervoso. Sapete,
io ricevo molte lettere da tutto il mondo, e il più delle volte non le apro nemmeno, per una
questione di equità: siccome non posso leggere e rispondere a tutte, le lascio spesso lì così
come arrivano. Non è giusto favorire qualcuno e non altri. Ma a volte capita che Helena non
riesca a resistere e aprendone qualcuna abbiamo appreso storie terribili, tipo quella di un
bambino a cui resta solo un mese di vita e che dice che sono il suo idolo... Allora Helena mi
chiede sempre: «Che cosa possiamo fare? Procurare dei biglietti per la partita? Mandare
delle maglie firmate?». Cerchiamo veramente di fare qualcosa. Ma confrontarmi con il dolore
degli altri mi fa stare male. È una mia debolezza, lo ammetto. Pensate cosa volesse dire,
quindi, passare la notte lì all’ospedale: mi preoccupavo per quello, ma per Helena chiaramente era anche peggio. Era agitata. Non è facile sentirsi braccati quando si sta per mettere
al mondo il proprio primo figlio. Pensi che se qualcosa va male, tutto il mondo lo verrà a
sapere.
“Se qualcosa va male?” Anch’io avevo questo genere di pensieri, ovviamente, ma andò
tutto bene, e poco dopo provai una gioia indescrivibile. Era un bellissimo maschietto, ce
l’avevamo fatta! Eravamo genitori. Ero papà, e l’ipotesi che il bambino potesse avere qualche
problema non la contemplavo nemmeno, non dopo che eravamo riusciti a superare tutte le
difficoltà, ma i medici e le infermiere sembravano allegri e contenti. E invece, qualche mese
dopo, scoprimmo che non era finita per niente.
Chiamammo il piccolo Maximilian. Non so esattamente dove fossimo andati a prenderlo,
quel nome, ma suonava importante. Ibrahimovi era già importante in sé, Maximilian
Ibrahimovi lo era ancora di più. Era al tempo stesso un nome bello e potente, ed è vero che
finimmo presto per chiamarlo Maxi, ma... be’, suonava bene anche quello.
Tutto sembrava perfetto e io lasciai l’ospedale quasi subito. Non che fosse così semplice,
fuori c’erano giornalisti ovunque. Ma i ragazzi della nostra sicurezza mi infilarono un camice
bianco, tipo dottor Ibrahimovi, ecco, poi mi fecero accucciare dentro un cesto della biancheria
sporca, una cosa folle, un enorme, stramaledetto cesto. Nascosto lì dentro mi portarono attraverso tunnel e corridoi fino giù al garage. Qui saltai fuori, mi cambiai e ripartii per l’Italia.
Riuscimmo a imbrogliare tutti.
A Helena non andò altrettanto bene. Era stato un parto laborioso, e poi non era abituata
come me a stare sotto i riflettori. Io non me ne accorgevo quasi più, ormai faceva parte della
mia vita, ma per Helena non era così. Quando lasciarono la clinica, lei e Maxi furono portati
fuori di nascosto e accompagnati a casa di mia madre a Svågertorp, su due macchine diverse. Credevamo che una volta fuori di lì Helena avrebbe potuto tirare il fiato. Poveri ingenui!
Passò un’ora soltanto. Poi i giornalisti cominciarono ad affollarsi fuori dalla casa, e lei giustamente si sentiva braccata e in gabbia, e poco dopo ripartì per Milano.
Io ero già lì e per la quarta giornata avevamo il Chievo a San Siro. Sarei partito dalla
panchina. Non avevo dormito granché, Roberto Mancini non mi vide concentratissimo sul
match e giustamente non mi schierò titolare. Ero seduto sovrappensiero e, a un certo punto,
lasciai scorrere lo sguardo sul campo e sul pubblico. Gli ultras dell’Inter avevano srotolato un
enorme striscione bianco, sembrava una bandiera di pirati al vento, e sopra c’era scritto qualcosa in lettere nere e azzurre. Era «Benvenuto Maximilian», e io mi domandai: “Chi cavolo è
’sto Maximilian? Abbiamo preso uno nuovo?”.
Poi capii. Era mio figlio. Gli ultras stavano dando il benvenuto nel mondo a mio figlio! Era
una cosa così bella che volevo piangere. Quei tifosi non sono gente con cui si possa scherzare. Sono ragazzi tosti, e io avrei avuto degli scontri anche molto duri con loro. Ma quel
giorno... che cosa posso dire? Con quel gesto mi fecero vedere l’Italia al suo meglio, il loro
amore per il calcio e per me, per la mia famiglia. Tirai fuori il cellulare e scattai una foto e la
mandai a Helena. Poche cose le sono arrivate così dritte al cuore. Le vengono ancora le lacrime agli occhi quando lo racconta. Era come se San Siro le stesse mandando il suo amore.
Avevamo anche preso un nuovo cucciolo, Trustor, perciò adesso avevo una vera famiglia.
Avevo Helena, Maxi, Hoffa e Trustor, e poi la mia console. A quell’epoca giocavo di continuo
all’Xbox. Passavo il limite, molto semplicemente. Diventò una vera e propria droga. Non riuscivo a smettere, e spesso stavo seduto a giocare con il piccolo Maxi sulle ginocchia.
Abitavamo ancora in albergo a Milano, in attesa di un appartamento tutto nostro, e
quando telefonavamo giù per ordinare da mangiare ce ne rendevamo sempre più conto: loro
erano stanchi di noi e noi di loro. L’albergo ci dava sui nervi, e così cambiammo, trasferendoci
al Nhow di via Tortona: lì era un po’ meglio, ma ancora troppo caotico.
Tutto era nuovo con Maxi. Ma iniziammo a notare che vomitava parecchio e che non cresceva di peso, semmai il contrario. Dimagriva. Ma nessuno di noi sapeva come sarebbe
dovuta andare. Magari era normale così. Qualcuno ci aveva detto che i neonati possono perdere peso per un certo periodo dopo la nascita, e lui sembrava forte, o no? Ma il cibo gli tornava su, e il suo vomito era denso e aveva un aspetto strano. Vomitava di continuo. Era normale? Non ne avevamo la più pallida idea. Telefonavo alla mia famiglia e ai miei amici e tutti
mi tranquillizzavano: di sicuro non è niente di grave. Anch’io lo credevo, o per lo meno volevo
crederlo, e cercavo delle spiegazioni rassicuranti.
Va tutto bene. È mio figlio. Che cosa può andare storto? Ma la paura non se ne andava:
era sempre più evidente che Maxi non riusciva a trattenere il cibo e continuava a perdere
peso. Alla nascita pesava tre chili, adesso era sceso a due chili e otto, e io me lo sentivo nelle
viscere: qui non va bene, ma proprio per niente, finché non riuscii più a tenermelo dentro.
«C’è qualcosa che non quadra, Helena!»
«Lo penso anch’io» rispose lei, e come posso spiegarlo?
Ciò che prima era stato un sospetto, una sensazione, divenne una certezza, e la stanza
sembrò tremare. Mi sentivo un unico nodo dalla testa ai piedi. Non avevo mai provato una
sensazione del genere, neanche lontanamente. Prima di avere un figlio mi sentivo un supereroe. Potevo incazzarmi e dare di matto, provare tutti i sentimenti possibili, ma avevo sempre
pensato che tutto si poteva risolvere, se solo mi mettevo d’impegno. Invece improvvisamente
non era più così. Ero impotente. Non potevo far guarire Maxi con la forza di volontà. Non potevo fare niente.
Il bimbo diventava sempre più debole, era diventato pelle e ossa. Sembrava che potesse
morire da un momento all’altro. Telefonammo in giro come disperati finché un medico, una
donna, venne su nella nostra camera. Io non ero lì in quel momento, dovevo giocare una
partita. Ma credo che fummo fortunati.
La dottoressa annusò il vomito, lo esaminò, riconobbe i sintomi e disse: «Dovete portarlo
immediatamente all’ospedale», e ricordo perfettamente cosa accadde. Io ero con la squadra,
dovevamo incontrare il Messina in casa. Suonò il cellulare, Helena era isterica: «Maxi
dev’essere operato subito» disse, e io mi chiesi: “Lo perderemo? È veramente possibile?”. I
pensieri si affollavano in testa, tutte le domande e le paure possibili e immaginabili, e andai a
dirlo a Mancini. Come molti altri allenatori, era un ex giocatore, e aveva iniziato nella Lazio di
Sven-Göran Eriksson. Capì, aveva un cuore.
«Il mio bambino sta male» gli dissi, e lui mi guardò negli occhi: ero uno straccio.
Non avevo più in testa solo l’idea di vincere. Anzi, in testa avevo Maxi e nient’altro, il mio
piccolino, il mio amatissimo figlio, e Mancini lasciò che fossi io a decidere se giocare oppure
no. Fino a quel momento avevo segnato sei gol, stavo andando bene. Ma adesso cosa
dovevo fare? Avevo il cervello che bolliva.
Da Helena ricevevo degli aggiornamenti. Si era precipitata all’ospedale e nessuno parlava
inglese, mentre Helena non sapeva quasi una parola di italiano. Era completamente persa.
Non capiva niente, se non che c’era una gran fretta, e che un medico le aveva chiesto di firmare una certa carta. Che carta? Non ne aveva la più pallida idea. Non c’era tempo per
pensare. Firmò. In certe situazioni si firma qualsiasi cosa, immagino. Poi arrivarono altre
carte, firmò anche quelle e le portarono via Maxi, e per lei fu terribile. Che cosa gli avrebbero
fatto? Era totalmente sconvolta. Ma Helena strinse i denti. Non poteva fare nulla. Doveva accettare la situazione e sperare mentre Maxi veniva portato via in un’altra stanza insieme a
medici e infermiere, e solo lentamente lei riuscì ad afferrare qual era il problema. Il suo pancino non funzionava e doveva essere operato.
Io intanto ero in campo a San Siro e non era facile trovare la giusta concentrazione. Ma
avevo deciso di giocare e partii titolare. O almeno credo. Tutto è nebuloso, e non credo di
aver giocato granché bene. Come avrei potuto! Ricordo che a un certo punto Mancini si alzò
dalla panchina e mi fece un segno: «Ti tiro fuori fra cinque» e io annuii: «Certo, esco, qui in
campo non sono di nessuna utilità».
Ma un minuto più tardi segnai una rete e pensai: “Mancini, va’ all’inferno! Tirami fuori, adesso!”. Continuai a giocare e finì due a zero per noi. Io ero in piedi a rabbia e adrenalina, al
fischio dell’arbitro andai via di corsa. Non dissi una parola negli spogliatoi e non ricordo quasi
la strada che feci poi. Il cuore martellava. Ma ho ancora davanti agli occhi il corridoio
dell’ospedale, e l’odore che c’era, e che mi precipitai dentro e domandai: «Dove? dove?» e
alla fine arrivai in una grande sala dove Maxi stava insieme a un sacco di altri bambini, dentro
un’incubatrice. Era più piccolo che mai, come un uccellino. Aveva cannule nel corpo e nel
naso. Mi sentii come se mi stessero strappando il cuore. Guardai lui e poi Helena, e cosa credete? Che in quel momento fui il duro di Rosengård? Dissi: «Vi amo. Voi siete tutto per me.
Ma non ce la faccio. Sto per impazzire. Telefonami alla minima cosa» e scappai via.
Non fu carino nei confronti di Helena, lo so, era lì sola con Maxi. Ma non ce la feci, fui
preso dal panico. Odiavo gli ospedali come non mai, mi rifugiai in albergo e di sicuro giocai
all’Xbox. Di solito in situazioni del genere riesce a calmarmi. Per tutta la notte mi tenni accanto il cellulare, e ogni tanto sobbalzavo, come in attesa di qualche notizia terribile.
Ma andò bene. L’operazione riuscì e Maxi da allora sta bene. Ha una cicatrice sulla pancia, ma per il resto è sano come un pesce. A volte ripenso a tutto quello che abbiamo passato. Mi dà un po’ di prospettiva. Vincemmo veramente lo scudetto quel mio primo anno con
l’Inter, e più tardi in Svezia fui nominato per il Premio Jerring, assegnato allo sportivo
dell’anno.
Non è una giuria a scegliere il vincitore, ma il popolo svedese, e ovviamente vincono
quasi sempre atleti che praticano sport individuali, come Ingemar Stenmark, Stefan Holm, Annika Sörenstam e via dicendo. Per essere precisi, un paio di volte è stata anche premiata
un’intera squadra, la Nazionale di calcio lo fu nel 1994 dopo il terzo posto ai Mondiali americani. Ma nel 2007 fui nominato come singolo. All’inizio del 2008 ci fu il Gran Galà dello Sport,
io ed Helena ci andammo insieme, elegantissimi, e prima della premiazione me ne andai un
po’ in giro a socializzare e incontrai Martin Dahlin.
Martin Dahlin è un ex calciatore svedese, un grande. Era nella Nazionale che vinse il
bronzo ai Mondiali e il Premio Jerring nel 1994, e ha giocato nella Roma e nel Borussia
Mönchengladbach, segnando un sacco di gol. Ma sapete com’è, c’è sempre questa cosa del
conflitto fra generazioni: i vecchi vogliono sempre essere stati i migliori. Ma anche i giovani lo
vogliono, non vogliono farsi fare una testa così con i vecchi campioni, non vogliono sentirsi
dire: «Dovevate esserci a quei tempi» e stronzate del genere. Vogliamo che il calcio di oggi
sia il più bello della storia, e mi sembrò di avvertire una punta di sarcasmo nella voce di Martin.
«Ohilà, tu qui?»
Perché era sorpreso?
«E anche tu?» replicai con la stessa ironia, come se fossi altrettanto stupito che
l’avessero fatto entrare.
«Noi abbiamo vinto il Premio, sai, nel ’94.»
«Come squadra, sì. Io sono stato nominato come singolo atleta» ribattei, e sorrisi. Non
era niente, eh, solo un piccolo screzio.
Ma in quell’attimo me lo sentii in tutto il corpo, volevo vincere quel premio e lo dissi anche
a Helena quando tornai al nostro tavolo: «Cavolo, spero di vincere!». Non ho mai detto niente
del genere, nemmeno di un campionato o di una coppa. Ma quella volta sì. Quel premio tutt’a
un tratto diventò importante, come se veramente avesse potuto cambiare qualcosa nella mia
vita. Non riesco a spiegarlo con esattezza. Avevo ricevuto un sacco di altri premi ma non mi
ero mai sentito toccato così da vicino. Forse, che so, capivo che poteva diventare una conferma, il segno che ero stato accettato per davvero, non solo come calciatore ma come persona, nonostante tutti i casini che avevo combinato e le mie origini. Perciò me ne stavo seduto lì tutto teso mentre sul palco leggevano i nomi dei candidati.
C’eravamo io e quella ragazza che salta gli ostacoli, la Kallur, e poi Anja Pärson, la sciatrice, e io non avevo la più pallida idea di come sarebbe andata a finire. In vista dei miei Palloni d’Oro svedesi di solito ricevo informazioni in anticipo, non voglio fare un viaggio in Svezia
per niente, ma stavolta non sapevo nulla, proprio nulla, e i secondi passavano. «Diavolo, ditelo, su, avanti! Il vincitore è...»
Venne gridato il mio nome, e allora mi salirono le lacrime agli occhi. Credetemi, non sono
uno che piange così facilmente, non mi hanno abituato a questo genere di emozioni da
bambino; ma quella volta mi lasciai travolgere totalmente e mi alzai in piedi. Tutti in sala urlavano e applaudivano. Intorno a me c’era un gran casino. Passai di nuovo accanto a Martin
Dahlin e allora non riuscii a trattenermi e gli dissi: «Scusa Martin, permesso, devo andare su
a ritirare un premio».
Una volta sul palcoscenico ricevetti il premio dalle mani del principe Carl Philip e presi il
microfono: non sono proprio il tipo che si prepara i discorsi di ringraziamento. Parlo e basta, e
all’improvviso cominciai a pensare a Maxi, a tutto quello che avevamo passato, e iniziai a riflettere, che era strano, in effetti. Avevo ricevuto il premio perché avevo aiutato l’Inter a vincere lo scudetto dopo diciassette anni, e mi domandai se Maxi era nato in quella stessa stagione. Era come se all’improvviso non lo sapessi più, e lo domandai a Helena.
«Ma Maxi è nato nella stagione dello scudetto?» e lei quasi non riusciva nemmeno ad annuire in risposta.
Aveva le lacrime agli occhi, e questo non lo dimenticherò mai, credetemi.
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Forse stavo crescendo e diventando adulto, forse no. Ormai lo avrete capito, io ho sempre
bisogno di nuovi stimoli. È così fin da quando ero bambino, e certe volte vado fuori strada.
Nel vero senso della parola.
Ho un vecchio amico che aveva una pizzeria a Malmö, pesa circa centoventi chili e con lui
una volta stavo andando da Båstad a Malmö con la mia Porsche. Devo dirlo, molti non
amano venire in macchina con me, e non perché non sia un bravo guidatore. È che anche al
volante ho molta grinta, e quella volta accelerai fino a toccare i trecento. Ma mi sembrava di
andare piano, e allora continuai a pigiare, trecentouno, trecentodue... dopo un po’ la strada
cominciò a restringersi. Ma io continuavo, e quando il tachimetro toccò i trecentoventicinque il
mio amico esplose: «Zlatan rallenta, porca puttana, io ho una famiglia!».
«E perché io no, brutto ciccione?» risposi.
Poi rallentai, controvoglia, ci rilassammo e sorridemmo. In fondo si trattava della nostra
vita... Ma essere ragionevole per me non è sempre facile. Cose del genere mi danno la carica, e anche se non mi sono mai fatto droga o altre schifezze, forse ho anch’io una piccola dipendenza. Mi vengono delle manie. Attualmente è la caccia, ma a quei tempi era l’Xbox, e nel
novembre di quell’anno uscì un nuovo gioco.
Si chiamava Gears of War, e mi prese totalmente. Costruii un’intera sala giochi e ci stavo
chiuso dentro per ore: potevano farsi le tre, le quattro del mattino, avrei dovuto dormire e
tenere dei ritmi più sani per non arrivare all’allenamento del mattino dopo come un rottame.
Ma me ne fottevo. Gears of War diventò come un veleno, Gears of War e Call of Duty. Passavo tutto il mio tempo libero a giocarci.
Ero come intossicato. Non riuscivo a smettere, e spesso giocavo online con gente di tutto
il mondo: inglesi, italiani, svedesi, tutte le nazionalità immaginabili, per sei, sette ore al giorno.
Ovviamente, avevo il mio gamertag* e non potevo certo chiamarmi Zlatan in rete, perciò nessuno sapeva chi si nascondesse dietro il mio nickname.
Ma giuro: facevo colpo sulla gente anche sotto falso nome. Ho sempre giocato ai
videogiochi, e sono estremamente competitivo in tutto. Mi concentro sempre sul mio obiettivo,
qualsiasi esso sia. Battevo tutti. Ma ecco, c’era un altro tizio, anche lui era bravo ed era
sempre online, tutta la notte, proprio come me. Il suo gamertag era D e qualcos’altro, e a
volte lo sentivo parlare in cuffia: tutti chiacchieravano durante le partite o fra l’una e l’altra.
Io cercavo di tenere la bocca chiusa, sennò immaginate? Ma non sempre era facile.
Avevo l’adrenalina in corpo, e uno di quei giorni lui cominciò a parlare di macchine. D aveva
una Porsche 911 Turbo, disse, e allora non ce la feci più. Era lo stesso modello che avevo
passato a Mino dopo il nostro famoso primo pranzo ad Amsterdam. Così cominciai a chiacchierare, ma capii subito che la gente iniziava a sospettare.
«Dalla voce sembri Zlatan» disse qualcuno.
«No, no, non sono io.»
«Avanti, su» ribatterono, e mi fecero delle domande. Io riuscii a svicolare ma poi passammo a parlare di Ferrari, e non è che fosse granché meglio.
«Io ne ho una» dissi a un certo punto. «Non una qualunque, veramente...»
«Che modello?»
«Se te lo dico non ci credi» risposi, e allora D s’incuriosì ancora di più.
«Avanti, su! Quale?»
«È una Enzo.»
Restò in silenzio.
«Non ci credo.»
«Te l’avevo detto!»
«Una Enzo?»
«Una Enzo!»
«Allora tu puoi essere una sola persona.»
«Chi?»
«Quello di cui si parlava.»
«Forse» dissi io. «O forse no.» E poi continuammo a giocare. Quando non giocavamo chiacchieravamo, io cercavo di scoprire qualcosa in più su di lui e venni a sapere che lavorava in
Borsa. Parlare con lui era facile, mi accorsi che il calcio gli piaceva e amava le macchine veloci. Ma non era uno spericolato, piuttosto un tipo calmo, riflessivo. Un giorno finimmo a parlare di orologi, sono un’altra cosa per cui ho avuto un certo interesse. D avrebbe voluto un
AP, un Audemars Piguet, un pezzo di gran pregio, e disse che stava pensando di prendere
quell’orologio piuttosto particolare, e qualche altro giocatore che era online in quel momento
disse: «Ci sono tempi d’attesa molto lunghi, per quello» e forse era anche vero, ma certo non
per me. Un giocatore di calcio in Italia ha diversi bei vantaggi, uno di questi è che può saltare
qualsiasi coda. Così mi intromisi di nuovo.
«Posso procurartelo nel giro di una settimana per xxx euro.»
«Stai scherzando?»
«Assolutamente no!»
«E come fai?»
«Mi basta fare una telefonata.» Pensai: “Tanto cos’ho da perderci?”.
Se D non avesse voluto più l’orologio o diceva solo stronzate, potevo tenerlo io. Non era
chissà quale affare e il ragazzo mi pareva affidabile: parlava di Ferrari e di altri giocattoli di
lusso, eppure non mi sembrava un esaltato. Sembrava semplicemente che gli piacessero le
cose belle, perciò gli dissi: «Senti, presto dovrò andare a Stoccolma, starò allo Scandic
Park».
«Ok» disse.
«Se il tal giorno ti farai trovare giù nella hall alle quattro, avrai il tuo orologio.»
«Stai dicendo sul serio?»
«Io sono un tipo serio!» risposi.
Quindi telefonai al mio contatto e in pochi giorni mi consegnarono l’orologio, un piccolo
gioiellino. Poi diedi i miei estremi bancari a D attraverso l’account Xbox. Non molto tempo
dopo, come avevo detto andai a Stoccolma: dovevamo giocare una partita di qualificazione
per gli Europei, e come al solito stavamo allo Scandic Park. Io e Lagerbäck ci eravamo riconciliati, dopo tutti i casini, e arrivai in albergo e salutai gli altri ragazzi della squadra. Alle quattro scesi con l’orologio alla reception, secondo gli accordi. Ero assolutamente tranquillo, ma
portai con me anche Janne Hammarbäck, l’addetto alla sicurezza.
Non avevo idea di che faccia avesse D o di che tipo fosse. Mi guardai in giro e l’unica persona che vidi fu un tipo bruno e mingherlino che stava seduto in una poltrona, e che pareva
molto timido.
«Sei qui per un orologio?» dissi avvicinandomi.
«Sì, io...»
Si alzò in piedi, e mi accorsi subito che era totalmente spiazzato. Immagino che ormai
doveva aver capito chi fossi, ma in quel momento dovette pensare: “Allora sei veramente tu!”.
Era una reazione che avevo già visto. La gente diventa insicura con me, perde fiducia in se
stessa, e allora io cerco di essere più aperto e più gentile. Così ci mettemmo a parlare e
cominciai a chiedergli un sacco di cose sul suo lavoro, quali posti frequentava quando usciva
e questo genere di cose, e dopo un po’ si rilassò. Allora attaccammo a parlare di Xbox, e
come dire? Fu piacevole. Era qualcosa di nuovo.
I miei amici di Rosengård sono ragazzi di strada: hanno altri modi, s’incazzano facilmente,
e di per sé non c’è niente di sbagliato in questo, assolutamente, io sono cresciuto con loro.
Ma questo ragazzo era intelligente e posato, pensava in modo diverso, non era aggressivo
per niente, non aveva bisogno di fare il figo. Normalmente non entro così facilmente in confidenza con la gente. Ho preso diverse batoste per dare fiducia a chi non la meritava. Ma vidi
subito che con D andavo d’accordo, e gli dissi: «Lascio l’orologio alla reception, appena mi arrivano i soldi sul conto puoi ritirarlo» e la cosa si risolse in fretta.
Da quel giorno restammo in contatto. Ci sentivamo via sms o per telefono e a un certo
punto lui venne a trovarci a Milano. Lui era esattamente come avevo sospettato: un ragazzo
svedese beneducato che dice: «Piacere di conoscerti» e così via. Non c’entrava niente con i
miei amici di Rosengård, in compenso andava molto d’accordo con Helena. “Finalmente un
ragazzo che non lancia petardi nei chioschi di kebab!” dovette pensare.
D diventò così una nuova presenza nella mia vita, e Helena lo chiama il mio amico di Internet.
Vi ricordate il Miglio del Malmö, il tragitto di corsa che mi evitavo prendendo l’autobus o
fregando qualche bicicletta? Non erano passati poi tutti quegli anni, e certe volte mi capitava
di ripensarci: ripensavo non solo all’emozione del giorno in cui ero stato promosso in prima
squadra ma anche all’insicurezza che avevo provato verso tante cose, a quei tempi. Prendiamo per esempio quei villoni in Limhamnsvägen che vedevo mentre correvo. All’epoca mi
sembravano irraggiungibili, soprattutto quella famosa casa rosa grande come un castello. Ricordo che mi chiedevo: “Che genere di persone può permettersi di vivere così? Avranno i
soldi che gli escono dalle orecchie”.
In un certo senso lo pensavo ancora. Non ero più insicuro di fronte a quel genere di persone, al contrario, ma ricordavo la sofferenza: la sofferenza di stare al di fuori di tutto quel
mondo e vivere in altre condizioni, con altre regole. È il genere di sensazione che non dimentichi. Io sognavo ancora la rivincita: volevo mostrare a tutti che non ero più il ragazzino
con la Fido Dido. Ero diventato uno che, come loro, poteva permettersi la villa più bella.
Tra l’altro io e Helena avevamo veramente bisogno di una casa a Malmö. Non potevamo
più appoggiarci alla casa di mia madre a Svågertorp. Aspettavamo il secondo figlio. Volevo
avere uno steccato da poter sfondare a pallonate quando mi girava, e io ed Helena cominciammo ad andare un po’ in giro a vedere delle case. Era anche un divertimento. Mettemmo
giù delle classifiche di gradimento e cosa credete, quale casa c’era in cima alla lista? La villa
rosa in Limhamnsvägen, ovviamente, e non solo per via dei miei vecchi sogni. Era davvero la
casa più bella, la più bella di tutta Malmö ma... ovvio, c’era un problema. C’era della gente
che ci abitava, e non erano intenzionati a vendere. Ma decidemmo di non arrenderci. Forse
semplicemente facendo loro un’offerta che non potevano rifiutare, non certo mandandogli lì
qualche amico di Rosengård. No, questa era una faccenda da trattare con stile. Uno di quei
giorni Helena era all’Ikea e incontrò un’amica: cominciarono a parlare di quella casa bellissima e dei nostri progetti e all’improvviso Helena si sentì dire: «Ma dai, ci abitano dei miei
amici!».
«Potresti organizzami un incontro? Vorremmo parlare con loro» disse Helena.
«Stai scherzando?»
«Neanche un po’.»
E così fu. L’amica di Helena chiamò i tizi che abitavano la casa dei nostri sogni e questi le
confessarono di non essere minimamente intenzionati a vendere: si trovavano bene lì e i vicini erano gentili e l’erba era verde e la vista verso Ribersborg e l’Öresund fantastica e bla bla
bla. Ma l’amica aveva ricevuto precise istruzioni e rispose che se non volevano vendere a
nessuna cifra ok, nessun problema, bastava dircelo apertamente, ma anche in questo caso
non sarebbe stato comunque simpatico incontrare Zlatan ed Helena per un caffè?
Loro accettarono e ci invitarono a casa. Appena arrivammo intuii subito che ce la potevamo fare a convincerli, ma soprattutto varcando quel cancello ebbi una strana sensazione: mi
sentii grande e piccolo al tempo stesso, il ragazzo che restava a bocca aperta guardando
quelle case mentre percorreva il Miglio e la grande star. All’inizio gironzolai un po’ per casa
con Helena, tipo: «Carino, carino, ma che bello», ero gentile e via dicendo. Ma poi, al momento del caffè, non potei più trattenermi.
«Noi siamo qui perché voi abitate nella nostra casa» dissi, e allora l’uomo scoppiò a
ridere, della serie: «Ah ah, molto divertente!». Era una battuta, in un certo senso, ma io continuai: «Rideteci pure, però io dico sul serio. Voglio acquistare la casa, farò in modo che siate
soddisfatti, ma dobbiamo averla». Allora lui ribadì: «Non è in vendita, a nessuna condizione».
Era molto deciso, o piuttosto fingeva di esserlo, ma io capii. Era come una trattativa di
mercato. Era un gioco. La casa aveva un prezzo anche per lui, glielo si leggeva negli occhi. Io
spiegai la mia idea: «Non voglio occuparmi di cose che non conosco. Io faccio il calciatore,
come negoziatore non valgo niente. Vi manderò una persona a trattare».
Non Mino, se era a lui che pensavate. Non c’era bisogno di esagerare. Mandai un avvocato, e non crediate che io sia un pazzo che butta via i suoi soldi senza pensarci. Sono un tattico. Sono cauto. Non gli dissi: «Vai e prendila a qualsiasi prezzo», ma: «Vedi di averla al
minor prezzo possibile», e ce ne restammo seduti lì a casa, in attesa. Era un piccolo dramma
familiare. Finalmente arrivò la telefonata: «Vendono per trenta». Ok, non c’era niente da discutere, allora compravamo per trenta. Francamente, per quella cifra, credo che la coppia se
ne andò di corsa. Io l’avrei fatto. Insomma, non è che la prendemmo gratis...
Ma quello fu soltanto l’inizio, rinnovammo tutto come dei pazzi, senza risparmiare su niente. A un certo punto saltò fuori che non potevamo alzare il muro di cinta perché il Comune
non dava il permesso. Perciò che cosa potevamo fare? Noi volevamo un muro più alto, a
prova di stalker e di giornalisti. Così ci abbassammo noi, o meglio, abbassammo il terreno.
Ci furono un sacco di altri lavori del genere, ci davamo dentro, e non erano sempre interventi ben visti dai vicini. In quella zona di solito le case passano di padre in figlio: lì c’è solo
l’alta borghesia di Malmö, e non una sola persona parla come me. Nessuno dice «La miglior
baracca del quartiere» riferendosi a casa propria. Dicono tutti «Distinta dimora», «Magnifica e
sofisticata» e cose del genere. Ma io volevo dimostrare che un ragazzo come me poteva arrivare lì con i propri mezzi. Ok, non mi aspettavo gli applausi, ma neppure commenti tipo:
«Diamine, devono proprio fare questo e questo e quest’altro? Non smettono un attimo». Continuavano a lamentarsi. Ma noi ce ne fregammo e ristrutturammo quella casa esattamente
come la volevamo.
Fu Helena a occuparsene. Fu estremamente meticolosa e si fece aiutare anche da diversi
musei e non so più da chi altro. Io non ero interessato allo stesso modo. Non ho la sua stessa
sensibilità per questo genere di cose, ma un contributo lo diedi anch’io: nell’ingresso, sulla
tappezzeria rossa, appesi una foto gigantesca di due piedi sporchi, e quando i miei amici di
Rosengård venivano a trovarmi commentavano tutti: «Forte, che bomba, gran bella
baracca!».
«Ma che razza di piedi schifosi sono quelli? Come puoi appendere al muro una simile
porcheria?»
«Idioti» rispondevo, «sono quei piedi che hanno pagato tutto quanto.»
* L’identità digitale degli utenti Xbox.
