Allegato 2 - Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti

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Allegato 2 - Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti
DeJure
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IL FALLIMENTO IN ESTENSIONE DEL SOCIO DEFUNTO
Giurisprudenza di Merito, fasc.10, 2012, pag. 2123
Consigliere della Corte di Appello di Lecce
Classificazioni: FALLIMENTO - Società - - soci a responsabilità illimitata
Sommario: 1. Premessa. — 2. La morte come causa di scioglimento del rapporto sociale. — 3.
Legittimazione a chiedere l'iscrizione dell' eventus mortis.
1. PREMESSA
La sentenza della Corte di appello de L'Aquila affronta con lucida chiarezza un particolare aspetto
del complesso tema della decorrenza del termine annuale per la estensione del fallimento ad un
socio illimitatamente responsabile. Occupandosi di una specifica causa di scioglimento del
rapporto sociale (e cioè per morte del socio) ha stabilito in termini assolutamente condivisibili che
anche questa va resa pubblica mediante iscrizione nel registro delle imprese, al fine di far
decorrere il termine annuale per la dichiarazione di fallimento.
I limiti di queste note non consentono di rammentareil travagliato percorso che ha caratterizzato la
questione delle condizioni fattuali e temporali per la estensione del fallimento della società di
persone al socio illimitatamente responsabile. Va però necessariamente (sia pur in maniera
sintetica) ricordato che per oltre cinquant'anni la giurisprudenza aveva affermato nettamente che
sia la società che il socio illimitatamente responsabile potevano essere dichiarati falliti sine die,
facendo leva sul fatto che l'art. 147 non conteneva alcun riferimento né all'art. 10 l. fall. né a
qualsivoglia limite temporale. Si aggiungeva la considerazione che la società non si estingue con
la cancellazione dal registro delle imprese, ma solo con l'estinzione di tutti i rapporti che ad essa
fanno capo (1). I numerosi contributi dottrinali non erano valsi a convincere della necessità di
superare questo granitico orientamento giurisprudenziale (2).
È grazie a reiterati interventi della Corte costituzionale che fu possibile aprire una breccia nella
giurisprudenza. Con la prima sentenza emessa alla fine degli anni '90 la Corte costituzionale si
limitò ad una pronuncia interpretativa di rigetto, rilevando che l'interpretazione dominante dell'art.
147 l. fall. non era l'unica compatibile col testo e la ratio della norma e che, anzi, andava
coordinata col principio generale di certezza delle situazioni giuridiche, da contemperare con
l'esigenza di tutela dei creditori; da ciò derivava la necessità di fissare un limite temporale per la
dichiarazione di fallimento. La Corte riteneva quindi che «l'assoggettabilità al fallimento dei soci
cessati o defunti... costituisca comunque espressione di quella medesima esigenza di tutela dei
creditori alla quale rispondono le norme degli artt. 10 e 11 l. fall. riguardo all'imprenditore
individuale» (3).
Proprio perché non vincolante (trattandosi di sentenza interpretativa di rigetto), la pronuncia è
stata variamente accolta dalla giurisprudenza. In alcuni casi vi è stata una piena adesione
all'esortazione diretta all'applicazione del termine annuale di cui all'art. 10 al fallimento della
società e, per quel che qui rileva, del socio nei cui confronti si è verificato lo scioglimento del
rapporto sociale (4). Da altri giudici invece si è evidenziata la esiguità del termine di un anno e la
conseguente inidoneità a garantire la certezza del diritto al rispetto della par condicio creditorum
come garanzia di «stabilità del sistema economico». Pertanto, accogliendo l'invito della Corte
costituzionale ad individuare un termine per la pronuncia della sentenza di estensione del
fallimento, si è sostenuta la possibilità di fissarlo in cinque o dieci anni dal recesso,
rispettivamente pari al termine di prescrizione dell'azione di responsabilità e a quello ordinario di
prescrizione di ogni diritto (5).
