Riflettendo su Che Guevara dal punto di vista della nonviolenza

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Riflettendo su Che Guevara dal punto di vista della nonviolenza
Riflessioni, articoli tratti da “La domenica della nonviolenza”, n. 97 del 29 ottobre 2006
Riflettendo su Che Guevara
dal punto di vista della nonviolenza
Proponiamo di seguito alcuni materiali più o meno recenti sulla figura, l'azione, la riflessione, il
lascito di Ernesto "Che" Guevara, e l'appello e gli interrogativi che la sua vicenda e la sua opera
pongono alle persone di volontà buona, e particolarmente a coloro che hanno fatto la scelta
dell'accostamento alla nonviolenza.
Guevara, come è noto, è stato sostenitore nella prassi e nella teoria di un'azione di liberazione degli
oppressi fondata sull'uso della violenza rivoluzionaria, e particolarmente su quella specifica azione
militare che è la guerra di guerriglia. Questa analisi e questa proposta va presa sul serio e discussa
approfonditamente dalle persone che - come chi redige questo foglio - invece sostengono che la
violenza sia inutilizzabile ai fini della liberazione dell'umanità, così come vanno prese sul serio e
discusse approfonditamente sia le varie teorie filosofiche e giuridiche che sostengono la liceità della
guerra, sia le ricerche e le elaborazioni che costituiscono il corpus teorico e le verifiche empiriche
degli studi militari, dai classici a Clausewitz a oggi.
Si può fare la scelta della nonviolenza solo se si prende sul serio la violenza, e se ne svolge una
critica sistematica adeguata, proponendo una migliore modalità di azione, sia in difesa della dignità
e dei diritti di ogni persona, sia di liberazione dell'umanità da ogni forma di oppressione.
La nonviolenza non è qualcosa di meno, ma qualcosa di più della violenza; essa non è
rassegnazione all'esistente, ma lotta contro l'ingiustizia e l'oppressione più forte della stessa lotta
violenta; la nonviolenza non è meno ma più rivoluzionaria della violenza. Per contrastare
adeguatamente la violenza, la nonviolenza deve studiarla, e studiarla non solo nelle sue
manifestazioni e teorizzazioni palesemente più rozze e barbariche, terroristiche e dereistiche, ma
finanche nelle sue espressioni più formalizzate e nelle sue pretese "legittimazioni" teoriche più
acute e più penetranti.
Agli studenti con i quali chi scrive queste righe lavora da anni sempre propone di avviare la
riflessione sulla nonviolenza iniziando col prendere sul serio ed analizzando in profondità le teorie
della "guerra giusta" e della "violenza liberatrice", esaminando, studiando, discutendo e
sottoponendo quindi ad una rigorosa e sistematica critica radicale una tradizione che viene
dall'antichità classica e ancora nel XX secolo annovera figure di grande rigore e dignità come ad
esempio Frantz Fanon ed Ernesto Guevara.
Esaminare, smascherare, denunciare la violenza nella sua concreta fenomenologia come nella sua
tradizione teorica, istituzionale e ideologica, è uno dei compiti fondamentali della nonviolenza: è
una delle decisive modalità attraverso cui la violenza va contrastata.
In questa opera di ricognizione, interpretazione, smascheramento, denuncia e contrasto della
violenza e delle sue tradizioni, pratiche, istituzioni ed ideologie, di decisivo valore è la tradizione
teorica e pratica dei femminismi, il pensiero e la prassi delle donne: da Hannah Arendt a Virginia
Woolf, da Edith Stein a Etty Hillesum, da Simone Weil a Luce Fabbri, da Simone de Beauvoir a
Franca Ongaro Basaglia, da Marianella Garcia Villas a Rigoberta Menchù, dalle madri di Plaza de
Mayo a Cindy Sheehan, da Aung San Suu Kyi a Shirin Ebadi, a Vandana Shiva.
Ernesto Che Guevara, "questo amore per l'umanità vivente" ......................................................2
Tre tesi per una riflessione necessaria (2000)..............................................................................4
"Il Che inedito" ..........................................................................................................................10
Una minima bibliografia introduttiva ........................................................................................13
1
Ernesto Che Guevara, "questo amore per l'umanità vivente"
Giulio Vittorangeli
"Quanto tempo è passato da quel giorno d'autunno / di un ottobre avanzato, con il cielo già bruno; /
fra sessioni di esami, giorni persi in pigrizia, / giovanili ciarpami, arrivò la notizia. / Ci prese come
un pugno, ci gelò di sconforto / sapere a brutto grugno che Guevara era morto" (dal testo di una
nota canzone italiana, anno 2000, di un notissimo cantautore).
Molti, moltissimi hanno scritto su Ernesto Che Guevara (alcuni, per la verità, in maniera totalmente
indecorosa). Anche persone solo apparentemente lontane dalla sua figura.
Come Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia: "Così è stata consumata - nel giro di un giorno la seconda, vera morte di Che Guevara ed è questa morte che noi rifiutiamo. Che il corpo morto che
ci è stato mostrato sia quello di Che Guevara o no, ha un'importanza solo affettiva. Resta il fatto che
di questo corpo, morto nella rivoluzione, si vuole fare una merce di consumo, facendola diventare il
corpo morto della rivoluzione, che non fa più paura e può essere riassorbito nella produzione. Si
tratta di integrare il suo corpo morto nel sistema che Che Guevara - morto o vivo - continua a
negare, e noi non vogliamo essere i muti testimoni di questo secondo assassinio" (da "Il corpo di
Che Guevara", 1967).
Certo, il compito attuale (quasi una sfida ineludibile) è quello di capire cosa resta oggi valido della
teoria e della prassi di Guevara.