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Ricordo quando lo vidi all’allenamento: fu veramente bello, devo ammetterlo. Ebbi la
sensazione che qualcosa negli anni era rimasto uguale, nonostante tutte le squadre che
avevo cambiato e i problemi che avevo dovuto superare. Ma non mi venne in mente niente di
meglio che gridare: «Allora, come la mettiamo, mi segui come un’ombra?».
«Ovvio. Qualcuno deve pur fare in modo che tu abbia sempre dei cornflakes nel frigo.»
«Ma questa volta mi rifiuto di dormire in terra su un materasso.»
«Se fai il bravo, troveremo qualcosa di meglio.»
Era bello aver ritrovato Maxwell all’Inter. Lui era arrivato qualche mese prima di me, ma si
era fatto male al ginocchio quasi subito e aveva dovuto fare riabilitazione, per cui passò qualche tempo prima che lo vedessi. Non credo di conoscere un giocatore più elegante. È il classico terzino brasiliano molto offensivo che osa la giocata anche vicino alla propria area, e
spesso è un piacere guardarlo. Eppure – non ti offendere, amico – certe volte mi meraviglio
che sia diventato tanto bravo: ragazzi così buoni e gentili di solito faticano a farsi valere nel
calcio. Devi essere duro e grintoso, e io sentivo di esserlo diventato davvero dopo gli anni alla
Juve: mai come il primo anno all’Inter avevo contribuito alla vittoria di un titolo non solo in
campo, ma attraverso il mio atteggiamento nello spogliatoio.
Quella stronzata dei brasiliani in un angolo e degli argentini nell’altro era sparita, e ogni
mese che passava la mia posizione nel club si faceva più forte. Moratti ovviamente se ne
rendeva conto. Mi trattava bene e faceva in modo che anche la mia famiglia fosse contenta.
Anche perché in campo continuavo a brillare, e ormai eravamo tornati definitivamente ai vertici del campionato. I cupi anni Novanta in cui l’Inter non era mai riuscita ad aprire un ciclo vincente erano ormai spazzati via. Le cose erano andate come avevo sperato, con il mio arrivo
era decollata la squadra intera, e io e Mino avevamo capito di essere in un’ottima posizione
per negoziare il rinnovo del contratto.
Era ora di ridiscutere il contratto, e in questo nessuno è più bravo di Mino. Con Moratti usò
tutti i suoi trucchi. Non ho idea di che cosa si dissero, non partecipavo mai alle trattative, ma
allora girava voce che il Real Madrid fosse interessato a me e Mino ne approfittò alla grande
per fare pressione su Moratti. Ma, detto sinceramente, non occorreva neppure così tanto: gli
equilibri con il tempo erano un po’ cambiati. Quando avevo firmato con l’Inter volevo disperatamente andarmene dalla Juventus, e Moratti ne aveva approfittato, è ovvio: quando si
negozia si prendono sempre di mira i punti deboli dell’avversario, fa parte del gioco, e infatti
nel corso delle trattative lui aveva abbassato l’offerta sul mio stipendio quattro volte. Ma
l’avrebbe pagata. Su questo io e Mino eravamo stati d’accordo fin da subito, e adesso Moratti
chiaramente non era più altrettanto forte. Considerata la mia importanza per la squadra, non
poteva permettersi di perdermi, perciò non passò molto tempo prima che dicesse: «Diamo al
ragazzo quello che vuole».
Ottenni un contratto coi fiocchi. Più avanti, quando la notizia cominciò a trapelare, si disse
perfino che ero il giocatore più pagato al mondo. All’inizio nessuno sapeva niente (una delle
condizioni di Moratti era che l’accordo rimanesse segreto per sei, sette mesi), ma col tempo il
caso scoppiò. Ovviamente me lo aspettavo, e non me ne fregava niente, se non per l’ulteriore
fama che avrei dovuto portarmi dietro. Chiaro, se tutti sanno che sei il giocatore più pagato al
mondo ti considerano diversamente. Come si dice? Piove sempre sul bagnato. Quando raggiungi la cima, continui a salire. È semplice psicologia. Tutti sono interessati al numero uno. È
così che funziona, e anche se io personalmente credo che nessuno meriti così tanti soldi,
conoscevo bene il mio valore sul mercato.
Certo, a uno stipendio del genere seguono un sacco di altre cose, maggiore pressione ad
esempio. Devi portare i risultati, essere sempre decisivo in campo, fare la differenza. Ma
anche quello era ok. Mi piaceva essere sotto pressione. Mi dava gli stimoli che volevo, e a
metà stagione avevo già fatto dieci gol. C’era una vera Zlatanmania intorno a me, era tutto un
«Ibra, Ibra» e a febbraio avevamo lo scudetto in tasca. Nessuno sembrava in grado di fermarci. Poi cominciai ad avere dei problemi al ginocchio. Cercai di ignorarli, di dire «Avanti, di
sicuro non sarà niente», ma il tempo passava e non andavano via, e ogni volta era peggio.
Intanto avevamo vinto il nostro girone nella prima fase della Champions e le prospettive
sembravano finalmente promettenti anche lì. Negli ottavi incontrammo il Liverpool ad Anfield
per il match di andata, e io sentivo che l’infortunio mi limitava. Facemmo una partita disastrosa e perdemmo due a zero. Stavo veramente male, e a quel punto non potevo più rimandare: mi feci visitare e la diagnosi parlò di infiammazione al tendine rotuleo.
Saltai l’incontro successivo con la Sampdoria. “Poco male” pensai, “la Sampdoria non è il
Liverpool, i ragazzi se la caveranno senza di me.”
Ma a Genova il nostro gioco non decollò, fu uno dei primi segnali che qualcosa cominciava ad andare storto. La Samp passò in vantaggio con Cassano e solo un bel colpo di testa
di Hernán Crespo ci salvò dalla sconfitta. Finì uno a uno. Con me fermo ai box, non so se dipendeva da quello o cosa, la nostra scioltezza scomparve. Qualche giorno più tardi pareggiammo uno a uno contro la Roma e il 2 marzo perdemmo uno a zero a Napoli. C’era preoccupazione. Dovevo riprendere a giocare. Il nostro vantaggio in classifica sulla Roma si stava riducendo e decidemmo di forzare i tempi del mio recupero. Già l’8 marzo tornai in campo a
San Siro contro la Reggina.
La Reggina occupava la penultima posizione in classifica, ancora oggi mi chiedo se fosse
il caso di farmi giocare. La Reggina non sarebbe dovuta essere un problema e io avevo
ancora dolore, dovetti fare un’infiltrazione per sopportarlo. Ma nella squadra si era diffuso il
nervosismo. La fiducia nelle nostre capacità era crollata durante la mia assenza e, settimana
dopo settimana, Roma e Milan si erano avvicinati in classifica, perciò immagino che Mancini
non avesse voluto rischiare. Da macchina che macinava vittorie, eravamo diventati una
squadra che aveva paura persino delle ultime della classe, e io non potevo dire di no, soprattutto dopo che il medico, pur sotto pressione, aveva dato l’ok.
In un certo senso, era come se quel ginocchio non mi appartenesse. La dirigenza comandava sulle mie gambe, per così dire. Un calciatore del mio livello è un po’ come un’arancia: il
club lo spreme fino all’ultima goccia, e poi viene l’ora di venderlo. Può suonare spietato, ma è
così. Fa parte del gioco. Noi apparteniamo al club e non siamo lì per preoccuparci della nostra salute ma per vincere. Certe volte nemmeno i medici sanno da che parte stare: devono
vedere i giocatori come pazienti, oppure come prodotti? In fondo non lavorano mica
all’ambulatorio pubblico, loro sono parte del club, e poi tu hai sempre l’ultima parola. Puoi rifiutare. Puoi perfino gridare: «No, impossibile, mi fa troppo male». Nessuno conosce il tuo
corpo meglio di te. Ma la pressione è forte e il più delle volte vuoi giocare e sbattertene delle
conseguenze. Però significa correre dei rischi. Magari puoi essere utile oggi, ma rovinare le
cose sia per te sia per il club in prospettiva. Sono interrogativi che sorgono di continuo. Che
cosa fare? A chi dare ascolto? Ai medici che, nonostante tutto, sono i più prudenti, oppure
all’allenatore che ti vuole in campo e che spesso pensa solo alla partita che viene, tipo del
domani chi se ne frega, cominciamo a vincere oggi?
Comunque sia giocai contro la Reggina e Mancini ebbe ragione – almeno sul breve termine. In quella partita segnai la mia quindicesima rete e portai la squadra alla vittoria, cosa
che rasserenò l’ambiente. Ma poi il club pretese che giocassi anche la partita successiva e
quella dopo ancora, e io mi adattai. Che altro potevo fare? Mi imbottivano sempre di più di
iniezioni antidolorifiche e di Voltaren, e tutto il tempo sentivo mormorare o intuivo i discorsi nei
corridoi: «Dobbiamo assolutamente avere Ibra in campo. Non possiamo permetterci di lasciarlo fuori». In realtà non voglio prendermela con nessuno: non ero un paziente ma il giocatore che aveva guidato la squadra fin dal primo giorno all’Inter. Fu deciso che scendessi in
campo anche nella partita di ritorno di Champions League contro il Liverpool, un appuntamento fondamentale sia per me sia per la squadra.
La Champions per me era diventata un po’ una fissazione. Volevo vincere quel dannato
trofeo, ma, dal momento che avevamo perso per due a zero all’andata, eravamo costretti a
cercare l’impresa in casa per qualificarci. Ce la mettevamo tutta ma non trovavamo sbocchi.
Io non ero certo al massimo della forma, tutt’altro. In più, al quindicesimo del secondo tempo,
venne espulso Burdisso.
Era un guaio. Fummo costretti a lottare ancor più duramente. Non servì, e io mi rendevo
sempre più conto che non potevo andare avanti in quel modo. Alla fine il dolore mi costrinse a
uscire e non lo dimenticherò mai.
Quando sei infortunato ti domandi tutto il tempo: “Devo giocare oppure uscire, e quanto
sono pronto a sacrificare per questa partita?”. Non perché tu lo sappia, saperlo non è mai
possibile. È come una roulette, devi rischiare e sperare di non perdere tutto, un’intera stagione o chissà cosa. Ma io ero rimasto in campo a lungo perché era l’allenatore a volerlo, e
perché credevo di poter fare la differenza in squadra. Ma l’unica cosa che successe fu che il
mio infortunio peggiorò, e che perdemmo per uno a zero. Avevo rischiato la mia salute senza
ottenere niente. Io e la stampa inglese non siamo mai andati molto d’accordo, e il giorno dopo
mi chiamarono «Primadonna lamentosa» definendomi «Il calciatore più sopravvalutato
d’Europa», e normalmente da queste cose sono solo pungolato. Come quando i genitori dei
miei compagni avevano firmato per mandarmi via. Io mi impegno ancora di più e gliela faccio
vedere, a quegli stronzi. Ma a quel punto non avevo nulla da cui partire per costruire la mia
vendetta. Il ginocchio mi faceva male e il morale nella squadra era a terra. Tutto era improvvisamente cambiato, la vecchia armonia e l’ottimismo erano scomparsi.
«Qualcosa non va all’Inter» scrivevano i giornali, e Roberto Mancini nel dopopartita con il
Liverpool dichiarò pure che avrebbe lasciato il club. Se ne sarebbe andato alla fine della stagione, disse. Qualche settimana dopo ritrattò, ma la fiducia nei suoi confronti cominciò a calare. Che cosa pretendeva? Come allenatore non puoi tentennare a quel modo: non rimango,
rimango. Non è serio.
Intanto continuavamo a perdere punti, il nostro vantaggio in vetta alla classifica continuava ad assottigliarsi. Facemmo solo uno a uno contro il Genoa e perdemmo in casa contro la Juventus. Quella sera c’ero anch’io in campo. Non ero stato capace di dire di no, ma
dopo soffrivo così tanto che quasi non riuscivo a camminare, e ricordo che quando entrai
negli spogliatoi avrei voluto tirar giù tutto: imprecavo contro Mancini ed ero completamente
fuori di me. Basta, dovevo riposare e fare riabilitazione. Non avrebbero più potuto contare su
di me, qualsiasi dramma ci fosse in campionato. Non avevo scelta, dovevo fermarmi. Ma credetemi, non era affatto facile. Era uno schifo.
Tu te ne stai seduto lì. Gli altri vanno fuori ad allenarsi. Ti trascini in palestra e dalle
finestre vedi i tuoi compagni di squadra sul campo. È come vedere un film nel quale dovresti
esserci anche tu, ma non puoi. È una cosa che fa male, una sensazione che è peggiore
dell’infortunio stesso, e così decisi di allontanarmi dai casini del club. Me ne andai in Svezia.
Era primavera, tutto intorno era bellissimo ma io non riuscivo a goderne, neanche un briciolo.
Avevo in testa solo un pensiero ed era quello di tornare di nuovo in forma: così mi feci visitare
dal medico della Nazionale e ricordo che lui si indignò. Come avevo potuto giocare così a
lungo andando avanti a infiltrazioni e iniezioni? Mancavano solo due mesi agli Europei in
Svizzera e Austria, adesso anche quel torneo sembrava a rischio.
Avevo preteso troppo dal mio fisico e ora stavo malissimo e dovevo fare di tutto per ritornare il prima possibile in buone condizioni. Cominciava una corsa contro il tempo. Telefonai a
Rickard Dahan, il fisioterapista del Malmö: ci conoscevamo dai tempi in cui giocavo lì, e
cominciammo a lavorare insieme duramente. Inoltre mi fu consigliato un medico, un certo
professore a Umeå. Andai da lui per un ciclo di terapie e cominciai a migliorare, ma ancora ce
ne sarebbe voluta per tornare a giocare.
La situazione era disperata, io ero incazzato come non mai, e in più in campionato l’Inter
continuava a non girare. Contro il Siena i ragazzi avrebbero potuto mettere al sicuro lo scudetto, una vittoria e via. Patrick Vieira segnò l’uno a zero e i tifosi sugli spalti cominciarono a
ballare e cantare, sembrava fatta, nonostante tutto. Balotelli riuscì a riportarci in vantaggio
dopo il momentaneo pareggio di Maccarone e a quel punto, davvero, non poteva più andare
storta, non a San Siro, contro una squadra come il Siena.
Ma ci fu un nuovo pareggio: due a due. La tensione a quel punto schizzò alle stelle, mancavano solo dieci minuti alla fine dell’incontro. Poi Materazzi fu atterrato in area e l’arbitro fischi il rigore. Il pubblico cominciò a tremare: non si poteva sbagliare, ci stavamo giocando la
stagione. In mia assenza, il primo rigorista era Julio Cruz... Ma Materazzi, si sa, in campo è
un tipo pieno di temperamento e autorità, e disse tipo: «Non me ne frega un cazzo, lo tiro io il
rigore». Immagino che molti si sentirono comunque tranquilli: Materazzi aveva trentaquattro
anni ed esperienza da vendere, aveva perfino deciso la finale degli ultimi Mondiali con un
rigore. Ma quella volta tirò proprio male, Manninger parò e su San Siro scese il gelo, prima
che i tifosi iniziassero a contestarci. Tutto sembrava perduto.
Indubbiamente, se c’era qualcuno in grado di gestire una cosa del genere quello era Materazzi. Lui è come me. L’odio lo stimola, lo spinge a cercare sempre la rivincita. Ma non
dev’essere stato facile.
Gli ultras erano furibondi e i giornali scatenati, e nessuno nel club stava bene. Mentre noi
avevamo perso la nostra occasione, la Roma aveva battuto l’Atalanta e ridotto ulteriormente
le distanze: adesso, a una giornata dalla fine, era a un solo punto da noi.
Nell’aria ora c’erano un sacco di timori. Le sensazioni non erano buone. «Che cosa è successo all’Inter?» «Perché la squadra non funziona più?» Dappertutto si sentivano dire le
stesse cose. Il fatto era che se noi avessimo perso o pareggiato contro il Parma e la Roma
avesse battuto il Catania, che era sul fondo della classifica, saremmo crollati sulla linea del
traguardo, perdendo tutto quello che avevamo creduto di avere già in tasca.
Io intanto ero tornato a Milano, ancora non ero del tutto guarito. Ma presto riattaccò la solita solfa, più insistente che mai: «Ibra deve giocare, dobbiamo assolutamente averlo in
squadra». La pressione su di me diventò assurda, non avevo mai sperimentato niente di
simile. Ero stato via in riabilitazione sei settimane e mi ero allenato pochissimo, non andavo in
campo dal 29 marzo. Eravamo a metà maggio e tutti sapevano che non potevo certo essere
in forma.
Nessuno ci diede peso, ma non me la presi. Ero considerato il giocatore più importante
dell’Inter e il calcio in Italia è più importante della vita stessa, specialmente in situazioni di
questo tipo. Erano anni che il campionato non veniva assegnato all’ultima giornata; in più lo
scontro calcistico metteva Milano contro Roma, le due maggiori città, e la gente quasi non
parlava d’altro che della sfida scudetto. In televisione c’erano programmi sportivi praticamente
a ciclo continuo, e il mio nome era sulla bocca di tutti. «Ibra di qua», «Ibra di là», «C’è qualche possibilità che giochi?», «Ce la farà?», «Sarà in forma, nonostante l’assenza?» Questo
non lo sapeva nessuno. Il match si avvicinava e ad Appiano i tifosi gridavano: «Ibra, pensaci
tu!».
Davvero non era facile pensare alla mia salute e agli Europei che mi aspettavano. Il match
contro il Parma mi martellava continuamente la testa, e ogni volta che uscivo mi vedevo sulle
prime pagine con appelli strazianti del genere: «Fallo per la squadra e per la città!».
Poi Mancini venne da me. Mancavano solo pochi giorni alla partita. Lui è un po’ un
fighetto, sapete? Gli piacciono i completi cuciti su misura e i fazzolettini da tasca e tutto
questo genere di cose. Io non avevo mai avuto nulla contro di lui, ma la sua posizione
all’interno del club era peggiorata molto dopo quell’altalenare a proposito del futuro. Lo ripeto:
o te ne vai oppure non te ne vai, ma non puoi dire: voglio andare via, e poi cambiare idea. La
cosa aveva dato fastidio a molti: c’era bisogno di stabilità nel club, non di incertezza. Ma adesso Mancini stava lottando per riacquistare la sua autorità. Era costretto a farlo. Il giorno più
importante della sua vita di allenatore si stava avvicinando e niente doveva andare storto.
«Sì?» dissi.
«So che non sei ancora completamente guarito dal tuo infortunio.»
«No.»
«Ma, detto francamente, non mi interessa» continuò.
«Immagino che tu abbia ragione.»
«Ottimo. Ho intenzione di averti a disposizione contro il Parma, a prescindere da quello
che dici. O giochi dall’inizio, o vieni in panchina. Ma devi esserci anche tu. Dobbiamo portare
a casa questa vittoria.»
«Lo so. E voglio anche giocare.»
Lo volevo più di qualsiasi altra cosa. Non potevo mancare nella partita che avrebbe deciso
lo scudetto, sarebbe stato un rimorso che rischiavo di portarmi dietro per tutta la vita. Piuttosto soffrire per settimane e mesi, ma non perdersi una sfida del genere. Però era vero che
non sapevo niente del mio stato di forma. Non sapevo come avrebbe reagito il mio ginocchio
in partita, né se avrei osato darci dentro fino in fondo. Forse Mancini intuì la mia esitazione, e
non voleva che il suo messaggio fosse frainteso.
Mandò da me anche Mihajlovic. Vi ricordate di lui, no? Ci eravamo scornati sul campo
quando giocavo nella Juve: gli avevo dato una testata, o accennato a dargliela, e lui me ne
aveva dette di tutti i colori. Ma tutto questo era il passato. Quello che succede in campo rimane sul campo, e spesso sono diventato molto amico proprio con i tipi con cui mi sono scontrato più duramente, forse perché ci assomigliamo, che ne so. Mi trovo bene con i combattenti
e Mihajlovic lo era. Aveva sempre fatto di tutto per vincere, sia da giocatore sia da secondo di
Mancini, e, in tutta onestà, pochi mi hanno insegnato tanto su come si batte una punizione
come Mihajlovic. È un bravo ragazzo. Grande, grosso, scompigliato e anche molto diretto.
«Ibra» disse.
«So cosa vuoi» feci io.
«Ok, ma ascolta una cosa. Non c’è bisogno che ti alleni. Non devi fare proprio niente. Ma
devi esserci contro il Parma, e devi aiutarci a vincere.»
«Ci proverò» promisi.
«Non devi provarci. Devi riuscirci» replicò lui prima di lasciare la stanza.
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Certe volte le cose rimangono impresse a fuoco. Ci sono ricordi nei club che possono
avvelenare, come tutti gli anni Novanta per l’Inter. Nonostante Ronaldo, la squadra non vinse
mai il campionato. Crollava sempre sul più bello, come nella stagione 1997-98.
A quel tempo io avevo sedici, diciassette anni e non sapevo niente di Thomas Ravelli e
compagni, né granché della Svezia in generale. Però sapevo tutto dell’Inter. E di Ronaldo.
Studiavo le sue finte e la sua accelerazione. Dalle mie parti eravamo in molti a farlo, come ho
detto, ma nessuno come me. Io non mi perdevo neanche un dettaglio. Senza di lui sarei stato
un giocatore diverso, ne sono convinto, e non sono certo un tipo che si lascia impressionare
facilmente. Ho incontrato tutte le persone possibili e immaginabili, una volta sono anche stato
seduto accanto al re di Svezia a una cena a Barcellona e ok, forse ho pensato: “Aiuto, sto
tenendo la forchetta in modo sbagliato?”, oppure ho detto “tu” invece di “vostra maestà”. Ma
io sono io. Mi butto e basta. Ma con Ronaldo no. C’è un filmato, su YouTube, del derby che
giocammo contro quando lui andò al Milan: ci sono io, a centrocampo per il fischio d’inizio,
che mastico una cicca e non gli stacco gli occhi di dosso, come se non riuscissi a capacitarmi
di essere sullo stesso campo con lui. C’era una tale sicurezza, in lui. Una tale visione di
gioco, una qualità in ogni singolo movimento...
In quella famosa stagione 1997-98 lui e l’Inter furono eccezionali, almeno per gran parte
della stagione. Vinsero la Coppa Uefa e Ronaldo fece venticinque gol e venne eletto Fifa
World Player per il secondo anno consecutivo. L’Inter era anche stata lungamente in testa al
campionato, eppure perse il primato in primavera, proprio come era capitato a noi in vista
della partita contro il Parma.
L’Inter aveva avuto sfortuna, c’erano stati un sacco di casini, ma il 26 aprile 1998 si
doveva giocare il big match al Delle Alpi contro la Juventus. Le due squadre erano separate
da un solo punto. Era una vera e propria finale di campionato e nell’aria c’era una tensione incredibile. Intorno alla mezz’ora del secondo tempo Ronaldo prese palla e si fece largo in area
con un dribbling, prima di entrare in contatto con Mark Iuliano e finire a terra.
La panchina dell’Inter scattò in piedi ed entrò praticamente in campo, tutti erano come impazziti. Lo stadio ribolliva.
Ma l’arbitro non fischiò fallo e la partita si concluse uno a zero per la Juve, che di lì a poco
vinse anche lo scudetto. Quel 26 aprile resta uno dei giorni più neri della storia dell’Inter. Nel
club se ne parlava ancora, chi c’era quel giorno non poteva dimenticare.
Nel dopopartita di Torino, Ronaldo dichiarò: «Possono punirmi, possono multarmi, ma a
questo punto non si può stare zitti. È una vergogna, e tutto il mondo lo deve sapere». Ci furono rabbia e proteste in tutta Italia e voci sul fatto che quell’arbitro fosse stato comprato, o addirittura che tutti gli arbitri erano corrotti: c’erano stati troppi episodi sfavorevoli all’Inter in quel
finale di stagione. Anche nella stagione 2001-02 l’Inter sembrava avere in mano lo scudetto,
ma lo perse proprio all’ultima giornata contro la Lazio, il 5 maggio.
Nessuno voleva tirar fuori quei brutti ricordi, ma molti ripensavano alla storia recente in
vista del match contro il Parma e c’erano brutti presentimenti. Nell’aria aleggiava una
sensazione di déjà-vu, e poi si faceva ancora fatica a digerire gli strascichi del famoso rigore
di Materazzi contro il Siena. I ragazzi avevano avuto più d’un’occasione per chiudere il campionato, ma ogni volta avevano fallito. Piccole cose, sfortuna, errori, era successo di tutto e ok,
adesso eravamo carichi per Parma e pronti a dare battaglia, ma di per sé anche questo poteva essere un problema: la pressione rischiava di diventare insostenibile. La società impose
il silenzio stampa a tutti, Mancini compreso. L’unico che poteva parlare con i giornalisti era
Moratti.
Il presidente venne in albergo la sera prima del match e ai giornalisti non disse nient’altro
che: «Augurateci buona fortuna. Ce n’è bisogno», e le cose non erano certo facilitate dal fatto
che il Parma era obbligato a batterci per restare in Serie A. Non avremmo ottenuto aiuti da
nessuno, neppure dai nostri tifosi: in settimana, infatti, era arrivato lo stop alla trasferta. Dato
che, per ragioni di sicurezza, i tifosi della Roma non avevano avuto il permesso di seguire la
squadra a Catania, allora nemmeno noi avremmo potuto avere i nostri lì a Parma. Poi alla
fine riuscirono comunque a venire, credo. Era tutto un tira e molla. Ogni minimo dettaglio
faceva nascere discussioni e ricordo che, per esempio, Mancini diede di matto quando sentì
che ad arbitrare sarebbe stato Gianluca Rocchi.
«Quel bastardo ce ne fa sempre qualcuna» commentò, e il cielo era pieno di nuvole nere.
Cominciai la partita in panchina, Mancini scelse Balotelli e Cruz. «Ma tieniti pronto» mi
disse, «tieniti pronto a entrare.» Eravamo tutti seduti sotto una piccola tettoia, e sentivamo cadere le prime gocce di pioggia. Poi le gocce diventarono un nubifragio, il match ebbe inizio e
lo stadio si trasformò in una bolgia. Noi partimmo bene, spingevamo parecchio: Cruz e
Maicon ebbero delle ottime occasioni, ma non riuscirono a concretizzarle. In panchina, la tensione si tagliava col coltello. Non staccavamo gli occhi dalla palla un secondo e gridavamo e
imprecavamo e speravamo e tremavamo, ma sbirciavamo anche il tabellone luminoso dello
stadio per seguire gli aggiornamenti sulla partita della Roma. Zero a zero anche lì, ok, eravamo ancora noi in testa. Lo scudetto era ancora nostro.
Ma poi accadde qualcosa e tutta la panchina ammutolì. Purtroppo immaginavo di cosa si
trattasse. Alzai lo sguardo e sì, la Roma aveva segnato l’uno a zero contro il Catania. Eravamo scivolati al secondo posto. Non poteva essere vero, e io guardai tutti quelli che erano seduti in panchina, il fisioterapista, il medico, il magazziniere, tutti quelli che c’erano quel pomeriggio del ’98 a Torino e anche il 5 maggio, e che ricordavano tutto: erano sbiancati. Sta
per accadere di nuovo? La vecchia maledizione è tornata?
Intanto pioveva sempre più forte e il pubblico di casa cantava di gioia. Il risultato a loro andava bene: se il Catania avesse perso, il Parma sarebbe rimasto in Serie A. Ma per noi era
come la morte, e i miei compagni in campo erano sempre più tesi, glielo leggevo in faccia.
Sembravano portare tutti una croce sulle spalle, e non è che io fossi sereno, ma di scudetti ne
avevo già vinti tre e non sentivo il peso di quella famosa vecchia maledizione. Ogni minuto
che passava mi sentivo più concentrato e carico. Era come se avessi in corpo un fuoco.
Dovevo entrare e ribaltare la situazione, non importava quanto stessi male. All’inizio del
secondo tempo, sullo zero a zero e con lo scudetto passato virtualmente in mano alla Roma,
ricevetti l’ordine di scaldarmi. Lo ricordo come se fosse adesso. Mi guardavano tutti: Mancini,
Mihajlovic, il magazziniere, il massaggiatore, tutti, e io glielo leggevo in faccia: speravano in
me. Si vedeva nei loro occhi. Mi fissavano imploranti, ed era impossibile non sentire il peso di
quella responsabilità.
«Pensaci tu, Ibra» dicevano, uno dopo l’altro.
«Ce la farò, ce la farò!»
Entrai al sesto minuto. L’erba era fradicia. Correre era faticoso, e io non ero perfettamente
allenato. La pressione era talmente grande che mi veniva quasi da ridere, ma non ero mai
stato tanto carico in vita mia. Ricordo che provai quasi subito un tiro da fuori, che finì largo
alla destra del portiere.
Qualche minuto più tardi riprovai da posizione simile, ancora niente. Ma al sessantaduesimo ripartii per la terza volta. Ricevetti palla da Stankovic, superai di slancio un avversario facendo scorrere la palla e la portai avanti ancora un paio di passi, tra gli schizzi dell’erba fradicia. Poi tirai. Non un missile dei miei, ma un rasoterra che sfiorò il palo sinistro e finì in rete.
Invece di esultare mi fermai solo lì ad aspettare, e dalla panchina e dal campo arrivarono tutti,
per primo Vieira, mi pare, poi Balotelli e poi tutta la banda, tutti, dal primo all’ultimo, tutti quelli
che mi avevano guardato con gli occhi imploranti. Il terrore si era allentato. Dejan Stankovic si
gettò in ginocchio sull’erba bagnata, sembrava stesse pregando e ringraziando gli dei. C’era
l’euforia più totale e su in alto, in tribuna, anche il presidente Moratti esultava, quasi incontenibile nel suo posto d’onore.
Ci eravamo tolti un peso. Le facce di tutti avevano riacquistato colore. Più che aver fatto
gol, era come se li avessi salvati dall’annegamento. Guardai verso il pubblico: dietro i fischi e i
soliti gestacci dei tifosi di casa si faceva largo l’esultanza dei nostri sostenitori, e io feci il
gesto della mano all’orecchio. Lo stadio si accese ancora di più, e alla fine, quando il grosso
del casino si calmò, riprendemmo a giocare.
La partita non era finita: un gol del Parma e sarebbe stato tutto da rifare. Eravamo nervosi
ma concentrati. Poi, al settantottesimo, Maicon partì sulla destra, dribblò un paio di avversari
e mise in mezzo. Io aspettavo la palla in area, calciai al volo di sinistro e potete immaginare
quello che accadde...
Ero stato lontano dal campo due mesi e i giornalisti ne avevano scritte di tutti i colori su di
me e sulla squadra. Era stato detto che l’Inter aveva perso l’istinto vincente e che tutto ci
stava sfuggendo di mano e che io non ero un vero campione, non come Totti e Del Piero, e
perfino che non ero decisivo quando era necessario. Ma gliel’avevo fatta vedere: mi lasciai
scivolare in ginocchio nell’erba bagnata fradicia ad aspettare di essere nuovamente assalito
da tutti. Era grandioso. Pochi minuti dopo l’arbitro fischiò la fine e... be’, lo scudetto era nostro.
L’Inter non vinceva il titolo da diciassette anni. Il club aveva vissuto un periodo lungo e
triste, pieno di sofferenze e di sfortuna. Ma poi ero arrivato io e avevamo vinto due scudetti in
due anni. C’era un casino pazzesco intorno a noi. La gente si riversò in campo, ci strappò le
maglie, e negli spogliatoi tutti urlavano di gioia e saltavano. Ma poi si fece silenzio. Entrò
Mancini, e a dire il vero non era mai stato proprio così amato nello spogliatoio, specialmente
dopo che aveva fallito in Champions e che aveva tentennato sul suo futuro nel club. Ma
aveva vinto il campionato e i giocatori si fecero avanti, uno a uno, con aria un po’ solenne, e
gli stringevano la mano e dicevano: «Molte grazie», tipo: «Ci hai tirato fuori dai casini». Poi
Mancini si avvicinò a me, ancora esaltato per la vittoria e per tutte le felicitazioni, però io non
gli feci alcun ringraziamento. Anzi. Io gli dissi: «Prego» e allora tutti scoppiarono a ridere,
dannato Ibra, e dopo, quando parlai con i giornalisti, molti di loro mi domandarono: «A chi
dedichi questa vittoria?».