Ma la più ferma resistenza alla sentenza della Corte costituzionale n. 66 del 1999 venne dalla
Corte di Cassazione, la cui prima sezione con ordinanza 21 gennaio 2000 n. 28 (6) chiese al Primo
Presidente di investire della questione le Sezioni Unite, evidenziando che la sentenza n. 66 del
1999 della Corte costituzionale — pur a fronte di un immutato quadro normativo — non aveva
esaminato la precedente ordinanza con cui era stata dichiarata la manifesta infondatezza delle
questioni di incostituzionalità dell'art. 147 (7). Evidentemente, però, fece seguito un
provvedimento di restituzione alla Sezione da parte del Presidente della Corte, posto che con
successiva ordinanza pro nunciata nello stesso processo la Corte di Cassazione sollevò una
questione di legittimità costituzionale (8), ritenendo che la via interpretativa non consentisse di
applicare all'art. 147 l. fall. il termine annuale previsto dall'art. 10 per l'imprenditore individuale.
Nel frattempo la Corte costituzionale si pronunciò nuovamente, questa volta con sentenza di
accoglimento della questione di illegittimità costituzionale (9), dichiarando l'incostituzionalità
dell'art. 10 l. fall. (per quanto riguarda il fallimento dell'imprenditore collettivo) e dell'art. 147
comma 1, per i soci illimitatamente responsabili.
Per concludere questo breve excursus storico, si può solo aggiungere che dopo la declaratoria di
incostituzionalità hanno fatto seguito numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità e di
merito e, infine, la riforma della legge fallimentare, che è intervenuta (per quel che ci riguarda)
sugli artt. 10, 11 e 147 l. fall.
In via di prima approssimazione, si può dire che a conclusione di questo tormentato percorso il
quadro normativo si è evoluto nel senso di porre un termine per la dichiarazione di fallimento, sia
per l'imprenditore collettivo che per il socio illimitatamente responsabile di società in nome
collettivo, di società in accomandita semplice e di società in accomandita per azioni. Il dies a quo
decorre per le società dalla data della cancellazione dal registro delle imprese e, per il socio,
dall'esecuzione delle formalità prescritte «per rendere noti ai terzi i fatti indicati».
2. LA MORTE COME CAUSA DI SCIOGLIMENTO DEL RAPPORTO SOCIALE
La sentenza della Corte di Appello de L'Aquila ha affrontato la questione della necessità
dell'iscrizione nel registro delle imprese anche dell'evento morte, concludendo in senso positivo.
La soluzione a cui è pervenuta è condivisibile.
La sentenza 319 del 2000 della Corte costituzionale ha infatti dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 147 l. fall. «nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a
responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal
momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata».
Fu subito evidente il contrasto tra questa parte del dispositivo e quella con cui era stato dichiarato
incostituzionale l'art. 10 della stessa legge fallimentare, posto che con riferimento a quest'ultima
disposizione la sentenza aveva un contenuto inequivocamente sostitutivo (10). Invero, la sentenza
non si è limitata a censurare l'art. 10 l. fall. perché non riguardava l'impresa collettiva, ma l'ha
dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevedeva «che il termine di un anno dalla
cessazione dell'esercizio dell'impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società
decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese».
In altri termini, a seguito della pronuncia della sentenza della Corte costituzionale il dies a quo per
la decorrenza del termine annuale per la dichiarazione di fallimento decorreva:
— per l'imprenditore individuale, dalla cessazione dell'impresa
— per l'impresa collettiva, dalla cancellazione dal registro delle imprese
— e, infine, per il socio illimitatamente responsabile, dal momento della perdita della
responsabilità illimitata.
In realtà, per quest'ultimo caso l'aporia rispetto al sistema fu subito evidente, perché mentre per le
società si dava prevalenza al principio della pubblicità, per il socio (come già anche per
l'imprenditore individuale) si continuava a ritenere rilevante il principio di effettività, cioè la
situazione di fatto realmente esistente; era quindi irrilevante che di ciò i terzi fossero stati resi
edotti.