È stato scritto, sul "Quaderno" n. 3/2000 della Fondazione Ernesto Che Guevara: "per Guevara
dovremmo essere espliciti e solleciti nel considerare la figura e l'opera teorica e pratica liberandolo
dal 'guevarismò, contrastando i consumi che ne vengono fatti volta a volta come di un'icona
liturgica o pop, di una eterna tentazione militarista, di una paradossale cristologia, ed anche, se
posso permettermi, di una sorta di figura da hegeliana Fenomenologia dello spirito". (p. 42, Tre tesi
per una riflessione necessaria, di Peppe Sini).
Mi sembra che in questa direzione vada l'ultimo libro di Giulio Girardi, Che Guevara visto da un
cristiano. Il significato etico della sua scelta rivoluzionaria, che analizza dettagliamene le idee del
Che di fronte alla globalizzazione.
Non solo, ma con la sua solita spregiudicatezza, nel capitolo finale del libro, Girardi propone un
associazione tra Camilo Torres ed Ernesto Che Guevara: "Propongo allora di riflettere con questa
preoccupazione sul messaggio di Camilo e del Che: scrutandoli, senza trionfalismi, dal cuore della
crisi di civiltà che stiamo soffrendo per capire se anch'essi sono travolti dalla crisi o se ci appaiono
ancora come fiaccole nella notte".
La conclusione è che le figure del Che e di Camilo si impongono non come miti del passato ma
come germi di un futuro in gestazione: "è grazie a questa presenza, che è ancora possibile,
nonostante tutto, credere nell'uomo" (pag. 294).
Del resto basta ricordare quella relazione tra amore e rivoluzione espressa lucidamente dal Che
nello scritto, del 1965, "El socialismo y el hombre en Cuba": "Lasciatemelo dire, a rischio di
sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti di amore. È impossibile
pensare a un rivoluzionario autentico senza questa qualità. È forse questo uno dei grandi drammi del
dirigente: egli deve unire a uno spirito appassionato una mente fredda e prendere decisioni dolorose
senza che gli si contragga un muscolo. I nostri rivoluzionari d'avanguardia devono idealizzare
questo amore per i popoli, per le cause più sacre, e renderlo unico e indivisibile... In queste
condizioni, bisogna avere una grande dose di umanità, un grande sentimento della giustizia e della
verità, per non cadere in estremismi dogmatici, in scolastiche fredde, nell'isolamento delle masse.
2
Tutti i giorni bisogna lottare perché questo amore per l'umanità vivente si trasformi in fatti concreti,
in atti che servano d'esempio, di mobilitazione".
3
Tre tesi per una riflessione necessaria (2000)
Peppe Sini
Tre tesi parziali e provvisorie per proporre una riflessione necessaria "Così è stata consumata - nel
giro di un giorno - la seconda, vera morte di Che Guevara ed è questa morte che noi rifiutiamo.
Che il corpo morto che ci è stato mostrato sia quello di Che Guevara o no, ha un'importanza solo
affettiva. Resta il fatto che di questo corpo morto nella rivoluzione, si vuole fare una merce di
consumo, facendolo diventare il corpo morto della rivoluzione, che non fa più paura e può essere
riassoribito nella produzione. Si tenta di integrare il suo corpo morto nel sistema che Che Guevara morto o vivo - continua a negare, e noi non vogliamo essere i muti testimoni di questo secondo
assassinio".
(Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, Il corpo di Che Guevara, 1967) Per illustrare ed
argomentare le tre tesi che in questo intervento vorrei proporre alla discussione avrei bisogno di
troppo più tempo di quanto sia disponibile oggi, pertanto mi limiterò qui ad enunciarle e chiederò a
chi ascolta la benevolenza di volerle ragionare e discutere mettendoci per così dire del proprio, nella
propria memoria recuperando e nella propria riflessione svolgendo sia quell'articolazione di
ragionamento, sia quell'apparato di riferimenti di cui le avrei munite e su cui le avrei verificate se
invece di parlare per pochi minuti avessi dovuto farlo per delle ore, ma che qui giocoforza tralascio,
ovviamente avvertendo che la secchezza di taluni enunciati (che certo non rende giustizia alla
complessità delle questioni proposte al dibattito) dipende dal fatto che si procede di scorcio e per
sommi capi.
1. Una prima tesi: inutilizzabilità della teoria-prassi di Guevara per un impegno di pace E poiché mi
è stato chiesto di intervenire anche per portare a questo incontro di riflessione il saluto del "Centro
di ricerca per la pace" di Viterbo, la prima tesi che vorrei proporvi è la seguente: dal punto di vista
dell'impegno per la pace la pratica e la riflessione peculiari e caratterizzanti di Guevara come
proposta di metodo e di azione non costituiscono un contributo utilizzabile.
Ma insieme va detto anche: che dal punto di vista della riflessione di chi è impegnato per la pace
l'esperienza e la testimonianza, la proposta teorica e l'appello di Guevara costituiscono una sfida
ineludibile (ed è ovvio che molte sue specifiche analisi, denunce, intuizioni, rotture, rappresentano
strumenti e materiali cui non si può rinunciare).
Sostengo con decisione questa tesi, della inutilizzabilità della teoria-prassi guevariana (e dico
guevariana e non guevarista perché penso che si debba tener distinto Guevara da quei guevarismi
che di quell'esperienza di azione e pensiero sono l'irrigidimento dogmatico e travisante talvolta fino
alla caricatura e alla nefandezza) dal punto di vista dell'impegno e della cultura della pace,
essenzialmente per i seguenti motivi.
- Primo: perché Guevara è stato eminentemente un capo militare, e il teorico di una via militare: di
un certo tipo di attività militare, la guerriglia rivoluzionaria, ma sempre di attività militare si tratta; e
l'attività militare è sempre e totalmente incompatibile con l'impegno di pace.
Del resto lo stesso Guevara ne era pienamente consapevole e lo enunciava con chiarezza: laddove
evidenziava essere la guerriglia una sorta di terribile extrema ratio dinanzi ad una catastrofica
violenza scatenata o cristallizzata e nella certificata impossibilità di adire altre e più umane vie di
azione.