«A voi» risposi, «ai media, a tutti quelli che hanno dubitato di me e criticato me e l’Inter.»
È così che funziono. Io penso sempre alla rivincita. Ce l’ho dentro da Rosengård, è quello
che mi spinge sempre avanti. E poi non dimentico ciò che disse Moratti: «Tutta l’Italia era
contro di noi, ma Zlatan Ibrahimovi è stato il simbolo della nostra lotta».
Al termine di quella stagione fui eletto miglior giocatore della Serie A. Non molto tempo
dopo venne fuori quella cosa che forse ero il calciatore più pagato del mondo e allora si
scatenò l’inferno. Non potevo quasi uscire di casa, ovunque andassi si creava casino. Tutti
naturalmente credevano che io avessi negoziato un nuovo contratto dopo la partita con il
Parma, invece l’accordo era già stato fatto sette, otto mesi prima, e io pensai: “Be’, a questo
punto non penso proprio che Moratti se ne sia pentito”. Le nubi si erano diradate, e io avevo
avuto una nuova rivincita. Ma dei segnali inquietanti c’erano ancora, me n’ero accorto immediatamente dopo la partita con il Parma. Il ginocchio si era di nuovo gonfiato. Non ero mai
guarito perfettamente, e credo che per molti fu uno shock quando fui costretto a rinunciare
alla finale di Coppa Italia, un vero peccato. Avevamo l’occasione di fare la doppietta e invece,
senza di me, la Roma riuscì a portarsi a casa almeno la Coppa.
Intanto gli Europei si stavano avvicinando e io non sapevo dire se il ginocchio avrebbe
tenuto. Mi ero completamente spompato, in quella stagione, e adesso avrei dovuto pagarne il
prezzo.
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20
Non uscivo più molto spesso, rimanevo a casa con la mia famiglia e in quel periodo ero diventato papà per la seconda volta: adesso c’era anche il piccolo Vincent. Pure lui era nato
con grande clamore dei media, però era il secondo arrivato e la presero con un po’ più di
calma.
Dico, due bambini! Non era uno scherzo. Cominciavo a capire come se la fosse passata
mamma durante la mia infanzia, con tutti quei figli e il lavoro come donna delle pulizie, anche
se per il resto non c’erano parallelismi, ovvio. Io ed Helena ce la cavavamo molto bene, decisamente bene, ma almeno potevo avere un’idea di come doveva essere stato per mamma.
Dopo il dramma di Maxi, tra l’altro, ero diventato piuttosto paranoico: che cos’è questo arrossamento? Perché Vincent ha il respiro così pesante? Perché la pancia è così tesa? Tutto
questo genere di cose.
Dovemmo scegliere una nuova babysitter: quella che avevamo prima aveva conosciuto
un ragazzo mentre era con noi a Malmö, in estate, e si era licenziata, mandandoci un po’ nel
panico. Avevamo bisogno di un’altra persona e volevamo una svedese, per via dei bambini,
così Helena telefonò alla sezione esteri dell’ufficio di collocamento per discutere la cosa.
Come dovevamo fare? Non potevamo mica mettere un’inserzione, “Zlatan e Helena cercano
babysitter”... Difficilmente avrebbe attirato le persone giuste.
Helena decise di fingere che fossimo degli ambasciatori o qualcosa del genere. “Famiglia
svedese di diplomatici cerca babysitter”, scrisse in un annuncio, e ricevemmo oltre trecento
risposte. Helena le lesse tutte. Era molto minuziosa, come sempre, e immagino che avesse
messo in conto che la scelta non sarebbe stata facile. Invece ci fu una ragazza che le piacque subito: veniva da un paesino della Dalecarlia, e solo quel fatto era già un punto a suo
favore. Helena avrebbe infatti voluto qualcuno che veniva dalla campagna, come lei, in più
quella ragazza aveva un diploma di maestra d’asilo, conosceva le lingue e le piaceva tenersi
in forma, come a Helena, e in generale sembrava capace e simpatica.
Io non volli immischiarmi e Helena le telefonò senza dire chi fosse: si fingeva ancora la
moglie di un qualche ambasciatore e la ragazza sembrava interessata e disinvolta, così
Helena le mandò una mail: «Vieni a fare una settimana di prova!». Stabilirono che sarebbero
andate con una macchina a noleggio all’aeroporto di Stoccolma, e da lì avrebbero preso il
volo per Milano con i bambini. Perciò la ragazza doveva prima farsi trovare a Lindesberg
(l’avrebbe accompagnata lì suo padre), ma nei giorni prima della partenza Helena le aveva
girato le prenotazioni del volo e la ragazza aveva cominciato a farsi delle domande. Sui biglietti c’era scritto che i bambini di quella famosa famiglia di diplomatici si chiamavano Maximilian e Vincent Ibrahimovi, un tantino curioso. Di per sé anche una famiglia di diplomatici può
avere il mio cognome, o no? Magari nel Paese c’erano molti Ibrahimovi, che ne sapeva? Così
provò a chiedere a suo padre.
«Guarda un po’» disse.
«A quanto pare dovrai fare la babysitter ai figli di Zlatan!» rispose lui, e allora la ragazza
voleva rinunciare!
Si spaventò, le sembrava un impegno molto pesante. D’altra parte era anche un po’
troppo tardi per tirarsi indietro, c’erano già biglietti prenotati e tutto. Così partirono per Lindesberg, lei e il padre: a quel punto era piuttosto nervosa, così ci ha raccontato poi. Ma Helena...
che cosa si può dire di Helena? Lei è Evilsuperbitchdeluxe quando si mette in tiro. Ci vuole
coraggio ad affrontare una tipa del genere. Però è anche una persona molto tranquilla,
bravissima nel mettere a suo agio le persone, e durante il viaggio lei e la ragazza ebbero
molto tempo per conoscersi, anche troppo a dire il vero.
In aeroporto, infatti, cominciarono i problemi. Dovevano partire con easyJet, l’unica compagnia che volava su Milano quel giorno. Ma l’aereo aveva qualche problema: il volo fu ritardato di un’ora, poi due, tre, sei ore, dodici, diciotto ore. Era pazzesco, un autentico scandalo, e
tutti ormai erano stanchi morti e furibondi. Alla fine presi in mano io la situazione, non ce la
facevo più. Dall’Italia telefonai a un pilota che conosco, quello che guida il mio aereo privato.
«Va’ su a prenderli» gli dissi, e così fu.
Helena e Johanna, la babysitter, recuperarono i loro bagagli e poi raggiunsero l’aereo
privato, dove io avevo chiesto ci fosse da mangiare, fragole ricoperte di cioccolato e cose del
genere, sperando che avrebbero apprezzato. Se lo meritavano, dopo quella faticata, e
quando atterrarono potei conoscere anch’io questa Johanna. Era un po’ agitata al momento
delle presentazioni, da quanto ho capito. Ma andammo subito d’accordo e da allora ci aiuta e
vive con noi. Si può dire che fa parte della famiglia, e ormai non potremmo cavarcela
neanche un giorno senza di lei. I bambini l’adorano, lei e Helena sono come sorelle, si allenano e studiano insieme. Tutti i giorni alle nove escono e vanno in palestra.
In generale, la nostra vita cominciava ad assumere un aspetto diverso.
Un anno andammo a sciare a Sankt Moritz. Non ci crederete ma mi sentivo a mio agio in
quel posto... Ok, non proprio del tutto, non avevo mai sciato in vita mia. Andare in vacanza
sulle Alpi con mamma e papà sarebbe stato come andare sulla Luna, tipo.
Sankt Moritz era un posto per ricconi, a colazione si beveva champagne. Champagne? E
che cazzo è? Io facevo colazione in mutande e volevo i cornflakes. C’era su anche Olof Mellberg, e cercava di insegnarmi a sciare, a fare lo spazzaneve, o come cazzo si dice. Niente da
fare. Volavo gambe all’aria tutte le volte mentre Mellberg e gli altri della compagnia
scendevano sicuri. Ero davvero troppo ridicolo e per paura di essere riconosciuto mi infilai
uno di quei passamontagna da rapinatore e un paio di grossi occhiali da sole. Nessuno
doveva sapere chi ero. Ma un giorno finii su una seggiovia e accanto a me c’era seduto un
ragazzino insieme a suo padre, e quel ragazzino cominciò a fissarmi. “Nessun pericolo” pensai. “Non può riconoscermi, con questo passamontagna. Assolutamente.” Ma dopo un po’ il
ragazzino disse, dev’essere stata colpa del mio maledetto naso: «Ibra?».
Io negai con decisione. «Che Ibra? Chi sarebbe?» Ma cosa ottenni? Helena scoppiò a
ridere, come se fosse la cosa più divertente della sua vita; il ragazzino andava avanti col suo
«Ibra, Ibra» e alla fine dissi: «Ok sì, sono io». Allora si creò un silenzio quasi solenne. Il
ragazzino rimase a bocca aperta.
C’era soltanto un problema: sarebbe rimasto a bocca aperta anche vedendomi sciare e
non nel senso che volevo io. “E adesso come la risolvo?” pensai. Ero uno dei più grandi
sportivi al mondo, non potevo mica fare la mezza sega sulla discesa. Intanto la situazione si
era fatta anche peggiore perché la voce si era diffusa. Intorno a me si venne a creare una piccola folla, e tutti erano lì fermi ad aspettare di vedermi sciare. Io avevo qualche problema con
i guanti e passai un tempo interminabile a sistemarmeli per bene sulla punta delle dita.
Fui molto meticoloso anche con la giacca, con i pantaloni e con gli attacchi, soprattutto
con gli attacchi, perché era una cosa che avevo visto fare spesso. La gente controllava gli attacchi in continuazione, li agganciava e li sganciava, e perché no, magari ero un professionista superpignolo che voleva l’attacco assolutamente perfetto prima di partire a razzo giù
dalla montagna. Ma più trafficavo, più grandi diventavano le aspettative. «Si metterà a fare
dei numeri?» «Volerà via a palla di cannone?»
Così iniziai a sistemarmi anche la sciarpa, e poi il cappello e i capelli, e finalmente la
gente si stancò di aspettare. Si allontanarono. “Chi se ne frega” pensarono. “Ok, è Ibra, ma
non si può mica stare lì in eterno solo per vedere come scia.” E così potei scendere in tutta
tranquillità a due all’ora, e quando arrivai giù Mellberg e gli altri mi chiesero: «Dove ti eri cacciato? Cos’hai fatto?».
«Niente» risposi, «ho dovuto sistemare un po’ di cose.»
Continuavo a lavorare duro, ovviamente. Messo da parte lo scudetto con l’Inter, mi aspettavano gli Europei in Svizzera e Austria, ed ero ancora preoccupato per il mio ginocchio.
Si scriveva molto sul mio infortunio e io ne parlai con Lagerbäck: né io né nessun altro
sapevamo se avrei potuto dare il massimo nel torneo. Nel nostro gruppo avevamo Russia,
Spagna e Grecia, non proprio una passeggiata.
Sapete, io ho un contratto con la Nike. Mino era contrario, ma per me era ok e molte volte
è stato anche bello lavorare con loro. Abbiamo girato diversi spot divertenti insieme, tipo
quello in cui faccio dei numeri con una gomma da masticare prima di calciarmela su in bocca,
compare anche papà fingendosi preoccupato che mi vada di traverso. Ma soprattutto la Nike
ha contribuito alla costruzione di Zlatan Court, a Rosengård, dove io avevo giocato da
ragazzino.
Una cosa stupenda. Il campo fu realizzato con le suole di vecchie scarpe da ginnastica,
aveva un fantastico fondo di gomma e c’erano anche le luci, perché i ragazzini non dovevano
essere costretti come noi a smettere di giocare quando faceva buio. Mettemmo anche una
targa: «Qui c’è il mio cuore. Qui c’è la mia storia. Qui c’è il mio gioco. Portatelo avanti!
Zlatan». Era una sensazione fantastica poter restituire qualcosa, e io andai là a inaugurare il
campo e vi lascio immaginare: «Zlatan, Zlatan» strillavano i ragazzini. C’era un casino totale.
Sinceramente quel giorno mi commossi, giocai con loro e pensai: “Be’, questo non l’avreste
detto, eh, del moccioso di Cronmans väg!”.
Ma prima degli Europei mi arrabbiai con la Nike. Avevano insistito perché tutti noi giocatori
sotto contratto con loro avessimo lo stesso colore di scarpe, e io avevo pensato ok, fate pure,
me ne fotto del colore che scegliete. Ma poi saltò fuori che un giocatore in particolare avrebbe
avuto un colore suo. Allora ne parlai con quelli della Nike.
«Perché dite cazzate? Tutti dovevamo avere scarpe uguali, no?»
«Abbiamo deciso così» mi risposero. Io dissi cosa ne pensavo e allora si ricredettero.
Tutt’a un tratto potevo avere anch’io le scarpe di un colore diverso. Ma a quel punto che
gusto c’era? Non devi essere costretto a ottenere questo genere di cose rompendo le palle, e
quindi mi tenni le mie vecchie scarpe. La gente dovrebbe essere capace di parlare chiaro.
La prima partita era contro la Grecia. Io ero marcato da Sotirios Kyrgiakos, un difensore
molto bravo che ora gioca nel Wolfsburg, e che all’epoca aveva i capelli lunghi e la coda.
Ogni volta che saltavo o scattavo via mi arrivavano in faccia quei suoi cazzo di capelli. Mi
marcava duro, faceva bene il suo lavoro, niente da dire. Mi stava annullando. Ma per due o
tre secondi mi mollò e me li feci bastare: su una rimessa in gioco da destra chiesi un uno-due
rapido a un compagno e poi sparai la palla d’esterno destro direttamente all’incrocio.
Era un inizio perfetto. Vincemmo il primo match per due a zero e la mia famiglia, che
anche quella volta era lì, si comportò bene. Avevamo imparato tutti dai Mondiali in Germania:
io giocavo a calcio, non facevo il capocomitiva. Tutti riuscivano ad arrangiarsi da soli, ed era
un sollievo.
Ma il ginocchio continuava a farmi male, era gonfio, e nell’incontro successivo avevamo la
Spagna, una delle favorite del torneo. Aveva battuto la Russia per quattro a uno nella prima
partita e sarebbe stata tosta per noi. Io non ero sicuro neppure di scendere in campo: da una
parte erano gli Europei, maledizione, pur di esserci avrei giocato anche con un coltello nella
gamba. Dall’altra, come ho già detto, in questi casi c’è sempre anche un discorso di prospettiva. C’è la partita oggi, ma ci sono partite anche domani e dopodomani. Puoi sacrificarti in un
match e offrire una grande prestazione, ma poi finire fuori combattimento per un pezzo.
In calendario avevamo la Spagna e poi la Russia, e poi i quarti se fossimo riusciti a passare, e si parlava di farmi giocare imbottito di antidolorifici. In Italia l’avevo fatto molte volte,
ma il medico della Nazionale era contrario a queste cose. Il dolore è il segnale d’allarme del
corpo: è possibile eliminarlo momentaneamente, ma si rischia un danno più serio. È un po’
una scommessa. «Quanto è importante la partita? Quanto dobbiamo investire per mandare in
campo il ragazzo oggi? Vale il rischio che dopo resti fuori per settimane o mesi?» Sono
queste le domande che si fanno i medici, che tradizionalmente in Svezia sono più cauti che
nel resto d’Europa: vedono l’atleta più come paziente che come macchina da gol. Ma non è
mai facile decidere e anzi, spesso è proprio il giocatore a insistere. Ci sono match che ti sembrano così importanti che ti viene da dire: «Chi se ne frega del futuro, io voglio giocare». Ma
la realtà è che al futuro non puoi sfuggire. Inoltre, quando sei in Nazionale, c’è sempre il club
sullo sfondo.
Io ero un grosso investimento, non potevo rompermi. Non era accettabile per l’Inter sacrificarmi per una partita della Nazionale, che non aveva nulla a che fare con il club. Infatti il
medico della Svezia ricevette una telefonata dal medico del club. Non ho idea di che cosa si
dissero, ma queste discussioni possono accendersi molto facilmente, si tratta pur sempre di
due interessi contrapposti. Il medico dell’Inter sapeva prendersi cura dei suoi giocatori e ovviamente non voleva che la Nazionale combinasse qualche casino. Mancava soltanto un
mese all’inizio del ritiro, e l’Inter aveva bisogno del suo Zlatan, ero la stella del club. Ma entrambi i medici erano persone ragionevoli e quella fu una conversazione assolutamente tranquilla, credo: alla fine si misero d’accordo. Niente infiltrazioni ma ore di massaggi con uno
specialista per il mio ginocchio. E contro la Spagna avrei giocato.
Partivo titolare accanto al solito Henke, e questo mi dava una certa tranquillità. Ma, dopo
un quarto d’ora, Xavi batté un calcio d’angolo corto per David Villa, che a sua volta passò indietro per Silva. Silva crossò in mezzo, Fernando Torres riuscì ad anticipare Petter Hansson
quasi in spaccata e segnò l’uno a zero. Fu un duro colpo, ovviamente. Riuscire a pareggiare
con la Spagna non è uno scherzo. Ma loro da quel momento si chiusero per difendere il risultato e la qualificazione ai quarti di finale, mentre io dimenticai il mio ginocchio per dare
tutto. Al trentaquattresimo minuto ricevetti un bel lancio dalla destra di Fredrik Stoor in area di
rigore. Era il tipo di situazione di cui mi aveva parlato Van Basten e per la quale Capello e
Galbiati mi avevano allenato duramente, il tipo di occasione che devi saper sfruttare. Ma lo
stop non fu perfetto e un attimo dopo avevo addosso Sergio Ramos. “Fanculo” pensai, “non
ho intenzione di arrendermi.” Difesi la palla, rientrai e calciai in un piccolo spiraglio fra Ramos
e un altro difensore che aveva recuperato: uno a uno. La partita era riaperta, io mi sentivo
bene. Ma quando l’arbitrò fischiò la fine del primo tempo e l’adrenalina calò, venne fuori tutto
il dolore. Il ginocchio non andava bene per niente. Che cosa dovevo fare? Non era una decisione facile. Fino a quel momento ero stato determinante, ok, ma mancava ancora la terza
partita del girone e la nostra situazione non era male. Avevamo i tre punti guadagnati contro
la Grecia e, anche se fosse andata male con la Spagna, avremmo potuto ancora guadagnarci
la qualificazione battendo la Russia. Perciò durante l’intervallo andai da Lars Lagerbäck.
«Il ginocchio mi fa molto male» dissi.
«Dannazione.»
«Credo che sia il momento di scegliere.»
«Ok.»
«Cos’è più importante per te: il secondo tempo oppure il match contro la Russia?»
«La Russia» rispose. «Contro di loro abbiamo maggiori possibilità!»
Perciò non rientrai in campo. Lagerbäck mise dentro Markus Rosenberg e la situazione
sembrava comunque buona. La Spagna ebbe molte occasioni, però riuscivamo a controllare.
Certo, si faceva sentire la mia assenza, mancava un po’ di qualità ma soprattutto di imprevedibilit nel nostro gioco. Eravamo ormai allo scadere ancora sull’uno a uno. Sembrava fatta, in
panchina ci scambiavamo cenni d’incoraggiamento. Ma nel recupero Rosenberg perse una
brutta palla in attacco. Lagerbäck saltò in piedi, furibondo, gridando insulti contro Markus e
contro l’arbitro. Era fallo, a suo parere. Ma l’arbitro lasciò proseguire nonostante la nostra indignazione, molti in panchina ritenevano già da prima che ci avesse fischiato tutto contro. E
poi non ci fu molto tempo per le proteste. Arrivò la catastrofe. Joan Capdevila, quello che
aveva tolto la palla a Rosenberg, sparò lungo in avanti. Tutti avevano dato il massimo, erano
sfiniti. David Villa fu il più veloce a raccogliere il lancio, si infilò nella nostra difesa e segnò il
due a uno sull’uscita disperata del portiere. Pochi istanti dopo l’arbitro fischiò la fine
dell’incontro e si può dire tranquillamente: fu una sconfitta pesante.
Nella successiva partita contro la Russia fummo schiacciati. Io stavo male e sembrava
che loro fossero migliori in tutto. Così uscimmo dal torneo, fu una delusione enorme. Quello
che era cominciato così bene finì in niente. Era crudele.
Ma, come sempre, da una cosa che finisce ne nasce una nuova, e prima degli Europei
era arrivata la notizia dell’esonero di Mancini. Era il momento di José Mourinho: io non
l’avevo ancora incontrato, ma lui era già riuscito a stupirmi, mi aveva legato a lui già prima
che ci conoscessimo. Ed era destinato a diventare una persona per la quale, più o meno,
sarei stato disposto a morire.
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Non l’avevo ancora inquadrato bene. Ma è chiaro, Mourinho già allora era lo Special One, e
ovviamente avevo sentito dire molte cose di lui. Che era uno spaccone e che alle sue conferenze stampa dava spettacolo, che diceva esattamente quello che pensava. Ma in realtà non
sapevo niente di lui, e pensai: “Sarà tipo Capello, un condottiero duro come la roccia”, e per
me sarebbe andato benissimo, era uno stile che mi piaceva. Ma mi sbagliavo, almeno in
parte. Mourinho è portoghese, gli piace stare al centro dell’attenzione. Manipola i giocatori
come nessun altro. Eppure questo non dice ancora nulla.
Il ragazzo ha imparato molto da Bobby Robson, il vecchio CT dell’Inghilterra, più o meno
una leggenda. All’inizio degli anni Novanta allenava lo Sporting Lisbona e Mourinho, che era
bravo con le lingue, lo affiancava come traduttore. Ma Robson capì al volo che José aveva
anche altre doti: imparava molto in fretta e parlare di calcio con lui era un piacere, così un
giorno gli chiese di scrivere una relazione su una squadra avversaria. Non ho idea di che
cosa si aspettasse, lo mise alla prova. Ovviamente, il rapporto di Mourinho fu fantastico.
Robson rimase a bocca aperta. Un ragazzo che non aveva mai giocato a calcio ad alti livelli gli stava fornendo il materiale migliore mai ricevuto. Doveva averlo sottovalutato, quel
traduttore! Quando Robson passò al Porto e, più tardi, al Barcellona, se lo portò appresso,
così Mourinho continuò a imparare non soltanto la tattica e le cose di campo, ma anche gli
aspetti psicologici. Robson, per capirci, era uno che ripeteva sempre: «Quando la squadra
vince, non credere che sia merito tuo. Ma quando perde, non credere di essere un sacco di
merda».
Mourinho cominciò da primo allenatore agli inizi del 2000 e nel 2002, dopo un paio di brevi
esperienze, prese la guida del Porto. All’epoca era un perfetto sconosciuto. Per molti era
ancora The translator, e il Porto era forse una bella squadra in Portogallo, ma non certo un
grande club di livello europeo. E il campionato portoghese tra l’altro, cos’era? Poca cosa.
Mancavano i soldi e le star. Ma Mourinho arrivò al club con qualcosa di completamente
nuovo: il totale controllo su ogni singolo dettaglio delle squadre avversarie. Spinse i giocatori
a fare qualsiasi cosa per lui, e sì, certo, all’inizio io non ne capivo niente, di questo metodo.
Ma avrei imparato molto presto. Sotto Mourinho, che lo studiò più meticolosamente di chiunque altro, il Porto diventò maestro nella gestione del contropiede. Contro ogni previsione,
nel 2004 la squadra vinse campionato portoghese e Champions League, sopravvivendo a un
girone di qualificazione con dentro il Real Madrid e mandando a casa negli ottavi il
Manchester United, squadre in cui un unico giocatore guadagnava quanto l’intera squadra del
Porto.
Fu una sorpresa pazzesca, una delle cose più sconvolgenti mai accadute nel calcio
europeo, e Mourinho diventò l’allenatore più ricercato del mondo. Alla fine andò al Chelsea
del miliardario russo Roman Abramovich, che stava riversando fiumi di denaro nel club. Ma
che cosa credete? Che venne accettato in Inghilterra? Era uno straniero. Un portoghese.
Molti fighetti del cazzo e giornalisti lo contestarono, e così in una delle sue prime conferenze
stampa disse: «Io non arrivo da chissà dove. Io ho vinto la Champions League con il Porto. Io
sono speciale. I am a Special One» e quella definizione di sé gli restò attaccata per sempre.
Da quel momento Mourinho diventò «The Special One» nei media inglesi, ma immagino
venisse detto con un misto di rispetto e di sarcasmo, almeno all’inizio. Il ragazzo faceva incazzare la gente. Non soltanto perché sembrava un divo del cinema, ma anche per dichiarazioni tipo: «Se avessi cercato la calma e il riposo sarei rimasto in Portogallo: avrei avuto
un meraviglioso cielo azzurro, una poltrona comoda, e poi Dio e sotto Dio me stesso».
Sapeva quanto valeva, e talvolta non si faceva problemi ad attaccare i colleghi rivali. A un
certo punto disse che Arsène Wenger con il Chelsea era un po’ come un guardone, uno di
quei tipi che in casa hanno dei grossi cannocchiali e spiano ciò che succede nelle altre
famiglie.
Intorno a Mourinho c’era sempre un gran casino, nessun allenatore al mondo era così chiacchierato. Ma il bello di lui è che mica parlava soltanto. Faceva i fatti. Quando arrivò al
Chelsea, il club non vinceva il campionato da cinquant’anni. Con Mourinho vinse due titoli di
fila, ed entrambe le volte lui fu nominato miglior allenatore dell’anno.
Mourinho quindi era «The Special One», su questo ormai non c’era più da discutere. E
stava per arrivare da noi all’Inter. Considerata la sua fama, mi aspettavo ordini duri fin da
subito. Ma già durante gli Europei, nel ritiro della squadra, mi avvisarono che Mourinho mi
avrebbe telefonato a breve e io pensai: “Dio, è successo qualcosa?”.
Invece voleva solo parlarmi. Dire: «Che bello che lavoreremo insieme, non vedo l’ora di
conoscerti», niente di strano insomma, se non che lui parlava in italiano. Non lo capivo,
cazzo. Mourinho non aveva mai allenato un club italiano eppure parlava la lingua meglio di
me. Se l’era imparata in un niente, in tipo tre settimane, e io non riuscivo a seguirlo,
dovemmo passare all’inglese. Mi resi subito conto che lui è uno che si interessa davvero, non
fa le solite domande di circostanza solo perché deve, e dopo l’incontro con la Spagna ricevetti
anche un suo sms.
Quando gioco, ricevo sempre un sacco di sms dai miei amici. Ma quello arrivava da Mourinho. «Bella partita» diceva, e poi mi dava dei consigli. Giuro, feci letteralmente un salto sulla
panca. Era una cosa che non mi era mai successa, un sms dall’allenatore! Voglio dire, stavo
giocando con la Nazionale, non erano affari suoi, eppure si stava interessando. Gli risposi e
ricevetti altri messaggi. “Wow, Mourinho mi sta seguendo!” Mi sentivo considerato. Forse il
ragazzo non è poi così di pietra, tutto sommato.
Aveva uno scopo, con i suoi sms. Voleva incoraggiare. Creare lealtà. Mi piacque immediatamente, scattò subito una scintilla. Ci capivamo, e mi dissi: quest’uomo è uno che lavora
duro. Si fa il culo il doppio degli altri. Segue il calcio ventiquattr’ore al giorno e fa le sue analisi. Mai incontrato un allenatore che abbia una tale conoscenza delle squadre avversarie. Non
si tratta del solito giocano così e così, hanno questa e quest’altra tattica, dovete stare attenti a
quel tale. Mourinho sapeva tutto, ogni singolo, piccolo dettaglio, persino il numero di scarpe
del terzo portiere, tipo. Tutto. Avevi la sensazione immediata che lui avesse il controllo totale.
Ma ancora doveva passare del tempo prima che ci incontrassimo. Ci furono gli Europei e
poi le vacanze, e non so di preciso che cosa mi aspettassi. Naturalmente avevo visto un
sacco di immagini di lui, sapevo che era elegante, sicuro di sé, ma quando lo incontrai la
prima volta rimasi stupito. Era piuttosto basso, con le spalle strette, e sembrava piccolo vicino
ai giocatori. Eppure intorno a lui l’aria vibrava. Metteva in riga chiunque: si piazzava davanti ai
tipi che si credevano intoccabili, delle grandi star, e cominciava a comandarli a bacchetta.
Stava lì, due spanne più basso, e non è che cercasse di fare il simpatico o usasse tanti per
favore. Andava dritto al punto e diceva con totale freddezza: «D’ora innanzi farete così e così,
chiaro?». E tutti ascoltavano. Stavano lì con l’orecchio teso per cogliere ogni sfumatura delle
sue parole. Non era paura di lui. Come ho detto, non era Capello. Mourinho aveva un registro
più ampio, creava legami personali con i giocatori mediante i suoi messaggini e le sue mail e
la sua passione e la sua attenzione per tutti noi: come stavamo, come stavano le nostre mogli
e i nostri figli... E poi non gridava. Tanto la gente ascoltava comunque. Prima delle partite ci
dava forza, fiducia. Ogni volta era come una recita, un gioco psicologico. Era capace di
mostrarci dei filmati tratti da partite che avevamo giocato male e dire: «Guardate un po’ quelli!
Che disastro! Terribile, terribile. Non potete essere voi. Devono essere i vostri fratelli, i vostri
cugini» e noi concordavamo con lui. Ci vergognavamo.
«Oggi non vi voglio vedere così» continuava.
“No, no” pensavamo noi, non succederà mai più.
«Uscite sul campo con voglia di vincere, come guerrieri» e noi a quel punto eravamo carichissimi.
«Nel primo tempo dovrete essere così...» insisteva. Picchiava il pugno contro il palmo
della mano. «E nel secondo tempo...»
Poi magari tirava un calcio alla lavagnetta facendola volare via per la stanza, e noi avevamo tanta di quella adrenalina in corpo che andavamo fuori disposti a tutto. Ne vedevamo
spesso di episodi simili, gesti inattesi che ci stimolavano, e io lo percepivo sempre più:
quest’uomo dà tutto per la squadra, e allora anch’io voglio fare tutto per lui. Aveva questa
qualità, dopo averlo ascoltato avresti voluto uccidere per lui.
Ma Mourinho non era solo uno da discorsi stimolanti. Era anche capace di affondare chiunque con poche parole, tipo entrare nello spogliatoio e dire in tono gelido: «Oggi hai fatto
zero, Zlatan, zero. Non hai combinato un cazzo».
In casi del genere non rispondevo niente. Non cercavo nemmeno di difendermi, non per
paura o per rispetto esagerato, ma perché capivo che aveva ragione. E poi per Mourinho non
contava niente quello che avevi fatto ieri o ieri l’altro. Era l’oggi quello che contava. Era il
presente.
Ricordo una partita contro l’Atalanta. Il giorno dopo dovevo andare a ritirare il premio
come miglior giocatore straniero e come miglior giocatore in generale della Serie A, ma a
metà partita eravamo sotto due a zero e io ero stato praticamente un fantasma. Mourinho mi
raggiunse negli spogliatoi.
«Tu domani vai a ricevere un premio, eh?»
«Sì, perché?»
«Sai cosa dovrai fare quando ti consegneranno quel premio?»
«No, cosa?»
«Dovrai vergognarti. Dovrai arrossire. Non si possono vincere premi quando si gioca così.
Regala quel premio a tua madre, o a qualcuno che se lo merita di più» disse prima di andare,
e io non vidi l’ora che cominciasse il secondo tempo.