La necessità di una composizione armonica delle varie disposizioni era stata avvertita da un
giudice di merito, che non ha esitato a collegare il decorso del termine annuale per la dichiarazione
di fallimento alla pubblicizzazione della perdita della qualità di socio, ai sensi dell'art. 2290 c.c.
(11).
Per quanto riguarda l'evento morte, va considerato che anch'esso configura una causa di
scioglimento del rapporto, ai sensi dell'art. 2284 c.c., al pari del recesso (legale, convenzionale o
per giusta causa), dell'esclusione e della cessione delle quote (12). Pertanto, non sarebbe stato
giustificato un trattamento differenziato del decesso rispetto al recesso e all'esclusione, sotto il
profilo della pubblicità; in altri termini, appartenendo tutte alla categoria delle cause di
scioglimento del vincolo associativo, si sarebbe dovuto concludere che per tutte era necessaria
l'iscrizione nel registro delle imprese.
Invece, non mancò chi si espresse nel senso di non ritenere necessaria la pubblicità della (sola)
morte del socio illimitatamente responsabile (13). In senso contrario, invece, si espresse la
giurisprudenza di legittimità (14).
Va però precisato che entrambe le pronunce non si sono occupate espressamente della questione e,
quindi, non si può ritenere che prima della riforma della legge fallimentare vi fosse un
consapevole contrasto giurisprudenziale sulla questione della necessità della pubblicizzazione
della morte del socio illimitatamente responsabile.
Il dibattito ha ripreso vigore a seguito della novella di cui al d.lg. n. 5 del 2006 che — come già
anticipato — all'art. 147 comma 2 l. fall. ha introdotto la regola dell'opponibilità delle cause di
scioglimento «se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati».
Si è infatti sostenuto che non si può iscrivere l'evento morte nel registro delle imprese, perché
questo onere non si può porre a carico del defunto e perché si tratta di un evento che ha comunque
data certa, essendo il decesso «annotato sui registri dell'anagrafe» (15). A proposito di quest'ultimo
argomento, va osservato che la funzione assegnata dalle disposizioni che impongono l'iscrizione
nel registro delle imprese non è quella di conferire certezza della data, perché questo obiettivo è
perseguito dall'art. 2704 c.c. con esclusivo riferimento al contenuto e all'efficacia negoziale della
scrittura privata. Invece, la pubblicità commerciale prevista dall'art. 2193 c.c. comporta una
presunzione assoluta di conoscenza dell'atto o del fatto, senza alcuna possibilità, per il terzo, di
eccepire la propria ignoranza in ordine alle vicende iscritte nel registro delle imprese (16), per il
noto principio che l'efficacia positiva della pubblicità si esplica a vantaggio dell'interessato. L'altro
argomento, relativo alla impossibilità per il defunto di provvedere all'iscrizione della propria
morte, è solo suggestivo e sarà esaminato nel paragrafo successivo, dedicato alla individuazione
dei soggetti legittimati a richiederla.
Il problema dell'iscrizione nel registro delle imprese del decesso del socio illimitatamente
responsabile appare di agevole soluzione, perché l'art. 147 al comma 2 pone espressamente la
condizione, per l'opponibilità dello «scioglimento del rapporto sociale», che siano state «osservate
le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati». E siccome — come si è già osservato — la
morte del decesso è una causa di scioglimento, non vi è alcuna ragione per dubitare della necessità
di pubblicizzarla mediante iscrizione nel registro delle imprese. Va in proposito aggiunto che i
Registri delle Imprese dell'intero territorio nazionale consentono l'iscrizione del relativo evento.
