Il desiderio, il ghigno, la pietà

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Il desiderio, il ghigno, la pietà
I COLLOQUI FIORENTINI – NIHIL ALIENUM
XII EDIZIONE
28 FEBBRAIO – 2 MARZO 2013
GIOVANNI VERGA: “IL SEMPLICE FATTO UMANO FARA’ PENSARE SEMPRE”
PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE TESINA TRIENNIO
IL DESIDERIO, IL GHIGNO, LA PIETA’
Studenti: Marleyn Alfonsi; Claudia Chiricozzi; Costanza Elena Manni; Martina Manzo; Paolo Orlando
della classe 1B del Liceo Classico “Mariano Buratti” di Viterbo.
Docente referente: Gianluca Zappa
Motivazione: Un appassionante e dettagliato percorso, capace di rendere effettiva ragione, in virtù di
una maturità di lettura dove l' amore per il dettaglio è frutto di una sincera partecipazione umana,
dell'impeto iniziale. Riuscire, con Verga ed i suoi personaggi, ad andare dentro ed oltre l'apparenza
delle cose e delle persone, scoprendo così come il ghigno beffardo che sembrerebbe essere ultima
parola sulla vita umana e le sue tensioni, non impedisce mai di vedere sbocciare, ancora e ancora,
uno strano fiore tra le pietre: il desiderio di amore, di permanenza, di significato.
Viaggio dentro il documento umano di Giovanni Verga
Nel nostro incontro con Verga, leggendo e analizzando i suoi romanzi e le sue novelle, abbiamo
avuto, a un certo punto, la sensazione che l’autore fosse interessato al punto interrogativo che nasce
nel confronto con la realtà. C’è in lui come una domanda costante: cosa c’è dietro?
“Il semplice fatto umano – scrive Verga nella celebre prefazione a L’amante di Gramigna – farà
pensare sempre”. Certo, ma a patto che si sia interessati a studiare nel gran libro del cuore umano,
prestando attenzione al misterioso “processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano,
maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano
contraddittori”. A Verga non importa tanto, questa è la nostra tesi, il fatto in sé: la violenza che
esplode improvvisa o premeditata; la follia della gelosia; gli stenti della miseria; il modo in cui il forte
schiaccia il debole; la mania di diventare ricco o nobile; un amore che nasce e sfiorisce... quanto
piuttosto il mistero che quel fatto porta con sé. In altre parole, l’interrogativo destato da quel fatto,
ciò che sta dietro, al di là.
E cosa c’è dietro il semplice fatto umano? Un io ferito. Un cuore che desidera, che attende, che
domanda tante cose: amore (nel senso forte del voler bene), felicità, giustizia, libertà, eternità, il
senso di tutto.
Potremmo immaginare che i personaggi di Verga siano proprio come la casa messa in scena in
Lacrymae rerum: vediamo l’esterno, l’apparenza. Ciò che conta davvero è segreto, avviene dietro,
appunto. Noi dobbiamo solo intuirlo, capirlo da certi indizi. La domanda del cuore umano la si deve
leggere tra le righe, spesso in quelle conclusive.
Del resto questa era precisamente la tecnica di Verga, così come egli stesso la spiegava al critico
letterario Felice Cameroni il 19 marzo 1881:
“Tutto questo deve risultare dalla manifestazione della vita del personaggio stesso, dalle sue parole,
dai suoi atti; il lettore deve vedere il personaggio, per servirmi del gergo, l’uomo secondo me, qual è,
dov’è come pensa, come sente, da dieci parole e dal modo di soffiarsi il naso”.
Ma la casa della novella, dopo essere passata di padrone in padrone, va irrimediabilmente in rovina.
