Allegato 2 - Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti
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Allegato 2 - Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti
DeJure Archivio selezionato: Dottrina IL FALLIMENTO IN ESTENSIONE DEL SOCIO DEFUNTO Giurisprudenza di Merito, fasc.10, 2012, pag. 2123 Consigliere della Corte di Appello di Lecce Classificazioni: FALLIMENTO - Società - - soci a responsabilità illimitata Sommario: 1. Premessa. — 2. La morte come causa di scioglimento del rapporto sociale. — 3. Legittimazione a chiedere l'iscrizione dell' eventus mortis. 1. PREMESSA La sentenza della Corte di appello de L'Aquila affronta con lucida chiarezza un particolare aspetto del complesso tema della decorrenza del termine annuale per la estensione del fallimento ad un socio illimitatamente responsabile. Occupandosi di una specifica causa di scioglimento del rapporto sociale (e cioè per morte del socio) ha stabilito in termini assolutamente condivisibili che anche questa va resa pubblica mediante iscrizione nel registro delle imprese, al fine di far decorrere il termine annuale per la dichiarazione di fallimento. I limiti di queste note non consentono di rammentareil travagliato percorso che ha caratterizzato la questione delle condizioni fattuali e temporali per la estensione del fallimento della società di persone al socio illimitatamente responsabile. Va però necessariamente (sia pur in maniera sintetica) ricordato che per oltre cinquant'anni la giurisprudenza aveva affermato nettamente che sia la società che il socio illimitatamente responsabile potevano essere dichiarati falliti sine die, facendo leva sul fatto che l'art. 147 non conteneva alcun riferimento né all'art. 10 l. fall. né a qualsivoglia limite temporale. Si aggiungeva la considerazione che la società non si estingue con la cancellazione dal registro delle imprese, ma solo con l'estinzione di tutti i rapporti che ad essa fanno capo (1). I numerosi contributi dottrinali non erano valsi a convincere della necessità di superare questo granitico orientamento giurisprudenziale (2). È grazie a reiterati interventi della Corte costituzionale che fu possibile aprire una breccia nella giurisprudenza. Con la prima sentenza emessa alla fine degli anni '90 la Corte costituzionale si limitò ad una pronuncia interpretativa di rigetto, rilevando che l'interpretazione dominante dell'art. 147 l. fall. non era l'unica compatibile col testo e la ratio della norma e che, anzi, andava coordinata col principio generale di certezza delle situazioni giuridiche, da contemperare con l'esigenza di tutela dei creditori; da ciò derivava la necessità di fissare un limite temporale per la dichiarazione di fallimento. La Corte riteneva quindi che «l'assoggettabilità al fallimento dei soci cessati o defunti... costituisca comunque espressione di quella medesima esigenza di tutela dei creditori alla quale rispondono le norme degli artt. 10 e 11 l. fall. riguardo all'imprenditore individuale» (3). Proprio perché non vincolante (trattandosi di sentenza interpretativa di rigetto), la pronuncia è stata variamente accolta dalla giurisprudenza. In alcuni casi vi è stata una piena adesione all'esortazione diretta all'applicazione del termine annuale di cui all'art. 10 al fallimento della società e, per quel che qui rileva, del socio nei cui confronti si è verificato lo scioglimento del rapporto sociale (4). Da altri giudici invece si è evidenziata la esiguità del termine di un anno e la conseguente inidoneità a garantire la certezza del diritto al rispetto della par condicio creditorum come garanzia di «stabilità del sistema economico». Pertanto, accogliendo l'invito della Corte costituzionale ad individuare un termine per la pronuncia della sentenza di estensione del fallimento, si è sostenuta la possibilità di fissarlo in cinque o dieci anni dal recesso, rispettivamente pari al termine di prescrizione dell'azione di responsabilità e a quello ordinario di prescrizione di ogni diritto (5). Ma la più ferma resistenza alla sentenza della Corte costituzionale n. 66 del 1999 venne dalla Corte di Cassazione, la cui prima sezione con ordinanza 21 gennaio 2000 n. 28 (6) chiese al Primo Presidente di investire della questione le Sezioni Unite, evidenziando che la sentenza n. 66 del 1999 della Corte costituzionale — pur a fronte di un immutato quadro normativo — non aveva esaminato la precedente ordinanza con cui era stata dichiarata la manifesta infondatezza delle questioni di incostituzionalità dell'art. 147 (7). Evidentemente, però, fece seguito un provvedimento di restituzione alla Sezione da parte del Presidente della Corte, posto che con successiva ordinanza pro nunciata nello stesso processo la Corte di Cassazione sollevò una questione di legittimità costituzionale (8), ritenendo che la via interpretativa non consentisse di applicare all'art. 147 l. fall. il termine annuale previsto dall'art. 10 per l'imprenditore individuale. Nel frattempo la Corte costituzionale si pronunciò nuovamente, questa volta con sentenza di accoglimento della questione di illegittimità costituzionale (9), dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 10 l. fall. (per quanto riguarda il fallimento dell'imprenditore collettivo) e dell'art. 147 comma 1, per i soci illimitatamente responsabili. Per concludere questo breve excursus storico, si può solo aggiungere che dopo la declaratoria di incostituzionalità hanno fatto seguito numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità e di merito e, infine, la riforma della legge fallimentare, che è intervenuta (per quel che ci riguarda) sugli artt. 10, 11 e 147 l. fall. In via di prima approssimazione, si può dire che a conclusione di questo tormentato percorso il quadro normativo si è evoluto nel senso di porre un termine per la dichiarazione di fallimento, sia per l'imprenditore collettivo che per il socio illimitatamente responsabile di società in nome collettivo, di società in accomandita semplice e di società in accomandita per azioni. Il dies a quo decorre per le società dalla data della cancellazione dal registro delle imprese e, per il socio, dall'esecuzione delle formalità prescritte «per rendere noti ai terzi i fatti indicati». 2. LA MORTE COME CAUSA DI SCIOGLIMENTO DEL RAPPORTO SOCIALE La sentenza della Corte di Appello de L'Aquila ha affrontato la questione della necessità dell'iscrizione nel registro delle imprese anche dell'evento morte, concludendo in senso positivo. La soluzione a cui è pervenuta è condivisibile. La sentenza 319 del 2000 della Corte costituzionale ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 147 l. fall. «nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata». Fu subito evidente il contrasto tra questa parte del dispositivo e quella con cui era stato dichiarato incostituzionale l'art. 10 della stessa legge fallimentare, posto che con riferimento a quest'ultima disposizione la sentenza aveva un contenuto inequivocamente sostitutivo (10). Invero, la sentenza non si è limitata a censurare l'art. 10 l. fall. perché non riguardava l'impresa collettiva, ma l'ha dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevedeva «che il termine di un anno dalla cessazione dell'esercizio dell'impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese». In altri termini, a seguito della pronuncia della sentenza della Corte costituzionale il dies a quo per la decorrenza del termine annuale per la dichiarazione di fallimento decorreva: — per l'imprenditore individuale, dalla cessazione dell'impresa — per l'impresa collettiva, dalla cancellazione dal registro delle imprese — e, infine, per il socio illimitatamente responsabile, dal momento della perdita della responsabilità illimitata. In realtà, per quest'ultimo caso l'aporia rispetto al sistema fu subito evidente, perché mentre per le società si dava prevalenza al principio della pubblicità, per il socio (come già anche per l'imprenditore individuale) si continuava a ritenere rilevante il principio di effettività, cioè la situazione di fatto realmente esistente; era quindi irrilevante che di ciò i terzi fossero stati resi edotti. La necessità di una composizione armonica delle varie disposizioni era stata avvertita da un giudice di merito, che non ha esitato a collegare il decorso del termine annuale per la dichiarazione di fallimento alla pubblicizzazione della perdita della qualità di socio, ai sensi dell'art. 2290 c.c. (11). Per quanto riguarda l'evento morte, va considerato che anch'esso configura una causa di scioglimento del rapporto, ai sensi dell'art. 2284 c.c., al pari del recesso (legale, convenzionale o per giusta causa), dell'esclusione