Non vale inoltre l'osservazione che l'art. 23 comma 2 d.lg. 8 luglio 1999, n. 270 (c.d. Prodi-bis)
stabilisce un regime differenziato per la decorrenza del termine annuale, a seconda che la causa di
scioglimento del rapporto sociale consista nel recesso o esclusione o, invece, nella morte. Invero,
per i primi due eventi il dies a quo è individuato nella data di opponibilità ai terzi mentre nell'altro
caso il fallimento del socio illimitatamente responsabile deve essere dichiarato entro la data del
decesso. Si tratta infatti di una disciplina (quella della gestione dell'insolvenza delle grandi
imprese) del tutto autonoma rispetto alla legge fallimentare. Non è quindi consentito trarre spunti
interpretativi che dovrebbero condurre a risultati ermeneutici completamente contrastanti con il
chiarissimo tenore letterale dell'art. 147 l. fall.
A fronte dell'inequivoco riferimento normativo per il socio illimitatamente responsabile, il dubbio
sull'iscrizione della morte può porsi, invece e con qualche fondamento, per quella che riguarda
l'imprenditore individuale.
Si è sostenuto che rileva «la data effettiva del decesso e non la data della conoscenza che altri ne
abbiano, o l'acquisizione della stessa in base a strumenti di pubblicità» (17), perché non
ricorrerebbe in questo caso «l'esigenza di chiarezza» che, per la diversa ipotesi della cessazione
dell'attività, ha indotto il legislatore della riforma ad ancorarla al momento della cancellazione dal
registro delle imprese (18).
La sentenza della Corte di Appello de L'Aquila resiste anche a queste obiezioni. Va infatti
considerato che nel 2006 è stato modificato solo l'art. 10 l. fall., introducendo (come si è già
anticipato) per tutti gli imprenditori (individuali e collettivi) la regola che il fallimento deve essere
dichiarato entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese. Viceversa, con riguardo al
fallimento dell'imprenditore defunto non è stata apportata alcuna modifica all'art. 11 l. fall. (se non
per un aspetto del tutto marginale e che qui non rileva, relativo all'esonero per l'erede dall'obbligo
di depositare la documentazione contabile). Proprio perché non è stato modificato l'impianto
originario, il rinvio dell'art. 11 alla norma precedente, che invece è stata ampiamente rimaneggiata,
deve indurre a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle a cui si era pervenuti prima
della riforma.
Infatti, in precedenza il rinvio — contenuto nell'art. 11 l. fall. — alle «condizioni stabilite
nell'articolo precedente» consentiva di sostituire alla cessazione dell'impresa l' eventus mortis, e
quindi era assolutamente corretto concludere che l'imprenditore defunto doveva essere dichiarato
fallito entro un anno dalla morte (sempre che entro questo stesso termine si fosse anche
manifestata l'insolvenza), essendo estranea alla norma originaria ogni forma di pubblicità.
Invece, il nuovo testo dell'art. 10 l. fall. ha introdotto la cancellazione dal registro delle imprese
come evento da cui far decorrere il termine annuale per l'assoggettamento a fallimento. Il rinvio
dell'art. 11 l. fall. all'art. 10, quindi, sebbene sia rimasta immutata la prima disposizione, consente
di recepire in questa tutte le prescrizioni contenute nella seconda e, quindi, anche il fatto che
l'impresa sia stata cancellata. Si tratta, cioè, di un rinvio formale (e non recettizio) che si verifica
ogni volta in cui la norma non cristallizza la disciplina richiamata ma è aperta alle successive
modificazioni della stessa. A conferma di questa conclusione va osservato che l'art. 2 d.P.R. 23
luglio 2004, n. 247 impone la cancellazione dell'impresa individuale in caso di decesso
dell'imprenditore (oltre che per la sua irreperibilità, per mancato compimento di atti di gestione per
tre anni consecutivi e per la perdita dei titoli autorizzativi o abilitativi all'esercizio dell'attività).