Avevamo spesso scambi di questo tipo. Lui mi gonfiava d’orgoglio e mi affossava. Era un
maestro nel gestire la psicologia dei giocatori, e soltanto una cosa in realtà mi infastidiva: la
sua espressione quando giocavamo. Qualsiasi numero facessi, qualsiasi gol, era sempre
ugualmente gelido. Non c’era mai un sorriso o un gesto particolare, nessuna reazione. Era
come se non succedesse nulla, come se il gioco fosse sempre fermo a metà campo, eppure
io allora ero più grintoso che mai. Facevo cose incredibili e vedevo Mourinho lì sempre con la
stessa faccia.
Il 3 ottobre 2008 compivo ventisette anni. Quel giorno incontravamo il Bologna, e al ventiquattresimo minuto Adriano si fece largo sulla sinistra e mise in mezzo una palla tesa a
mezza altezza, troppo bassa per un colpo di testa e troppo alta per un tiro al volo. Ma riuscii
ad anticipare il mio marcatore e mi inventai un colpo di tacco. Sembrò un colpo di karate,
bam, il pallone finì dritto in rete. Un gol incredibile, infatti fu poi votato come il più bello
dell’anno. Il pubblico era impazzito, erano tutti in piedi ad applaudire e festeggiare... Tutti,
perfino Moratti su in tribuna d’onore. Ma Mourinho, che cosa fece lui? Rimase lì in piedi nel
suo completo, le mani in tasca e il volto di pietra. “Ma che avrà adesso?” pensai. “Se non reagisce a un numero così, per che cosa si muove, allora?”
Ne parlai con Rui Faria, portoghese anche lui, preparatore atletico dello staff di Mourinho
oltre che suo braccio destro. Lo conosce come le sue tasche.
«Spiegami una cosa» gli dissi.
«Dimmi!»
«Ho fatto dei gol fantastici in questa stagione, che io stesso non so come... Mourinho difficilmente può aver visto qualcosa di simile, eppure se ne sta sempre lì come una statua.»
«Non prendertela» disse Rui. «Lui è fatto così. Non reagisce come noi.»
“Può darsi” pensai. “Però, in ogni caso... io riuscirò a scuoterlo, dovessi fare un miracolo.
In un modo o nell’altro costringerò quell’uomo a esultare!”
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Avevo un po’ la fissa della Champions League. Il campionato era ricominciato, il mio ginocchio andava meglio e segnavo una rete incredibile dopo l’altra: abbastanza presto avemmo la
sensazione che lo scudetto sarebbe stato nostro per il terzo anno consecutivo. Ma per me
non era più così tanto straordinario: avevo già vinto quattro scudetti, ero stato eletto miglior
giocatore dell’anno in Italia già due volte... Insomma, la cosa importante mi sembrava la
Champions. Non ero mai arrivato molto avanti nel torneo, e quell’anno, negli ottavi di finale, ci
trovammo contro il Manchester United.
Lo United era una delle migliori squadre d’Europa. Era il detentore del titolo e aveva giocatori come Cristiano Ronaldo, Wayne Rooney, Paul Scholes, Ryan Giggs, Nemanja Vidic...
nonostante tutti questi campioni non c’era un uomo-chiave: si aveva davvero la sensazione
che lo United fosse una squadra. Nessun giocatore era la stella del club e nessun allenatore
portava avanti la filosofia del collettivo più tenacemente di Alex Ferguson, anzi Sir Alex Ferguson, come si doveva dire. Tutti conoscono Sir Alex. In Inghilterra è un dio. Ma in fondo il
vecchio è pur sempre figlio di operai scozzesi, Nihil sine labore è il suo motto, niente arriva
senza fatica. Quando nel 1986 prese in mano lo United, il club non valeva granché. Sembrava che il suo periodo di splendore fosse ormai alle spalle: era tutto un gran casino, tipo
che i giocatori si andavano a ubriacare nei bar ed era considerata una cosa virile che rafforzava lo spirito di squadra.
Ma Ferguson cominciò a condurre una vera guerra verso questo atteggiamento. Basta
tracannare birra come degli idioti! Lentamente rovesciò la situazione e i ragazzi cominciarono
a rigare dritto.
Da allora Ferguson ha portato a casa dodici titoli nazionali con il club, l’allenatore più vincente della storia. Fu insignito del titolo di baronetto nel 1999, quando il Manchester vinse in
un colpo solo il campionato, la FA Cup e la Champions. Immaginate che rivalità poteva esserci tra due vincenti come Ferguson e Mourinho: Sir Alex, poi, aveva vinto un unico match
contro una squadra allenata da Mourinho, e se la cosa lo disturbasse o meno non so... Ma in
ogni caso se lo sentiva ripetere ogni volta. Era una solfa continua.
Inter-Manchester, quindi, era Mourinho contro Sir Alex e anche Zlatan contro Cristiano
Ronaldo. Se ne dicevano un sacco, su di noi. Eravamo entrambi testimonial della Nike, ed
eravamo anche apparsi insieme in uno spot, una specie di sfida a colpi di numeri con Eric
Cantona come presentatore. Ma in realtà non lo conoscevo. Non ci incontrammo mai durante
le riprese, avvenne tutto a distanza, e comunque io non davo nessuna importanza a tutte
quelle faccende dei media.
Alla vigilia del match mi sentivo carico. Pensavo che avessimo buone possibilità di vincere
e Mourinho ci aveva preparati a tutto come sempre. Ma l’andata, a San Siro, fu una delu-
sione. Facemmo solo zero a zero, io non entrai mai veramente in partita, e i giornali inglesi
scrissero un sacco di cazzate, come sempre. I giornalisti inglesi mi hanno sempre criticato,
ma era un problema loro, non mio. Che scrivessero pure. Io sono sempre andato avanti per la
mia strada. Però volevo veramente vincere la partita di ritorno all’Old Trafford e andare avanti. Era una cosa che continuava a crescermi dentro, forse ci speravo troppo.
Ricordo ancora quando entrammo in campo e sentii gli applausi e i fischi.
L’aria era molto tesa. Mourinho indossava polo e soprabito neri, era elegante e serio e
come al solito non andò a sedersi: stava in piedi nei pressi della linea laterale a seguire il
gioco, come un generale sul campo di battaglia, e molte volte il pubblico gli cantava o gridava: «Sit down, Mourinho». Spesso agitava le mani, urlando: «Su ad aiutare Ibra!». Io ero
molto solo davanti e mi marcavano stretto. Mourinho aveva scelto il quattro-cinque-uno con
me unica punta, e io sentivo la pressione di dover fare gol, ma la cosa mi piaceva: ormai
avrete capito che avere responsabilità mi carica.
Lo United però partì bene, e già al terzo minuto, su angolo di Ryan Giggs, Vidic segnò
l’uno a zero di testa. Fu una doccia fredda. Tutto l’Old Trafford si alzò in piedi con il suo coro:
«You are not special anymore, José Mourinho».
Ovviamente io e Mourinho facevamo il pieno di fischi. Ma sarebbe bastato un gol, per
vedere i quarti di finale. La partita si aprì. Alla mezz’ora girai in porta di testa un bel cross
dalla destra di Maicon: sembrava fatta ma, dopo il rimbalzo a terra, la palla toccò la traversa e
uscì. Ero arrivato vicinissimo al gol, ed ero sempre più convinto che ce l’avremmo fatta,
anche perché continuavano a presentarsi occasioni. Ma quando Adriano nel secondo tempo
colpì il palo in mezza rovesciata, Cristiano Ronaldo aveva già segnato il due a zero di testa
su assist di Wayne Rooney. Mi crollò il mondo addosso. I minuti passarono senza che noi
riuscissimo a ridurre le distanze, e verso la fine del match tutto lo stadio cantava: «Bye, bye,
Mourinho. It’s over», e io avrei voluto spaccare tutto.
Quando entrammo negli spogliatoi Mourinho cercò di incoraggiarci, tipo vinceremo il campionato eccetera. Lui è duro come la pietra prima e durante le partite, e certe volte a qualche
giorno di distanza analizza le sconfitte e ti attacca perché non si ripetano gli stessi errori. Ma
a caldo non c’è motivo di massacrare i giocatori. Non serve a nulla. Quella sera, per esempio,
eravamo già abbastanza a terra di nostro.
C’era tanta rabbia nello spogliatoio e tutti volevano sfogarla, una rabbia da omicidio, e
credo che fu allora che il pensiero cominciò a germogliare dentro di me. Volevo andare avanti.
Io sono un tipo inquieto. Mi sono spostato di continuo. Ho cambiato scuole, case e
squadre fin da ragazzino. Alla fine era diventato come un veleno che avevo dentro. Quella
sera, mentre stavo lì seduto a fissarmi le gambe, cominciai a sospettare che non avrei mai
vinto la Champions con l’Inter. La squadra non era abbastanza forte, credevo, e già nelle
prime interviste dopo quella partita lasciai trapelare le mie incertezze. O, per meglio dire, risposi con sincerità e non con il consueto: «Ci rifaremo, l’anno prossimo».
«Pensi di poter vincere la Champions con l’Inter?» mi chiedevano i giornalisti.
«Non lo so. Si vedrà» dicevo, e di sicuro i tifosi cominciarono a intuire qualcosa già allora.
Fu l’inizio di nuove tensioni, e ne parlai con Mino.
«Voglio andare avanti» dissi. «Voglio andare in Spagna.»
Lui capì subito, è ovvio. Spagna significava Real Madrid oppure Barcellona, i due topclub.
Certo, il Real mi tentava: aveva una tradizione fantastica, e aveva avuto giocatori come Ronaldo, Zidane, Figo, Roberto Carlos, Raúl... Ma io propendevo sempre più per il Barça, che
quell’anno stava giocando splendidamente, e che aveva gente come Lionel Messi, Xavi e Iniesta.
Ma come potevamo muoverci? Non era semplice. Mica potevo dire semplicemente:
«Voglio andare al Barça». Non soltanto perché sarebbe stato disastroso per la mia
reputazione nell’Inter. Ma poi sarebbe stato come dire al Barcellona: «Vengo anche gratis». E
non ci si può svendere a questo modo. Perché allora i dirigenti capiscono che possono averti
a poco prezzo. No, no dev’essere il club a venire da te con il desiderio di averti a qualsiasi
prezzo. Ma il vero problema non stava lì.
Il problema era il mio status e le mie condizioni contrattuali in Italia. Ero considerato
troppo costoso, come avrei fatto a muovermi? Lo sentivo dire spesso. Eravamo io nell’Inter,
Kaká nel Milan, Messi nel Barça e Cristiano nello United. Nessun’altra squadra era ritenuta in
grado di potersi adeguare ai nostri contratti, e anche i cartellini erano altissimi. Perfino Mourinho ne parlava: «Ibra rimane» diceva. «Nessun club può permettersi le cifre necessarie.
Nessuno può offrire cento milioni di euro» ed era una sensazione assurda.
Ero troppo costoso per il mercato? Una dannata Monna Lisa che non era possibile
vendere? La situazione era incerta, e forse non era strategico esporsi così apertamente con i
media, nonostante tutto. Sicuramente avrei fatto meglio a dire le cazzate che ripetevano
molte altre stelle: «Rimarrò sempre qui, bla bla bla».
Ma io non ne sono capace. Non potevo mentire. Ero incerto sul futuro e lo dicevo, e
questo ovviamente fece incazzare parecchia gente, soprattutto i tifosi. Lo videro come un
tradimento, o almeno come un accenno di tradimento, e molti cominciarono a preoccuparsi.
Forse avevo perso le motivazioni, e tiravo fuori cose del tipo: «Vorrei fare un’esperienza
nuova, ormai è da cinque anni che sto in Italia. A me piace il calcio tecnico, e quello lo
giocano in Spagna». Si facevano un sacco di chiacchiere e di ipotesi.
Ma la mia non era una strategia per liberarmi dall’Inter. Era soltanto sincerità. Il punto è
che io ero l’elemento più importante della squadra e nessuno voleva che me ne andassi. Ogni
parola che dicevo sollevava un polverone e forse l’intera faccenda era senza senso. Non
avevamo nessuna offerta, e anche ammesso che fossi troppo costoso per il mercato, ciò non
diminuiva il mio valore. Certamente avevo voglia di qualcosa di nuovo, ma intanto tutto
questo non influiva sulle mie prestazioni, al contrario: adesso che stavo bene fisicamente ero
più forte che mai, e continuavo a fare di tutto per strappare a Mourinho una reazione.
Contro la Reggina, ad esempio, partii dalla trequarti, mi feci largo fra tre difensori e
l’azione era già bella così, il pubblico di sicuro credeva che avrei concluso sparando una cannonata. Ma prima di entrare in area vidi che il portiere era troppo fuori dai pali, e mi venne
un’intuizione: alzai un pallonetto di sinistro e la palla ricadde lentamente in porta. Tutto lo stadio esultò, tutti tranne Mourinho, ovviamente, senza espressione in panchina e con aria un
po’ cupa. Come al solito, insomma. Eppure era una delle reti più belle che avessi mai fatto, e
con quel gol raggiunsi Marco Di Vaio del Bologna in testa alla classifica dei marcatori. Vincere
quella classifica in Italia è prestigioso, non ci ero ancora riuscito e cominciai a focalizzarmi
sempre più su quell’obiettivo. Diventai più aggressivo che mai davanti alla porta. Quello di cui
avevo bisogno erano le sfide. Nessuno adora i bomber così tanto come i tifosi italiani, e nessuno odia così tanto quelli che vogliono lasciare la loro squadra. La situazione si fece ancora
più difficile dopo che a fine partita dichiarai: «Sono totalmente concentrato sull’obiettivo di vincere la classifica dei marcatori di quest’anno, ma per quanto riguarda la prossima stagione si
vedrà».
La tensione non faceva che crescere. Che cos’ha Ibra? Cosa sta succedendo? Mancava
ancora molto all’apertura del mercato, e non avevamo in mano nulla di concreto. Ma i giornali
già scrivevano. Anche Cristiano si sarebbe mosso da Manchester: il Real avrebbe acquistato
uno di noi due? Poteva farlo? Avrebbe proposto uno scambio Ibra-Higuain?
In quel modo il club non avrebbe dovuto spendere così tanto, il cartellino di Higuain
avrebbe coperto una parte della cifra. Ma appunto, erano soltanto chiacchiere. Però, per
quanto le chiacchiere possano essere false, hanno il loro effetto, perciò in molti già mi davano
addosso: dicevano che nessun giocatore conta più della maglia, che Ibra è un ingrato e un
traditore e via dicendo. Ma tutto mi scivolava addosso. Continuavo a darci dentro, e contro la
Fiorentina, nei minuti di recupero, calciai una punizione che arrivò in porta a centonove chilometri orari, come un colpo di cannone.
Sembrava che avessimo già nuovamente in tasca lo scudetto. La storia aveva due facce:
meglio giocavo, più i tifosi erano preoccupati all’idea che volessi lasciare l’Inter. In vista del
match contro la Lazio del 2 maggio, a San Siro, i nervi tra me e i tifosi si erano fatti tesissimi.
Gli ultras tre anni prima avevano esposto lo striscione «Benvenuto Maximilian», sapevano
fare questo genere di cose, erano capaci di mostrare amore. Ma erano anche capaci di odiare: non solo la squadra avversaria ma anche i loro stessi giocatori. Quella sera lo percepii fin
da quando ci misi piede: San Siro era in ebollizione.
Per tutta la settimana i giornali avevano scritto che io volevo andarmene e provare una
nuova sfida. L’avevano letto tutti, ovvio. Nei primi minuti sbagliai un dribbling in area di rigore,
e in situazioni del genere i tifosi di solito mi applaudivano lo stesso per l’intenzione. Invece
sentii dei fischi e dei buuu dalla curva. Cosa? Quaggiù stiamo dando il massimo, siamo primi
in classifica e voi ve ne venite fuori con i fischi? Ma chi siete? Li zittii, mettendomi il dito davanti alla bocca. Ma le cose non migliorarono, proprio per niente. Verso la fine del primo tempo
eravamo ancora sullo zero a zero, anche se stavamo giocando bene, e allora quei bastardi
cominciarono a fischiare tutta la squadra. Mi incazzai a morte, o, per meglio dire, mi caricai di
adrenalina per il secondo tempo.
Come ho detto più volte, gioco meglio quando ho tanta rabbia in corpo. È vero, posso
anche fare qualcosa di stupido e prendere un rosso diretto, ma il più delle volte la rabbia è un
buon segno: tutta la mia carriera è costruita sulla voglia di rivincita. Al dodicesimo del
secondo tempo ricevetti il pallone una quindicina di metri fuori dell’area di rigore. Avanzai
puntando il difensore che avevo davanti e poi calciai a giro sul secondo palo facendo passare
la palla tra due avversari. Era uno di quei tiri di pura rabbia, e un bel gol. Ma non era di quello
che la gente avrebbe parlato.
Era del gesto che feci dopo, perché non esultai. Corsi all’indietro verso la nostra metà
campo guardando gli ultras della curva e il dito ancora sulle labbra. Tipo: «Tappatevi la
bocca, questa è la mia risposta, voi fischiate e io faccio gol». Quel gesto diventò subito
l’episodio-chiave della partita: avete visto? Avete visto? Era qualcosa di totalmente nuovo.
Ormai era guerra aperta fra la tifoseria e la più grande stella del club. Da parte di Mourinho, ovviamente, non ci fu nessun gesto di vittoria, e chi se l’era mai aspettato? Ma era
d’accordo con me, si capisce. Assurdo, fischiare la propria squadra! Lui si portò il dito alla
tempia come per dire: «Siete scemi lassù, e capirete».
Se prima c’era stata tensione, adesso lo stadio era una vera bolgia. Ma questo è proprio il
genere di cose che mi pungola, e continuai a giocare bene. Facendomi portare dalla rabbia,
costruii il due a zero. Ero soddisfatto quando l’arbitro fischiò il termine dell’incontro, ma non
era ancora finita: quando uscii dal campo sentii dire che i capi degli ultras mi stavano aspettando giù negli spogliatoi. Non avevo idea di come ci fossero arrivati.
Ma erano proprio lì nei sotterranei, sette, otto ragazzi e non certo gente che dice: «Scusa,
scusa, possiamo scambiare due parole?». Erano tipi che potevano essere di Rosengård. Tutti
intorno a me diventarono nervosi, e il mio polso partì a centocinquanta. Detto onestamente,
ero molto teso. Ma dissi a me stesso: “Non è il momento di fare il vigliacco”. Un ragazzo delle
mie parti non indietreggia. Perciò andai verso i ragazzi, e lo capii subito: diventarono inquieti,
ma al tempo stesso si gonfiarono tutti. Cazzo, Ibra che viene verso di noi?
«C’è qualcuno che ha dei problemi lassù?» dissi.
«Be’ ecco, molti sono incazzati neri...» cominciarono.
«Allora ditegli di venire giù in campo, che la risolviamo uno contro uno!»
Dopo di che me ne andai, con il cuore che martellava. Eppure mi sentivo soddisfatto,
avevo tenuto a bada la tensione.
Quella sera mi ero difeso, ma lo strazio continuò. I capi della curva esigevano un incontro
ufficiale. Ma andiamo, per quale motivo avrei dovuto incontrarli di nuovo? Che cosa avevo da
guadagnarci? Io faccio il calciatore. I tifosi, forse, sono fedeli alla loro squadra, ed è una bella
cosa. Ma la carriera di un calciatore è breve, e lui deve curare i propri interessi. Cambia
spesso club. I tifosi lo sanno, e io anche lo sapevo bene. Perciò dissi: «Chiedete scusa per i
fischi sulla homepage del sito del vostro gruppo e sarò soddisfatto. Ci metteremo una pietra
sopra». Ma non accadde nulla di simile, anzi, gli ultras decisero che non mi avrebbero più né
fischiato né sostenuto: avrebbero finto che non esistessi. “Buona fortuna” pensai.
Non ero molto facile da ignorare, né allora, né dopo. Ero in forma, e le chiacchiere continuavano. Se ne andrà? Rimarrà? Qualcuno può permettersi di acquistarlo? Era un tiro alla
fune e io temevo di finire dentro un vicolo cieco. Di dover restare all’Inter con la coda fra le
gambe. Era una guerra di nervi, e telefonavo a Mino: «C’è qualche offerta? Hai in mano qualcosa?». Ma non succedeva nulla e anzi, diventava sempre più evidente che ci sarebbe voluta
una cifra record per strapparmi all’Inter. Io cercavo di chiudere gli occhi e le orecchie davanti
a tutto quello che passava sui media, ma non era facile. Non in una situazione del genere.
Ero in contatto costante con Mino e speravo sempre più nel Barça, che proprio in quelle settimane vinse la Champions. Batté il Manchester United per due a zero con gol di Eto’o e Messi
e io pensai: “Wow, quella è la squadra per me!” e continuavo a telefonare a Mino.
«Ma che stai facendo? Sei lì a dormire?»
«Va’ a farti fottere» rispondeva lui. «Sei un sacco di merda. Non ti vuole nessuno! Dovrai
ritornartene al Malmö.»
«Ma vaffanculo!»
Ma è chiaro, stava lavorando come un pazzo per condurre in porto questa trattativa, e non
soltanto perché lui lottava sempre per me. In ballo c’era il contratto che entrambi avevamo
sempre sognato. Certo, poteva saltare tutto, finire in niente se non nella rottura con gli ultras
e la società. Ma poteva anche diventare il più grande affare della storia, e noi eravamo pronti
a puntare forte.
Intanto il campionato non era ancora finito, anche se lo scudetto era già nostro, e io
volevo assolutamente arrivare primo nella classifica dei marcatori. Diventare capocannoniere
significa scrivere il proprio nome nei libri di storia, e nessuno svedese ci era riuscito dopo
Gunnar Nordahl, nel 1955. Ma finalmente io ne avevo la possibilità, anche se nulla era ancora
deciso. In testa alla classifica c’erano Marco Di Vaio del Bologna e Diego Milito del Genoa.
È chiaro che la mia corsa al titolo non riguardava direttamente Mourinho, lui allenava la
squadra. Ma un giorno entrò negli spogliatoi e disse: «Adesso vediamo di fare in modo che
Ibra vinca anche la classifica dei marcatori», e allora quello diventò un impegno per la
squadra. Tutti mi avrebbero aiutato.
Ma Balotelli, quel demonio, in uno degli ultimi match ricevette la palla in area di rigore e io
arrivai da dietro, completamente libero. Ero in posizione perfetta per calciare. Ma lui andò avanti da solo, io lo guardavo e non ci volevo credere. L’avrei ucciso in quel momento ma ok, il
ragazzo era giovane. E poi fece gol. Non potevo certo alzarlo di peso lì davanti a tutti. Ma ero
furioso, e tutta la panchina lo era. Ricordo che pensai: “Ok, se così dev’essere, fanculo la
classifica dei marcatori. E tante grazie a Balotelli”. Ma superai anche questa.
Feci gol nella partita successiva e, in vista dell’ultima giornata, la situazione era da brivido.
Io e Di Vaio eravamo entrambi a ventitré, e subito dietro veniva Diego Milito con ventidue. Era
il 31 maggio. Tutti i giornali scrivevano di quell’ultima battaglia. Chi vincerà? A San Siro
faceva un caldo soffocante. Il campionato era ormai deciso, ci eravamo messi in tasca lo scudetto già da un pezzo, eppure nell’aria c’era un sacco di nervosismo. Con un po’ di fortuna
quella partita sarebbe stata la mia ultima nel campionato italiano. Così speravo. Ma al di là di
tutto, volevo fare un match spettacolare e portarmi a casa il titolo di capocannoniere. Ovviamente, dipendeva anche da cos’avrebbero combinato Di Vaio e Milito.
Il Bologna di Marco Di Vaio incontrava il Catania mentre il Genoa di Milito affrontava il
Lecce, e io non avevo dubbi: quei due bastardi avrebbero sicuramente segnato. Ero obbligato
a rispondere. Dovevo farlo anch’io, ma non è facile far gol su ordinazione. Se ci provi troppo è
facile che non ti venga, qualsiasi marcatore lo sa. Non devi star lì a pensarci troppo, è questione di istinto.
Fu subito chiaro che contro l’Atalanta sarebbe stato un match aperto, dopo pochi minuti
eravamo già sull’uno a uno.
Al dodicesimo Cambiasso mi lanciò sul filo del fuorigioco, attraversai praticamente da solo
tutta la metà campo e, dopo un controllo non perfetto, arrivai davanti al portiere. Tiro di destro
e gol, due a uno, ero in testa alla classifica dei marcatori. La gente intorno a me lo urlava e io
cominciai a crederci davvero. Ma i punteggi degli altri campi cambiavano, e non capivo mai
bene. A un certo punto dalla panchina sentii gridare «Milito e Di Vaio hanno fatto gol» o qualcosa del genere. Non ci credetti. Sembrava uno scherzo dei ragazzi: a volte dalla panchina si
dicono un po’ di bugie per pungolare chi sta in campo. Provai a non pensarci, ma negli altri
due match si stavano verificando degli autentici drammi.
Diego Milito era terzo in classifica, aveva una percentuale di realizzazione spaventosa.
Solo qualche settimana prima aveva concluso il suo passaggio all’Inter, per cui se io non fossi
riuscito a cambiare avremmo giocato insieme. Contro il Lecce stava facendo il pazzo. In soli
dieci minuti aveva segnato due reti ed era salito a quota ventiquattro, esattamente come me.
Poteva arrivare un terzo gol in qualsiasi momento. Anche Di Vaio aveva segnato, ma io non
lo sapevo; quindi adesso eravamo in tre a condividere il primo posto, e non è il mio modo di
vincere. Le vittorie non si condividono, si portano a casa da soli.
Anche se non ne ero certo, cominciavo a rendermi conto sempre di più che dovevo segnare ancora. Lo si percepiva nell’aria, lo si notava dalle espressioni di quelli in panchina, dalla
pressione sugli spalti. Ma i minuti passavano e non succedeva niente. La partita sembrava
doversi concludere in parità. Eravamo sul tre a tre e mancavano soltanto dieci minuti. Mourinho aveva messo dentro anche Hernán Crespo per avere forze fresche e rinforzare l’attacco.
Il mister mi fece segno: «Spostati più avanti e dacci dentro!». Era molto agitato. Stavo davvero per dire addio al titolo? Così temevo. Intanto cercavo di mettercela tutta, gridavo per
avere la palla, ma molti compagni erano stanchi. Era stata una partita intensa, l’ultima
dell’anno... Ma Crespo aveva ancora energia. Scattò sulla destra, mi lanciò in area e lottai
con un avversario per difendere la palla. Ne respinsi un altro con il corpo, e mi ritrovai spalle
alla porta con la palla che mi rimbalzava intorno e i difensori addosso. Allora vidi una possibilit. Colpii di tacco all’indietro e ok, nella mia carriera avevo fatto molte reti di tacco: quella
contro l’Italia degli Europei, il colpo da karate contro il Bologna... Ma quella, all’ultimo minuto
dell’ultima giornata, era davvero troppo.
Non poteva entrare. Quello era un numero da campetto sotto casa di mamma, e non vinci
il titolo di capocannoniere con un colpo del genere all’ultima partita. Non esiste. Invece la
palla rotolò dentro. Fu il quattro a tre e io mi strappai la maglia, fanculo all’ammonizione, Dio
santo, era una cosa grandiosa, e mi piazzai a torso nudo giù vicino alla bandierina. In un attimo tutti mi furono addosso, Crespo e gli altri, mi spinsero giù a schiena piegata e sembrava
quasi un’aggressione. Tutti mi urlarono, uno dopo l’altro: «Adesso vinci tu!» e lentamente
cominciai a realizzare. Ecco l’ennesima vendetta. Quando arrivai in Italia si disse: «Zlatan
non fa abbastanza reti». Invece avevo vinto la classifica dei marcatori, nessuno poteva più
dire una cosa del genere. Ma mi mantenni comunque piuttosto controllato. Tornai verso il
centro del campo e ciò che veramente mi fece sobbalzare fu una cosa di tutt’altro genere.
Era Mourinho, la vecchia faccia di pietra. L’uomo che non aveva mai battuto ciglio si era
svegliato. Sembrava impazzito. Esultava come un ragazzino, saltava su e giù e io sorrisi:
“Alla fine ci sono riuscito a smuoverti, nonostante tutto...”. Ma non ci avevo messo poco:
avevo dovuto vincere la classifica marcatori all’ultima giornata, con un colpo di tacco.
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23
Ai primi di giugno Kaká passò al Real Madrid per sessantacinque milioni di euro, e solo una
settimana più tardi arrivò anche Cristiano Ronaldo per quasi cento milioni. Diceva non poco
su quali potessero essere le cifre di un mio trasferimento. Andai da Moratti. Lui era comunque
molto tranquillo, aveva molta esperienza, conosceva bene questo genere di affari.
«Ascolti» gli dissi, «sono stati anni incredibili e io rimango volentieri, non mi interessa se
vengono a cercarmi lo United o l’Arsenal o altri. Però se dovesse farsi vivo il Barça...»
«Sì?» disse lui.
«Allora vorrei che almeno lei ci parlasse. Non che mi venda per questa o quella cifra, no,
veramente. Questo sta a lei. Ma mi prometta che parlerà con loro» continuai. Allora lui mi
guardò da dietro gli occhiali e con i suoi capelli arruffati e certamente lo capiva, c’era da
guadagnarci dei soldi, ma non mi avrebbe lasciato andare volentieri.
«Ok» disse. «Prometto.»
Non molto tempo dopo partimmo per Los Angeles. Il viaggio faceva parte del precampionato e io dividevo la stanza con Maxwell: era figo stare insieme come ai vecchi tempi. Ma
eravamo stanchi per via del jet lag e i giornalisti erano come impazziti. Facevano casino davanti all’albergo e la storia del giorno era che il Barça non poteva permettersi di acquistarmi.
Pensavano di prendere David Villa, invece. Non che i giornali ne sapessero niente, ma io non
sapevo cosa pensare. Nelle ultime settimane era stato tutto un dire e smentire. Prima non ci
speravo, poi ci avevo sperato, e adesso sembrava di nuovo finita. Quel bastardo d’un Maxwell non migliorava le cose.
Maxwell è il ragazzo migliore del mondo, come ho già detto, ma in quei giorni mi stava facendo impazzire. Ci eravamo inseguiti fin da quel primo giorno ad Amsterdam e adesso
eravamo nuovamente nella stessa situazione, entrambi indirizzati verso il Barça. Solo che lui
era un passo avanti, o meglio, era praticamente già in viaggio, mentre a me stava saltando
tutto. Lui non riusciva a dormire, era sempre attaccato al telefono: «È tutto a posto? È fatta?».
Lo avrei ammazzato. Parlava senza interruzione. Era tutto un Barça di qua, Barça di là. Andava avanti giorno e notte, o almeno questa era la mia impressione, mentre io non sapevo niente della mia situazione, non molto per lo meno. Rischiavo di impazzire. Ribaltai Mino al
telefono, maledetto Mino, sistemare le cose per Maxwell e non per me!
«Quindi per lui puoi darti da fare e per me no?» gli dissi.
«Va’ a farti fottere» rispose, e non molti giorni dopo Maxwell era del Barça.
A differenza di me, che a ogni passo avevo addosso i giornalisti di mezzo mondo, lui era
riuscito a mantenere segrete le trattative. Nessuno credeva che sarebbe andato al Barcellona. Ma quando quel giorno entrammo negli spogliatoi, dove tutti erano seduti in cerchio ad
aspettarci, lui disse agli altri come stavano le cose.
«Ragazzi, vado al Barcellona!»
Tutti scattarono: «Sul serio? Allora è vero?». La voce cominciò a girare. Questo genere di
cose mette in moto dei meccanismi nei compagni. L’Inter non era l’Ajax, certo, ma il Barça
aveva appena vinto la Champions, il Barça era la squadra migliore del mondo, perciò alcuni
ragazzi diventarono invidiosi, e Maxwell cominciò quasi con imbarazzo a mettere via le sue
cose.