e della cessione delle quote (12). Pertanto, non sarebbe stato giustificato un trattamento differenziato del decesso rispetto al recesso e all'esclusione, sotto il profilo della pubblicità; in altri termini, appartenendo tutte alla categoria delle cause di scioglimento del vincolo associativo, si sarebbe dovuto concludere che per tutte era necessaria l'iscrizione nel registro delle imprese. Invece, non mancò chi si espresse nel senso di non ritenere necessaria la pubblicità della (sola) morte del socio illimitatamente responsabile (13). In senso contrario, invece, si espresse la giurisprudenza di legittimità (14). Va però precisato che entrambe le pronunce non si sono occupate espressamente della questione e, quindi, non si può ritenere che prima della riforma della legge fallimentare vi fosse un consapevole contrasto giurisprudenziale sulla questione della necessità della pubblicizzazione della morte del socio illimitatamente responsabile. Il dibattito ha ripreso vigore a seguito della novella di cui al d.lg. n. 5 del 2006 che — come già anticipato — all'art. 147 comma 2 l. fall. ha introdotto la regola dell'opponibilità delle cause di scioglimento «se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati». Si è infatti sostenuto che non si può iscrivere l'evento morte nel registro delle imprese, perché questo onere non si può porre a carico del defunto e perché si tratta di un evento che ha comunque data certa, essendo il decesso «annotato sui registri dell'anagrafe» (15). A proposito di quest'ultimo argomento, va osservato che la funzione assegnata dalle disposizioni che impongono l'iscrizione nel registro delle imprese non è quella di conferire certezza della data, perché questo obiettivo è perseguito dall'art. 2704 c.c. con esclusivo riferimento al contenuto e all'efficacia negoziale della scrittura privata. Invece, la pubblicità commerciale prevista dall'art. 2193 c.c. comporta una presunzione assoluta di conoscenza dell'atto o del fatto, senza alcuna possibilità, per il terzo, di eccepire la propria ignoranza in ordine alle vicende iscritte nel registro delle imprese (16), per il noto principio che l'efficacia positiva della pubblicità si esplica a vantaggio dell'interessato. L'altro argomento, relativo alla impossibilità per il defunto di provvedere all'iscrizione della propria morte, è solo suggestivo e sarà esaminato nel paragrafo successivo, dedicato alla individuazione dei soggetti legittimati a richiederla. Il problema dell'iscrizione nel registro delle imprese del decesso del socio illimitatamente responsabile appare di agevole soluzione, perché l'art. 147 al comma 2 pone espressamente la condizione, per l'opponibilità dello «scioglimento del rapporto sociale», che siano state «osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati». E siccome — come si è già osservato — la morte del decesso è una causa di scioglimento, non vi è alcuna ragione per dubitare della necessità di pubblicizzarla mediante iscrizione nel registro delle imprese. Va in proposito aggiunto che i Registri delle Imprese dell'intero territorio nazionale consentono l'iscrizione del relativo evento. Non vale inoltre l'osservazione che l'art. 23 comma 2 d.lg. 8 luglio 1999, n. 270 (c.d. Prodi-bis) stabilisce un regime differenziato per la decorrenza del termine annuale, a seconda che la causa di scioglimento del rapporto sociale consista nel recesso o esclusione o, invece, nella morte. Invero, per i primi due eventi il dies a quo è individuato nella data di opponibilità ai terzi mentre nell'altro caso il fallimento del socio illimitatamente responsabile deve essere dichiarato entro la data del decesso. Si tratta infatti di una disciplina (quella della gestione dell'insolvenza delle grandi imprese) del tutto autonoma rispetto alla legge fallimentare. Non è quindi consentito trarre spunti interpretativi che dovrebbero condurre a risultati ermeneutici completamente contrastanti con il chiarissimo tenore letterale dell'art. 147 l. fall. A fronte dell'inequivoco riferimento normativo per il socio illimitatamente responsabile, il dubbio sull'iscrizione della morte può porsi, invece e con qualche fondamento, per quella che riguarda l'imprenditore individuale. Si è sostenuto che rileva «la data effettiva del decesso e non la data della conoscenza che altri ne abbiano, o