Anche sul piano sistematico, quindi, appare necessario prendere atto che l'ordinamento prescrive
l'iscrizione nel registro delle imprese della morte dell'imprenditore e, quindi, avrebbe dovuto
derogarvi espressamente. Né si può ritenere che questa interpretazione (decorso dell'anno
dall'iscrizione dell'evento morte e non dalla sua verificazione) rende inutile la disposizione dell'art.
11 l. fall., perché in mancanza di una specifica disposizione ben si potrebbe sostenere che non è
possibile dichiarare il fallimento di un defunto; la norma invece conserva l'utilità di dimostrare che
il fallimento, la soggettività e la qualità di imprenditore non sono tra loro indissolubilmente
correlati (« fallite sans failli») (19).
Va infine considerato che le norme che hanno generalizzato la correlazione tra il dies a quo e la
pubblicità del relativo evento (artt. 10 e 147 l. fall.) hanno comportato un sensibile
ridimensionamento del principio di effettività che, prima della riforma del 2006, ispirava le
disposizioni in tema di fallibilità (20). Si può anzi dire che attualmente la regola generale va
rinvenuta nel principio di certezza delle situazioni giuridiche che, originariamente utilizzato dalla
Corte costituzionale a garanzia del fallendo, è stato delineato dal legislatore come fondamentale
linea di demarcazione, sul piano temporale, tra fallibilità e non fallibilità. È appena il caso di
evidenziare, infatti, che l'esigenza di tutela dell'affidamento è rinvenibile sia nei confronti di chi
contrae con un soggetto che agisce come imprenditore nonostante questi sia stato cancellato dal
registro delle imprese (e in questa ipotesi soccorre l'art. 10 comma 2 l. fall., che prevede una sorta
di ultrattività della situazione che legittima il fallimento) (21), sia per chi si determina ad avere
rapporti di affari con rappresentanti, institori, agenti, dipendenti o con chiunque altro spenda il
nome di un imprenditore defunto. In altri termini: il solo fatto della morte non mette al riparo la
generalità dei consorziati dalla spendita abusiva del nome del deceduto. Pertanto, anche sotto il
profilo della complessiva filosofia ispiratrice è molto più coerente affermare che il dies a quo per
la dichiarazione di fallimento del defunto decorre dalla data di pubblicazione nel registro delle
imprese della cancellazione dell'impresa individuale.
Si potrebbe però ritenere che la data rilevante sia quella della pubblicazione (non già della
cancellazione, bensì) dell' eventus mortis. Questa interpretazione è tuttavia priva di addentellati
normativi, perché il sistema di pubblicità del Registro delle imprese è ispirato ai principi di tipicità
e tassatività, stabiliti dall'art. 2188, comma 1 c.c. (22) e manca nel codice civile e nelle leggi
speciali una disposizione che consenta l'iscrizione (rectius, l'annotazione) del decesso
dell'imprenditore.
A tal proposito, è noto che l'art. 2 d.P.R. n. 247 del 2004 si occupa della cancellazione dell'impresa
individuale per morte del suo titolare, ma si limita a disciplinarne il procedimento; in particolare,
prescrive che l'ufficio deve inviare una lettera raccomandata alla sede dell'impresa e alla residenza
anagrafica e, dopo trenta giorni dalla ricezione, chiede al giudice del registro di ordinare la
cancellazione. La norma invece non dispone che il decesso dell'imprenditore (come anche gli altri
presupposti richiesti in via alternativa per la cancellazione d'uffici) sia annotato.
Pertanto, il combinato disposto degli artt. 11 e 10 l. fall. non può essere interpretato nel senso che
il termine annuale ai fini della fallibilità decorra dall'iscrizione della morte, applicandosi invece la
regola generale che stabilisce il dies a quo nella pubblicazione della cancellazione dell'impresa.
Ciò significa che gli eredi che intendono ridurre il rischio della dichiarazione di fallimento del de
cuius hanno l'onere di attivare il procedimento di iscrizione (della cancellazione) su domanda, ai
sensi dell'art. 11 d.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581, essendo a ciò legittimati in quanto successori a
titolo universale.