E d'altro canto anche Gandhi, della violenza oppositore il più nitido e intransigente, è stato
costantemente esplicito nell'esortare a resistere comunque all''ngiustizia, anche con la violenza se
non si ha la forza di farlo con la nonviolenza, poiché dinanzi al sopruso pur sempre essendo la
violenza un male, cosa ancora peggiore è la viltà: "Credo che nel caso in cui l'unica scelta possibile
fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza" (11 agosto 1920); "Sebbene la
violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o protezione degli indifesi essa è un atto
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di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione" (27 ottobre 1946); Gandhi, come è
noto, aveva una concezione articolata e dialettica del rapporto tra violenza e nonviolenza.
- Secondo: perché il progetto rivoluzionario di liberazione fondato sulla pratica della guerriglia,
come tutti quelli fondati sull'uso della violenza da se stesso si condanna ad esiti inaccettabili, come
ha argomentato ad esempio Giuliano Pontara in una sua analisi che altre volte ho ripreso.
Cito da Giuliano Pontara, voce Nonviolenza, in AA. VV., Dizionario di politica, Tea, Torino 1992:
1. il primo argomento "mette in risalto il processo di escalation storica della violenza. Secondo
questo argomento, l'uso della violenza (...) ha sempre portato a nuove e più vaste forme di violenza
in una spirale che ha condotto alle due ultime guerre mondiali e che rischia oggi di finire nella
distruzione dell'intero genere umano"; 2. il secondo argomento "mette in risalto le tendenze
disumanizzanti e brutalizzanti connesse con la violenza" per cui chi ne fa uso diventa
progressivamente sempre più insensibile alle sofferenze ed al sacrificio di vite che provoca; 3. il
terzo argomento "concerne il depauperamento del fine cui l'impiego di essa può condurre (...). I
mezzi violenti corrompono il fine, anche quello più buono"; 4. il quarto argomento "sottolinea come
la violenza organizzata favorisca l'emergere e l'insediamento in posti sempre più importanti della
società, di individui e gruppi autoritari (...). L'impiego della violenza organizzata conduce prima o
poi sempre al militarismo"; 5. il quinto argomento "mette in evidenza il processo per cui le
istituzioni necessariamente chiuse, gerarchiche, autoritarie, connesse con l'uso organizzato della
violenza, tendono a diventare componenti stabili e integrali del movimento o della società che
ricorre ad essa (...). 'La scienza della guerra porta alla dittaturà (Gandhi)".
A questi argomenti da parte nostra ne vorremmo aggiungere altri due: 6. un argomento, per così
dire, di tipo epistemologico: siamo contro la violenza perché siamo fallibili, possiamo sbagliarci nei
nostri giudizi e nelle nostre decisioni, e quindi è preferibile non esercitare violenza per imporre fini
che potremmo successivamente scoprire essere sbagliati; 7. soprattutto siamo contro la violenza
perché il male fatto è irreversibile (al riguardo Primo Levi ha scritto pagine indimenticabili
soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati).
Agli argomenti contro la violenza Pontara aggiunge opportunamente un ultimo decisivo
ragionamento: "I fautori della dottrina nonviolenta sono coscienti che ogni condanna della violenza
come strumento di lotta politica rischia di diventare un esercizio di sterile moralismo se non è
accompagnata da una seria proposta di istituzioni e mezzi di lotta alternativi. Di qui la loro proposta
dell'alternativa satyagraha o della lotta nonviolenta positiva, in base alla duplice tesi a) della sua
praticabilità anche a livello di massa e in situazioni conflittuali acute, e b) della sua efficacia come
strumento di lotta" per la realizzazione di una società fondata sulla dignità della persona, il
benessere di tutti, la salvaguardia dell'ambiente.
- Terzo: infine, e per dirla tutta e senza infingimenti, perché al fondo di quella che si denomina
ipocritamente "la questione della violenza" c'è la tragica scelta morale di uccidere, di troncare vite
umane. E la mia personale opinione è che chi lotta affinché gli uomini possano essere se non liberi e
felici almeno un pò meno oppressi e un pò meno infelici, e questa lotta conduce da una prospettiva
egualitaria ovvero che riconosce dignità e diritto a vivere a tutti gli esseri umani, ebbene, deve
precludersi la scelta di uccidere, deve ripudiare il dare la morte.
Poiché chi condivide il punto di vista e l'impegno di lottare per la liberazione dell'umanità o almeno
per contrastare i poteri (politici, economici, tecnologici, militari, ideologici e mediali) che la dignità
umana denegano (e che oggi la stessa civiltà umana e la stessa biosfera minacciano di distruzione),
ebbene, deve sapere che in ogni sua azione e quindi nella stessa scelta della metodologia di lotta e
dei rapporti che nella lotta si instaurano deve affermare la dignità di tutti; sempre deve considerare
gli altri esseri umani come fini e non come meri mezzi, e non come semplici strumenti (per dirla
kantianamente: si tratta di costantemente considerare l'umanità, e quindi tutti gli uomini, come
regno dei fini); deve agire in modo che la sua azione sia, nel suo stesso farsi e nei suoi esiti
immediati, per così dire concrezione e vettore di una norma valida come fondatrice di socialità, di
una socialità che realizzi le tre parole d'ordine della grande rivoluzione del 1789: libertà,
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uguaglianza, fraternità. Uccidere non fonda una società, cancella vite umane; uccidere non libera,
sopprime e basta.