l'acquisizione della stessa in base a strumenti di pubblicità» (17), perché non ricorrerebbe in questo caso «l'esigenza di chiarezza» che, per la diversa ipotesi della cessazione dell'attività, ha indotto il legislatore della riforma ad ancorarla al momento della cancellazione dal registro delle imprese (18). La sentenza della Corte di Appello de L'Aquila resiste anche a queste obiezioni. Va infatti considerato che nel 2006 è stato modificato solo l'art. 10 l. fall., introducendo (come si è già anticipato) per tutti gli imprenditori (individuali e collettivi) la regola che il fallimento deve essere dichiarato entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese. Viceversa, con riguardo al fallimento dell'imprenditore defunto non è stata apportata alcuna modifica all'art. 11 l. fall. (se non per un aspetto del tutto marginale e che qui non rileva, relativo all'esonero per l'erede dall'obbligo di depositare la documentazione contabile). Proprio perché non è stato modificato l'impianto originario, il rinvio dell'art. 11 alla norma precedente, che invece è stata ampiamente rimaneggiata, deve indurre a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle a cui si era pervenuti prima della riforma. Infatti, in precedenza il rinvio — contenuto nell'art. 11 l. fall. — alle «condizioni stabilite nell'articolo precedente» consentiva di sostituire alla cessazione dell'impresa l' eventus mortis, e quindi era assolutamente corretto concludere che l'imprenditore defunto doveva essere dichiarato fallito entro un anno dalla morte (sempre che entro questo stesso termine si fosse anche manifestata l'insolvenza), essendo estranea alla norma originaria ogni forma di pubblicità. Invece, il nuovo testo dell'art. 10 l. fall. ha introdotto la cancellazione dal registro delle imprese come evento da cui far decorrere il termine annuale per l'assoggettamento a fallimento. Il rinvio dell'art. 11 l. fall. all'art. 10, quindi, sebbene sia rimasta immutata la prima disposizione, consente di recepire in questa tutte le prescrizioni contenute nella seconda e, quindi, anche il fatto che l'impresa sia stata cancellata. Si tratta, cioè, di un rinvio formale (e non recettizio) che si verifica ogni volta in cui la norma non cristallizza la disciplina richiamata ma è aperta alle successive modificazioni della stessa. A conferma di questa conclusione va osservato che l'art. 2 d.P.R. 23 luglio 2004, n. 247 impone la cancellazione dell'impresa individuale in caso di decesso dell'imprenditore (oltre che per la sua irreperibilità, per mancato compimento di atti di gestione per tre anni consecutivi e per la perdita dei titoli autorizzativi o abilitativi all'esercizio dell'attività). Anche sul piano sistematico, quindi, appare necessario prendere atto che l'ordinamento prescrive l'iscrizione nel registro delle imprese della morte dell'imprenditore e, quindi, avrebbe dovuto derogarvi espressamente. Né si può ritenere che questa interpretazione (decorso dell'anno dall'iscrizione dell'evento morte e non dalla sua verificazione) rende inutile la disposizione dell'art. 11 l. fall., perché in mancanza di una specifica disposizione ben si potrebbe sostenere che non è possibile dichiarare il fallimento di un defunto; la norma invece conserva l'utilità di dimostrare che il fallimento, la soggettività e la qualità di imprenditore non sono tra loro indissolubilmente correlati (« fallite sans failli») (19). Va infine considerato che le norme che hanno generalizzato la correlazione tra il dies a quo e la pubblicità del relativo evento (artt. 10 e 147 l. fall.) hanno comportato un sensibile ridimensionamento del principio di effettività che, prima della riforma del 2006, ispirava le disposizioni in tema di fallibilità (20). Si può anzi dire che attualmente la regola generale va rinvenuta nel principio di certezza delle situazioni giuridiche che, originariamente utilizzato dalla Corte costituzionale a garanzia del fallendo, è stato delineato dal legislatore come fondamentale linea di demarcazione, sul piano temporale, tra fallibilità e non fallibilità. È appena il caso di evidenziare, infatti, che l'esigenza di tutela dell'affidamento è rinvenibile sia nei confronti di chi contrae con un soggetto che agisce come imprenditore nonostante questi sia stato cancellato dal registro delle imprese (e in questa