Se, invece, preferiscono rimanere inerti, vanno incontro al rischio che trascorra un considerevole
lasso di tempo tra la data del decesso, il momento in cui il Registro delle imprese ne viene a
conoscenza (anche a seguito della «segnalazione da parte di altro pubblico ufficio», ex art. 2
comma 2 d.P.R. 247 del 2004) e quello in cui viene emesso il decreto con cui il giudice del
registro ordina la cancellazione d'ufficio, con conseguente possibilità che intervenga nel frattempo
la sentenza di fallimento del defunto.
3. LEGITTIMAZIONE A CHIEDERE L'ISCRIZIONE DELL' EVENTUS MORTIS
Si è già detto che uno degli argomenti addotti in dottrina per sostenere che il fallimento del socio
illimitatamente responsabile deve essere pronunciato entro l'anno dalla sua morte e non
dall'iscrizione nel registro delle imprese consiste nel fatto che non è (ovviamente) possibile porre
un siffatto onere pubblicitario a carico del defunto.
A ciò si può agevolmente obiettare che in tema di pubblicità commerciale il principio generale è
che vi provveda l'amministratore. Così dispone l'art. 2296 c.c., per l'iscrizione dell'atto costitutivo
della società in nome collettivo; negli stessi termini l'art. 2300 c.c., per il medesimo tipo sociale,
con riferimento alle modificazioni dell'atto costitutivo (e in questa categoria rientra la cessione
delle quote accettata dai soci superstiti). Per la società in accomandita semplice si applicano le
medesime disposizioni, in forza del richiamo contenuto nell'art. 2315 c.c.
Per quanto riguarda, invece, gli eventi che comportano lo scioglimento del vincolo associativo
(morte, recesso ed esclusione) l'art. 2290 comma 2 prescrive che essi devono essere portati a
conoscenza «con mezzi idonei», ma non individua il soggetto su cui incombe l'adempimento di
questo obbligo.
Ricorrendo un tipico caso di lacuna legislativa, sembra quindi necessario fare ricorso
all'applicazione analogica dell'art. 2296 c.c.; ne consegue che è l'amministratore a dover richiedere
al registro delle imprese l'iscrizione di uno dei fatti che hanno fatto venir meno la qualità di socio.
Può ovviamente verificarsi che la morte colpisca l'accomandatario. Analogamente, è ipotizzabile
che il decesso riguardi l'unico amministratore della s.n.c. (ipotesi prevista dall'art. 2295, n. 3, c.c.,
anche se di non frequente ricorrenza, quando cioè l'amministrazione e rappresentanza è conferita
solo ad alcuni dei soci).
Per l'accomandita non dovrebbero porsi particolari difficoltà, perché l'art. 2323 comma 2 c.c.
prevede la figura dell'amministratore provvisorio.
Invece, nel caso della s.n.c. la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che il recesso di un
socio può essere iscritto, in caso di inottemperanza da parte dell'amministratore, «da ciascun
socio», aggiungendo che essi possono «anche limitarsi a chiedere la condanna dell'amministratore
ad eseguirla» (23). La pronuncia è stata criticata da un autore (24) che ha dubitato della possibilità
di fare ricorso all'analogia. Sembra però che l'obiezione non colga nel segno, se si considera che
l'art. 2300 c.c. prevede sì che all'iscrizione provveda l'amministratore, ma nulla dice nel caso in cui
questi non vi ottemperi.
D'altra parte, le soluzioni alternative proposte dall'autore appaiono eccessivamente farraginose.
Quanto all'ipotesi di ricorrere all'azione ex art. 2932 c.c. (25), è sufficiente osservare che la norma
si riferisce solo all'esecuzione in forma specifica di concludere un contratto, mentre l'iscrizione nel
registro si risolve in una mera dichiarazione a cui difetta certamente ogni contenuto di tipo
negoziale. Anche la proposizione dell'azione di responsabilità dell'amministratore non appare un
rimedio adeguato, perché idonea ad assicurare solo la tutela risarcitoria ma non consente di
conseguire il risultato perseguito (l'iscrizione della causa di scioglimento).