Eppure anche io che sono una persona che da oltre vent'anni ho cercato e cerco, nel mio personale
impegno di lotta contro l'ingiustizia e la menzogna, di coniugare una metodologia di analisi della
storia e della società che sbrigativamente definirò marxista, una weltanschauung materialista (che
altrettanto sbrigativamente definirò leopardiana), e la scelta morale, assiologica e strategica della
nonviolenza di tipo satyagraha (connessa al "principio responsabilità" - Hans Jonas, per intenderci,
ma anche un richiamo ad Emmanuel Levinas -), e solo così mi pare, almeno per quel che mi
riguarda, che si possa essere un rivoluzionario egualitario coerente per quanto è possibile, ebbene,
io non posso cessare di misurarmi e riflettere sulle scelte e le aporie di Guevara, sulle sue intuizioni
e contraddizioni, su ciò che di lui, della sua esperienza e della sua riflessione mi turba e ciò che mi
persuade, ciò che mi commuove e ciò che mi addolora e fin ripugna, poiché di ogni uomo, per
quanto lucido e generoso egli sia, vi sono aspetti che suscitano la nostra adesione ed aspetti che ci
muovono alla critica o finanche alla delusione ed all'opposizione.
Quest'uomo dall'animo grande, intransigente fino al sacrificio di sè (e con sè dei suoi compagni più
cari: e quale ferita questo dovette recare nell'animo suo), ed insieme tenero e sensibile come una
ballerina (e guascone perché anche lui pensava - idea che tanta sciagura ha recato al movimento
degli oppressi - che un capo rivoluzionario deve mascherare l'angoscia e lo smarrimento e il pianto);
quest'uomo che da medico si fece guerrigliero (e quindi in ultima analisi anche uccisore - non
dobbiamo aver paura di usare le parole che designano precisamente l'atto di uccidere: è l'atto che
deve farci orrore -) non essendo riuscito a trovare (ma Gandhi disse: c'è sempre un'altra strada),
nelle concrete condizioni e costrizioni storiche ed esistenziali in cui si trovò e secondo la percezione
e la coscienza che di esse ebbe, un più efficace modo di affermare la dignità umana, di cercar di
lenire l'umano dolore provocato dalla violenza storicamente prodotta dall'oppressione dell'uomo
sull'uomo, di contrastare chi calpesta altrui, di tentare la costruzione di una società meno barbara, di
riscattare le vittime dell'offesa in un percorso comune di conquista per tutti della dignità;
quest'uomo ci interroga, ci convoca, ci costringe a vedere, a prendere posizione, ad agire.
2. Una seconda tesi: in Guevara, che ne ebbe acuta coscienza, si incarnano contraddizioni,
dicotomie ed esiti aporetici delle esperienze storiche e della tradizione teorico-pratica dei
movimenti di resistenza e di liberazione, e particolarmente del marxismo rivoluzionario E questo
introduce la seconda tesi che intendo proporvi: nella figura, nella prassi, nella riflessione, nella
testimonianza e nello scacco di Guevara si condensano e per così dire si incarnano con straordinaria
potenza ermeneutica le contraddizioni e le aporie più incandescenti e più tragiche non solo della
tradizione storica e teorica della sinistra rivoluzionaria, della corrente calda del marxismo, ma di
tutti i movimenti e fin delle persone di volontà buona che si ribellano alla feroce barbarie del tuttora
presente tragico e assurdo momento dell'umanità.
Guevara ne ebbe acuta coscienza: e mi sembra colga nel vero chi interpreta il suo percorso e le sue
scelte nella fase finale della vita anche sotto il segno della consapevolezza che occorreva affrontare
questi grovigli immani.
Mi limito a una mera elencazione: - la contraddizione tra la morale eroica, l'etica del sacrificio da
un lato, e la leva (e l'obiettivo, e la promessa) del benessere materiale dall'altro; - il rischio di una
progressiva dicotomia e fin schizofrenia tra militante e popolazione; - la contraddizione tra la
denuncia della violenza degli sfruttatori e degli oppressori, e la sua riproduzione nella lotta e
nell'organizzazione di chi ad essa si oppone; - il patologico coniugarsi di attivismo (fin
irrazionalista) e positivismo (opportunista, giustificazionista); - il patologico coniugarsi di pretesa
scientifica (dogmatica) e atteggiamento profetico (sacrale e sacrificale); - il confliggente
sovrapporsi ad un progetto politico di liberazione fondato su una visione del mondo razionale, su
una ipotesi antropologica qualificata dalla consapevolezza, dalla moderazione e dalla benevolenza,
ed orientato alla proposta di una condivisa sobria felicità, di motivazioni fortemente condizionate da
mozioni, di matrice tra religiosa e misterica, al sacrificio catartico, alla sofferenza come espiazione,
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a prospettive escatologiche e soteriologiche; - la prevalenza del modello gerarchico su quello
consiliare; - la sottovalutazione della sfera (e dell'autonomia, e della rilevanza) del diritto, e
finanche di quella dell'amministrazione, rispetto alla pretesa sussunzione alla politica ed
all'economia (che diventano così una sorta di categorie onnivore e quindi radici di ideologie e
pratiche totalitarie); - il dramma dei rivoluzionari che giunti al potere non sanno essere legislatori ed
amministratori, e non riescono ad aprirsi ad una più ampia pratica democratica ed egualitaria, e la
conseguente involuzione burocratica ed autoritaria; - la riproduzione di rapporti di potere, di
oppressione, di sfruttamento, di esclusione, di denegazione.
Aver indicato, sia pure per mera elencazione, queste contraddizioni, e queste aporie, beninteso non
implica un atteggiamento di resa, ma di ricerca e di impegno, di maggior profondità nel riflettere,
nell'assumere responsabilità, nel continuare la lotta contro i carnefici; e continuarla anche contro
quella parte di noi stessi che potrebbe anch'essa divenire carnefice, o specchio o complice dei
carnefici: se ubriacata dalla falsa coscienza dell'ideologia e dalla viltà, dalla logica dell'obbedienza
che edifica lager o dalla pretesa di purezza che erige roghi; se cioè la coscienza non fosse
costantemente vigile.
A me sembra che Guevara visse ed avvertì acutamente queste contraddizioni, questa aporie, ed
almeno ad alcuni livelli e sulla base delle sue esperienze e riflessioni, e degli strumenti conoscitivi
di cui disponeva e delle circostanze in cui la sua azione poteva collocarsi, tentò in qualche modo di
agire per fronteggiarle.