ipotesi soccorre l'art. 10 comma 2 l. fall., che prevede una sorta di ultrattività della situazione che legittima il fallimento) (21), sia per chi si determina ad avere rapporti di affari con rappresentanti, institori, agenti, dipendenti o con chiunque altro spenda il nome di un imprenditore defunto. In altri termini: il solo fatto della morte non mette al riparo la generalità dei consorziati dalla spendita abusiva del nome del deceduto. Pertanto, anche sotto il profilo della complessiva filosofia ispiratrice è molto più coerente affermare che il dies a quo per la dichiarazione di fallimento del defunto decorre dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese della cancellazione dell'impresa individuale. Si potrebbe però ritenere che la data rilevante sia quella della pubblicazione (non già della cancellazione, bensì) dell' eventus mortis. Questa interpretazione è tuttavia priva di addentellati normativi, perché il sistema di pubblicità del Registro delle imprese è ispirato ai principi di tipicità e tassatività, stabiliti dall'art. 2188, comma 1 c.c. (22) e manca nel codice civile e nelle leggi speciali una disposizione che consenta l'iscrizione (rectius, l'annotazione) del decesso dell'imprenditore. A tal proposito, è noto che l'art. 2 d.P.R. n. 247 del 2004 si occupa della cancellazione dell'impresa individuale per morte del suo titolare, ma si limita a disciplinarne il procedimento; in particolare, prescrive che l'ufficio deve inviare una lettera raccomandata alla sede dell'impresa e alla residenza anagrafica e, dopo trenta giorni dalla ricezione, chiede al giudice del registro di ordinare la cancellazione. La norma invece non dispone che il decesso dell'imprenditore (come anche gli altri presupposti richiesti in via alternativa per la cancellazione d'uffici) sia annotato. Pertanto, il combinato disposto degli artt. 11 e 10 l. fall. non può essere interpretato nel senso che il termine annuale ai fini della fallibilità decorra dall'iscrizione della morte, applicandosi invece la regola generale che stabilisce il dies a quo nella pubblicazione della cancellazione dell'impresa. Ciò significa che gli eredi che intendono ridurre il rischio della dichiarazione di fallimento del de cuius hanno l'onere di attivare il procedimento di iscrizione (della cancellazione) su domanda, ai sensi dell'art. 11 d.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581, essendo a ciò legittimati in quanto successori a titolo universale. Se, invece, preferiscono rimanere inerti, vanno incontro al rischio che trascorra un considerevole lasso di tempo tra la data del decesso, il momento in cui il Registro delle imprese ne viene a conoscenza (anche a seguito della «segnalazione da parte di altro pubblico ufficio», ex art. 2 comma 2 d.P.R. 247 del 2004) e quello in cui viene emesso il decreto con cui il giudice del registro ordina la cancellazione d'ufficio, con conseguente possibilità che intervenga nel frattempo la sentenza di fallimento del defunto. 3. LEGITTIMAZIONE A CHIEDERE L'ISCRIZIONE DELL' EVENTUS MORTIS Si è già detto che uno degli argomenti addotti in dottrina per sostenere che il fallimento del socio illimitatamente responsabile deve essere pronunciato entro l'anno dalla sua morte e non dall'iscrizione nel registro delle imprese consiste nel fatto che non è (ovviamente) possibile porre un siffatto onere pubblicitario a carico del defunto. A ciò si può agevolmente obiettare che in tema di pubblicità commerciale il principio generale è che vi provveda l'amministratore. Così dispone l'art. 2296 c.c., per l'iscrizione dell'atto costitutivo della società in nome collettivo; negli stessi termini l'art. 2300 c.c., per il medesimo tipo sociale, con riferimento alle modificazioni dell'atto costitutivo (e in questa categoria rientra la cessione delle quote accettata dai soci superstiti). Per la società in accomandita semplice si applicano le medesime disposizioni, in forza del richiamo contenuto nell'art. 2315 c.c. Per quanto riguarda, invece, gli eventi che comportano lo scioglimento del vincolo associativo (morte, recesso ed esclusione) l'art. 2290 comma 2 prescrive che essi devono essere portati a conoscenza «con mezzi idonei», ma non individua il soggetto su cui incombe l'adempimento di questo obbligo. Ricorrendo un tipico caso di lacuna legislativa, sembra