Di recente la giurisprudenza si è occupata di una singolare fattispecie, in cui il socio aveva
manifestato la volontà di recedere dalla società, convenendo in giudizio la società, i creditori e la
Camera di Commercio, chiedendo a quest'ultima di cancellare il suo nome dal registro delle
imprese. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello che aveva
ritenuto che il giudizio fosse un «mezzo idoneo, ai sensi dell'art. 2290 c.c., per portare a
conoscenza dei creditori la volontà di recedere» (26).
Va però osservato che ammettere la legittimazione del socio a richiedere, in sostituzione
dell'amministratore, l'iscrizione nel Registro delle imprese della morte di un altro socio (secondo
quanto affermato dalla sentenza 2812 del 2002) non configura una soluzione radicale al problema.
Ben può darsi cioè che anche gli altri soci superstiti rimangano inerti. Ciò che è importante
sottolineare è che l'erede del socio defunto non potrà mai avvalersi di questo orientamento
giurisprudenziale, per la decisiva ragione che egli non diventa socio ma acquista solo il diritto alla
liquidazione della quota (art. 2289 c.c.).
In conclusione, la soluzione più agevole per l'erede del socio defunto che intenda ottenere
l'iscrizione nel registro delle imprese di questa causa di scioglimento del rapporto sociale resta
l'attivazione della procedura di iscrizione d'ufficio, prevista in linea generale dall'art. 2190 c.c. nei
casi in cui «un'iscrizione obbligatoria non è stata richiesta». L'art. 16 d.P.R. 7 dicembre 1995, n.
581 la disciplina in dettaglio, prevedendo che l'ufficio del registro delle imprese inviti
l'imprenditore a richiederla e in caso di inottemperanza l'ufficio informerà il giudice del registro,
che ordinerà l'iscrizione.
L'erede del socio illimitatamente responsabile dovrà quindi documentare al registro delle imprese
il decesso e chiedere di attivare il procedimento di iscrizione d'ufficio. Non è quindi evitabile in
questo caso (a differenza di quanto esposto in materia di pubblicità della cancellazione
dell'imprenditore individuale) lo iato tra la morte del socio e l'iscrizione di detto evento nel
Registro delle imprese.
Ovviamente, è configurabile l'azione risarcitoria nei confronti dell'amministratore della società di
persone che con la sua inosservanza ad un preciso obbligo di legge (art. 2290 comma 2 c.c.) ha
consentito un fallimento che avrebbe potuto essere evitato.
Note:
(1) Ex multis, Cass. 11 maggio 1998. n. 2676, in Giur. it., 1998, 2098; Cass. 24 luglio 1992, n.
9824, in Fall., 1993, 48; Cass. 6 luglio 1993 n. 7385, in Fall., 1983, 1241.
(2) Per tutti, Galgano, Del fallimento delle società, in Commentario Scialoja-Branca alla legge
fallimentare, Artt. 146-159, Bologna, 1997, 179-181.
(3) C. cost. 12 marzo 1999, n. 66, in Dir. fall. 1999, II, 235.
(4) Trib. Roma 27 maggio 1999, in Dir. fall., 2000, 2, II, 391 ss.; Trib. Cassino 19 maggio 1999,
in Fall., 2000, 210.
(5) Trib. Padova 10 maggio 1999, in Dir. fall., 2000, 2, II, 393 ss.
(6) Cass. 21 gennaio 2000, n. 28, in Dir fall., 2000, 1, II, 5.