Non vi è dubbio che Guevara colse non la mera involuzione burocratica ma quel che di più e di
peggio era accaduto nel "campo socialista"; colse non solo il portato, ma le radici e il senso della
frattura tra Urss e Cina; colse la solitudine del Vietnam; colse la necessità di far riferimento alle
potenzialità dell'Africa e che quello era un momento decisivo; colse la dimensione internazionale e
globale dello scontro non per meccanica applicazione della teoria dei due campi e dei catechismi
marxisti-leninisti, bensì per nitida percezione e concreta coscienza delle forme specifiche in cui la
dominazione imperialista nella fase coesistenziale riorganizzava il suo potere e la sua egemonia
attraverso i meccanismi strutturali e ideologici del neocolonialismo, dell'omologazione,
dell'inclusione subalterna, del primato produttivista.
Colse la catastrofe morale e fin antropologica prodotta così dall'economicismo come dalla ragion di
stato (e di partito), e si sforzò di contrapporvi il primato della persona, dell'uomo concreto e dei suoi
concreti bisogni e diritti nelle dimensioni del corpo, dell'intelletto, dei sentimenti, dell'incontro con
l'altro, del riconoscimento.
Colse la pervasività dell'alienazione nelle sue dimensioni sociologiche e psicologiche, nella sfera
della produzione e della riproduzione sociale, della cultura, della vita quotidiana, dell'interiorità; ed
alla colonizzazione mentale, all'introiezione da parte degli oppressi dei valori dell'ideologia
dominante che doppiamente li dimidia e assoggetta, cercò di contrapporre lo sforzo di una dolorosa
(perché cosciente) ed inquieta (perché incerta) ricerca di autenticità: nella condivisione della fatica e
della sofferenza, nell'azione rivoluzionaria, nell'attività fabrile, considerate sempre anche come
pratiche educative: nella scelta teorica e pratica, epistemologica e terapeutica, della solidarietà con
gli oppressi, dell'assunzione del punto di vista degli oppressi, della condivisione della condizione
degli oppressi (così simile in questo ad alcune delle cogitazioni, e delle scelte, ad un tempo sublimi
e sconcertanti di Simone Weil).
Colse anche la gravità e il pericolo che l'autoritarismo, il dogmatismo, la menzogna
rappresentavano per la rivoluzione. Colse il riprodursi di rapporti di potere, di sfruttamento e di
mistificazione anche nel campo degli oppressi.
Non seppe o non potè individuare soluzioni adeguate; ed alcuni suoi estremi tentativi possono anche
apparirci enigmatici, opachi, fagocitanti ed autolesionisti, ingiusti e spaventosi: ma non vi è dubbio
che quest'uomo avvertì acutamente i problemi, non eluse i conflitti, sentì e sostenne con strazio e
con fierezza le contraddizioni che lo laceravano.
Mi pare che delle dicotomie ed aporie di cui sopra si è fatta una frettolosa, caotica e certo carente
elencazione, sia assai consapevole ad esempio l'esperienza neozapatista in Chiapas, che nella sua
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elaborazione, che ha enormi meriti ed espliciti limiti, unisce ad una acuta e fin suggestiva pars
destruens, una enorme difficoltà a proporre una pars construens: quando dall'analisi critica, dalla
fondazione logica e ontologica della resistenza, si passa alla proposta, lì Marcos si ferma e si rifugia
in formule generiche e quasi meramente moralistiche.
3. Una terza ed ultima tesi: Guevara senza guevarismi Una terza ed ultima tesi per concludere: così
come Marx affermava infastidito di non essere marxista, e non meno infastidito affermava di non
voler scrivere i menu per i ristoranti dell'avvenire, sottraendosi così sia ad un ruolo pontificale e
dogmatico, sia ad un ruolo profetico e quasi taumaturgico (se ne fossero ricordati i suoi eredi, e non
solo gli abusivi e usurpatori con la vocazione al sacerdozio e alle fucilazioni, quante catastrofi si
sarebbero evitate), e così come giustamente uno studioso scrisse che occorreva leggere Kafka
"senza kafkismi", credo che anche per Guevara dovremmo essere espliciti e solleciti (lo accennavo
anche sopra) nel considerarne la figura e l'opera teorica e pratica liberandolo dal "guevarismo",
contrastando i consumi che ne vengono fatti volta a volta come di un'icona liturgica o pop, di una
eterna tentazione militarista, di una paradossale cristologia, ed anche, se posso permettermi, di una
sorta di figura da hegeliana Fenomenologia dello spirito.
Guevara non è l'uomo del XXI secolo che una macchina del tempo ha portato nel XX; non è
l'"uomo nuovo", fantasma cui egli stesso sovente allude (e che tra le tante sue formule e intuizioni
di grande efficacia, suggestione e fecondità, mi sembra anche una delle più ambigue e
potenzialmente anche pericolose, a cavallo tra l'ultrauomo di Nietzsche, il superomismo socialista
di Jack London, un persistente residuo di misticismo e millenarismo cristiano, e l'"ingegneria delle
anime" di stalinista memoria).
La sua riflessione politica, economica, sociologica ed etica non è particolarmente rilevante se
confrontata a quella di vari altri pensatori e testimoni, ed è in molti dei suoi aspetti centrali (ma non
tutti, beninteso) inadeguata ai problemi nuovi e terribili dell'oggi e dell'immediato futuro; la sua fin
leggendaria franchezza e coerenza non è solo una virtù ma talvolta anche un alibi (e in taluni suoi
pretesi epigoni degenera talvolta da strumento euristico quasi a cinico corto circuito logico
preventivamente autoassolutorio).
E se posso soffermarmi anche su questo: anch'io ritengo importante la coerenza tra ciò che si pensa,
ciò che si dice e ciò che si fa: ma non basta: occorre altresì valutare i motivi, il senso e gli effetti di
questi pensieri, queste parole, queste azioni. E tra quanti ammirano il "Che" per la sua coerenza
molti vi sono che in verità alla sua e alla nostra lotta sono nemici i più radicali.