quindi necessario fare ricorso all'applicazione analogica dell'art. 2296 c.c.; ne consegue che è l'amministratore a dover richiedere al registro delle imprese l'iscrizione di uno dei fatti che hanno fatto venir meno la qualità di socio. Può ovviamente verificarsi che la morte colpisca l'accomandatario. Analogamente, è ipotizzabile che il decesso riguardi l'unico amministratore della s.n.c. (ipotesi prevista dall'art. 2295, n. 3, c.c., anche se di non frequente ricorrenza, quando cioè l'amministrazione e rappresentanza è conferita solo ad alcuni dei soci). Per l'accomandita non dovrebbero porsi particolari difficoltà, perché l'art. 2323 comma 2 c.c. prevede la figura dell'amministratore provvisorio. Invece, nel caso della s.n.c. la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che il recesso di un socio può essere iscritto, in caso di inottemperanza da parte dell'amministratore, «da ciascun socio», aggiungendo che essi possono «anche limitarsi a chiedere la condanna dell'amministratore ad eseguirla» (23). La pronuncia è stata criticata da un autore (24) che ha dubitato della possibilità di fare ricorso all'analogia. Sembra però che l'obiezione non colga nel segno, se si considera che l'art. 2300 c.c. prevede sì che all'iscrizione provveda l'amministratore, ma nulla dice nel caso in cui questi non vi ottemperi. D'altra parte, le soluzioni alternative proposte dall'autore appaiono eccessivamente farraginose. Quanto all'ipotesi di ricorrere all'azione ex art. 2932 c.c. (25), è sufficiente osservare che la norma si riferisce solo all'esecuzione in forma specifica di concludere un contratto, mentre l'iscrizione nel registro si risolve in una mera dichiarazione a cui difetta certamente ogni contenuto di tipo negoziale. Anche la proposizione dell'azione di responsabilità dell'amministratore non appare un rimedio adeguato, perché idonea ad assicurare solo la tutela risarcitoria ma non consente di conseguire il risultato perseguito (l'iscrizione della causa di scioglimento). Di recente la giurisprudenza si è occupata di una singolare fattispecie, in cui il socio aveva manifestato la volontà di recedere dalla società, convenendo in giudizio la società, i creditori e la Camera di Commercio, chiedendo a quest'ultima di cancellare il suo nome dal registro delle imprese. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello che aveva ritenuto che il giudizio fosse un «mezzo idoneo, ai sensi dell'art. 2290 c.c., per portare a conoscenza dei creditori la volontà di recedere» (26). Va però osservato che ammettere la legittimazione del socio a richiedere, in sostituzione dell'amministratore, l'iscrizione nel Registro delle imprese della morte di un altro socio (secondo quanto affermato dalla sentenza 2812 del 2002) non configura una soluzione radicale al problema. Ben può darsi cioè che anche gli altri soci superstiti rimangano inerti. Ciò che è importante sottolineare è che l'erede del socio defunto non potrà mai avvalersi di questo orientamento giurisprudenziale, per la decisiva ragione che egli non diventa socio ma acquista solo il diritto alla liquidazione della quota (art. 2289 c.c.). In conclusione, la soluzione più agevole per l'erede del socio defunto che intenda ottenere l'iscrizione nel registro delle imprese di questa causa di scioglimento del rapporto sociale resta l'attivazione della procedura di iscrizione d'ufficio, prevista in linea generale dall'art. 2190 c.c. nei casi in cui «un'iscrizione obbligatoria non è stata richiesta». L'art. 16 d.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581 la disciplina in dettaglio, prevedendo che l'ufficio del registro delle imprese inviti l'imprenditore a richiederla e in caso di inottemperanza l'ufficio informerà il giudice del registro, che ordinerà l'iscrizione. L'erede del socio illimitatamente responsabile dovrà quindi documentare al registro delle imprese il decesso e chiedere di attivare il procedimento di iscrizione d'ufficio. Non è quindi evitabile in questo caso (a differenza di quanto esposto in materia di pubblicità della cancellazione dell'imprenditore individuale) lo iato tra la morte del socio e l'iscrizione di detto evento nel Registro delle imprese. Ovviamente, è configurabile l'azione risarcitoria nei confronti dell'amministratore della società di persone che con la sua inosservanza ad un