(7) Con ordinanza 26 luglio 1988 n. 919, in Fall., 1988, 1061, la Corte costituzionale aveva
ritenuto insussistente la denunciata disparità di trattamento tra imprenditore individuale e socio
illimitatamente responsabile di impresa collettiva, osservando che nel primo caso si tratta di «una
autonoma dichiarazione di fallimento»; la Corte, soprattutto, affermava che si doveva escludere la
possibilità di comparare le due situazioni, perché l'automaticità che caratterizza l'estensione del
fallimento al socio illimitatamente responsabile avrebbe comportato la necessità che «il limite
dell'anno dalla cessazione della qualità di socio dovrebbe operare in questo caso con riferimento
alla data della dichiarazione di fallimento della società, non alla data della pronuncia di fallimento
del socio».
(8) Cass., ord. 21 giugno 2000 n. 630, in Dir. fall., 2000, II, 678.
(9) C. cost. 21 luglio 2000 n. 319, in Dir. fall., 2001, 1, II, 27.
(10) Scalera, La Corte costituzionale «raddoppia» il limite endoannuale», in Dir. fall., 2001, 1, II,
27 ss.
(11) Trib S. Angelo dei Lombardi 20 giugno 2002, in Dir. fall., 2002, 2, II, 742 ss.
(12) Cass. 4 giugno 1999 n. 5479, in Giur. comm., 2001, II, 40, che ha evidenziato che nella
società di persone la cessione comporta il recesso del socio cedente, solo quando vi è il consenso
unanime degli altri soci; in caso contrario, l'atto dispositivo della quota rimane nel limitato ambito
del rapporto inter partes.
(13) Trib. Roma 27 maggio 1999, in Dir. fall., 2000, 2, II, 391 ss., con sentenza emessa peraltro
prima della declaratoria di illegittimità costituzionale e dopo la sentenza interpretativa di rigetto n.
66 del 1999.
(14) Cass. 16 giugno 2004, n. 11304, in Fall., 2005, 521, che, sia pure occupandosi di una
fattispecie in tema di recesso a seguito di cessione delle quote, ha affermato che «la cessazione
dell'appartenenza del socio di società di persone alla compagine sociale (per morte o per altra
causa....) cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell'art. 2290 comma 2 c.c. è capace di produrre
i suoi effetti nei confronti della società e degli altri soci... ma non è opponibile ai terzi...».
(15) Gaffuri, Commento all'art. 147 l. fall., in Codice del fallimento, a cura di Bocchiola e
Paluchowski, Milano, 2009, 1635.
(16) Ferri, Sub art. 2193, Commentario al codice civile, Scialoja-Branca, Bologna, 1963.
(17) Lamanna, Commento all'art. 11 l. fall., in Il nuovo diretto fallimentare, a cura di Jorio e
Fabiani, Bologna, 2010, 281.
(18) Capo, I presupposti del fallimento, in Trattato di diritto fallimentare, a cura di Capo-De Santis
-Meoli, Padova, 2010, 81.
(19) Lamanna, op. cit., 281.
(20) Di Amato, Principio di effettività e di affidamento e termini per la dichiarazione di fallimento
dell'ex imprenditore ed ex socio, in Fall., 2002, 1043 ss.
(21) Signorelli, Fallimento di società in accomandita semplice ed estensione del fallimento al
socio accomandante, in Fall., 2009, 153.
(22) Ex multis, Salafia, La pubblicità di atti e negozi nell'ordinamento italiano, in Soc., 2010, 830.
(23) Cass., sez. trib., 26 febbraio 2002, n. 2812, in Riv. giur. trib. 2003, 71 nonché in Not., 2003,
157.
(24) Di Zillo, Il recesso nelle società di persone e la giusta causa: effetti nei confronti dei soci e dei
terzi, in Riv. not., 2004, 1246.
(25) Pavone La Rosa, Il registro delle Imprese, Padova, 1999.
(26) Cass. 2 marzo 2009 n. 5018, in Mass. Giust. civ., 2009, 3, 361.
Utente: Giampiero Di Plinio
www.iusexplorer.it - 18.11.2013
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