Guevara, come chiunque, da Marx a Gandhi, da Socrate a Diderot, da Dante a Rosa Luxemburg, va
contestualizzato storicamente e culturalmente, e va letto nel suo stesso divenire, nella storia dei suoi
esperimenti con la verità (per parafrasare il titolo che Gandhi diede alla sua autobiografia). È un
uomo e non un oracolo. Un pensatore, un militante, un testimone, il cui valore pienamente si
apprezza appunto quanto più si è capaci di coglierlo precisamente nel gorgo storico, culturale,
esistenziale in cui concretamente visse, operò, pensò.
Ma detto tutto questo, e ricondotto Guevara fuori dall'alone del mito, fuori dalla leggenda e
dall'ideologia, fuori dalla sfera del sacro (sfera che sappiamo bene essere così terribilmente ed
intrinsecamente connessa alla violenza), resta un uomo grande: la cui vicenda, le cui scelte e
riflessioni, il cui appello ancora ci chiamano e ci feriscono come un pungolo, uno sperone
conficcato nelle nostre stesse carni, nel nostro stesso animo.
È l'uomo che ha scritto nella lettera di congedo ai figli: "Soprattutto, siate sempre capaci di sentire
nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo".
È l'uomo che ha scritto: "La solidarietà del mondo progressista verso il popolo del Vietnam
assomiglia all'amara ironia che l'incitamento della plebe rappresentava per i gladiatori del circo
romano. Non si tratta di augurare vittoria a chi è stato aggredito, ma di condividere la sua sorte, di
accompagnarlo nella morte o nella vittoria. Quando analizziamo la solitudine vietnamita, ci assale
l'angoscia per questo momento irrazionale dell'umanità".
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È l'uomo su cui Franco Basaglia scrisse, all'indomani della sua morte, alcune delle parole più nitide
e persuasive (e non ho voluto concludere questo intervento senza almeno ricordare quel grande
umanista, terapeuta e rivoluzionario che è stato Basaglia, e quel suo scritto su Guevara di cui sono
tra i pochi a serbare memoria e che propongo all'attenzione degli studiosi).
L'uomo Guevara ancora ci convoca a un impegno di umanizzazione, a non eludere le
contraddizioni, a dire la verità, ad agire affinché cessi l'orrore e l'uomo finalmente un aiuto sia
all'uomo, anziché un lupo; a costruire la giustizia e la solidarietà a cominciare da noi, adesso.
E lo sentono fratello e compagno gli oppressi tutti e soprattutto i popoli del sud del mondo in lotta
contro l'imperialismo che li stermina con le armi e con la fame, con il prezzo del rame e con il
turismo sessuale, con la gestione sussunta al profitto delle risorse, della biosfera, della stessa vita
umana ridotta a merce di scarso prezzo, che i vampiri dei mercati finanziari e i lupi delle reti
televisive sbranano incessantemente.
Anche chi come me ritiene del tutto peculiari le sue scelte, anche chi come me non condivide ed
anzi si oppone a elementi sostanziali e decisivi della sua azione e della sua meditazione, pure molto
ne ha appreso, di parti non meno fondamentali della sua elaborazione e testimonianza si è nutrito e
si nutre, e reca grata memoria di Guevara, della sua tragica e nobile figura di combattente per la
buona causa, la causa dell'umanità.
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Aldo Garzia presenta
"Il Che inedito"
di Antonio Moscato
Con ogni probabilità Antonio Moscato ha scritto il suo ultimo libro, Il Che inedito (Edizioni Alegre,
pp. 213, euro 12), sull'onda delle controversie più recenti relative a Ernesto Guevara (i diritti
d'autore concessi dagli eredi in esclusiva per l'Italia alla berlusconiana Mondadori per una somma
che supera il milione di dollari, la scarsa cura storiografica delle prime edizioni di questa editrice).
Ma il libro di Moscato non è un pamphlet polemico o un volume semplicemente divulgativo. In
questo testo ci sono soprattutto la mano e la passione di chi ha dedicato gli ultimi vent'anni allo
studio della biografia e degli scritti di Guevara.
Una ricerca ancora aperta Si possono condividere o meno le argomentazioni di Moscato e i suoi
affondi analitici, ma non si può non riconoscere all'autore di lavorare su inequivocabili pezze
d'appoggio. Che poi sono la rilettura degli scritti del Che, la loro periodizzazione storica accanto
alla lettura incrociata delle monumentali biografie a lui dedicate (da Roberto Massari a Jon Lee
Anderson, da Paco Ignacio Taibo II a Pierre Kalfon fino a Jorge G. Castaneda). E in questo lavoro
filologico c'è pure una novità. Questa volta Moscato fa i conti con una serie di inediti di Guevara
che stanno uscendo con il contagocce a Cuba e che lui ha avuto modo in parte di leggere in
anteprima sotto il vincolo della non riproduzione integrale (in particolare, gli appunti critici scritti
dal Che sul Manuale di economia politica dell'Accademia delle scienze dell'Unione Sovietica).
Eh sì, perché a quasi quarant'anni dalla sua morte in Bolivia nel 1967 resta tuttora aperta la ricerca
su Guevara. Molti documenti sulla sua vita e sulla sua morte giacciono nei cassetti di Washington,
Mosca, L'Avana. Non sono stati pubblicati tutti i suoi scritti. Sugli inediti vigila il Consiglio di Stato
cubano che ne teme l'uso politico incontrollato (i giudizi molto critici rispetto a Mosca non
renderebbero giustizia ai rapporti di sussidiarietà che l'Unione Sovietica ha avuto nei confronti
dell'Avana fino alla caduta del muro di Berlino del 1989). L'idea di Moscato, invece, è che proprio
l'implosione del "socialismo reale" avrebbe bisogno anche a Cuba di una piena riscoperta del
pensiero politico di Guevara perché nelle sue analisi c'era la previsione di quanto poteva accadere
sulla base di una analisi dell'organizzazione sociale ed economica dell'Urss.