Alla fine viene abbattuta per far posto a una strada nuova. A parte la metafora del progresso che
tutto distrugge e porta via, quello che ci ha colpito nella produzione di Verga è il costante contrasto
tra il desiderio, la domanda di felicità, e l’ineluttabilità tragica di un destino di morte, che si compie
nel deserto, nella solitudine più profonda, nell’indifferenza generale. L’uomo è solo di fronte al nulla,
è sballottato di qua e di là dai condizionamenti (in primis quello economico) e dalle sue stesse
passioni. E’ quasi deriso dal “ghigno schernitore di tutte le cose umane” che risuona nell’allucinata
novella La festa dei morti. Coinvolto, travolto, nella dura lotta per l’esistenza, assiste ai valori che si
ribaltano e che vengono rimodellati sulla base di falsi valori, e, soprattutto, all’amaro venir meno di
tutte le cose, perfino della memoria. E’ la chiusa sconsolata della novella Passato!: “Mi viene uno
sconforto amaro, un senso desolato del nulla, d’ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore, e
vorrei sdraiarmi su quell’erba, sotto quei sassi, anch’io nel sonno, nel gran sonno”. Sono righe che in
modo struggente dicono un cuore che, al cospetto del nulla, non riesce più a volare .
Con questo lavoro abbiamo dunque cercato di andare oltre (è l’invito di Lacrymae rerum) la superficie
della narrazione di Verga, tentando così di recuperare quello che lo scrittore vedeva nell’animo
umano.
Per farlo, siamo stati molto attenti alle continue riprese anaforiche del testo verghiano. Vi sono
novelle o certi passi dei romanzi (basterebbero anche solo le pagine conclusive de I Malavoglia) in cui
si ripetono in modo ossessivo alcune parole, alcuni concetti. Vi sono frasi che riecheggiano qua e là,
da una novella all’altra, da un romanzo all’altro, da una novella a un romanzo. La nostra idea è che
non si tratti soltanto di una questione di stile, ma che in quelle frasi, in quelle parole vi siano come dei
“punti infuocati” del pensiero e della sensibilità Verga. E allora, sulla scorta di queste riprese
anaforiche, abbiamo provato a costruire un percorso, che parte dal desiderio del cuore umano,
procede con il ghigno beffardo delle cose umane e si conclude con la pietà dello scrittore.
Il desiderio di “volerci sempre bene”
Verga ha dedicato molto della sua produzione a rappresentare l’amore come passione, tanto nei
romanzi del periodo borghese quanto nei romanzi e nelle novelle del periodo verista. È una passione
che ha del misterioso e che sconvolge la vita umana, proprio come egli scrive nella novella X della
raccolta Primavera ed altri racconti: “Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori e che
riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali”. Nel rapporto amoroso si gioca tutto su quel desiderio di
incontrare un tu che tutti abbiamo dentro da sempre: è come se l’uomo abbia bisogno di un’altra
persona per realizzarsi completamente; questa esigenza è espressa da Verga con l’espressione “Voler
bene” che a nostro parere è ciò che sta dietro anche alle più tragiche manifestazioni dell’amore. Un
breve elenco di citazioni di diversi testi verghiani fa comprendere come il voler bene sia al centro
della rappresentazione:
“Indicò fieramente uno sfregio che le segnava la guancia dall’orecchio sinistro al labbro superiore.
(...) Era segno che mi voleva bene” (Un processo, in Vagabondaggio).
“La Rossa ha il cuore buono -diceva suo marito- il guaio è che non siamo ricchi per volerci sempre
bene- Le galline quando non hanno nulla da beccare nella stia, si beccano fra di loro”, “Ormai a quel
cristiano gli voleva bene” (Pane nero, in Novelle rusticane).
“Mentre il giovane aspettava l’innamorata, si metteva a discorrere con la Màlia; le parlava della
sorella, le diceva quanto le volesse bene... (...) La sora Giuseppina per gratitudine voleva fargli
credere che la Gilda gli volesse sempre bene, e sarebbe ritornata un giorno o l’altro” (Il canarino del
N. 15, in Per le vie).
“M’ucciderò sotto i tuoi occhi! Verrà tutto il paese a vedere il sangue! Allora sarai contenta! Allora
vedrai se ti voglio bene sì o no!” (Gli innamorati, in Don Candeloro e C.i).
“ Dimmi perché mi hai detto sempre di no, a me che ti volevo tanto bene, mentre a quell’altro gli hai
detto di sì!... (...) Tu gli hai fatto vedere il segno che ci avevi dalla nascita, a quell’altro, perché l’amavi.
Io voglio lasciartene uno sulla faccia, perché tutti lo vedano, che ti ho voluto bene anch’io!” (Il segno
d’amore, in Drammi intimi).