«Prendi anche le mie» gli dissi a voce alta. «Tanto ti seguo a ruota.» Tutti risero, tipo «Ah
ah, bella battuta».
Io ero troppo caro per essere venduto, così credevano. Oppure stavo troppo bene
all’Inter. «No, Ibra rimane. Nessuno se lo può permettere.» Questa era la convinzione generale.
«Siediti! Tu non vai da nessuna parte» gridavano, e io ci scherzai un po’ su, ma in tutta
sincerità neppure io sapevo cosa sarebbe successo. Sapevo solo che Mino stava lavorando
per me, e che poteva succedere tutto oppure niente.
Durante la tournée incontrammo il Chelsea in una partita amichevole, e in quell’occasione
subii un tackle duro da parte di John Terry. Quando mi rialzai avevo un dolore alla mano, ma
al momento lo ignorai. “Chi se ne frega della mano? È con i piedi che si gioca” mi dissi, e poi
avevo altro a cui pensare. Il Barça era un chiodo fisso, continuavo a telefonare a Mino. Era
come una febbre che avevo in corpo. Ma invece che buone notizie, ricevetti un’altra batosta.
Joan Laporta, il presidente del Barcellona, era veramente un pezzo grosso. Sotto di lui il
club aveva ripreso a dominare in Europa, e avevo sentito dire che era volato a Milano su un
aereo privato per cenare con Moratti e Marco Branca. Ovviamente avevo investito molte speranze su quell’incontro, ma non era successo niente. Laporta quasi non aveva neanche fatto
in tempo a entrare che Moratti aveva detto: «Se sei qui per Zlatan, hai fatto il viaggio inutilmente! Lui non è in vendita».
Diventai una furia quando lo venni a sapere. Ma come, avevano promesso! Telefonai a
Branca: «Che cosa sta combinando Moratti?». Lui si discolpò. «L’incontro non riguardava te»
disse. Era una bugia. Avevo saputo la verità tramite Mino e mi sentivo tradito. Ma ok, potevo
capirlo, era tutto un gioco delle parti. O almeno poteva esserlo. “Non in vendita” poteva stare
per “costoso”. Ma non avevo la più pallida idea di cosa stesse veramente accadendo, e quei
maledetti giornalisti mi chiedevano tutto il tempo: «Come andrà?», «Sei pronto per il Barça?»,
«Rimani all’Inter?». Io non avevo risposte da dare, mi trovavo in una nuova terra di nessuno e
perfino Mino cominciava a sembrare pessimista: «Il Barça ci prova, ma non riescono a liberarti!» disse.
Io ero sempre più sulle spine, a Los Angeles faceva caldo e c’era confusione. In più, succedevano cose che sembravano confermare che sarei rimasto: per esempio era stato deciso
che la successiva stagione con l’Inter avrei vestito la maglia numero dieci, quella che aveva
avuto Ronaldo appena arrivato nel club. Tutto era incerto e c’era molto nervosismo nell’aria.
Un giorno mi giunse voce che Joan Laporta e Txiki Begiristain, il direttore sportivo del
Barça, fossero nuovamente saliti a bordo del loro aereo privato, anche se quel viaggio non
aveva niente a che fare con me. I due dovevano andare in Ucraina per prendere Dmytro Chygrynskiy, uno dei giocatori chiave dello Shakhtar Donetsk che quell’anno aveva vinto a sorpresa la Coppa Uefa. Ma il viaggio assunse importanza anche per noi. Mino, si sa, è il re
delle trattative. Conosce tutti i trucchi. Aveva appena avuto un incontro con Moratti e intravisto un’apertura, nonostante tutto. Perciò telefonò a Begiristain, che era sull’aereo con
Laporta. Lui e Laporta stavano rientrando a Barcellona.
«Dovreste atterrare a Milano, invece» disse Mino.
«Perché?»
«Perché so che Moratti è a casa sua in questo momento. E, se bussate, credo che potrete
trovare un accordo su Ibrahimovi.»
«Ok, aspetta cinque minuti. Devo discuterne con Laporta.»
Furono minuti lunghi, la posta era alta. Moratti non aveva promesso nulla, e non aveva
idea che forse avrebbe ricevuto visite. Stava succedendo tutto di colpo. Begiristain richiamò.
«Ok» disse. «Cambiamo rotta e atterriamo a Milano.»
Mino mi telefonò subito. Iniziò uno scambio pazzesco di chiamate e di sms. I telefoni
erano roventi.
Moratti fu informato, tipo: «La dirigenza del Barça sta venendo da lei!» e forse pensò che
fosse un po’ precipitoso, che so, oppure che avrebbero potuto almeno fissare un appuntamento. Ma ovviamente li ricevette. È pur sempre un uomo che ha stile, non voleva mancare
di rispetto. Quando seppi che l’incontro ci sarebbe stato non esitai: volevo fare anch’io tutto
quello che potevo.
Mandai un sms a Marco Branca. Gli scrissi: «So che i dirigenti del Barça stanno andando
da Moratti. Mi avete promesso di parlarci, e sapete che voglio andare da loro. Se non mi complicate le cose adesso, io non lo farò a voi». Aspettai a lungo una risposta che non venne. Di
sicuro avevano le loro ragioni. Come si diceva, è un gioco delle parti. Ma avevo la netta
sensazione che si iniziava a fare sul serio: o la trattativa si sbloccava, oppure le porte si chiudevano definitivamente. O l’una o l’altra, e i minuti passavano. Di che cosa stavano parlando
là dentro? Non ne avevo idea.
Guardavo continuamente l’orologio e mi aspettavo che dovessero passare delle ore. Ma
dopo venticinque minuti telefonò Mino. Che succede? Moratti li ha messi subito alla porta
un’altra volta? Il cuore accelerò. Avevo la bocca secca.
«Sì?» dissi.
«È chiusa» rispose lui.
«Chiusa in che senso?»
«Vai a Barcellona. Prepara le valigie.»
«Non puoi scherzare su una cosa del genere!»
«Non sto scherzando.»
«Ma come ha fatto ad andare così in fretta?»
«Adesso non ho tempo di parlare.»
Misi giù, al tempo stesso capivo e non capivo. La testa mi ronzava. Ero in albergo. Che
cosa potevo fare? Uscii in corridoio. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, e lì c’era Patrick
Vieira: di lui mi potevo fidare.
«Vado anch’io al Barça» dissi.
Lui mi guardò meravigliato.
«Impossibile» rispose.
«Sì, giuro.»
«Per quanto?»
Non lo sapevo. Non ne avevo idea e glielo lessi in faccia che era ancora dubbioso.
Pensava ancora che fossi troppo costoso per muovermi, la solita storia, e fece venire i dubbi
anche a me. Chissà se era proprio vero? Ma non molto dopo Mino chiamò di nuovo, e allora
tutti i frammenti del puzzle andarono a posto.
Moratti aveva sorpreso tutti. Aveva posto solo una condizione, e non una qualsiasi. Voleva dare uno smacco al Milan e vendermi per una cifra superiore a quella che il Real aveva
pagato per Kaká, e non erano noccioline; sarebbe stato il secondo trasferimento più costoso
di tutti i tempi, ma Laporta chiaramente non aveva problemi. Lui e Moratti si erano messi
subito d’accordo. Mi ci volle un attimo a mettere a fuoco la cosa, quando venni a sapere le cifre. I miei vecchi ottantacinque milioni di corone per il passaggio all’Ajax, cos’erano? Spiccioli,
al confronto. Adesso si parlava di circa settecento milioni di corone svedesi.
L’Inter avrebbe ricevuto quarantasei milioni di euro per me in contanti, e al tempo stesso
ottenuto il cartellino di Samuel Eto’o, non certo un giocatore qualsiasi. Nell’ultima stagione
aveva segnato trenta reti, era uno dei migliori marcatori della storia del Barça ed era valutato
venti milioni di euro. Complessivamente all’Inter andavano quindi sessantasei milioni di euro,
uno in più di quanto aveva preso il Milan per Kaká, e voi capite... Scoppiò il finimondo quando
la cosa divenne di dominio pubblico. Non avevo mai visto niente di simile.
C’erano quaranta gradi. Era come se l’aria friggesse. Tutti mi stavano addosso e avevo
come la sensazione... non so, sinceramente. Pensare con lucidità era impossibile. Dovevamo
giocare un’amichevole con una squadra messicana, e per la prima volta avevo quella famosa
maglia numero dieci dell’Inter – e anche per l’ultima, a ben vedere. I miei anni al club erano finiti, cominciavo lentamente a realizzare. Quando ero arrivato, l’Inter non vinceva il campionato da diciassette anni: con me avevamo vinto tre anni di seguito, e io avevo anche portato
a casa il titolo di capocannoniere. Era pazzesco. Guardai verso Mourinho, che finalmente, pochi mesi prima, avevo visto reagire a un gol, e naturalmente mi accorsi che era furibondo e
dispiaciuto al tempo stesso.
Non voleva perdermi. In quella partita amichevole mi lasciò in panchina e anch’io sentii
che, per quanto fossi felice di andare al Barça, mi dispiaceva lasciare Mourinho. È speciale,
quell’uomo. L’anno dopo lasciò anche lui l’Inter per passare al Real Madrid, e dopo la finale di
Champions vinta, prima di allontanarsi in macchina dallo stadio, si fermò a salutare Materazzi. Materazzi è tipo il difensore più duro del mondo, ma quando abbracciò Mourinho
scoppiò a piangere, e io un po’ lo capisco. Mourinho è un uomo che suscita sentimenti forti.
Ricordo quando il giorno dopo ci incontrammo in albergo. Mi si avvicinò.
«Non puoi andartene!» disse.
«Sorry, ma devo cogliere questa occasione.»
«Ma se lasci tu, me ne vado anch’io.»
Che cosa puoi rispondere a una cosa così?
«Grazie» dissi. «Tu mi hai insegnato molto.»
Chiacchierammo un momento, fu bello. Ma quell’uomo... lui è come me. È orgoglioso,
vuole vincere a qualsiasi prezzo, non può farne a meno. Mi tirò una frecciatina, anche.
«Ehi, Ibra!»
«Sì?»
«Tu vai al Barça per vincere la Champions, vero?»
«Sì, un po’ forse anche per quello.»
«Ma sai, saremo noi a portarcela a casa, non dimenticarlo. Saremo noi» mi disse, e poi ci
congedammo.
Volai a Copenaghen e da lì raggiunsi Malmö, e nella nostra casa in Limhamnsvägen rividi
Helena e i bambini. Avevo una gran voglia di raccontare tutto quello che era successo e di rilassarmi un po’, ma la casa era assediata. Giornalisti e tifosi dormivano fuori dai cancelli,
suonavano alla porta, c’era gente che cantava e faceva casino fuori, sventolavano bandiere
del Barcellona. Era pura follia e tutta la mia famiglia era stressata: mamma, papà, Sanela,
Keki, nessuno osava più uscire di casa, la gente tampinava anche loro. Io correvo di qua e di
là e mi accorgevo che la mano mi faceva male, ma non ci pensavo granché.
I dettagli del mio contratto erano ancora da definire, Eto’o faceva storie e voleva avere più
soldi, Helena e io discutevamo su dove avremmo abitato, insomma, c’erano in ballo un po’ di
cose.
Dopo soli due giorni partii per Barcellona. A quel punto ero già abituato agli aerei privati:
può sembrare una cosa snob, ma non è facile per me prendere voli di linea. Tutti mi stanno
addosso.
Si crea sempre un caos, sia in aeroporto sia a bordo. Ma quella volta presi un volo di linea. Avevo parlato al telefono con quelli del club e come sapete Barcellona e Real si fanno la
guerra. Sono nemici alla morte, e c’è sotto anche molta politica, la Catalogna contro il potere
centrale, tutto questo genere di cose. Ma i due club hanno anche filosofie differenti. «Al Barça
abbiamo i piedi per terra, non siamo come il Real. Noi prendiamo voli normali» mi avevano
detto, e certo, suonava anche bene. Presi un volo della Spanair e atterrai alle cinque e un
quarto del pomeriggio a Barcellona.
Se non avevo ancora capito la portata della cosa, in quel momento mi fu chiaro. C’era il
caos. Centinaia di tifosi erano lì ad aspettarmi e i giornali avevano scritto pagine e pagine sul
mio arrivo. In città si parlava di Ibramania. Era pazzesco. Non ero soltanto l’acquisto più
costoso nella storia del Barça: nessun nuovo giocatore aveva mai suscitato tanta attenzione.
Sarei stato presentato quel giorno stesso al Camp Nou, è una tradizione del club. Quando
arrivò Ronaldinho, nel 2003, allo stadio c’erano trentamila persone, e altrettante per Thierry
Henry. Ma quel giorno... ce n’erano almeno il doppio ad aspettare me, e io, sinceramente,
rabbrividii.
Ma prima, appena arrivati allo stadio dall’aeroporto con un’auto blindata, dovevamo tenere
la conferenza stampa. Diverse centinaia di giornalisti erano accalcati nella saletta. Era strapiena e c’era molta agitazione: «Perché non arriva?». Noi eravamo già lì dietro, ma non potevamo entrare: Eto’o stava facendo storie con l’Inter fino all’ultimo e il Barcellona aspettava la
conferma definitiva. Il tempo passava e le voci lì dentro diventavano sempre più eccitate e
nervose. C’era aria di casini, si sentiva chiaramente. Io, Mino, Laporta e gli altri pezzi grossi
eravamo seduti dietro le quinte, in attesa. «Che cosa succede? Dovremo starcene qui in eterno?»
«Adesso basta» fece Mino.
«Ma dobbiamo avere conferma...»
«Ce ne fottiamo» disse lui, gli altri lo seguirono e finalmente uscimmo. Non avevo mai
visto così tanti reporter: risposi alle loro domande, ma sentivo il casino che c’era fuori nello
stadio. Era una follia collettiva, giuro. Dopo la conferenza andai a cambiarmi per indossare la
divisa del Barça. Mi avevano dato la maglia numero nove, la stessa di Romário e Ronaldo,
cominciava a diventare davvero una cosa sentimentale. Lo stadio ribolliva. C’erano sessanta
o settantamila persone lì dentro. Io trattenni il fiato, e poi uscii. Non potrò mai descriverlo.
Avevo in mano un pallone e raggiunsi il palco che era stato preparato. Tutto lo stadio urlava il mio nome, intanto l’addetto stampa correva in giro e mi suggeriva continuamente cosa
dire: «Di’ Visca Barça, forza Barça!». Io feci come voleva e poi cominciai a fare un po’ di numeri: palleggi, stop, colpi di tacco, tutto questo genere di cose. L’urlo del pubblico saliva
ancora, ancora! Poi baciai il distintivo del club sulla maglia, e questo devo proprio raccontarlo.
Mi tirai addosso un sacco di critiche e insulti. Come può baciare il simbolo del nuovo club
quando ha appena lasciato l’Inter? Se ne frega dei vecchi tifosi? Tutti giù a darmi addosso
per quel gesto. Furono fatti anche sketch e stronzate del genere. Ma gli addetti stampa mi
avevano pregato di farlo, si agitavano come pazzi: «Bacia il simbolo, bacia il simbolo!», e io in
quel momento ero come un ragazzino educato: obbedivo. Tutto il corpo vibrava, e ricordo che
volevo solo tornare negli spogliatoi a calmarmi.
C’era troppa adrenalina, tremavo. Quando la presentazione si concluse guardai verso
Mino, che non era mai stato lontano più di dieci metri. In momenti del genere lui c’è sempre.
Insieme ci avviammo verso gli spogliatoi e passammo in rassegna tutti i nomi sulla parete:
Messi, Xavi, Iniesta, Henry, Maxwell... tutti quanti, e poi il mio: Ibrahimovi. Era già lì. Io
guardai nuovamente Mino, era emozionato e sfinito, come se avesse avuto un bambino. Nessuno di noi riusciva a capacitarsi di quello che stava accadendo, era qualcosa di più grande di
quanto avessimo mai potuto immaginare. In quel momento il mio cellulare vibrò per l’arrivo di
un messaggio. Chi poteva essere? Era Patrick Vieira. «Enjoy» scriveva. «Goditela! Questa
cosa non succede a molti giocatori.» Puoi sentire tutti i commenti che vuoi da tutte le persone
che vuoi, ma quando un ragazzo come Vieira ti manda un messaggio così, allora sai per
certo di aver vissuto qualcosa di incredibile, e io mi sedetti e ripresi fiato.
Più tardi dissi ai giornalisti: «Sono la persona più felice del mondo!» e «Questa è la cosa
più bella che mi è successa dopo la nascita dei miei figli», il genere di cose che altri sportivi
sicuramente hanno già detto prima in analoghe situazioni. Ma ero sincero. Tutto era grandioso, e dopo la presentazione andai all’Hotel Princesa Sofia, anch’esso assediato dai tifosi
che consideravano come la cosa più straordinaria del mondo anche solo vedermi bere il caffè
nella hall.
Quella notte faticai ad addormentarmi. Avevo ancora tanta adrenalina in corpo, e poi sentivo che la mano non era del tutto a posto. Ma non mi preoccupai più di tanto neppure allora.
C’erano così tante altre cose che mi ronzavano in testa... non credevo sarebbero sorti problemi alla visita medica del giorno dopo. Quando arrivi in un nuovo club è abitudine che ti esaminino dalla testa ai piedi. Quanto pesi? Quanto sei alto? Che percentuale di grassi hai? Ti
senti in perfetta salute?
«Mi fa un po’ male la mano» dissi, così mi fecero una radiografia.
Venne fuori che la mano era fratturata, fratturata! Era assurdo. Una delle cose più importanti, quando arrivi in una nuova squadra, è partecipare al precampionato, per iniziare a conoscere i compagni e i meccanismi di gioco. Ma a quel punto appariva impossibile, ed eravamo
costretti a prendere una decisione veloce. Ne parlai con l’allenatore, Guardiola. Mi sembrò
simpatico: si scusò per non esserci stato ad accogliermi, era a Londra con la squadra, e
proprio come tutti gli altri disse che dovevo tornare in perfetta forma il più in fretta possibile.
Non si potevano correre rischi e perciò si decise che sarei stato immediatamente operato.
Un chirurgo della mano mi mise due chiodi d’acciaio per fissare la frattura e favorire una
guarigione più rapida. Il giorno stesso feci ritorno a Los Angeles con il Barcellona, anche loro
avevano una tappa laggiù come parte del precampionato. C’era qualcosa di assurdo, ero appena stato lì con l’Inter! A distanza di poche settimane ci tornavo con il Barcellona e con una
grossa ingessatura intorno alla mano, e dovevano passare almeno tre settimane prima che
guarissi del tutto.
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Dovevamo incontrare il Real Madrid in casa al Camp Nou. Era il novembre 2009. Ero stato di
nuovo lontano dal campo per due settimane per un fastidio alla coscia, quindi avrei cominciato in panchina. Poche cose al mondo sono come El Clásico, la supersfida Barcellona-Real.
La pressione è enorme e i giornali stampano supplementi di tipo sessanta pagine. La gente
non parla d’altro. Sono le due più grandi squadre, i due eterni nemici uno contro l’altro.
Nonostante la frattura alla mano e tutti i cambiamenti, avevo avuto un buon inizio di stagione, con cinque gol nelle mie prime cinque partite di campionato, ed ero stato acclamato da
tutti.
In quel momento la Liga era il posto ideale dove giocare. Real e Barça avevano investito
quasi due miliardi e mezzo per tre giocatori, Kaká, Cristiano e me. Serie A e Premier League
si erano impoverite, mentre la Liga era diventata il campionato di gran lunga più interessante,
e tutto sarebbe stato fantastico, ne ero convinto.
Già nel precampionato, a Los Angeles, mentre correvo con gesso e chiodi nella mano, ero
entrato nel gruppo. Non era facile per via della lingua, è chiaro, e stavo molto con i ragazzi
che parlavano inglese, Thierry Henry e Maxwell. Ma funzionava bene con tutti. Messi, Xavi e
Iniesta sono bravi ragazzi, semplici, fortissimi in campo ma molto tranquilli fuori, nessun: eccomi qui, sono il più bravo e il più bello, nessuna traccia di atteggiamenti del genere e nessuna passerella quando compaiono negli spogliatoi, non come molti giocatori in Italia che arrivano firmati dalla testa ai piedi. Messi e gli altri ragazzi arrivavano in tuta e mantenevano un
basso profilo.
E poi c’era Guardiola, ovviamente. Veniva da me dopo ogni allenamento a chiacchierare,
sembrava contento di avermi e davvero ansioso di inserirmi nella squadra. Sì, è vero,
l’impostazione del club era speciale, me n’ero accorto immediatamente: sembrava una
scuola, mi ricordava un po’ l’Ajax, per alcune cose. Eppure era il Barça, la squadra più forte
del mondo! Mi ero aspettato atteggiamenti un po’ più grintosi, invece erano tutti silenziosi e
gentili, come ho già detto, ognuno al suo posto nel gruppo, e certe volte mi capitava di
pensare: “Questi ragazzi sono superstar. Eppure si comportano come scolaretti”, e va bene
essere educati, perché fare per forza i fighi? Ma a volte non potevo fare a meno di pensare:
“Come sarebbero stati trattati questi ragazzi in Italia? Sarebbero stati degli dei!”.
E invece stavano lì tutti in fila come scolaretti davanti a Pep Guardiola. Guardiola è
catalano ed è un uomo del club: da giocatore aveva vinto la Liga cinque o sei volte con il Barcellona e ne era diventato capitano nel 1997. Quando arrivai allenava il Barça da due anni e
aveva già ottenuto grandi successi, meritava tutto il rispetto e sembrava sinceramente interessato a me. Ovviamente stava a me inserirmi, ma non era niente di nuovo: avevo già
cambiato squadra molte volte e conosco piuttosto bene queste cose, e non sono mai entrato
in uno spogliatoio pretendendo subito di comandare. Io studio la situazione. Chi è forte? Chi
debole? Come girano le voci e quali sono i gruppi?
Ma certamente ero consapevole delle mie qualità. Avevo visto nel concreto che cosa potevo portare a una squadra con la mia mentalità vincente, e di solito riuscivo comunque a
prendere il mio posto abbastanza in fretta, e a scherzare parecchio. Non molto tempo fa, durante un allenamento con la Nazionale, tirai un calcio a Chippen per gioco, e quando il giorno
dopo aprii il giornale non riuscivo a capire. L’episodio veniva trattato come un gesto di chissà
che violenza, ma non avevano capito niente! È così che viviamo: gioco e serietà mortale al
tempo stesso. I calciatori sono ragazzi che si vedono tutti i giorni, e che fanno qualche
cazzata per tenersi allegri. Tutto normale. Scherziamo. Ma al Barça diventai noioso. Ero
troppo gentile, non osavo più gridare, né strigliare gli altri in campo, come ho bisogno di fare.
Il fatto che i giornali scrivessero che ero un bad boy, un tipo difficile e questo e quest’altro
certamente contribuì al cambiamento. Mi misi in testa di dimostrare il contrario e di sicuro esagerai. Invece di essere me stesso, cercai di dimostrare di essere il perfetto bravo ragazzo, e
fu un grosso errore. Non devi mai permettere che le chiacchiere dei media ti schiaccino.
Ma non era neppure quello il grosso problema. Il grosso problema era quella famosa
frase: «Qui abbiamo i piedi per terra. Siamo fabricantes. Qui lavoriamo. Siamo ragazzi normali!». Forse non era poi un concetto così straordinario, ma in quelle parole c’era comunque
qualcosa di strano. Cominciai a domandarmi: “Perché Guardiola viene a dirlo proprio a me?
Crede che io sia diverso? Che abbia bisogno di sentirmelo ripetere di continuo?”. Non riuscivo a capire, almeno all’inizio, ma non era una bella sensazione. Certe volte mi pareva di essere tornato alle giovanili del Malmö: avevo di nuovo un allenatore che mi vedeva come il
ragazzo che veniva dal sobborgo sbagliato?
Eppure non avevo fatto niente! Non avevo preso a testate un compagno, non avevo
rubato una bicicletta, niente. Non ero mai stato tanto buono, gentile e accomodante in tutta la
mia vita. Ero il contrario di quello che scrivevano i giornali. Mi muovevo in punta di piedi e riflettevo tutto il tempo prima di fare le cose. Il vecchio Zlatan non c’era più! Sparito! Finii nella
mia stessa ombra.
Non mi era mai successo, e all’inizio mi dicevo: “Tranquillo, si sistemerà”. Pensavo:
“Presto sarò nuovamente me stesso. Tornerà tutto a posto, forse sono solo immaginazione e
paranoie”. Guardiola in realtà non era affatto scostante, per niente, sembrava credere in me.
Vedeva quanto segnavo e quant’ero importante per la squadra, ma in ogni caso... quella
sensazione non voleva abbandonarmi.
In che modo mi vedeva diverso?
«Qui abbiamo i piedi per terra.»
Io ero quello che non li aveva, secondo Guardiola? Non capivo, e cercavo di dimenticarlo.
Mi dicevo: “Concentrati, invece!”. Ma le vibrazioni non se ne andavano, e mi chiedevo sempre
più spesso: “Devono essere tutti uguali, in questo club?”.
Non era sano. Nessuno è uguale a un altro. Le persone a volte fingono di esserlo, si
capisce. Guardiola aveva avuto successo e il club aveva già vinto molto sotto la sua guida.
Applausi, le vittorie sono vittorie. Ma credo che tutto questo abbia avuto un prezzo, cioè che
le grandi personalità venivano fatte scappare. Non è un caso che Guardiola abbia avuto problemi con tipi come Ronaldinho, Deco, Eto’o, Henry, e me. Noi non siamo “ragazzi normali”,
noi abbiamo minacciato la sua autorità e allora lui ci ha mandati via, è semplice, e io odio
queste cose. Noi siamo tutti diversi. Se non sei un “ragazzo normale” non sei nemmeno obbligato a diventarlo, alla lunga non ci guadagna nessuno. Se io ai tempi del Malmö avessi
cercato di diventare come i ragazzi svedesi della squadra, oggi non sarei qui. Ascolta/non
ascoltare: ecco il fondamento del mio successo.
Non ho detto che vale per tutti, ma di certo vale per me, e Guardiola non capì nulla, di
questo. Credeva che sarebbe stato capace di plasmarmi. Nel suo Barça tutti dovevano essere come Xavi, Iniesta e Messi. Niente che non andasse in loro, assolutamente, semmai il
contrario: era meraviglioso stare nella stessa squadra. I bravi giocatori mi stimolano sempre e
guardavo a loro come ho sempre fatto con i grandi talenti: posso imparare qualcosa? Posso
migliorare ancora?
Ma consideriamo il loro background. Xavi è arrivato al club quando aveva undici anni. Iniesta ne aveva dodici, Messi tredici. Sono stati formati dal club. Non conoscevano nient’altro e
di sicuro per loro fu un bene trovarsi lì. Era il loro mondo, ma non il mio. Io venivo da fuori, arrivavo con tutta la mia personalità per la quale non sembrava esserci posto, non nel piccolo
mondo di Guardiola. Ma come dicevo, in novembre questa era soltanto una percezione. Fino
a quel momento il problema era semplice: avrei giocato e sarei stato incisivo dopo la pausa?
La pressione era alta in vista del Clásico al Camp Nou. In quel periodo l’allenatore del
Real era il cileno Manuel Pellegrini, e girava voce che se non avesse vinto sarebbe stato cacciato. Non si parlava soltanto di Kaká, Cristiano, Messi e me ma anche di Pellegrini e Guardiola. Era tutta una serie di testa a testa. La città ribolliva d’attesa, e io raggiunsi lo stadio con
l’Audi del club ed entrai negli spogliatoi. Guardiola avrebbe iniziato con Thierry Henry punta,
Messi sulla destra e Iniesta sulla sinistra. Fuori era già buio, ovunque lampeggiavano i flash
dei fotografi.
Iniziò il match e si vide subito che il Real girava meglio, la squadra creava più occasioni:
al ventesimo minuto Kaká partì con straordinaria eleganza e velocità e diede un assist d’oro a
Cristiano, completamente libero. Tiro a botta sicura e miracolo col piede di Victor Valdes.
Solo un minuto più tardi Higuain sfiorò nuovamente il gol. Noi eravamo troppo lenti e aveva-
mo problemi a far circolare la palla. Nella squadra si andava diffondendo il nervosismo,
mentre il pubblico di casa se la prendeva con Casillas, che ritardava tutte le rimesse in gioco.
Ma il Real continuava a dominare e noi fummo fortunati a concludere il primo tempo sullo
zero a zero.
All’inizio del secondo tempo Guardiola mi chiese di riscaldarmi e fu una bella sensazione,
lo devo ammettere. Il pubblico gridava il mio nome, voleva vedermi in campo e io applaudii di
rimando per ringraziare. Al cinquantunesimo minuto entrai al posto di Henry e avevo una gran
voglia di giocare. Non ero stato lontano per molto dal campo ma mi era sembrato un tempo
lunghissimo, forse anche perché mi ero perso la partita contro la mia vecchia Inter nel girone
di Champions. Ma finalmente ero tornato. Dopo pochi minuti Daniel Alves ricevette la palla
sulla fascia destra: ha una lettura molto veloce del gioco e fu rapido. La difesa del Real non
era messa benissimo e in simili occasioni non mi soffermo tanto a pensare, mi butto dentro e
basta. Arrivò la palla dalla destra, riuscii a liberarmi e sparai al volo di sinistro, bum, in rete, e
lo stadio si svegliò come un vulcano: fu come se qualcuno avesse all’improvviso alzato il
volume al massimo, e io sentii quella botta in tutto il corpo. Niente poteva fermarmi adesso.
Vincemmo la partita per uno a zero. Il vero vincitore ero io, e fui acclamato dappertutto. Nessuno in quel momento criticò il fatto che fossi costato settecento milioni di corone. Ero in
primo piano. Poi venne la pausa natalizia.
Ce ne andammo in vacanza ad Åre, come vi ho già raccontato, e mi divertii sulla mia motoslitta. Ma quello fu anche il momento di rottura. Con il nuovo anno, ciò che era stato pesante peggiorò ulteriormente, e io non ero più me stesso. Questa era la sensazione. Ero diventato uno Zlatan diverso, più insicuro, e ogni volta che Mino aveva degli incontri con la dirigenza del Barça gli domandavo: «Cosa pensano di me?».
«Che sei l’attaccante migliore del mondo!»
«Voglio dire in privato. Come persona.»
Prima non me n’era mai fregato niente. Non mi interessava saperlo. Io volevo giocare
bene, poi dicessero pure quello che volevano. Ma d’un tratto era diventato importante, a dimostrazione del fatto che non stavo bene. La mia autostima si stava incrinando, mi sentivo
inibito. Quando segnavo quasi non esultavo. E non osavo cazziare nessuno, e neppure
questo è un bene. Mi tenevo dentro tutto. Non si può certo dire che io sia ipersensibile: sono
un duro, ne ho passate tante. Ma ricevere giorno dopo giorno occhiate e commenti come se
non fossi adatto oppure fossi diverso mi faceva male. Era come essere gettato indietro nel
tempo, anche se a ferirmi adesso erano occhiate, commenti, silenzi, piccole cose di cui prima
non mi ero mai curato. Io ero abituato ai toni duri. Ma avevo la sensazione di essere diventato
la pecora nera della famiglia, l’intruso. E quanto non era morboso tutto ciò?
Insomma, per una volta in vita mia che cercavo veramente di inserirmi venivo respinto, e
come se non bastasse arrivò quella faccenda con Messi. La ricorderete dal primo capitolo.
Messi era la grande stella, in un certo senso la squadra era sua. Era timido e gentile, mi piaceva. Ma adesso ero arrivato io e avevo anche dominato sul campo, suscitando un clamore
pazzesco.
Era un po’ come se io mi fossi presentato a casa sua e stravaccato sul suo divano. Disse
a Guardiola che non voleva più giocare largo ma al centro: così da quel momento io non
ricevetti più molti palloni e la situazione si ribaltò rispetto all’autunno. Non ero più io a fare i
gol, era Messi, e così ebbi quella conversazione con Guardiola.