Il distacco dall'ortodossia Moscato sgombra il campo da alcune interpretazioni semplicistiche.
Guevara non è stato soltanto un uomo d'azione, ma anche statista e autore di alcuni libri
fondamentali sulla rivoluzione cubana. Un altro errore è considerare il pensiero politico del Che
come un nucleo teorico a tutto tondo. La sua biografia politica è invece caratterizzata da scelte che
avvengono sulla scorta di incontri, letture e maturazione politica indotti dall'esperienza
rivoluzionaria a Cuba.
Il Che, all'inizio della sua avventura cubana, è un marxista ortodosso che guarda con favore alle
esperienze del "socialismo reale". Poi matura progressivamente un distacco da quei modelli. Ci
sono quindi nei suoi scritti intuizioni e spunti critici, non ancora una teoria alternativa al socialismo
di Stato. La vita di Guevara, inoltre, si spezza mentre la sua riflessione è in evoluzione e non ha
ancora preso la forma compiuta di un'alternativa al modello sovietico. Coloro che non erano
d'accordo con lui, a Cuba e fuori di Cuba, lo hanno accusato di trotzkismo e maoismo solo perché
cercava una via autonoma al socialismo rispetto al modello che aveva per capitale Mosca e leggeva
Trotskij. Non si può dimenticare, infine, che Guevara muore in Bolivia a soli 39 anni e che la svolta
della sua vita (la decisione di partecipare alla rivoluzione cubana) si annuncia quando ha già 28
anni. In soli dieci-undici anni, quindi, da quando parte con Fidel Castro alla volta di Cuba (1956)
fino alla decisione di guidare la guerriglia in Bolivia (1966), il Che condensa una serie straordinaria
di esperienze e riflessioni politiche.
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Occorre però fare dei passi indietro. Il 7 ottobre 1959 per Guevara arriva il primo incarico di
governo. È nominato responsabile del Dipartimento industrializzazione dell'Istituto nazionale per la
riforma agraria (Inra).
Il 25 novembre giunge la nomina a presidente della Banca nazionale di Cuba.
Nel 1960 visita Unione Sovietica, Cecoslovacchia, Cina e Corea del nord. Il 23 febbraio 1961 è
nominato ministro dell'Industria. Jean-Paul Sartre, che assieme a Simone de Beauvoir incontra il
presidente della Banca cubana nel 1960, annota in un articolo: "La guerra aveva formato quel
Guevara e gli aveva imposto la propria intransigenza; la rivoluzione gli aveva istillato il senso
dell'urgenza, della rapidità. Si credette di individuare, già in seno al Consiglio dei ministri, una
destra, una sinistra e un centro e si considerò Guevara come qualcosa di temibile, un radicale
furibondo.
Offrendomi un eccellente caffè nel suo ufficio mi disse: prima di tutto sono un medico, poi un
soldato e infine, come lei vede, anche un banchiere".
Quando Guevara assume l'incarico di ministro, ha pieni poteri su tutto l'apparato industriale. La sua
scelta è quella di favorire gli investimenti nei settori della chimica e dell'elettronica. Dopo il 3
febbraio 1961, data in cui gli Stati Uniti decidono di interrompere le relazioni diplomatiche con
Cuba, il Che sottoscrive accordi di scambio con l'Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti. Il
Guevara guerrigliero si trasforma rapidamente in economista e ministro consapevole delle sue
scelte. Per questo, promuove nel suo Ministero alcuni seminari sul Capitale di Marx e inizia a
studiare i problemi di organizzazione del lavoro e di politica economica (alcuni inediti, come
ricorda Moscato, riguardano i testi registrati di conversazioni-seminari che si svolgono nel
Ministero dell'industria).
Guevara intuisce rapidamente che il meccanismo della centralizzazione non favorisce i piani
produttivi di settore. Sferra un duro attacco ai primi segnali di burocratismo e cerca di modificare il
sistema di pianificazione.
I dati economici del 1963 mettono però sotto accusa proprio l'operato del Ministero dell'industria.
Dal 1961 in poi gli investimenti nel settore industriale erano stati pari a 850 milioni di dollari l'anno
senza un saldo positivo tra investimenti e produzione. In quel cruciale 1963 si apre lo scontro al
vertice del governo. Vi contribuiscono due economisti europei, presenti a L'Avana come consulenti:
Ernest Mandel e Charles Bettelheim. Il primo sostiene le posizioni di Guevara, il secondo è
d'accordo con quanti chiedono la correzione di rotta. La sterzata arriva il 19 agosto: un documento
del Consiglio dei ministri stabilisce che l'agricoltura e la canna da zucchero devono tornare il fulcro
dell'economia dell'isola, l'industrializzazione dovrà realizzarsi nel corso dei dieci anni successivi. Il
Ministero dell'industria, di conseguenza, perde il controllo delle attività produttive. Castro - è
un'altra annotazione di Moscato su cui chi ha studiato quel periodo non può che essere d'accordo - si
mantiene neutrale.
Dopo il dibattito al vertice del governo nel 1963, c'è un "secondo Guevara". Il Che precisa
ulteriormente le sue posizioni, che poi lo porteranno in rotta di collisione con il modello sovietico: il
socialismo non può limitarsi a cambiare le forme di distribuzione e di accumulazione economica; la
politica deve intervenire laddove l'economia è solo calcolo freddo delle compatibilità. Nei seminari
che si svolgono nel suo ministero pronuncia frasi che servono a comprendere cosa pensa in quel
periodo: "Lottiamo contro la miseria, ma al tempo stesso contro l'alienazione"; "Se il comunismo
non si occupa dei fatti di coscienza, potrà essere un metodo di distribuzione ma non sarà mai una
morale rivoluzionaria". Prende così corpo una teoria guevariana della transizione che sposta il
baricentro dalla centralizzazione politica ed economica alla ripresa della mobilitazione sociale,
mentre chiede tempo per avere dei risultati economici.