In molti passi di Verga si nota proprio come il voler bene (un verbo che attiene anche agli affetti più
sacri, quelli familiari) sia il motivo che spinge la vicenda. Se prendiamo una novella significativa come
Il segno d’amore, notiamo come il gesto violento che Mendola fa a donna Concettina (uno sfregio sul
volto) sia motivato dal fatto di sentirsi tradito proprio nel voler bene; lo stesso accade nella novella
Un processo, dove la donna contesa, Malerba, ha capito perfettamente che il suo amante Malannata
le vuole bene: non si tratta solo di un attaccamento passionale, ma di un rapporto più profondo; ed è
lui stesso, l’assassino, che durante il processo spiega l’essenza del suo attaccamento alla prostituta:
“La Malerba, poveretta, è quella che è. (...) Ma quando me la lasciavano sulla panchina del molo
come una scarpa vecchia, chi andava a dirle una buona parola ero io; e a chi ella diceva una parola,
quando aveva il cuore grosso, ero io pure”. La Malerba, a sua volta, può testimoniare questo darsi
tutto del suo amante, quando ricorda che Malannata “se lo levava di bocca quel poco che
guadagnava per darlo a me”.
Levarsi di bocca il pane per darlo a chi si ama o per fare un regalo a chi si ama. E’ il sacrificio che fa
Nena, la Rossa, per il suo Santo in Pane nero: “Si levava il pane di bocca per regalare a compare Santo
la beretta di seta nera”. Nello stesso modo, e nella stessa novella, Lucia ama Brasi: “I rabbuffi, le
sgridate del padrone li pigliava per sé, e lasciava a lui il miglior piatto, il bicchiere di vino più colmo,
andava in corte a spaccar legna per lui”, fino ad accettare di concedersi al padrone per avere quella
dote senza la quale Brasi non vuole sposarla.
Nella novella Gli innamorati i due amanti sono Bruno Alessi e Nunziata; quest’ultima vuole essere
certa che Bruno le voglia bene e gli chiede un impegno per il matrimonio di fronte a Dio. Anche in
questo caso sarà l’uomo a cavillare sulla dote e, in questo modo, dimostrerà che il suo non è vero
amore.
Sembra, in Verga, che il volersi bene contempli anche una certa distanza, una delicatezza di rapporti,
quasi una paura di toccare l’altro. È la distanza, per esempio, che si osserva nel tenero idillio tra Mena
e compar Alfio ne I Malavoglia, dove s’intuisce un rapporto profondo, un sentimento vero, di amore
ed amicizia, tanto che compar Alfio appare quasi uno di famiglia; eppure i due non si sfiorano
nemmeno. E anche in un personaggio che non sembra aver tempo per le questioni di cuore come
Mastro don Gesualdo, c’è il momento di questo particolare voler bene., confessato quasi con pudore.
Accade nel capitolo VII della prima parte del romanzo, durante la prima notte di matrimonio tra
Gesualdo e Bianca Trao. L’uomo si pone in un atteggiamento di umile adorazione della donna
(“Voglio che tu sii meglio di una regina (…) tu sei buona e bella (..) tu sei bella e buona … voglio farti
come una regina”) fino a confessare il suo autentico sentimento: “Ora ti voglio bene davvero, sai!...
Ho paura di toccarti con le mani... Ho le mani grosse perché ho tanto lavorato”.
Qui Gesualdo confessa sommessamente il suo voler bene e insieme il suo desiderio di essere felice
accanto a qualcuno che lo ricambi con la stessa intensità. Ma di fronte al silenzio, alla confusione di
Bianca e alle sue lacrime, esprime tutto il proprio sconforto: “Dopo tanti stenti, tanti bocconi amari!...
tante spese fatte!... Si dovrebbe essere così contenti qui... due che si volessero bene!... Nossignore!
Neanche questo mi tocca!”.