I dirigenti mi avevano spinto al confronto: «Parla con lui. Risolvi la cosa!». Ma come
andò? Andò che fu l’inizio della guerra, del gelo totale. Lui smise di parlarmi. Smise anche di
guardarmi. Diceva buongiorno a tutti gli altri e a me niente. Avrei detto volentieri: «Che
m’importa di uno che porta avanti questo genere di mobbing?». In condizioni diverse l’avrei
sicuramente fatto. Ma allora non ero abbastanza forte.
La situazione mi aveva abbattuto, e non era facile. Avere un capo che ti ignora di proposito è una sensazione che alla fine ti si insinua sotto la pelle, e adesso non ero più solo io a
notare la cosa. Tutti gli altri vedevano, e si domandavano: «Che succede? Di cosa si tratta?».
E mi dicevano: «Devi parlare con lui. Questa situazione è insostenibile».
Ma avevo parlato abbastanza con quell’uomo. Non avevo intenzione di strisciare e
stringevo i denti: ricominciai a giocare bene, nonostante la mia posizione in campo e
l’atmosfera nello spogliatoio. Segnai cinque, sei reti a ripetizione, ma Guardiola rimaneva
sempre gelido e adesso capisco che non c’era nulla di strano.
Non si era mai trattato del mio modo di giocare, in realtà, ma del mio carattere, e giorno e
notte mi ronzavano dentro pensieri del tipo: è per qualcosa che ho detto o che ho fatto? Sono
sgradevole fisicamente? Ripassavo mentalmente tutto quanto, ogni incontro o avvenimento,
senza trovare nulla. Insistevo a farmi domande – sarà stato questo, o questo, o
quest’altro? – per cui no, non reagivo solamente con rabbia. Ma la guerra psicologica di
quell’individuo continuava e non era solo fastidiosa, era poco professionale. Tutta la squadra
ne soffriva e la dirigenza si innervosiva sempre di più: Guardiola stava sabotando il più
grosso investimento del club.
Intanto in Champions ci aspettavano partite importanti. Dovevamo incontrare l’Arsenal
all’Emirates Stadium in trasferta e Guardiola di sicuro avrebbe voluto escludermi del tutto, ma
probabilmente non voleva spingersi troppo in là: così partii titolare con Messi. Ma ricevetti
qualche direttiva? Niente! Non rimaneva che arrangiarsi per conto proprio. Come succedeva
sempre in Inghilterra, avevo pubblico e giornalisti contro, e alla vigilia si faceva un gran parlare: «Quello non fa mai gol contro squadre inglesi» eccetera eccetera. Alla vigilia
dell’incontro tenni una conferenza stampa e, nonostante tutto, cercai di essere me stesso.
«Aspettate e vedrete» dissi più o meno. «Ne riparliamo dopo la partita.»
In campo l’inizio fu duro, ma il ritmo indiavolato fece sparire Guardiola dai miei pensieri.
Era un’atmosfera magica, semplicemente: credo di non aver mai giocato una partita altrettanto bella. È vero, sprecai delle occasioni tirando sul portiere o fuori, e arrivammo alla fine
del primo tempo sullo zero a zero. “Di sicuro Guardiola mi farà uscire” pensai. Invece mi
lasciò giocare, e il secondo tempo era iniziato da pochissimo quando ricevetti una palla lunga
da Piqué e scattai in profondità: avevo un difensore addosso, arrivai davanti al portiere indeciso se uscire definitivamente dalla porta o no e lo superai con un pallonetto. Uno a zero.
Solo dieci minuti dopo, o giù di lì, ricevetti un bel passaggio da Xavi e partii nuovamente da
solo. Stavolta niente pallonetto, tirai una cannonata d’esterno destro e fu il due a zero per noi.
La partita sembrava decisa. Ero stato fantastico. Ma che cosa fece Guardiola? Applaudì? No,
mi sostituì. Davvero una gran mossa! Da quel momento in poi la squadra si afflosciò e
l’Arsenal riuscì persino a raggiungere il due a due negli ultimi minuti.
Durante la partita non mi ero accorto di niente, ma dopo avevo un male al polpaccio che
peggiorò rapidamente. Era davvero una sfiga enorme, ora che avevo ritrovato la forma. Così
avrei dovuto rinunciare sia alla partita di ritorno contro l’Arsenal in casa sia al Clásico di
primavera. Da Guardiola non ebbi nessun incoraggiamento, ma altra guerra psicologica. Se
entravo in una stanza, lui usciva. Non voleva nemmeno trovarsi nelle mie vicinanze, e adesso, quando ci penso, mi sembra veramente una stronzata. Nessuno capiva che cosa
stesse succedendo: né la dirigenza, né i giocatori, nessuno. Certo che quell’uomo è strano.
Come dicevo, non voglio togliergli i suoi meriti o dire che non è bravo come allenatore sotto
altri aspetti. Ma deve avere dei seri problemi con alcune cose. Sembra incapace di gestire
ragazzi come me. Forse molto semplicemente ha paura di perdere la sua autorità. Ci sta. Ci
sono capi che certamente possiedono molte qualità, ma che non riescono a gestire le personalit forti e non vedono altra via d’uscita che congelarle. Leader conigli, in altre parole!
Comunque sia, lui non mi chiedeva mai del mio infortunio. Probabilmente non osava. Anzi, no, una volta me ne parlò, in vista della semifinale d’andata di Champions contro l’Inter.
Quella volta lui era ancora più strano, e poi andò tutto a puttane, come sapete. Mourinho
aveva ragione: non fummo noi a vincere la Champions ma l’Inter, e dopo l’eliminazione Guardiola mi trattò come se fosse tutta colpa mia. Nell’aria cominciò a vibrare l’esplosione.
In un certo senso era orribile la sensazione che tutto quello che mi ero tenuto dentro a
breve sarebbe uscito, e io ero felice di avere un compagno come Thierry Henry. Lui mi
capiva, e ci scherzavamo su, come ho già raccontato. Mi aiutava ad allentare la tensione, e
un po’ cominciai a fregarmene di tutta la faccenda. Che altro potevo fare? Per la prima volta il
calcio non mi sembrava più tanto importante. Mi concentrai invece su Maxi, Vincent ed
Helena, passai più tempo con loro in quel periodo. Di questa cosa sono grato. I figli sono
tutto, questa è la verità. Ma in ogni caso, la tensione non potevo scuotermela di dosso e
quella famosa esplosione che avevo covato finalmente arrivò. Negli spogliatoi dopo il match
contro il Villarreal urlai a Guardiola tutto quello che mi rodeva dentro. Gli gridai in faccia quella
cosa sulle sue palle e sul fatto che se la faceva addosso di fronte a Mourinho, e potete immaginare.
Fu la guerra. Da una parte lui, il vigliacco meditabondo che non osava incrociare il mio
sguardo e nemmeno dire buongiorno; dall’altra io che avevo mandato giù tutto, ma che ora
ero esploso diventando di nuovo me stesso. Non era uno scherzo. In un’altra situazione e con
una persona diversa non ci sarebbe stato nessun problema. Le esplosioni di rabbia non sono
un grosso problema per me, né averle né subirle. Ci sono cresciuto in mezzo, per me sono
pura routine, e spesso sono state perfino utili. Sono sfoghi che ripuliscono l’aria, con Vieira,
per esempio, siamo diventati amici dopo una lite furiosa. Ma con Pep... fu subito chiaro.
Lui non riusciva a gestire la situazione, mi evitava del tutto. Spesso la notte restavo sveglio a pensare: “Quale sarà il prossimo passo? E che cosa devo fare?”. Una cosa ormai era
certa. La situazione era la stessa delle giovanili del Malmö: ero il diverso. Perciò dovevo diventare ancora più importante come giocatore, così forte che nemmeno Guardiola avrebbe
osato mettermi in panchina. Di certo non avevo nessuna intenzione di cambiare come persona. Al diavolo tutti i suoi: «Noi qui siamo così e così, qui siamo ragazzi normali...». Mi
rendevo sempre più conto di quanto fosse immaturo. Un vero allenatore sa gestire personalit differenti, dovrebbe far parte del suo lavoro. In una squadra ci sono diversi tipi di ragazzi,
è utile che sia così. Alcuni sono più duri, altri sono come Maxwell o come Messi e il suo gruppetto.
Ma Guardiola non ne fu capace, e capii che si sarebbe vendicato. Era nell’aria, e chiaramente non gli importava se al club sarebbe costato centinaia di milioni. Dovevamo giocare
l’ultima di campionato e lui mi mise in panchina. Me lo aspettavo. Ma pochi giorni dopo, improvvisamente, volle parlare con me. Una mattina mi convocò nel suo ufficio allo stadio,
dov’erano appese maglie e fotografie dei tempi in cui giocava e questo genere di cose.
L’atmosfera era glaciale. Era dal mio scatto d’ira che non ci parlavamo. Ma lui era anche
nervoso, aveva lo sguardo irrequieto.
Quell’uomo manca di autorità naturale, non ha nessun vero carisma. Se uno non sapesse
che è l’allenatore di una squadra importante, non si accorgerebbe di lui entrando in una
stanza, e adesso era lì che si contorceva. Di sicuro aspettava che fossi io a dire qualcosa, ma
io non dicevo niente. Aspettavo.
«Sì, dunque» attaccò.
Non mi guardava negli occhi.
«Per la prossima stagione non so cosa voglio fare di te.»
«Ok.»
«Sta a te e Mino decidere quel che sarà. Voglio dire, tu sei Ibrahimovi. Non sei uno che
gioca una partita sì e due no, giusto?»
Voleva che rispondessi, chiaro. Ma io non sono scemo e so molto bene che quello che
parla di più, in situazioni del genere, perde. Perciò tacevo. Non battevo ciglio. Stavo seduto
immobile. Ovviamente capivo che stava cercando di dirmi qualcosa, ma non era chiaro cosa.
Sembrava che volesse liberarsi di me, e non era proprio come dirlo, io ero il più grande investimento della storia del club. Eppure me ne stavo lì zitto. Non facevo niente. Allora lui si ripet: «Non so che cosa voglio fare di te. Tu che cosa ne dici? Qual è il tuo commento?».
Non avevo nessun commento.
«È tutto?» risposi soltanto.
«Sì.»
«Allora grazie» dissi, e me ne andai.
Immagino di essere sembrato duro, e figo. Questo almeno era ciò che speravo. Ma dentro
ribollivo, e appena uscito di lì telefonai a Mino.
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Certe volte forse ci vado giù un po’ duro. Non so. È una cosa che ho sempre fatto. Mio padre
andava fuori di testa quando beveva, e tutti in famiglia avevano paura, sparivano. Ma io lo affrontavo, da uomo a uomo, e gli urlavo in faccia. Gridavo cose come: «Devi smettere di
bere!». E lui si infuriava: «Porca miseria, questa è casa mia. Io faccio quello che voglio. Ti
sbatterò fuori!». Poteva scoppiare un casino pazzesco, tutto l’appartamento rimbombava
delle nostre urla. Ma non alzavamo mai le mani. Lui aveva un cuore grande, sarebbe stato
capace di morire per me. Ma questo non vuol dire che non fossi pronto alla rissa. Mi buttavo.
Raccoglievo la sfida, e non lo dico per vantarmi, tipo che io ero il duro della famiglia. Dico
solo la verità, e la verità è che mi facevo avanti. Non scappavo, e non succedeva soltanto con
papà, ma dappertutto. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza ho incontrato tipi che si accendevano come micce: mamma, le mie sorelle, i ragazzi nei campetti, e da allora ce l’ho
dentro di me, quel tratto: «Be’, che succede? Qualcuno cerca guai?». Il corpo è sempre
pronto alla rissa.
Fu quella la strada che scelsi. Ognuno aveva un ruolo, in famiglia. Da Sanela, per esempio, si andava per le questioni sentimentali. Io ero quello che combatteva. Se qualcuno
rompeva le palle, io rispondevo facendo altrettanto. Era il mio modo di sopravvivere, e imparai a non girare intorno alle cose, perché sennò la gente non ci capiva nulla. Io dicevo le cose
senza mezzi termini, non c’era nessun: «Tu sei fantastico, meraviglioso, però...», piuttosto un
diretto: «Tu devi darti una regolata». Poi ne accettavo le conseguenze. Così era. Così ero
cresciuto, e ovvio, quando arrivai a Barcellona ero già molto cambiato. Avevo incontrato
Helena e avuto dei figli e mi ero calmato, perciò magari dicevo: «Potresti essere così gentile
da passami il burro?». Ma dentro di me c’era ancora molto del vecchio Zlatan. Dopo il colloquio nell’ufficio di Guardiola strinsi i pugni e mi preparai a lottare per la mia causa. Era
l’inizio estate del 2010. Ci sarebbero stati i Mondiali in Sudafrica, e al Barça Joan Laporta
lasciò il suo incarico.
Si doveva scegliere un nuovo presidente del club, e sono cose che creano sempre turbolenza e insicurezza fra i tifosi. Fu scelto un tale che si chiamava Sandro Rosell, che era
stato vicepresidente fino al 2005 e amico di Laporta. Ma poi era successo qualcosa e si
diceva che fossero diventati nemici. Perciò è ovvio, nell’ambiente c’era preoccupazione:
Rosell avrebbe fatto piazza pulita del gruppo di Laporta? Nessuno sapeva dirlo. Il direttore
sportivo, Txiki Begiristain, se ne andò prima che Rosell lo cacciasse, e io naturalmente mi
domandavo: “Che peso può avere tutto questo sulla mia vicenda?”.
Era stato Laporta ad acquistarmi per cifre record e non era così assurdo pensare che
Rosell volesse colpirlo dimostrando che era stato un investimento stupido. Molti giornali scrissero persino che il primo compito di Rosell era vendermi, e i giornalisti non avevano la più
pallida idea di che cosa fosse successo fra me e Guardiola e... be’, in un certo senso non
l’avevo neppure io. Ma avevano intuito che qualcosa non andava, e non c’era neppure
bisogno di essere esperti di calcio per capirlo. Ero poco reattivo e in campo non reagivo come
al solito, Guardiola mi aveva sabotato. Ricordo che Mino telefonò al nuovo presidente e gli
riferì ciò che aveva detto Guardiola in quel famoso incontro.
«Che cosa intendeva?» domandò. «Vuole mandare via Zlatan?»
«No, no», rispose Rosell. «Guardiola crede in lui.»
«E allora perché parla a quel modo?»
Rosell non seppe rispondere. Era nuovo e nessuno intorno a lui sembrava saperlo. La
situazione era incerta.
Dopo la vittoria in campionato arrivarono le vacanze, ed era da tanto che non ne avevo
così bisogno, sentivo la necessità di allontanarmi da Barcellona. Io ed Helena facemmo un
viaggio negli Usa, e nel frattempo erano in corso i Mondiali. Quasi non li guardai. Ero troppo
deluso. Non eravamo riusciti a qualificarci, e poi francamente non mi andava di pensare al
calcio in generale e a tutto il casino del Barça in particolare. Ma alla lunga naturalmente non
funzionò. Il momento del ritorno arrivò, e, per quanto volessi allontanarle, tutte le questioni
ritornarono a galla. Che cosa succederà? Che cosa farò? Era un pensiero costante. Lo capivo che c’era una soluzione ovvia, cercare di andare via, ma non volevo abbandonare il mio
sogno così presto. Mai e poi mai. Decisi di lavorare sodo agli allenamenti e diventare ancora
più forte.
Nessuno avrebbe potuto abbattermi, mi sarei preso una nuova rivincita. Ma che cosa credete che successe? Non feci in tempo a dimostrare nulla. Non mi ero nemmeno infilato le
scarpette il primo giorno che Guardiola mi chiamò nuovamente. Era il 19 luglio, mi pare, i big
non erano ancora rientrati dai Mondiali. Intorno a noi era tutto molto tranquillo, e Pep cercò di
farle sembrare due chiacchiere così. Ma era evidente che aveva uno scopo. Era nervoso e a
disagio, come sempre, ma fece un po’ il gentile all’inizio, per preparare il terreno.
«Come sono andate le vacanze?»
«Bene, bene!»
«E come ti senti in vista della nuova stagione?»
«Bene anche lì. Sono carico. Darò il massimo.»
«Senti...»
«Sì?»
«Devi prepararti a stare in panchina» disse. Era il primo giorno della stagione. Non era
ancora cominciato il precampionato. Guardiola non mi aveva visto giocare nemmeno un
minuto. Le sue parole non si potevano interpretare che come un attacco personale.
«Ok» risposi soltanto. «Capisco.»
«E come saprai abbiamo preso David Villa dal Valencia.»
David Villa era in ascesa, su questo non c’era dubbio. Era stato una delle stelle della
Spagna ai Mondiali, ma in ogni caso era un attaccante che partiva largo, io giocavo al centro.
Non aveva niente a che fare con il mio ruolo in campo.
«E tu cosa ne dici?» continuò.
“Niente” pensai all’inizio, “se non ‘congratulazioni’, tipo.” Ma poi mi dissi: “Perché non
mettere alla prova Guardiola? Perché non verificare se c’era dietro una motivazione tecnica,
oppure se non si trattava soltanto di farmi fuori?”.
«Che cosa ne dico io?» attaccai.
«Sì.»
«Ecco, che lavorerò ancora più duro. Che sputerò sangue per avere un posto in squadra.
Ti convincerò che sono bravo abbastanza.» Onestamente, però, credevo poco di poterci riuscire.
Non mi era mai capitato di leccare il culo in quel modo a un allenatore. La mia filosofia è
sempre stata quella di lasciar parlare il campo. È ridicolo andare in giro a sbandierare che ce
la metterai tutta. Ti pagano, per mettercela tutta. Ma lì volevo sentire che cosa avrebbe risposto. Se avesse detto: «Ok, vedremo se sarai all’altezza» allora avrebbe avuto un senso. Invece lui si limitò a guardarmi.
«Lo so. Ma come andremo avanti?» mi chiese.
«Esattamente così» continuai. «Io ce la metterò tutta, e se tu giudicherai che vado bene,
giocherò nella posizione che deciderai tu, dietro o davanti o largo. Ovunque vorrai. Sei tu a
decidere.»
«Lo so. Ma come andremo avanti?»
Ripeteva tutto il tempo la stessa frase, e non c’era una volta che parlasse chiaro. Proprio
non gli riesce. Eppure non ce n’era bisogno, era tutto chiarissimo! Non si trattava di dimostrarsi all’altezza oppure no: quella era una faccenda personale. E invece di dirmi in faccia
che non riusciva a gestirmi cercava di mascherare la cosa dietro quell’unica frase sibillina.
«Come andremo avanti?»
«Farò come tutti gli altri, giocherò per Messi» dissi.
«Lo so. Ma come andremo avanti?»
Era ridicolo, e immagino che volesse che alla fine dessi di matto urlando: «Questo non
l’accetto, lascio il club!». Allora avrebbe potuto dire tranquillamente: «È stato Zlatan stesso a
volersene andare, non è una mia decisione». Solo che io sarò forse un selvaggio, uno che
cerca lo scontro troppo spesso, ma so anche quando devo controllarmi: non avevo niente da
guadagnare a dichiararmi in vendita, per cui lo ringraziai con tutta calma per la conversazione
e me ne andai.
Ovviamente ero incazzato nero. Ribollivo di rabbia. Ma l’incontro era stato comunque
proficuo. A quel punto era chiara la gravità della situazione, Guardiola non mi avrebbe fatto
giocare neppure se avessi imparato a volare, e la vera domanda diventava: sarei riuscito a
sopportarlo, ad andare giorno dopo giorno all’allenamento e trovarmi davanti quel tipo? Ne
dubitavo. Forse dovevo cambiare tattica. Ci pensavo. Ci pensavo tutto il tempo.
Partimmo alla volta di Corea del Sud e Cina per una tournée precampionato, e lì potei
giocare qualche partita. Non significava nulla, Messi e soci non erano ancora rientrati dai
Mondiali. Io ero ancora la pecora nera e Guardiola si teneva a distanza. Se voleva qualcosa,
mi mandava qualcun altro, e intanto i media erano come impazziti, era tutta l’estate che andavano avanti con i loro: «Quale sarà il destino di Zlatan?», «Verrà venduto?», «Rimarrà?».
Mi stavano addosso senza tregua, e lo stesso era per Guardiola. Riceveva continuamente
domande al proposito, e come credete che rispondesse? In modo schietto, tipo: «Zlatan non
mi piace e quindi voglio mandarlo via»? No, figuriamoci. Era a disagio e tirava fuori le sue
robe insulse.
«Zlatan decide da sé il suo futuro.»
Che stronzate! Cominciavo a ticchettare come una bomba: mi sentivo preso di mira e infuriato e volevo davvero esplodere. Ma, come dire, mi si mise anche in moto qualcosa dentro,
capii che la faccenda era entrata in una nuova fase. Non si trattava più solo di guerra, cominciava la lotta sul mercato dei trasferimenti e quello è un gioco che mi piace, lo sapete, e al
mio fianco avevo il migliore: Mino. Ne discutemmo a lungo e alla fine decidemmo di giocare
duro e d’astuzia: Guardiola non si meritava nient’altro.
In Corea del Sud ebbi un incontro con Josep Maria Bartomeu, il nuovo vicepresidente del
club. Facemmo una chiacchierata in albergo, e almeno lui fu chiaro: «Zlatan, se hai delle offerte ti conviene valutarle» disse.
«Io non vado da nessuna parte» risposi. «Sono un giocatore del Barcellona. Io rimango al
Barça.»
Lui assunse un’aria stupita.
«Ma come la risolviamo questa cosa?»
«Un’idea ce l’avrei» risposi.
«Davvero?»
«Potete telefonare al Real Madrid.»
«E perché dovremmo?»
«Perché se davvero devo lasciare il Barça, voglio andare al Real. Potete fare in modo che
venga venduto a loro.»
Josep Maria Bartomeu si spaventò.
«Stai scherzando?»
«Niente affatto.»
«No?»
«Abbiamo un problema» continuai. «Abbiamo un allenatore che non è abbastanza uomo
per dire che qui non mi vuole. Io voglio restare. Ma se lui vuole vendermi, che lo dica, chiaro
e tondo. E l’unico club dove voglio andare è il Real, tanto perché lo sappiate.»
Lasciai la stanza. Si era veramente messo in moto tutto. Real, avevo detto. Ma ovviamente era solo una mossa, una provocazione. In realtà avevamo in ballo il Manchester City e
il Milan, e certo, ero a conoscenza di tutte le cose incredibili che erano successe al City, di
tutti i soldi che sembravano esserci da quando erano subentrati gli sceicchi. Il City poteva
sicuramente diventare un grande club nel giro di poche stagioni. Ma io stavo per compiere
ventinove anni, non avevo tempo per piani a lungo termine, e i soldi non sono mai stati la
cosa più importante. Volevo andare in una squadra che potesse diventare forte subito, e nessun club in Europa aveva la tradizione del Milan.
«Puntiamo sul Milan» dissi.
Quando ci penso adesso, a posteriori, è abbastanza incredibile. A partire dal giorno in cui
Guardiola mi aveva convocato e detto che avrei dovuto stare in panchina mettemmo in
campo un gioco durissimo, e ovviamente ce ne accorgemmo subito: stavamo mettendo sotto
scacco sia Guardiola sia la dirigenza. Secondo i nostri piani sarebbero stati sottoposti a una
pressione psicologica tale da essere costretti a mollarmi per poco, e questo avrebbe creato
anche i presupposti per un buon ingaggio altrove. Ci fu un incontro con Sandro Rosell, il
nuovo presidente, e notammo subito che aveva le mani legate.
Non aveva nemmeno afferrato dove stesse il problema fra me e Guardiola. Aveva capito
soltanto che la situazione era insostenibile, e che era costretto a vendermi a qualsiasi prezzo
se non voleva mettere alla porta l’allenatore – cosa che naturalmente non poteva fare, non
dopo tutti i successi che aveva ottenuto il club. Rosell non aveva scelta. Che mi amasse o mi
odiasse, doveva liberarsi di me.
«Mi dispiace per questa cosa» disse, «ma la situazione è quella che è. C’è qualche club in
particolare dove vorresti andare?»
Mino e io eravamo preparati a quella domanda.
«In effetti sì» dissi, «uno ci sarebbe.»
«Bene, molto bene» si illuminò. «E quale sarebbe?»
«Il Real Madrid» dissi io.
Sandro Rosell impallidì. Cedere una stella del Barça al Real era alto tradimento...
«Impossibile» rispose. «Qualsiasi squadra, ma non il Real.»
In quel momento, sia io sia Mino lo pensammo: adesso dettavamo noi il gioco. Io continuai tutto tranquillo: «Tu hai chiesto e io ho risposto, e te lo ripeto volentieri: il Real Madrid è
l’unico club che riesco a immaginarmi. Mourinho mi piace, si sa. Ma in questo caso dovete
essere voi a telefonare e a parlare con loro. È ok?».
Non era ok. Niente al mondo poteva essere meno ok, e noi ovviamente lo sapevamo,
mentre Rosell cominciò ad andare nel panico. Il Barcellona mi aveva preso per settantasei
milioni di euro. Ora gli facevano pressione perché riportasse a casa quei soldi, ma se mi
avesse venduto al Real, che era diventato il nuovo club di Mourinho, i tifosi l’avrebbero più o
meno fucilato. Non si può dire che si trovasse in una situazione facile: non poteva tenermi per
via dell’allenatore e non poteva vendermi al nemico mortale. Aveva perso l’iniziativa, e noi
continuammo a martellare pesante.
«Ma pensa a come potrebbe andare via liscia. Mourinho stesso ha dichiarato di volermi!»
Di questo non sapevamo nulla, bluffavamo.
«No» disse lui.
«Che peccato. Davvero! Il Real è proprio l’unico club che potremmo prendere in considerazione.»
Uscimmo con il sorriso sulle labbra. «Real, Real» avevamo detto. Ma avevamo il Milan in
ballo, e lavoravamo per loro. Se Rosell era disperato non era una buona cosa per il Barça,
ma lo era per il Milan. Più Rosell era costretto a vendere, più sarebbe stato economico acquistarmi, e questo tornava a nostro vantaggio. Era un gioco che si svolgeva su piani diversi,
uno alla luce e uno dietro le quinte, ma intanto era cominciato il countdown.
Il mercato si chiudeva il 31 agosto, e il 25 avremmo giocato un’amichevole proprio contro
il Milan al Camp Nou. Non c’era ancora niente di definito, ma la notizia della trattativa era
comunque uscita sui giornali. Se ne parlava dappertutto, e Galliani, il vicepresidente del Milan, dichiarò solennemente che non sarebbe ripartito da Barcellona senza di me.
Nello stadio c’erano striscioni tipo: «Ibra, rimani!» e gli occhi di tutti erano puntati su di me,
ovvio. Ma quello fu soprattutto il match di Ronaldinho, che a Barcellona è un idolo. Era passato al Milan, ma era stato un simbolo del Barça e all’epoca era stato eletto miglior giocatore
del mondo per due anni di fila. Prima della partita avrebbero fatto vedere sul grande schermo
dello stadio un filmato con le sue giocate più belle, e poi avrebbe fatto un giro d’onore. Ma lui
è, come dire... lui fa quello che vuole.
Eravamo seduti negli spogliatoi aspettando di entrare in campo. Era una sensazione
strana. Fuori si sentiva il frastuono del pubblico, Guardiola ovviamente non mi guardava e io
non potevo fare a meno di chiedermi: “Sarà questa la mia ultima partita con la squadra? E
cosa succederà poi?”. Non ne avevo la più pallida idea. A un certo punto tutti trasalirono:
Ronaldinho aveva infilato la testa nello spogliatoio.
«Ibra» gridò, e sogghignò.
«Sì?» risposi.
«Hai fatto le valigie? Sono venuto per portarti con me a Milano!» continuò, e allora tutti
scoppiarono a ridere; diavolo d’un Ronaldinho, infilarsi da noi a quel modo! Tutti guardarono
me. Ovviamente avevano intuito cosa stava succedendo, ma nessuno l’aveva ancora sentito
dire così apertamente.
In partita avrei giocato titolare, ma il match in realtà non aveva nessuna importanza, e
subito prima del calcio d’inizio io e Ronaldinho continuammo a scherzarci su: «Ma sei pazzo
a venire a dire quella cosa?» tipo. Le immagini di noi due che ridiamo in campo fecero poi il
giro del mondo. Ma il peggio successe nel tunnel dei giocatori, mentre uscivamo per il
secondo tempo. Allora tutti i big del Milan, Pirlo, Gattuso, Nesta e Ambrosini, mi gridarono:
«Devi venire, Ibra! Abbiamo bisogno di te!».
Il Milan non aveva avuto grandi soddisfazioni ultimamente. Da anni l’Inter dominava il
campionato italiano, e al Milan tutti sognavano di iniziare presto un nuovo ciclo vincente. Adesso so che molti dei giocatori, Gattuso in testa, avevano fatto pressione sulla dirigenza:
«Prendete Ibra! In squadra abbiamo bisogno di uno con la sua mentalità vincente!».
Ma non era così semplice. Il Milan non aveva più il budget di un tempo e, per quanto
Sandro Rosell potesse essere disperato, cercò fino all’ultimo di ricavare il più possibile da me.
Voleva cinquanta, poi quaranta milioni di euro. Ma Mino continuò con il suo abile gioco.
«Non otterrete niente. Ibra andrà al Real. Noi il Milan non lo vogliamo.»
«Trenta, allora?»
Più passava il tempo, più Rosell abbassava il prezzo. La situazione si metteva sempre
meglio e Galliani venne a trovarmi a casa, in collina. Galliani è veramente un peso massimo e
a trattare è un demonio: avevo avuto a che fare con lui già in passato, quando stavo per lasciare la Juventus, e quella volta aveva detto: «Io ti offro questo, se no niente!». Allora la Juventus era in crisi e lui era in posizione di vantaggio; adesso invece la situazione era opposta,
era lui a essere incalzato: non poteva tornare a casa senza di me, non dopo le promesse che
aveva fatto e le pressioni dei giocatori e dei tifosi milanisti. Inoltre l’avevamo aiutato, avevamo
fatto in modo di abbassare il prezzo del cartellino, avrebbe potuto prendermi praticamente in
saldo.
«Queste sono le mie condizioni» dissi. «Sono queste, o niente», e vidi lui che rifletteva e
sudava.
Non erano pretese eccessive.
«Ok» disse.
«Ok.»
Ci stringemmo la mano e poi continuarono le trattative con il Barça. Era una cosa fra i club
e io non me ne curai, ma fu un dramma e ci furono diversi fattori che ebbero il loro peso: per
prima cosa il tempo, che stringeva sempre più. Poi la preoccupazione del Barcellona, infine
l’incapacità dell’allenatore a gestirmi. Tutte queste cose tornavano a vantaggio di Galliani.
Ogni ora che passava Sandro Rosell diventava sempre più nervoso, e il mio prezzo continuava a scendere.
Alla fine fui venduto per venti milioni di euro. Venti milioni! Grazie a una sola persona, il
mio prezzo era sceso di cinquanta milioni. A causa dei problemi di Guardiola il club era stato
costretto a fare il peggior affare di tutti i tempi, era pazzesco, e tutto questo lo dissi anche a
Rosell. Non che ce ne fosse proprio bisogno, lui lo sapeva benissimo. Di sicuro era rimasto
sveglio qualche notte a maledire quel casino. Avevo fatto ventidue reti e quindici assist durante la mia prima stagione al Barcellona, eppure il mio valore era calato di circa il settanta per
cento. Di chi era la colpa? Sandro Rosell lo sapeva molto bene, e ricordo che stavamo lì tutti
quanti, lui, Mino, io, Galliani, il mio avvocato e Josep Maria Bartomeu nell’ufficio del presidente al Camp Nou. Davanti a noi c’era il contratto. Rimaneva solo da firmarlo, e poi grazie e
arrivederci.
«Voglio che sappiate...» attaccò Rosell.