I rapporti con Castro Il 14 marzo 1965 Guevara appare per l'ultima volta in pubblico a Cuba.
Arriva all'aeroporto dell'Avana di ritorno da Algeri, dove il 24 febbraio - nel corso di un seminario
economico internazionale - ha pronunciato un discorso sullo "scambio ineguale" che ha mandato su
tutte le furie la delegazione sovietica ("Come si può parlare di 'reciproca utilità', quando si vendono
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ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che costano sudore e patimenti senza limiti ai paesi
arretrati, e si comprano ai prezzi del mercato mondiale le macchine prodotte dalle grandi fabbriche
automatizzate? Se stabiliremo questo tipo di relazione tra i due gruppi di nazioni, dobbiamo
convenire che i paesi socialisti sono, in un certo modo, complici dello sfruttamento imperialista").
Quali erano i rapporti tra Guevara e Castro in quel marzo 1965? Moscato si esprime a favore di una
ipotesi: fino a quel momento non c'erano divisioni politiche sostanziali tra i due. In ogni caso, il Che
che lascia Cuba è di sicuro un uomo politico che ha subito le prime sconfitte della sua vita.
Guevara trascorre parte del 1965 in Congo. Partecipa con un gruppo di cubani alla rivoluzione (poi
sconfitta) di quel paese. Nel suo diario africano annota la fragilità del movimento rivoluzionario
congolese, le difficoltà di contatto con L'Avana, le rivalità tra Unione Sovietica e Cina. Il Che poi
va in Tanzania e a Praga prima di far ritorno in modo clandestino a Cuba. Nella zona di Pinar del
Rio addestra il gruppo di guerriglieri che lo accompagnerà in Bolivia (Moscato, sulla scorta di
buona documentazione, sostiene che la spedizione boliviana aveva più l'obiettivo di formare una
scuola guerrigliera che di avviare una vera e propria rivoluzione). Guevara è via via stretto
nell'imbuto delle scelte a cui è costretto: non può andarsene dalla Bolivia, non può tornare a
L'Avana dove la notizia della sua partenza è stata resa ormai pubblica. È ucciso, dopo essere stato
catturato in combattimento presso la località di La Higuera, il 9 ottobre 1967.
Sul cammino del fuoco La morte del Che chiude un'epoca della rivoluzione cubana e della storia
dell'America Latina. Sfuma l'obiettivo di estendere la rivoluzione in altri paesi del continente e di
sottrarsi al dilemma o Usa o Urss. La rivista d'ispirazione guevarista "Pensamiento critico", diretta
da Fernando Martinez Heredia, viene chiusa. Carlos Tablada pubblica solo nel 1987 un libro che è
una rilettura degli ammonimenti economici di Guevara (Acerca del pensamiento economico del
Che). Orlando Borrego Diaz, il principale collaboratore di Guevara a Cuba, dà alle stampe a
L'Avana un libro sul Che solamente nel 2001 (Che. El camino del fuego): vi compaiono gran parte
delle inedite note critiche dell'ex ministro dell'industria sul Manuale di economia politica
dell'Accademia delle scienze di Mosca.
Moscato racconta tutta questa storia appassionante e dolorosa. In un capitolo gustoso, ci suggerisce
perfino cosa leggere e cosa non leggere sul Che. Così facendo, ci ricorda che nella massa di libri e
libriccini su Guevara c'è pure molta spazzatura. E in appendice del suo libro c'è infine un bel saggio
che viene da Cuba a firma di Celia Hart. Per chi vuole ricercare ancora, Il Che inedito è molto utile.
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Una minima bibliografia introduttiva
Uno strumento di lavoro fondamentale sono i "Quaderni della Fondazione Ernesto Che Guevara",
diretti dal principale studioso italiano di Guevara, Roberto Massari (recapito postale: c. p. 65, 01021
Acquapendente (Vt), e-mail: [email protected], sito: www.enjoy.it/che-guevara).
Per la biografia:
Jon Lee Anderson, Che. Una vita rivoluzionaria, Baldini & Castoldi, Milano 1997, 1998;
Jorge G. Castaneda, Companero. Vita e morte di Ernesto Che Guevara, Mondadori, Milano
1997, 1999;
Pierre Kalfon, Il Che. Una leggenda del secolo, Feltrinelli, Milano 1998, 2003;
Paco Ignacio Taibo II, Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Ernesto Che Guevara, Il
Saggiatore, Milano 1997, Est, Milano, 2000.
Tra le raccolte di scritti di Ernesto Che Guevara:
Scritti scelti, Erre Emme Edizioni, Roma 1993, 1994, 2 voll.;
Scritti, discorsi e diari di guerriglia 1959-1967, Einaudi, Torino 1969, 1974;
Opere scelte, Baldini & Castoldi, Milano 1996, 2 voll.
Tra gli Studi:
Roberto Massari: Che Guevara. Pensiero e politica dell'utopia, Edizioni Associate, Roma
1987, Erre Emme Edizioni, Roma 1993 (con fondamentale bibliografia);
Giulio Girardi, Che Guevara visto da un cristiano, Sperling & Kupfer, Milano 2005.
Testimonianze e materiali vari:
Roberto Massari (a cura di), Ernesto Che Guevara uomo, compagno, amico..., Erre Emme
Edizioni, Roma 1994, 1996;
Meri Lao, Al Che. Poesie e canzoni dal mondo, Erre Emme Edizioni, Roma 1995;
Jean Cormier, Che Guevara. Utopia e rivoluzione, Electa-Gallimard, Milano 1996;
AA. VV. (a cura di), Che Guevara, Editrice L'Unità, Roma 1987 (con ampio repertorio
fotografico).
Una casa editrice benemerita degli studi guevariani, nel cui catalogo figurano molte opere di e su
Guevara, è Massari Editore (recapito postale: c. p. 144, 01023 Bolsena (Vt), e-mail:
[email protected], sito: www.enjoy.it/erre-emme).
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