Una delle pagine che più ci ha colpito è stata quella di Pane nero in cui Santo s’innamora di Nena. Qui
l’arte di Verga si svela nell’imprimere nel lettore (attraverso l’insistenza del colore rosso, dai capelli
della ragazza, al fazzoletto che ha in testa, al tramonto, al rosso del volto) di un fulgore da favola. Il
bacio sulla guancia, tra i due, avviene in modo casto e innocente. E’ l’incanto del volersi bene, fatto di
amicizia, di tenerezza. I due resteranno vicini in questo modo, nonostante tutte le difficoltà che
incontreranno. Santo continuerà a guardare la moglie con questa tenerezza, anche se le fatiche di
un’esistenza povera lo porteranno in seguito a definire come “grilli” per la testa l’esperienza di un
amore vero.
Con questo passiamo ad un altro desiderio profondamente e veramente umano. Non basta avere un
rapporto di totale comunione con un tu: si vuole che questa meraviglia, quando accade, duri per
sempre. Questa è un’altra espressione che ritorna spesso nei testi di Verga, in quanto l’autore
siciliano ha riflettuto in modo particolare su questa esigenza.
Nella novella X della raccolta Primavera ed altri racconti, Verga pone una domanda retorica: “Per
sempre non è una parola che scuote maggiormente l’animo umano?”.
In un momento di sconforto, Santo, in Pane nero, esclama: “Il guaio è che non siamo ricchi per volerci
sempre bene”, frase che se da una parte ci mette di fronte ai condizionamenti che possono rovinare
un amore, dall’altra esprime in pieno le due esigenze di cui stiamo parlando.
Nell’ultima delle Novelle Rusticane, Di là del mare, si parla di un amore extraconiugale tra due
benestanti. Il per sempre torna in modo continuo, quasi ossessivo, anche nella versione del “non
lasciarsi più”. Per sempre è quanto la donna scrive al suo amante su un foglio di carta, prima di
separarsi da lui e le due parole risuonano anche nelle ultime righe della novella.
In una novella della raccolta I ricordi del capitano D’Arce, l’espressione compare anche nel titolo Né
mai, né sempre!, questa volta con una negazione, in quanto tutto il racconto verte sul desiderio
dell’amante continuamente frustato dall’amata: “Per sempre uniti! L’uno dell’altro! – Sempre!“.
Verga ci parla qui di un amore senza ma e senza se che possa durare in eterno, sfidare i
condizionamenti della vita, lo spazio e il tempo. E’ un amore inteso come unione totale, come un
essere l’uno nell’altro, come comunione di cuori che comporta la disponibilità al sacrificio.
Il desiderio della permanenza
Nella nostra vita e nella società in cui ci formiamo, il gruppo costituisce una parte fondamentale. Il
primo con cui conviviamo, è senza dubbio quello più importante, il nostro nido che ci accoglie e ci
protegge fin da quando siamo più fragili. La famiglia è il primo microcosmo con cui conviviamo e in
cui solidifichiamo le basi per la nostra identità. E’ per questo che la presenza di una famiglia
costituisce uno dei bisogni primari per l’uomo, che comprende anche il desiderio di avere un punto di
riferimento, una propria casa, il bisogno di avere qualcuno che ci ami.
E’ proprio questo desiderio che ‘Ntoni palesa nella sua ultima visita alla famiglia:
“Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla” (I Malavoglia, cap. XV).
In ‘Ntoni c’è il bisogno di rientrare nella casa, di osservare, dopo tanto tempo, quell’ambiente che
prima gli appariva quotidiano e familiare. E con struggente malinconia si abbandona ai ricordi: “Ti
rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera (…) e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di
luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia?”.
Ora anche ‘Ntoni ha capito, seppure troppo tardi, il valore della permanenza, la saggezza di quei
proverbi che si sentiva ripetere: “Beato quell’uccello, che fa il nido al suo paesello”; “Ad ogni uccello
suo nido è bello” (I Malavoglia, cap. XI).
Il ricordo di ‘Ntoni si muove al “chiaro di luna”. Verga utilizza spesso la presenza di una luce nel
momento in cui sottolinea la “religione della famiglia”: che si tratti della luce della luna, del sole, di un
lume, sempre sentiamo il calore di una presenza.
“Era una bella serata di primavera, col chiaro di luna per le strade e nel cortile, la gente davanti agli
usci, e le ragazze che passeggiavano cantando e tenendosi abbracciate” (I Malavoglia, cap. VIII).