preciso obbligo di legge (art. 2290 comma 2 c.c.) ha consentito un fallimento che avrebbe potuto essere evitato. Note: (1) Ex multis, Cass. 11 maggio 1998. n. 2676, in Giur. it., 1998, 2098; Cass. 24 luglio 1992, n. 9824, in Fall., 1993, 48; Cass. 6 luglio 1993 n. 7385, in Fall., 1983, 1241. (2) Per tutti, Galgano, Del fallimento delle società, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Artt. 146-159, Bologna, 1997, 179-181. (3) C. cost. 12 marzo 1999, n. 66, in Dir. fall. 1999, II, 235. (4) Trib. Roma 27 maggio 1999, in Dir. fall., 2000, 2, II, 391 ss.; Trib. Cassino 19 maggio 1999, in Fall., 2000, 210. (5) Trib. Padova 10 maggio 1999, in Dir. fall., 2000, 2, II, 393 ss. (6) Cass. 21 gennaio 2000, n. 28, in Dir fall., 2000, 1, II, 5. (7) Con ordinanza 26 luglio 1988 n. 919, in Fall., 1988, 1061, la Corte costituzionale aveva ritenuto insussistente la denunciata disparità di trattamento tra imprenditore individuale e socio illimitatamente responsabile di impresa collettiva, osservando che nel primo caso si tratta di «una autonoma dichiarazione di fallimento»; la Corte, soprattutto, affermava che si doveva escludere la possibilità di comparare le due situazioni, perché l'automaticità che caratterizza l'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile avrebbe comportato la necessità che «il limite dell'anno dalla cessazione della qualità di socio dovrebbe operare in questo caso con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento della società, non alla data della pronuncia di fallimento del socio». (8) Cass., ord. 21 giugno 2000 n. 630, in Dir. fall., 2000, II, 678. (9) C. cost. 21 luglio 2000 n. 319, in Dir. fall., 2001, 1, II, 27. (10) Scalera, La Corte costituzionale «raddoppia» il limite endoannuale», in Dir. fall., 2001, 1, II, 27 ss. (11) Trib S. Angelo dei Lombardi 20 giugno 2002, in Dir. fall., 2002, 2, II, 742 ss. (12) Cass. 4 giugno 1999 n. 5479, in Giur. comm., 2001, II, 40, che ha evidenziato che nella società di persone la cessione comporta il recesso del socio cedente, solo quando vi è il consenso unanime degli altri soci; in caso contrario, l'atto dispositivo della quota rimane nel limitato ambito del rapporto inter partes. (13) Trib. Roma 27 maggio 1999, in Dir. fall., 2000, 2, II, 391 ss., con sentenza emessa peraltro prima della declaratoria di illegittimità costituzionale e dopo la sentenza interpretativa di rigetto n. 66 del 1999. (14) Cass. 16 giugno 2004, n. 11304, in Fall., 2005, 521, che, sia pure occupandosi di una fattispecie in tema di recesso a seguito di cessione delle quote, ha affermato che «la cessazione dell'appartenenza del socio di società di persone alla compagine sociale (per morte o per altra causa....) cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell'art. 2290 comma 2 c.c. è capace di produrre i suoi effetti nei confronti della società e degli altri soci... ma non è opponibile ai terzi...». (15) Gaffuri, Commento all'art. 147 l. fall., in Codice del fallimento, a cura di Bocchiola e Paluchowski, Milano, 2009, 1635. (16) Ferri, Sub art. 2193, Commentario al codice civile, Scialoja-Branca, Bologna, 1963. (17) Lamanna, Commento all'art. 11 l. fall., in Il nuovo diretto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, Bologna, 2010, 281. (18) Capo, I presupposti del fallimento, in Trattato di diritto fallimentare, a cura di Capo-De Santis -Meoli, Padova, 2010, 81. (19) Lamanna, op. cit., 281. (20) Di Amato, Principio di effettività e di affidamento e termini per la dichiarazione di fallimento dell'ex imprenditore ed ex socio, in Fall., 2002, 1043 ss. (21) Signorelli, Fallimento di società in accomandita semplice ed estensione del fallimento al socio accomandante, in Fall., 2009, 153. (22) Ex multis, Salafia, La pubblicità di atti e negozi nell'ordinamento italiano, in Soc., 2010, 830. (23) Cass., sez. trib., 26 febbraio 2002, n. 2812, in Riv. giur. trib. 2003, 71 nonché in Not., 2003, 157. (24) Di Zillo, Il recesso nelle società di persone e la giusta causa: effetti nei confronti dei soci e dei terzi, in Riv. not., 2004, 1246. (25) Pavone La Rosa, Il registro delle Imprese, Padova, 1999. (26) Cass. 2 marzo 2009 n. 5018, in Mass. Giust. civ., 2009, 3, 361. Utente: Giampiero Di Plinio www.iusexplorer.it - 18.11.2013 © Copyright Giuffrè 2013. Tutti i diritti riservati. P.IVA 00829840156