«Sì.»
«Che sto facendo l’affare peggiore della mia vita» continuò. «Ti sto svendendo, Ibra!»
«Vedi quanto può costare una cattiva gestione?»
«So che questa cosa non è stata gestita bene» ammise, e firmò.
Poi venne il mio turno. Ero lì con quella penna in mano, tutti mi guardavano e io sentii che
era il momento di dire qualcosa. O meglio, forse avrei dovuto starmene zitto, ma volevo sottolineare alcuni punti a livello personale.
«Ho un messaggio per Guardiola» cominciai, e allora tutti si fecero nervosi. Che cosa salter fuori adesso? Non ce ne sono stati abbastanza, di casini? Non potrebbe semplicemente
firmare?
«È proprio necessario?»
«Voglio che riferiate questo a Guardiola.»
«Che cosa?»
«Ecco. Voglio che gli diciate...» cominciai, e poi dissi esattamente cosa volevo che gli
riferissero.
Poi firmai, e sicuramente qualcuno pensò: “Poteva risparmiarsela!”, “Perché tirare fuori
questa cosa proprio adesso?”, Ma credetemi, ne avevo bisogno. Qualcosa mi era scattato
dentro in quel momento. Mi era tornata la motivazione: il solo pensiero di potermi prendere la
rivincita mi dava la carica, ecco la verità.
Quando misi la mia firma sul contratto e dissi quelle cose, tornai a essere me stesso. Mi
svegliai come da un brutto sogno e, per la prima volta da molto tempo, sentii un gran desiderio di giocare a calcio. Tutti quei pensieri di smettere che avevano avvelenato la mia estate
erano spariti, ed entrai finalmente in un periodo in cui giocavo per pura gioia. O, per meglio
dire, giocavo per pura gioia e pura rabbia: gioia per essere riuscito a scappare dal Barça e
rabbia perché una persona era riuscita da sola a distruggere il mio sogno.
Fu come una liberazione, e cominciai anche ad avere una visione più chiara dell’intera
faccenda. Quando c’ero stato in mezzo avevo cercato più che altro di darmi coraggio: non è
poi così grave, ritornerò grande, vedranno! Andavo avanti così tutto il tempo. Ma poi, quando
tutto finì, mi resi conto che era stata tosta! La persona che avrebbe dovuto significare più di
tutto per me come giocatore mi aveva completamente messo da parte, e questo era peggio di
quasi tutto ciò che avevo dovuto passare.
Dal giorno del mio arrivo ero stato sottoposto a una pressione spaventosa, e in quelle circostanze hai bisogno del tuo allenatore. Che cosa avevo avuto invece? Uno che mi evitava.
Un uomo che mi trattava come se non esistessi. Io, che dovevo essere la più grande delle
stelle, laggiù mi ero sentito una presenza sgradita. Andiamo, avevo avuto Mourinho e
Capello, i due allenatori più severi del mondo, e mai un problema con loro. E poi era arrivato
quel Guardiola... Dentro di me ribollivo di rabbia, a pensarci, e non dimentico quando dissi a
Mino: «Lui ha rovinato tutto».
«Zlatan» mi rispose.
«Sì.»
«I sogni possono avverarsi, e renderti felice.»
«Certo.»
«Ma possono anche realizzarsi e ucciderti.» Ed era vero, lo capii subito.
Al Barça un sogno si era avverato e anche infranto, e io continuai giù per le scale verso il
mare di giornalisti che aspettavano là fuori dall’ufficio, e fu allora che pensai: “Non voglio più
chiamare quell’individuo con il suo vero nome”. Mi tornarono in mente tutte le chiacchiere che
aveva tirato fuori in quei mesi e mi venne fuori in un lampo: il Filosofo!
L’avrei chiamato il Filosofo.
«Chiedetelo al Filosofo, qual era il problema» dissi, con tutto l’orgoglio e la rabbia che
sentivo.
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Il clamore fu veramente pazzesco, e ricordo una cosa che disse Maxi, anzi, due cose in realt. La prima era solo divertente. Mi chiese: «Perché tutti ti guardano, papà?» e io cercai di
spiegargli: «Papà gioca a calcio. La gente mi vede alla tv e pensa che sia bravo» e dopo mi
sentivo orgoglioso, tipo «Papà non è poi così male». Ma poi la faccenda prese un’altra piega.
Fu la nostra babysitter a raccontarcelo. Maxi le aveva chiesto per quale motivo tutti guardassero lui, perché è chiaro, avere gli occhi addosso era una cosa che anche lui aveva sperimentato in quei giorni, specialmente quando eravamo arrivati a Milano. Ma la cosa peggiore
era che aveva aggiunto: «Non mi piace quando mi guardano così».
Sapete, io sono molto sensibile a queste cose. Non starà mica cominciando a sentirsi diverso anche lui, adesso? Non sopporto quando i bambini si sentono presi di mira, mi ritornano in mente tante cose della mia stessa infanzia: Zlatan qui è fuori posto, è così, è cosà...
Cercai di passare molto tempo con Maxi e Vincent in quel periodo, sono due bambini meravigliosi, vivacissimi. Ma non fu facile, era scoppiato il delirio. Dopo aver parlato con i giornalisti
davanti al Camp Nou, me ne andai a casa da Helena.
Forse non aveva calcolato di dover traslocare così in fretta di nuovo, e probabilmente
sarebbe rimasta volentieri a Barcellona. Eppure lei lo sa meglio di chiunque altro: se non mi
trovo bene in campo, divento come un fiore appassito. E questo si riversa su tutta la famiglia.
Ricordo che dissi a Galliani: «Voglio venire a Milano con tutta la banda: Helena, i bambini, il
cane e Mino». Galliani annuì, tipo: “Sì, sì, venite pure tutti quanti!”. Aveva sicuramente preparato qualcosa di speciale. Così salimmo tutti a bordo di uno degli aerei privati del club e
lasciammo Barcellona. Quando atterrammo a Linate era come se fosse dovuto arrivare tipo
Obama: c’erano otto Audi allineate davanti a noi e fu steso un tappeto rosso, e io uscii con
Vincent in braccio.
Indossavo una camicia nera aderente e gli occhiali da sole, e per qualche minuto fui intervistato da alcuni giornalisti selezionati, gente di Milan Channel, Sky..., mentre dall’altra
parte della recinzione c’erano centinaia di tifosi in delirio. Era grandioso. Si sentiva nell’aria
che il club aveva atteso a lungo questo momento. Cinque anni prima, quando Berlusconi
aveva prenotato un tavolo per noi al ristorante Giannino, avevano creduto che tutto fosse già
fatto e si erano preparati per i festeggiamenti. Fra l’altro avevano pensato a una homepage
speciale per il sito ufficiale del club, che da tutta nera s’illuminava gradualmente a partire dal
centro con in sottofondo bum, bum, un effetto sonoro da brivido; dopo di che compariva il mio
nome, «Ibrahimovi», seguito dalle parole: «Finalmente nostro».
Finalmente poterono mettere tutto online. In breve la pagina fu presa d’assalto e andò in
tilt, si spense come una lampadina che salta. Ricordo anche che quando passai davanti a
quella barriera dietro cui c’erano i tifosi il casino era pazzesco, e mentre la gente gridava il
mio nome, «Ibra, Ibra», io salii su una delle Audi. Uscimmo dall’aeroporto, attraversammo la
città verso il centro e c’era il delirio, giuro, c’erano macchine e motociclette e telecamere a inseguirci.
Quell’accoglienza mi caricò. L’adrenalina pompava e capii ancora di più in quale buco
nero fossi vissuto al Barça. Mi sembrava di essere uscito da una prigione e di aver trovato ad
accogliermi una grande festa. Quando vidi i ragazzi del club provai la stessa cosa: mi aspettavano tutti e tutti volevano una cosa: che mi assumessi delle responsabilità, che li guidassi nuovamente alla vittoria. Mi piacque subito, ovviamente. Non c’era più nessun «Gioca
per Messi», ma «Vieni qui e prendi il comando!».
La via davanti all’Hotel Boscolo, dove avremmo alloggiato, era sbarrata. Tutt’intorno i tifosi
gridavano e applaudivano, e dentro la direzione dell’albergo era schierata e quasi s’inchinava.
In Italia, si sa, i giocatori di calcio sono come dei: ci fu assegnata la suite più grande e notammo immediatamente che tutto era organizzato alla perfezione.
Il club aveva forza e tradizione e davvero non vedevo l’ora di giocare. Quella sera il Milan
avrebbe incontrato il Lecce nella prima partita di campionato e io chiesi a Galliani di poter
scendere in campo subito, ma non fu possibile perché non erano ancora pronti i documenti.
Però andai comunque allo stadio. Sarei stato presentato durante l’intervallo, e non dimenticher mai quella sensazione. Prima della partita non volevo entrare negli spogliatoi e disturbare
la concentrazione della squadra, ma proprio lì accanto c’è una sala d’attesa e lì mi sedetti con
Galliani, Berlusconi e altri pezzi grossi del club.
«Tu mi ricordi un giocatore che ho avuto» disse Berlusconi.
«Chi?»
«Un ragazzo che sapeva gestire le situazioni per conto suo.»
Era ovviamente Van Basten. Mi diede il benvenuto nel club e poi salimmo insieme in
tribuna per seguire il primo tempo. Io avrei dovuto sedermi due posti più in là rispetto a lui per
un qualche motivo politico. C’era sempre un gran casino intorno a quell’uomo, ovviamente,
eppure allora era tutto piuttosto tranquillo, almeno rispetto a quello che sarebbe successo poi,
quando vennero fuori le voci su quelle ragazze, i processi e via dicendo. Ma allora Berlusconi
era seduto lì e sembrava soddisfatto, mentre io cominciavo a sentire le vibrazioni.
All’intervallo scesi sul campo, dove avevano srotolato un tappeto rosso e allestito un piccolo palco, e rimasi a lungo, o almeno così mi parve, in attesa accanto all’uscita del tunnel.
San Siro ribolliva, era pieno zeppo nonostante fosse agosto e ancora periodo di vacanze. Finalmente uscii e intorno fu tutto un boato, e io tornai di nuovo come un bambino. Avanzai in
mezzo a quel frastuono assordante, ai lati del tappeto c’erano un sacco di bambini e battei il
cinque a tutti loro prima di salire sul palco: «Quest’anno vinciamo tutto» dissi in italiano, e ci
fu un altro boato fortissimo, lo stadio tremò.
Sulla maglia che mi avevano passato c’era il nome Ibrahimovi ma non il numero, perché
non ne avevo ancora uno: ce n’erano un po’ fra cui scegliere ma nessuno mi piaceva e poi
forse avrei potuto avere l’undici, dato che Huntelaar era sulla lista dei partenti. Siccome
ancora non era stato venduto, però, dovevo aspettare.
Ma per il resto era tutto pronto, e avrei fatto in modo che il Milan vincesse di nuovo lo scudetto dopo sette anni. Un nuovo periodo di gloria stava per iniziare, l’avevo promesso.
Sia a me sia a Helena fu assegnata una guardia del corpo e forse qualcuno può pensare:
“Che razza di lusso sarebbe?”. Non è un lusso. In Italia i calciatori sono circondati da una
vera e propria isteria, c’è una pressione tremenda e, detto sinceramente, erano già successe
diverse cose sgradevoli, non solo il famoso incendio davanti al nostro portone a Torino.
Una volta, quando ancora ero all’Inter, c’era da noi Sanela. Lei ed Helena si recarono allo
stadio sulla nostra nuova Mercedes di grossa cilindrata, e una volta là trovarono caos e macchine in coda. Helena poteva avanzare solo a passo d’uomo, così la gente lì intorno ebbe
tutto il tempo di osservarla e di riconoscerla. A un certo punto un ragazzo in sella a una
Vespa passò così vicino alla macchina che urtò lo specchietto. Helena non avrebbe saputo
dire se fosse stato o meno intenzionale, così abbassò semplicemente il finestrino per sistemare lo specchietto e colse qualcosa con la coda dell’occhio: un nuovo ragazzo con un casco
da motociclista si stava precipitando verso di lei e allora capì che era una trappola. Cercò di
richiudere il finestrino ma la macchina era nuova e non era pratica dei pulsanti, perciò non
fece in tempo: il ragazzo le piombò addosso e la colpì sul viso.
Cominciarono ad azzuffarsi e intanto la Mercedes tamponò la macchina davanti mentre il
ragazzo cercava di tirare fuori dall’auto Helena attraverso il finestrino. Ma per fortuna c’era
Sanela: si aggrappò ad Helena e la trattenne. Furono attimi di panico, l’impressione era che
fosse una questione di vita o di morte. Alla fine Sanela riuscì a tirare di nuovo dentro Helena,
lei in qualche modo riuscì a girarsi sul sedile e, da una posizione impossibile, piazzò un calcio
in faccia a quell’idiota. Aveva tipo undici centimetri di tacchi, dovette fare parecchio male, e il
ragazzo scappò via correndo. A quel punto intorno alla macchina si era radunata una piccola
folla: c’era il caos più totale ed Helena era piena di lividi.
Sarebbe potuta finire male, e purtroppo cose di questo tipo ne succedono. È la verità.
Ecco perché avevamo bisogno di protezione. Comunque sia, la mia guardia del corpo, un
ragazzo simpatico, il primo giorno mi portò a Milanello per gli esami medici di rito e ovviamente giù vicino ai cancelli verdi erano in attesa tanti tifosi. Sentivo tutto il peso della tradizione del Milan e salutai tutti i big della squadra: Zambrotta, Nesta, Ambrosini, Gattuso, Pirlo,
Abbiati, Seedorf, Inzaghi, il giovane brasiliano Pato e, all’allenamento, Allegri, che era appena
arrivato da Cagliari e, pur non avendo molta esperienza, mi sembrava in gamba. Certe volte,
quando sei nuovo, vieni messo in discussione, tipo: «Credi di venire qui a fare la star?». Ma lì
ottenni subito rispetto da parte di tutti e in realtà forse non dovrei neanche scriverlo, ma molti
giocatori più avanti mi dissero: «Ci siamo alzati del venti per cento quando sei arrivato tu. Ci
hai tirato fuori come da un buco nero». Il fatto era non solo che il Milan non vinceva il campionato da anni, ma che a vincere erano stati sempre i cugini dell’Inter.
L’Inter aveva dominato fin da quando ero arrivato io, nel 2006, con l’atteggiamento vincente che avevo portato con me dalla scuola di Capello e con una regola fondamentale:
l’allenamento è importante come le partite. Non puoi allenarti in modo blando e giocare in
modo aggressivo, devi dare il massimo in ogni momento, altrimenti te la vedrai con me. Al
Milan incoraggiavo tutti e scherzavo con tutti, facevo le cose che per me erano state naturali
ovunque, fino a quel momento, tranne che a Barcellona. In un certo senso l’ambiente mi ricordava quello dei miei primi tempi all’Inter: «Guidaci, guidaci» sembravano dire i ragazzi, e io
pensavo: “Adesso gli equilibri subiranno una bella scossa”. Andavo a tutti gli allenamenti carico in un modo pazzesco, e, proprio come prima del periodaccio a Barcellona, avevo ricominciato a sgridare i compagni. Facevo casino e urlavo, prendevo in giro quelli che perdevano e
la gente mi diceva: «Ma cos’è che succede? Non vedevamo i ragazzi così carichi da
un’eternità».
C’era un altro nuovo giocatore in squadra, Robson de Souza, per tutti Robinho. Ero stato
coinvolto anche io in quell’acquisto, dato che già a Barcellona Galliani mi aveva chiesto: «Che
ne pensi di Robinho? Credi di poter giocare con lui?».
«È uno splendido giocatore! Prendilo, prendilo, poi vedremo come giocare» dissi, e così
fu.
Il Milan lo pagò diciotto milioni di euro, una cifra ritenuta modesta, e il prestigio di Galliani
ne guadagnò doppiamente: era riuscito ad acquistare sia me sia Robinho a prezzo di saldo.
Non molto tempo prima il Manchester City aveva sborsato ben più del doppio per Robinho,
eppure il suo acquisto da parte del Milan era ritenuto un po’ un azzardo: Robinho, infatti, era
stato un enfant prodige al quale in seguito era andata un po’ storta. Negli anni Novanta Pelé
era il responsabile del vivaio del Santos, il club della sua vita, da molti anni nell’ombra. La
gente sperava che sarebbe riuscito a scovare un nuovo supertalento, anche se non erano in
molti a crederci sul serio. Un nuovo Pelé, un nuovo Ronaldo, facile a dirsi, ma di giocatori
così non ne nascono molti neanche in un secolo. Eppure, già al primo allenamento, Pelé era
rimasto di stucco. Si dice che addirittura avesse interrotto il gioco per avvicinarsi a un
ragazzino magro sul campo.
«Mi viene quasi da piangere» gli disse, «mi ricordi me stesso.»
Quel ragazzino era Robinho, e crescendo diventò la grande stella che tutti si erano aspettati, almeno all’inizio. Fu venduto al Real Madrid e più tardi al Manchester City, ma si fece
anche la fama di bad boy festaiolo che menava le mani in allenamento e cose del genere. Ma
Santo Iddio, glien’erano anche capitate tante, a quel ragazzo. Nel 2004 era persino stata rapita sua madre: portata via nel bagagliaio di una macchina e tenuta prigioniera per quarantuno
giorni, fu un dramma spaventoso che lo colpì duramente.
Io e Robinho diventammo subito amici al Milan. Eravamo tutti e due cresciuti in condizioni
difficili, e c’erano delle somiglianze nelle nostre storie. A entrambi, poi, era stato sempre rimproverato di dribblare troppo, e io adoravo la sua tecnica. Ma lui era poco concreto in campo,
spesso faceva troppi numeri per conto suo.
Gli stavo addosso parecchio, per questo. Stavo addosso a tutti, nella squadra, e in vista
del mio esordio contro il Cesena, in trasferta, bruciavo d’energia. Potete immaginarvi le aspettative che accompagnavano quella partita.
Davanti partimmo titolari io, Pato e Ronaldinho, con Robinho in panchina. Ma fu un disastro. Io ero troppo su di giri, proprio come nel mio primo periodo all’Ajax: volevo spaccare il
mondo, così ottenevo poco. Il primo tempo si chiuse sul due a zero per il Cesena. Per il
Cesena! E noi eravamo il Milan! Era pazzesco, io ero fuori di me: ci davo dentro, ma andava
tutto storto. Verso la fine ottenemmo un rigore e chissà, magari potevamo ancora ribaltare il
risultato. Calciai io e la palla finì dritta sul palo. Perdemmo, e come credete che mi sentissi?
Dopo la partita dovevo fare il test antidoping, ed entrai nella stanza talmente infuriato che
spaccai un tavolo, un intero tavolo. L’addetto al test era letteralmente terrorizzato.
«Calma, calma» disse.
«Ascolta» replicai, «tu non mi vieni a dire cosa devo fare, perché finisci giù insieme al tavolo.»
Non fui simpatico, e poi contro un povero addetto al controllo del doping forse esagerai.
Ma ero entrato nel Milan con un certo atteggiamento, e quando perdevamo vedevo nero, e
quando vedo nero non potete venire lì a chiedermi di pisciare in un barattolo: dovete lasciarmi
sfasciare delle cose in santa pace. Bollivo di rabbia e fui solo felice quando i giornali il giorno
dopo si scatenarono contro di me, dandomi il voto più basso tra i giocatori in campo. Me lo
meritavo, e strinsi i pugni pensando già alla mia rivincita.
Le cose non si sbloccarono né nella partita successiva né alla quarta giornata, contro la
Lazio, nonostante il mio primo gol. Quella volta non dovetti fare il controllo antidoping. Andai
direttamente negli spogliatoi e là dentro c’era la lavagna che usano gli allenatori per gli
schemi, sapete, e io le tirai un calcio con tutte le mie forze. Volò via come un proiettile e sfiorò
Sokratis Papastathopoulos, che ovviamente non la prese bene. Scattò e urlò: «Che cazzo
fai?».
«Non giocare col fuoco. È pericoloso» ruggii, e allora nella stanza scese il silenzio perché
immagino che tutti capirono perfettamente a cosa mi riferissi: dovevamo vincere quella
partita, non era proprio il caso di prendere gol a pochi minuti dalla fine. Così non potevamo
andare avanti.
Dopo quattro partite avevamo solo cinque punti mentre l’Inter era in testa alla classifica,
proprio come al solito, e io sentivo sempre più la pressione sulle mie spalle.
In quei primi mesi abitavamo ancora all’Hotel Boscolo, e avevamo un certo ordine nella
nostra routine. Helena, che si era sempre tenuta lontana dai media, concesse la sua prima intervista. Fu per la rivista «Elle», e diede origine a un casino. Ogni nostra parola riusciva a
creare dei titoli. Io potevo dire cose senza senso, tipo: «Nel mio piatto ci sono meno polpettine e spaghetti da quando ho incontrato Helena» e sui giornali questa diventava la grande dichiarazione d’amore di Zlatan a Helena. Sentivo sempre di più che stavo cambiando. Io, che
avevo sempre ricevuto uno stimolo dalla notorietà, cominciavo a diventare misantropo, e se
dovevo fare qualcosa, per esempio andare a caccia, m’informavo sempre: «In quanti
saremo? E chi verrà?».
Non mi andava di avere troppe persone intorno, facevamo una vita piuttosto tranquilla, la
sera di solito rimanevo in casa. Dopo un paio di mesi ci trasferimmo nell’appartamento che il
club ci aveva procurato in centro: era una casa stupenda, ovviamente, ma non c’erano i nostri
mobili e le nostre cose, era bella ma impersonale. La mattina la mia guardia del corpo mi aspettava giù nell’atrio e andavamo a Milanello: ci davano la colazione prima dell’allenamento e
il pranzo dopo, e spesso c’erano degli obblighi con i media, fotografie, interviste e questo
genere di cose. Come sempre, in Italia, ero spesso lontano dalla famiglia: stavamo in albergo
prima delle partite fuori casa e in ritiro a Milanello prima degli incontri in casa, e cominciavo a
risentirne.
Mi mancava molto la famiglia: Vincent cresceva e cominciava a parlare sempre di più,
Maxi stava diventando grande... In effetti era pazzesco. Maxi e Vincent avevano girato così
tanto che parlavano tranquillamente tre lingue: svedese, italiano e inglese. La vita era entrata
in una nuova fase, e spesso mi capitava di pensare: “Che cosa farò quando la mia carriera
sarà finita, e Helena comincerà di nuovo la sua?”. Facevo spesso questi ragionamenti. Certe
volte desideravo una vita senza più calcio, certe altre invece no.
Ma non per questo ero meno carico, e ben presto le cose cominciarono a girare anche in
campo. Decisi sette, otto partite di fila e la vecchia Zlatanmania ricominciò. Era di nuovo un
«Ibra, Ibra» dappertutto. Un giornale fece un fotomontaggio in cui io tenevo sopra di me la
squadra, come se portassi tutto il Milan sulle mie spalle. Ero più che mai al centro
dell’attenzione. Ma una cosa avevo imparato meglio di quasi tutti: nel calcio puoi essere un
dio un giorno e quello dopo non valere niente.
Passo dopo passo, intanto, si stava avvicinando il match più importante di quello scorcio
di campionato: il derby contro l’Inter a San Siro. Non c’erano dubbi, i miei vecchi tifosi mi
avrebbero preparato un’accoglienza caldissima. La pressione sarebbe stata ancora più forte.
Inoltre, in quei giorni, ebbi dei seri problemi con un compagno di squadra. Oguchi Onyewu
era americano e grande come una casa, e io dissi a Prince Boateng: «Finirà per succedere
qualcosa di serio. Me lo sento».
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Si diceva che fosse il ragazzo più buono del mondo. Oguchi Onyewu aveva l’aspetto di un
pugile categoria pesi massimi: alto circa due metri, pesava quasi cento chili. Anche se al Milan non era all’altezza, era stato eletto miglior giocatore straniero del campionato belga nel
2005, e miglior calciatore americano nel 2006. Ma con me non ingranava. Mi dava contro.
«Io non sono come gli altri difensori» mi disse.
«Ok, va bene!»
«Non mi lascio condizionare dalle tue chiacchiere. Da quella bocca che non sta mai chiusa.»
«Di che cosa stai parlando?»
«Guarda che ti ho visto in partita, tu non fai che martellare e martellare» continuò, e
questo mi fece innervosire.
Non soltanto perché ero stanco di tutti i difensori che vogliono provocare, ma anche
perché non sono io quello che continua a parlare. In campo io parlo un’altra lingua. Ne ho
dovute sentire così tante nel corso degli anni, «Maledetto zingaro», cose su mia madre e via
dicendo... La peggiore è: «Ci vediamo dopo la partita!». Ma che discorsi sono? Dobbiamo picchiarci fuori nel parcheggio o che cosa? Sono tutte stronzate. Ricordo Giorgio Chiellini, per
esempio, con cui eravamo stati compagni alla Juve. Quando io ero all’Inter ci trovammo a
giocare da avversari e allora lui mi stava sempre addosso: «Avanti, su, non è più come prima,
o no?». Cercava continuamente di provocarmi, e a un certo punto mi fece un tackle da dietro,
la cosa più vigliacca, perché non puoi vedere l’avversario che arriva. Caddi e mi feci male,
molto male. Ma non dissi niente. In situazioni del genere non parlo. Penso: “Al prossimo
scontro, gliela rendo... E dopo non starà in piedi per un pezzo”. È così che mi comporto, per
cui no, no, io non sono il tipo che parla a vuoto, piuttosto esplodo come una bomba nel corpo
a corpo. Ma quella volta con Chiellini non si creò più nessuna occasione durante la partita, e
così dopo il fischio di chiusura lo raggiunsi, lo presi per la testa e me lo trascinai dietro come
un cane disobbediente. Lui si spaventò, glielo lessi in faccia.
«Volevi la rissa, allora perché adesso te la fai addosso?» sibilai, e poi mi avviai tranquillo
verso gli spogliatoi.
Io non mi vendico con le parole ma con il corpo, e lo dissi anche a Onyewu. Ma lui continuava come se niente fosse, giorno dopo giorno: «Tu e la tua cazzo di bocca» diceva. Un
giorno, durante una partitella, gridai: «Quello non era fallo» e lui mi fece segno con il dito di
stare zitto, tipo: «Vedi, dici solo stronzate». Lì pensai: “Adesso basta, adesso la misura è
colma”.
«Sta’ attento» gli dissi.
Lui mi fece di nuovo segno col dito e allora vidi rosso. Ma non dissi nulla, non una parola,
“Quel bastardo vedrà come parlo in certe situazioni” pensai, e appena ebbe di nuovo la palla
entrai su di lui a piedi uniti. Ma lui mi vide, fece in tempo a spostarsi di lato e finimmo a terra
entrambi. Pensai: “Merda, l’ho mancato. Lo beccherò la prossima volta”. Ma quando mi alzai
per andarmene ricevetti un pugno sulla spalla, e non fu davvero una buona idea, Oguchi
Onyewu.
Gli risposi con una testata e scoppiò la rissa, e non sto parlando di una piccola zuffa
qualsiasi. Volevamo farci a pezzi. Fu uno scontro durissimo, eravamo due ragazzi di più di
novanta chili e rotolavamo tirandoci ginocchiate e pugni, e naturalmente tutta la squadra si
precipitò per cercare di dividerci. Ma non era facile, eravamo furiosi, impazziti di rabbia, e ok,
in campo devi avere adrenalina, devi combattere, ma quello superava i limiti. Era come una
questione di vita o di morte. Ma la cosa più brutta successe dopo: Onyewu si mise in ginocchio sul campo a pregare Dio con le lacrime agli occhi, si fece il segno della croce. Io pensai:
“Ma che sta facendo?” e mi salì ancora di più la rabbia. La vedevo come una provocazione, e
a quel punto mi si avvicinò Allegri: «Calmati, Ibra». Ma non servì. Lo spinsi da parte e corsi di
nuovo verso Oguchi, ma venni fermato dai compagni e probabilmente fu un bene: sarebbe
potuta finire molto male. Più tardi Allegri ci convocò tutti e due, ci stringemmo la mano e ci
scusammo. Ma Oguchi era freddo come un pesce. “Se lui è freddo, sarò freddo anch’io, nessun problema” pensai, e poco dopo mi riaccompagnarono a casa. Allora telefonai a Galliani, e
dovete saperlo, non mi piace dare la colpa agli altri. Non è da uomo. È meschino, soprattutto
in una squadra dove ti sei assunto il ruolo di leader.
«Ascolta» dissi a Galliani, «è successa una brutta cosa in allenamento. È stata colpa mia
e me ne assumo la responsabilità. Voglio chiedere scusa e puoi darmi la punizione che ti
pare.»
«Ibra» fece lui, «questo è il Milan. Noi non lavoriamo così. Tu hai già chiesto scusa. Adesso guardiamo avanti.»
Ma non era ancora finita. All’allenamento c’erano dei tifosi e la storia arrivò ai giornali.
Nessuno conosceva i retroscena, ma si seppe della rissa. C’erano volute dieci persone per
separarci, scrivevano, e si parlò di preoccupazione nella squadra, di Ibra bad boy e tutta la
solita solfa. Non me ne fregava niente, scrivessero pure quel che volevano! Ma sentivo un
dolore fortissimo al torace, facemmo un controllo e venne fuori che nello scontro mi ero rotto
una costola. Per le costole rotte non c’è rimedio, e i medici poterono soltanto farmi una fasciatura. Non era esattamente la cosa migliore che potesse succedere in quel momento.
Cominciò la preparazione in vista del derby. Avevamo Pato e Inzaghi infortunati e i
giornali scrivevano pagine e pagine in particolare sul probabile duello fra me e Materazzi.
Sarebbe stato particolarmente teso, si diceva. Non soltanto perché Materazzi era un duro, ma
anche perché ci eravamo già scontrati in precedenza, in più ultimamente mi aveva anche
preso in giro per via di quel famoso bacio sul distintivo del Barça al Camp Nou. Insomma,
tutto questo genere di cose. Stronzate, per la gran parte, ma una cosa era sicura: Materazzi
mi avrebbe marcato duramente perché quello era il suo lavoro. In situazioni del genere esiste
un solo modo di rispondere: con altrettanta durezza. Altrimenti perdi, e rischi di farti male.
Non esistono tifosi peggiori degli ultras dell’Inter. Non sono tipi cui piace perdonare, e per
loro io ero il nemico numero uno. Nessuno aveva dimenticato il nostro scontro in occasione
della partita con la Lazio, e ovviamente sapevo che ci sarebbero stati fischi e ogni genere di
attacco psicologico. Ma sono cose che fanno parte del gioco.
Non ero nemmeno il primo giocatore dell’Inter a essere passato al Milan, anzi, ero in
buona compagnia: Ronaldo, per esempio, era andato al Milan nel 2007 e i tifosi dell’Inter, in
occasione del derby, avevano distribuito fischietti per disturbarlo non appena toccava il pallone.
Il match fra Inter e Milan, il derby della Madonnina, scalda sempre gli animi, e c’è anche di
mezzo della politica e altre storie. C’è una rivalità enorme, è come Real-Barça in Spagna. Noi
arrivavamo al derby in testa alla classifica e una vittoria avrebbe significato parecchio: il Milan
non vinceva il derby da quattro anni, l’Inter l’anno prima si era portata a casa anche la Champions... erano stati loro a dominare. Se avessimo vinto ci sarebbe stata la sensazione di un
passaggio di potere. Dagli spogliatoi si sentivano i cori dei tifosi e la musica assordante che
usciva dagli altoparlanti. Nell’aria c’era un’atmosfera da festa popolare e però al tempo stesso
carica di odio, ma io non ero nervoso. Ero solamente carico. Stavo lì seduto vibrando
d’impazienza per poter correre fuori e combattere. Ma avere l’adrenalina a mille non è di per
sé un bene, puoi anche non riuscire a entrare veramente in partita e non combinare niente.