Il lume spento significa la cancellazione della presenza che illumina e sostiene la vita:
“Allora non si vedrà più il lume di compare Alfio, e la sua casa rimarrà chiusa” (I Malavoglia, cap. VIII).
Oppure, come in queste frasi di Padron ‘Ntoni, la luce del sole rappresenta il valore del paese-casa,
che non può essere trovato altrove:
“Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua
finestra!” (I Malavoglia, cap. XI).
Quando alla fine del romanzo ‘Ntoni si ritrova solo sulla piazza di Aci Trezza, la luce ricompare
solamente nel momento in cui egli inizia a udire suoni noti e a riconoscere elementi che avevano
caratterizzato la sua infanzia e la sua gioventù:
“Così stette un gran pezzo pensando a tante cose,guardando il paese nero, e ascoltando il mare che
gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e
delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla
riva, in fondo alla piazza,cominciavano a formicolare dei lumi.” ( I Malavoglia, cap. XV)
Un’altra immagine che ricorre spesso e che fa capire il valore della permanenza, è quella del morire
dove si è nati:
“Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato” (I Malavoglia, cap. XI).
“Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli occhi dove son nato” (Mastro Don Gesualdo, parte IV,
cap. V).
“Compare Arcangelo (...) si ostinava a pretendere di voler morire nella casa dove era nato (…) quei
sassi lo conoscevano” (Novelle rusticane, Don Licciu Papa).
In quest’ultima citazione appare anche l’immagine dei sassi che conoscono l’uomo. Tutta la vita, dalla
nascita alla morte, deve svolgersi dentro un luogo che è all’origine dell’identità dell’essere umano. Da
qui l’attaccamento alla propria casa e il dramma dello spatriare:
“Il peggio, disse infine Mena, è spatriare dal proprio paese dove fino i sassi vi conoscono e dev’
essere una cosa da rompere il cuore il lasciarseli dietro per la strada” (I Malavoglia, cap. XI).
“Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene, colle buone dalla
casa del Nespolo, dopo tanto tempo che ci erano stati e pareva che fosse come andarsene dal paese
e spatriare, o come quelli che erano partiti per ritornare e non erano tornati più, che ancora c’era li il
letto di Luca e il chiodo dove Bastianazzo appendeva il giubbone” (I Malavoglia, cap. IX).
Nelle parole di Mena (che tra l’altro riprendono quasi alla lettera quelle dette da compar Alfio nel
cap. VIII: “Sarei rimasto qui, che fino i muri mi conoscono”), possiamo cogliere quanto sia difficile
pensare di staccarsi da ciò che è per noi abituale e quotidiano, da ciò che è diventato ormai parte di
noi stessi, che si tratti di persone, animali o anche oggetti. “Fino i sassi vi conoscono.” Ogni cosa ci fa
compagnia, ogni frammento, perfino ciò che appare insignificante e irrilevante, col tempo ci entra
dentro, perfino i sassi. Come ogni cosa diventa frammento, ogni persona diventa ricordo.
Per questo andarsene dalla casa è diventare forestieri. E per questo la casa diventa uno spazio sacro e
chi la tocca commette una specie di sacrilegio.
Nella produzione di Verga la violazione della casa è spesso connessa al pignoramento del bene, fatto
traumatico che si verifica ovunque, tra i poveri e i benestanti:
“Ora lo zio Crocifisso ci era venuto col falegname e col muratore, e ogni sorta di gente che
scorrazzavano di qua e di là per le stanze come fossero in piazza, e dicevano: - Qui ci vogliono dei
mattoni, qui ci vuole un travicello nuovo, qui c’è da rifare l’imposta - come se fossero i padroni; e
dicevano anche che si doveva imbiancarla per farla sembrare tutt’altra.” (I Malavoglia, cap. IX)
“La gente si affollava dinanzi al portone di don Piddu, a vedergli portar via gli armadi e i cassettoni,
che lasciavano il segno bianco nel muro dove erano stati tanto tempo” (Novelle rusticane, I
galantuomini).
Ci troviamo di fronte ad una completa dissacrazione della casa, ad una totale violazione del focolare.