Ricordo molto bene l’inizio del match e la bolgia di San Siro. Non ci fai mai veramente
l’abitudine. Dopo pochi minuti Seedorf colpì alto di testa sopra la traversa. Al quinto ricevetti
un pallone sulla fascia destra. Avanzai ed entrai in area di rigore, con Materazzi che mi inseguiva. Voleva ovviamente mettere le cose in chiaro, tipo: «Dove credi di andare?». Ma
sbagliò il tempo della scivolata e mi tirò giu. Pensai subito: “È rigore? È rigore?”.
A me era sembrato netto, ma ancora non avevo capito. C’era un casino spaventoso e tutti
i giocatori dell’Inter allargavano le braccia verso l’arbitro, gesticolavano... Ma l’arbitro corse
verso il dischetto e tirai un respiro profondo. Ero io a dover battere il rigore e vi lascio immaginare la tensione.
Dietro c’era tutta la mia squadra: facevano affidamento su di me, non potevo sbagliare!
Davanti invece avevo il portiere e alle sue spalle la curva degli ultras dell’Inter. Erano come
impazziti: urlavano, fischiavano, facevano di tutto per condizionarmi, alcuni di loro cercavano
di accecarmi con i laser e mi arrivavano luci verdi su tutta la faccia. Zambrotta s’infuriò e andò
dall’arbitro: «Come fa a tirare così?».
Ma che cosa si poteva fare? Andare a frugare in giro per gli spalti? Certo che no, e poi io
ero perfettamente concentrato. Avrei potuto avere addosso anche dei fari abbaglianti o dei riflettori. Volevo solo prendere la rincorsa e tirare, sapevo esattamente dove: la palla sarebbe
entrata alla destra del portiere. Rimasi immobile per un paio di secondi e certo, sentivo di non
poter fallire, ero obbligato a mettere in rete. Avevo cominciato la mia stagione sbagliando un
rigore, non poteva succedere di nuovo. Ma non dovevo pensarci. Non bisogna mai pensare
troppo, in campo. Finalmente arrivò il fischio dell’arbitro, presi la rincorsa e tirai.
Successe esattamente come avevo previsto, la palla andò in rete e io alzai le braccia e
guardai gli ultras dritto negli occhi, tipo: «I vostri trucchi del cazzo non funzionano, io sono più
forte!». Devo dirlo, quando vidi sul tabellone «Inter-Milan zero a uno, Ibrahimovi» provai una
bella sensazione. Ero finalmente tornato in Italia.
Ma la partita era cominciata solo da pochi minuti, e la lotta si fece via via dura. Al quindicesimo del secondo tempo perdemmo Abate per espulsione, e non è uno scherzo giocare
in dieci contro l’Inter. Facevamo una gran fatica. Materazzi non mi mollava un secondo. In un
contrasto di gioco ci scontrammo violentemente e lui finì a terra. Il mio colpo fu del tutto involontario, ovviamente, ma lui rimase giù e arrivarono di corsa il medico e tutti gli altri giocatori dell’Inter. L’odio degli ultras aumentò ancora quando Materazzi venne portato fuori in
barella.
Negli ultimi venti minuti il forcing dell’Inter fu spaventoso, e io ero distrutto, mi veniva da
vomitare per la fatica. Ma ce la facemmo. Mantenemmo l’uno a zero e vincemmo il derby.
Il giorno dopo dovevo ritirare il mio quinto Pallone d’Oro svedese a Stoccolma, avevo
avuto una soffiata sulla vittoria, e avrei voluto andare a letto presto – per quanto è possibile
quando hai le emozioni di una partita del genere che ti picchiano in testa. Ma decidemmo che
saremmo usciti a festeggiare al Just Cavalli e venne anche Helena. Ce ne rimanemmo seduti
tranquilli in un angolo insieme a Gattuso, mentre Pirlo e Ambrosini e tutti gli altri si
scatenavano. C’era una tale, indescrivibile sensazione di sollievo, una gioia pazza e senza
freni, che non tornammo a casa prima delle quattro del mattino.
In dicembre il Milan acquistò Antonio Cassano.
Cassano ha un po’ la fama del bad boy come me, gli piace mettersi in mostra e parlare di
sé come di un giocatore fantastico. Il ragazzo ne ha passate parecchie, e spesso ha avuto
problemi con compagni e allenatori, fra l’altro con Capello ai tempi della Roma. Capello invent perfino un’espressione – Cassanata – che significa grossomodo stronzata. Ma Antonio
ha una meravigliosa qualità nel suo gioco. Mi piace davvero, e con lui siamo diventati una
squadra ancora migliore.
C’era però un problema che venne fuori poco a poco: cominciavo a sentirmi esaurito.
Avevo dato tutto, in ogni partita, e non credo di aver mai avuto addosso uno stress simile.
Può suonare strano, considerando tutto quello che avevo passato: arrivare al Barça era stato
tosto e nemmeno con l’Inter era stato facile. Ma ora, al Milan, sentivo più che mai che
dovevamo vincere il campionato e che dovevo essere io a guidare la squadra. Avevo giocato
ogni partita come se fosse una finale di Coppa del Mondo, e stava arrivando il conto: ero logorato.
Finì che non trovavo più sbocco per le mie idee e le mie giocate in campo. Arrivavo sul
pallone sempre un attimo in ritardo, di sicuro avrei dovuto riposare per una o due partite. Ma
Allegri era nuovo, voleva vincere a qualsiasi costo anche lui. Aveva bisogno del suo Zlatan e
mi spremeva fino all’ultima goccia. Non me la prendevo con lui per questo, lui faceva il suo lavoro, e poi io volevo giocare. Avevo voluto giocare anche con una costola rotta, Allegri mi
dava gli stimoli giusti, avevamo rispetto l’uno per l’altro. Ma io pagavo un prezzo per quegli
sforzi, non ero più così tanto giovane. Fisicamente ero un colosso, ma non come nella
seconda stagione con la Juventus, stavo attento a quello che mangiavo e non ero in sovrappeso. Ero tutto muscoli, ma anche più vecchio, e un giocatore diverso rispetto all’inizio
della carriera. Non ero più un amante del dribbling, come ai tempi dell’Ajax. Ero un attaccante
pesante ed esplosivo costretto a giocare con più astuzia per poter reggere un’intera partita, e
in febbraio cominciai a sentirmi stanco.
Doveva essere un segreto all’interno del club, ma trapelò sulla stampa e se ne fece un
gran parlare: «Terrà duro?», «Ce la farà?» si chiedevano tutti. Cominciammo anche a mollare
verso la fine di diversi incontri. Non reggevamo come a inizio campionato, e prendemmo una
serie di gol su contropiedi evitabilissimi. In un mese non segnai neanche un gol. In Champions fummo eliminati dal Tottenham, in campionato eravamo in calo mentre l’Inter aveva
ricominciato a giocare alla grande.
Ci avrebbero superati in classifica? Avremmo perso di mano il campionato? Si cominciava
a parlarne. Se ne scrivevano di tutti i colori, e le cose non migliorarono certo in seguito alle
mie espulsioni. La prima fu durante la partita contro il Bari, che era a fondo classifica. Eravamo sotto per uno a zero e io mi trovavo in area di rigore quando un difensore, Marco Rossi,
mi trattenne e io mi sentii bloccato. Reagii d’istinto e lo colpii a mano aperta sullo stomaco. Fu
una vera stronzata, lo ammetto. Però fu un riflesso, nient’altro, vorrei avere una spiegazione
migliore, ma non ce l’ho. Il calcio è una lotta. Vieni attaccato e rispondi, e a volte ti spingi
troppo in là senza sapere perché. Io l’ho fatto più volte. Nel corso degli anni ho imparato
molte cose. Non sono più il pazzoide del Malmö, ma quell’impronta non si è mai cancellata
del tutto. La mia mentalità vincente ha un rovescio della medaglia: a volte perdo il controllo.
Quella volta contro il Bari l’arbitro mi espulse, e il cartellino rosso può mandare in bestia chi-
unque, invece uscii subito dal campo senza protestare con una sola parola. Poco dopo, per
fortuna, Cassano pareggiò, ma io venni squalificato per due giornate, quindi niente derby di
ritorno contro l’Inter.
La società fece ricorso, ma non servì, e ovviamente era un bel casino. Eppure non la presi
male come avrei fatto negli anni passati. È proprio vero che in questi casi la famiglia aiuta:
non puoi lasciarti andare giù, ci sono di mezzo i bambini.
Ma la maledizione continuò. Rientrai contro la Fiorentina e sembrava andare tutto per il
meglio, stavamo vincendo e mancavano solo pochi minuti alla fine. Poi però l’arbitro ci fischiò
un fallo laterale contro. Mi saltarono i nervi e gridai «Vaffanculo» al guardalinee. Ok, potevo
evitarlo, soprattutto considerato quello che era successo contro il Bari. Ma andiamo, siete mai
stati in campo? I giocatori dicono vaffanculo e merda di continuo, e non vengono mica espulsi
per quello, o peggio squalificati. Gli arbitri lasciano correre, almeno la maggior parte delle
volte.
Ma io ero Ibra. Il Milan era il Milan. Eravamo in testa alla classifica. Diventò una questione
politica, si vide un’occasione per punirci. Così credo. Stavolta mi squalificarono per tre turni.
Sembrò che quella maledetta storia potesse costarci lo scudetto, e il club fece di tutto per salvare la situazione. Trovammo una linea di difesa e facemmo ricorso, dicemmo che avevo imprecato contro me stesso...
Ma, a essere onesti, erano cazzate, mi spiace dirlo! D’altro canto la punizione era ridicolmente severa. Il «Vaffanculo»? Ok, ero stato un idiota. Ma comunque non avevo fatto niente,
come insulto non è particolarmente pesante e sa Dio quanti ne ho sentiti di più gravi. Eppure
così stavano le cose. Dovetti accettarlo, e beccarmi come presa in giro anche il premio di un
programma televisivo.* Così è il gioco: un giorno ti osannano, quello dopo ti affondano. Ormai
c’ero abituato.
In classifica, intanto, il Napoli era salito in seconda posizione. Noi avevamo ancora tre
punti di vantaggio, ma mancavano sei gare, e per tre io ero squalificato. Era un disastro,
l’unica cosa buona era che avevo la possibilità di riposare e di pensare alla mia vita. Ho avuto
il tempo di lavorare a questo libro. Sono stato costretto a ricordare e mi ha colpito il pensiero
che, be’, d’accordo, non sono stato esattamente il migliore dei ragazzi. Non ho detto sempre
le cose giuste, e naturalmente mi assumo la responsabilità per tutto quello che ho fatto. Non
voglio dare colpe a nessun altro.
Ma ce ne sono tanti come me là fuori, ragazzi e ragazze, a cui vengono fatte delle strigliate perché non sono come tutti gli altri, e certe volte ci può stare. Io credo nella disciplina. Ma
mi mandano in bestia tutti questi allenatori che, pur non essendo mai arrivati ai vertici, sono
così fermamente sicuri: «È così che dobbiamo fare e in nessun altro modo!». È talmente
triste, e stupido!
Esistono mille vie percorribili, e quella speciale e un po’ tortuosa è spesso la migliore. Non
sopporto che quelli che non si allineano vengano schiacciati e umiliati. Se io non fossi stato
diverso adesso non sarei qui, e con questo non voglio dire: cercate di diventare come Zlatan!
Parlo di andare per la propria strada, qualunque sia. E che non si facciano raccolte di firme, o
non si venga isolati in modo umiliante solo perché si è diversi dagli altri.
Ma è chiaro, non è una buona cosa andare a complicare la vittoria dello scudetto alla tua
squadra, proprio tu che l’hai promessa il primo giorno, solo perché hai un brutto carattere.
* Il Tapiro d’Oro di Striscia la notizia.
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Adriano Galliani era seduto su in tribuna allo stadio Olimpico di Roma con gli occhi chiusi e
pregava: «Fa’ che vinciamo, fa’ che vinciamo». Lo capisco bene. Era il 7 maggio del 2011.
Erano le dieci e mezza di sera e i minuti passavano, anche se troppo lenti, e sulla panchina
Allegri e i ragazzi si contorcevano per il nervoso. Che si credesse in Dio o no, era tempo di
pregare: giocavamo contro la Roma, e ci bastava un punto per vincere lo scudetto, il primo
dopo sette anni di attesa.
Io rientravo dalla seconda squalifica ed era bellissimo poterci essere, nella partita che decideva il campionato.
Sapevo che non sarebbe stato un match semplice, fra Roma e Milan c’è una certa rivalità,
e poi quei punti servivano anche a loro: noi lottavamo per il titolo e la Roma per il quarto
posto, l’ultimo disponibile per la Champions.
Nel calcio italiano non si dimentica così facilmente, certe cose rimangono impresse nella
mente di tutti, rimangono nell’aria, ad esempio tutti si ricordano del famoso rigore non dato a
Ronaldo in quel famoso Juve-Inter. E ci sono anche fatti ben più gravi dei calci di rigore. Nel
1989 un giovane tifoso della Roma, Antonio De Falchi, era andato a Milano per vedere la
partita contro il Milan. Sua mamma era inquieta: «Non metterti addosso niente di giallorosso.
Non far vedere che sei un tifoso della Roma» e lui aveva obbedito. Si era vestito in maniera
anonima. Avrebbe potuto tifare per qualsiasi squadra, ma quando un ultrà del Milan gli si era
avvicinato e gli aveva chiesto una sigaretta, il ragazzo era stato tradito dal suo accento, e
subito circondato. Fu preso a calci e pugni e morì, una tragedia spaventosa, e prima della
nostra partita di quella sera ci fu una commemorazione. I tifosi gli resero omaggio dagli spalti,
la curva della Roma fece una coreografia con il nome «De Falchi» scritto in rosso su fondo
giallo: fu un bel gesto, ovvio, ma influenzò anche l’atmosfera dello stadio.
Nella Roma la grande stella è Totti, gioca lì da quando ha tredici anni e in città è come un
dio: ha vinto i Mondiali, la classifica cannonieri, la Scarpa d’Oro, tutto quanto, e, anche se non
era più tanto giovane, negli ultimi tempi aveva dimostrato un’ottima forma. C’erano striscioni e
cartelli con il nome di Totti dappertutto, ma si vedevano anche moltissimi striscioni per il Milan
e per me. Eravamo stati seguiti da molti tifosi che speravano di poter festeggiare la vittoria del
campionato, e sugli spalti c’erano fumo e scoppi di petardi.
In attacco partimmo titolari io e Robinho, con Cassano e Pato in panchina, e cominciammo bene. Ma al quattordicesimo minuto Vucinic riuscì a liberarsi per il tiro e sembrava
fatta per la Roma, invece Abbiati fece una parata grandiosa.
Ci aveva salvato un suo riflesso, e cominciò a serpeggiare la preoccupazione, anche
perché la Roma già ci aveva battuti all’andata. Noi davanti andavamo a caccia del gol: io ebbi
diverse occasioni, Robinho colpì un palo, anche Prince Boateng ebbe una buona chance...
ma non riuscivamo a segnare, e il tempo passava. Lo zero a zero comunque ci bastava, e
quando arrivò il novantesimo sembrava fatta, finita. Ma l’arbitro diede cinque minuti di recupero. Cinque minuti! Perciò si andò avanti ancora e, detto in tutta sincerità, non era solo Galliani a pregare. Sette anni senza uno scudetto è un tempo molto lungo per un club come il Milan, a quel punto eravamo così vicini e... ve lo ricordate? Io avevo promesso che saremmo
tornati a vincere. Era stata la prima cosa che avevo detto al momento della mia
presentazione a San Siro, e ok, gli sportivi ne dicono tante: promettono sempre ori e titoli, e
poi magari va tutto in fumo. Ma alcuni, come Muhammad Ali, mantengono ciò che promettono, e io volevo veramente fare come loro. Volevo parlare e realizzare: ero venuto al Milan con tutta la mia pazza mentalità vincente, avevo promesso e giurato e lottato e lavorato
duro e adesso... adesso si faceva il conto alla rovescia dei secondi, dieci, nove, otto, sette e
finalmente!
L’arbitro fischiò la fine dell’incontro, avevamo vinto. Tutta la panchina si riversò in campo e
lo stadio si riempì di fumogeni. La gente urlava e cantava per noi, c’era un’atmosfera bella e
folle. Era fantastico. Allegri fu lanciato in aria da tutti, mentre Gattuso correva in giro con una
magnum di champagne ad annaffiare tutti. Cassano era intervistato dalla tv e tutti intorno a
me erano come impazziti. Ci furono molti: «Grazie, Ibra, hai mantenuto la promessa», ma
anche cazzate tipo: «Fai qualcosa a Cassano laggiù!».
«Tipo cosa?»
«Tiragli un calcio, tu sei quello del kung fu, no?» e certamente, lo ero, fin da quando io e
papà guardavamo i film di Bruce Lee in tv, quindi perché no?
Eravamo tutti su di giri, e Cassano era un bel tipo. Poteva aver bisogno di un calcio. Passai accanto a lui e al giornalista che lo stava intervistando e colpii con un piede la testa di
Cassano: non forte, ma nemmeno troppo piano.
«Che sta facendo?» disse il giornalista.
«Quello è matto» fece Cassano.
«L’hai detto tu!»
«Ma i giocatori che ci aiutano a vincere il campionato sono autorizzati a comportarsi così»
disse Cassano, e rise.
Però si era fatto male, dopo andava in giro con una borsa del ghiaccio sulla testa. Era
stato un gesto d’affetto un po’ pesante, forse, ma in ogni caso poi cominciò la festa vera. Non
mi addormentai in una vasca da bagno, ma fu comunque una gran festa. A pensarci, era fantastico: in sei anni in Italia avevo sempre vinto lo scudetto. Qualcun altro ha fatto qualcosa di
simile? Ne dubito. E poi non vincemmo soltanto il campionato ma anche la Supercoppa Italiana contro l’Inter, in Cina. La Zlatanmania era arrivata anche laggiù: segnai, giocai una gran
partita e ottenni il diciottesimo trofeo della mia carriera. Ed ero felice.
Ma nel frattempo mi era anche successo qualcosa. Il calcio non era più tutto. Volevo stare
di più con la mia famiglia, e avevo detto di no alla Nazionale. Lars Lagerbäck mi piaceva, eppure non avevo dimenticato quella vecchia faccenda di Göteborg, sapete che non dimentico
facilmente. E poi volevo avere più tempo per Helena e i bambini. Perciò da un po’ di tempo
non giocavo più in Nazionale. Ma quell’estate, prima di venire al Milan, era stata dura e io mi
ero sentito di nuovo come il ragazzo diverso e difficile di Rosengård, quello che non sa stare
in gruppo.
Molti dei miei compagni di squadra del Barcellona avevano giocato nella Spagna vincitrice
dei Mondiali, e io pensavo sempre più spesso: “Questa cosa mi manca” ma non è che
pensassi di tornare in Nazionale. Era un impegno che portava via troppo tempo. Già non ero
quasi mai a casa con i bambini, mi perdevo così tante cose! Ma in quel periodo Lasse
Lagerbäck lasciò il suo posto. Erik Hamrén diventò il nuovo CT della Nazionale – Sven-Göran
Eriksson aveva rifiutato l’offerta – e mi telefonò: «Ciao Zlatan, sono Erik».
«Devo dirtelo subito» risposi, «non ho intenzione di ritornare.»
«Come?»
«Non so cosa ti abbiano detto. Magari hai avuto delle false promesse da qualcuno, ma io
non gioco.»
«Zlatan, cosa stai dicendo? Non avevo la più pallida idea di questa cosa.»
Ma Erik è un maledetto testardo. E a me i maledetti testardi piacciono. Continuò a spiegare: «Sarà dura. Sarà fantastico» e tutto questo genere di cose. Lo invitai a casa nostra a
Malmö e me ne accorsi subito, quell’uomo era in gamba. Andavamo d’accordo. Non era il
tipico allenatore svedese, lui osava andare oltre certe regole, e per me questo genere di individui sono sempre i migliori. Non credo nei paladini dell’ordine. Certe volte devi infrangere le
regole, è allora che avanzi. Voglio dire: che cosa ne è stato dei bravi ragazzi del Malmö
sempre così diligenti? Si scrivono forse libri, su di loro?
In ogni caso, alla fine gli dissi di sì, e stabilimmo che avrei portato la fascia di capitano e
che sarei diventato un leader anche in Nazionale. La cosa mi piaceva. Mi piaceva anche che
sarei stato io a metterci la faccia con i media, se avessimo perso. Era il genere di cose che mi
dava la carica. Quando al primo raduno feci la mia comparsa con i ragazzi della squadra,
glielo lessi in faccia. Stavano pensando: “Che cavolo succede?”. Normalmente agli allenamenti c’è un piccolo gruppo di tifosi ma lì a Malmö per un piccolo raduno ne erano arrivati
seimila, e io dissi con tutta calma: «Benvenuti nel mio mondo!».
Tornare a Malmö è sempre speciale. È vero, ci andavo spesso, Malmö è la nostra città.
Ma di solito con Helena ce ne stiamo in pace nella nostra casa. Giocarci è qualcosa di diverso, è allora che tornano a galla tutti i ricordi. Nell’estate successiva allo scudetto e alla
conquista della Supercoppa, con il Milan giocammo un’amichevole contro il Malmö. Le trattat-
ive per organizzare l’incontro si erano protratte a lungo, ma quando si aprì la vendita dei biglietti la gente prese d’assalto lo stadio. Mi hanno raccontato che quel giorno pioveva e la gente
stava in lunghe file sotto gli ombrelli e i biglietti finirono in men che non si dica. Era semplicemente pazzesco.
Ho detto molte cose brutte sul Malmö nel corso degli anni. Non ho dimenticato quello che
mi hanno fatto Hasse Borg e Bengt Madsen, ma io amo quel club, e non dimenticherò neppure il giorno in cui sbarcammo a Malmö con il Milan. Tutta la città mi abbracciò. Sembrava di
essere a carnevale. C’era casino ovunque, sbarramenti e un’isteria collettiva. La gente
saltava e agitava le braccia e gridava quando mi vedeva. Molti erano stati lì in piedi per ore
solo per vedermi di sfuggita. Tutta la città era in festa. Tutti aspettavano Zlatan, e io sono entrato di corsa in molti stadi che ribollivano, ma quella volta era speciale: era come vivere contemporaneamente passato e presente. Era la mia vita che tornava indietro e tutto lo stadio
cantava e gridava il mio nome.
In quel famoso vecchio documentario, Blådårar, io sto seduto su un treno e parlo a ruota
libera. «Ho deciso una cosa» dico. «Che un giorno avrò una Diablo color lilla, sapete, una
Lamborghini. E che sulla targa ci sarà scritto: Toys, giocattoli...»
È un tantino infantile. Ero giovane. Avevo diciott’anni, e avere una macchina grintosa era il
massimo della vita per un ragazzo come me, il mondo mi si era aperto davanti. Ma quelle parole fecero il giro della Svezia: «Hai sentito cos’ha detto quello Zlatan, quel ragazzetto? Una
Diablo color lilla!». Era passato molto tempo. Era una cosa lontana eppure in qualche modo
anche vicina, e quella sera, allo stadio di Malmö, i tifosi srotolarono un enorme striscione. Io
lo fissai, e mi ci volle un secondo per capire: c’era sopra un mio ritratto e accanto
un’automobile con la targa Toys.
«Zlatan torna a casa. Alla macchina dei tuoi sogni ci pensiamo noi» c’era scritto. Mi andò
dritto al cuore.
Come disse una volta uno dei miei amici, la mia storia è tutta una fiaba. È un viaggio dai
sobborghi verso un sogno. Non molto tempo fa mi fu inviata una fotografia, un’immagine del
ponte di Annelund, che si trova ai confini di Rosengård. Su quel ponte qualcuno aveva attaccato uno striscione: Puoi togliere il ragazzo da Rosengård. Ma mai Rosengård dal ragazzo,
c’era scritto, ed era firmato Zlatan.
Io neppure lo sapevo e, siccome allora ero infortunato ed ero a casa, andai a vederlo di
persona con il mio fisioterapista. Era verso la metà della giornata. Era estate e faceva caldo e
io scesi dalla macchina e guardai quelle parole che in realtà non sono esattamente mie. È
una variante di una vecchia citazione sui ragazzi del ghetto in generale, ma mi successe
qualcosa dentro quando lo vidi. Sapete, quel posto per me è speciale. Sotto quel ponte mio
padre fu rapinato e si ritrovò con un polmone perforato. Non molto distante da lì si trova il tun-
nel in cui correvo terrorizzato nel buio verso casa di mamma in Cronmans väg, tenendo i due
lampioni come punti di riferimento. Era il quartiere della mia infanzia. Erano le strade dove
tutto era iniziato, e mi sentivo, come dire? grande e piccolo al tempo stesso!
Ero l’eroe che ritornava. Ero la stella del calcio, ma anche il ragazzino spaventato sotto il
tunnel, quello che credeva che se la sarebbe cavata correndo forte. Ero tutto insieme nello
stesso tempo e giuro, mi affiorarono cento ricordi.
Rividi papà con i suoi auricolari e la sua tuta da lavoro, e i frigoriferi vuoti e le lattine di
birra, ma anche il giorno in cui aveva portato il mio letto in spalla per chilometri e chilometri e
quello in cui mi aveva vegliato all’ospedale. Rividi il volto di mamma quando tornava a casa
dal lavoro e il suo abbraccio quand’ero partito per i Mondiali in Giappone. Rividi le mie prime
scarpette da calcio, quelle che avevo comperato all’Ekohallen per cinquantanove corone e
novanta centesimi e che stavano a fianco di pomodori e verdure; e ricordai i miei sogni di diventare un giocatore il più completo possibile. Allora pensai: “Ho realizzato quel sogno, e non
ce l’avrei fatta senza tutti i grandi calciatori e allenatori con cui ho giocato e che ho avuto”, e
provai un enorme senso di gratitudine.
Lì c’era Rosengård. Lì c’era il tunnel. In lontananza si sentiva il rumore di un treno che
passava sul ponte. Qualcuno poco lontano mi stava indicando. Una donna col velo mi si avvicin, voleva una foto di noi due insieme e io le sorrisi. Intorno a me cominciava a radunarsi una
piccola folla. Era una fiaba, e io ero Zlatan Ibrahimovi.
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CARRIERA
1999
È incluso in prima squadra nel Malmö.
Debutta nella Prima Divisione svedese, segna una rete.
Il Malmö retrocede in Seconda Divisione.
2000-2001
Segna dodici reti con il Malmö in Seconda Divisione.
Debutta in Nazionale.
Viene acquistato dall’Ajax.
Ritorna in Prima Divisione con il Malmö, segna tre reti.
2001-2002
Debutta nell’Ajax, segna sei reti in campionato.
Segna due reti in Coppa Uefa.
Segna una rete nella Coppa d’Olanda.
Vince il campionato olandese.
Vince la Coppa d’Olanda.
Ottavi di finale ai Mondiali con la Svezia.
2002-2003
Vince la Supercoppa d’Olanda con l’Ajax.
Segna tredici reti in campionato.
Segna tre reti in Champions League.
Segna tre reti nella Coppa d’Olanda.
2003-2004
Segna tredici reti con l’Ajax in campionato.
Segna una rete nei preliminari di Champions League.
Segna una rete in Champions League.
Vince il campionato.
Quarti di finale agli Europei con la Svezia.
2004-2005
Segna tre reti con l’Ajax in campionato.
Segna il gol dell’anno secondo gli spettatori di Eurosport.
Viene acquistato dalla Juventus.
Segna sedici reti con la Juventus in campionato.
Vince lo scudetto.
Viene nominato miglior giocatore della Juventus.
Viene nominato miglior giocatore straniero
della Serie A.
Viene nominato miglior attaccante in Svezia.
Riceve il Pallone d’Oro svedese.
2005-2006
Segna sette reti con la Juventus in campionato.
Vince lo scudetto.
Segna tre reti in Champions League.
Ottavi di finale ai Mondiali con la Svezia.
2006-2007
Viene acquistato dall’Inter.
Segna quindici reti con l’Inter in campionato.
Vince lo scudetto.
Vince la Supercoppa Italiana.
Viene nominato miglior attaccante in Svezia.
Riceve il Pallone d’Oro svedese.
2007-2008
Segna diciassette reti con l’Inter in campionato.
Vince lo scudetto.
Segna cinque reti in Champions League.
Viene incluso dalla Uefa nella squadra ideale dell’anno.
Viene eletto miglior giocatore straniero del campionato italiano.
Viene eletto miglior giocatore in assoluto del campionato italiano.
Viene eletto miglior attaccante in Svezia.
Viene eletto miglior sportivo in Svezia.
Riceve il Premio Jerring.
Viene nominato miglior attaccante in Svezia.
Riceve il Pallone d’Oro svedese.
2008-2009
Vince la Supercoppa Italiana con l’Inter.
Segna venticinque reti in campionato.
Segna una rete in Champions League.
Segna tre reti in Coppa Italia.
Vince lo scudetto.
Vince la classifica marcatori della Serie A.
Segna il Gol dell’Anno del campionato italiano.
Viene eletto miglior giocatore straniero del campionato italiano.
Viene eletto miglior giocatore in assoluto del campionato italiano.
Viene eletto miglior attaccante in Svezia.
Riceve il Pallone d’Oro svedese.
2009-2010
Viene acquistato dal Barcellona.
Vince la Supercoppa di Spagna con il Barcellona.
Vince la Supercoppa Europea.
Vince il Campionato Mondiale per Club.
Segna sedici reti in campionato.
Segna quattro reti in Champions League.
Segna una rete in Coppa di Spagna.
Vince il campionato spagnolo.
Viene incluso dalla Uefa nella squadra ideale dell’anno.
Viene eletto miglior attaccante in Svezia.
Viene eletto miglior sportivo in Svezia.
Riceve il Pallone d’Oro svedese.
2010-2011
Segna una rete e vince la Supercoppa di Spagna con
il Barcellona.
Viene acquistato dal Milan.
Segna quattordici reti con il Milan in campionato.
Segna quattro reti in Champions League.
Segna tre reti in Coppa Italia.
Vince lo scudetto.
Segna una rete e vince la Supercoppa Italiana nell’agosto del 2011.
NAZIONALE
Sessantanove partite e ventotto reti.
Continua...
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LE MIE FOTO
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Io e Sanela sulla Opel di papà.
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Il mio quartiere mi dà il bentornato a casa.
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Con papà, Maxi e Vincent nell’appartamento di papà.
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L’inaugurazione di Zlatan Court a Rosengård.
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«Puoi togliere il ragazzo da Rosengård, ma mai Rosengård dal ragazzo.»
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Nelle giovanili del Malmö.
Nelle giovanili dell’MBI.
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Foto a sinistra: con Ronaldinho. A destra: con Gattuso al Milan.
Scudetto con l’Inter.
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Festeggio con Maxwell all’Ajax.
Con Messi al Barcellona.
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Io e Patrick Vieira.
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Dopo aver vinto il titolo di capocannoniere in Serie A.
Con Thierry Henry al Barcellona.
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Con Pelé.
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Con Moggi e Maxi.
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Con Moratti.
In tribuna con Berlusconi, Galliani e Mino al mio ritorno a San Siro.
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Con il fisioterapista Rickard Dahan nella Nazionale svedese.
Con José Mourinho.
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Mourinho compare improvvisamente dietro me e Guardiola durante la semifinale
di Champions League 2009-2010.
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Con Erik Hamrén, il CT della Nazionale svedese.
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Zlatan Camp, scuola di calcio per ragazze e ragazzi.
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Gli ultras dell’Inter danno il benvenuto a Maxi.
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Il dottor Ibrahimovic alla nascita di Maxi
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Io, Maxi e Helena; Helena, dal servizio fotografico su «Elle».
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A casa a Malmö.
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Il ritorno a Milano. Mino, io, Maxi e Vincent.
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Nella casa a schiera a Diemen.
Le mie famose battute di caccia...
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... e di pesca.
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A casa a Malmö con Trustor.
Hoffa mangia la pizza.