Quelle pareti deteriorate non sembrano più le mura domestiche tra le quali si è nati e cresciuti e
dalle quali si è conosciuti. La casa si è trasformata in una piazza e le vecchie suppellettili lasciano dei
segni sulle pareti, come una ferita. L’immagine resta impressa in Verga, che la ripeterà più tardi, in
Lacrymae rerum, storia di una casa che passa di padrone in padrone: “La carta gialla ricompariva
sotto la tappezzeria lacera, il segno del letto e le macchie scure, i chiodi sul camino a cui era appeso il
grande specchio dorato...”.
Il senso dello spaesamento completo è reso in modo molto efficace nell’ultima avventura di Mastro
don Gesualdo, quella del trasferimento nella casa della figlia /“Parve a don Gesualdo d’ entrare in un
altro mondo, allorchè fu in casa della figliuola”). Qui assistiamo al completo rovesciamento
dell’immagine della casa. “Adesso era chiuso fra quattro mura”. Sono quattro mura che chiudono,
che soffocano. “Soffocare” è un verbo che ricorre numerose volte per esprimere proprio l’idea di
oppressione in un ambiente estraneo:
“Mi par di soffocare qui dentro”; “Soffocava fra i cortinaggi e le belle stoffe di seta che gli toglievano il
sole”; “ Le tende e i tappeti soffocavano ogni cosa” (Mastro don Gesualdo, parte IV, cap. V).
Mastro Don Gesualdo si sente estraneo, diverso, stretto in quel mondo, che non è il suo e Verga
sottolinea questa situazione di estraneità: “al pover’uomo sembrava d’essere davvero un forestiero”.
E’ una situazione davvero strana: lo spazio estraneo è gigantesco (“Era un palazzone così vasto che vi
si smarriva dentro”) eppure vi si soffoca, come se fosse angusto. E’ una casa stretta ma
contemporaneamente enorme. Per Gesualdo è una “casa maledetta” che non lo rappresenta più,
non lo protegge più, non corrisponde alla sua dimora, al suo nido. E’ più simile a una chiesa (altro
paragone ricorrente in Verga e significativo, perché sempre utilizzato per spazi immensi e vuoti, che
non contengono alcuna presenza) o a un ospedale ( “Qui gli pareva d’essere all’ospedale”).
Andarsene dalla propria casa è un andarsene per sempre. Perché, come ‘Ntoni comprende benissimo
e come compar Alfio sa prima ancora di andarsene, al ritorno ogni cosa apparirà diversa, mutata.
Ecco un altro “punto infuocato” di Verga, che culmina nell’immagine del mondo come stallatico. Nel
cap. XV dei Malavoglia compar Alfio ripete per ben tre volte, e con le stesse immagini, questo
concetto (i corsivi sono nostri):
“Quando uno lascia il suo paese è meglio che non ci torni più, perché ogni cosa muta faccia mentre
egli è lontano, e anche le facce con cui lo guardano son mutate e sembra che sia diventato straniero
anche lui. (...) E comare Mena non mi è parsa più quella. Uno che se ne va dal paese è meglio non ci
torni più. (...) Adesso tutto era cambiato, e quando uno se ne va dal paese, è meglio che non ci torni
più, perché la strada stessa non sembrava più quella”.
Colpisce l’insistenza di Verga nel reiterare le stesse immagini a proposito di ‘Ntoni:
“Il cane si mise ad abbaiare... e lo stesso Alessi non riconobbe ‘Ntoni... tanto era mutato. Ei non
sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste. (...) Alessi
non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato”.
“Il mondo è fatto come uno stallatico, che chi viene e chi se ne va, e a poco a poco tutti cambiano di
posto, e ogni cosa non sembra più quella” (I Malavoglia, cap. VIII).
Verga pone la famiglia come valore supremo, che inevitabilmente prevale sul resto. Anche quando si
decide di trascurarla per sempre, di abbandonarla per sempre, di dimenticarla per sempre, questo
non può accadere. Qualsiasi promessa, qualsiasi sogno, non può competere con ciò che è in realtà il
vero desiderio dell’uomo: il bene dentro una permanenza. Nulla può sostituire il bisogno di sentirsi
amato e apprezzato, e quando ci si trova in un ambiente familiare in cui l’amore ha regnato e
inevitabilmente continua a regnare, non è possibile ignorarlo e voltargli le spalle.
Ma andarsene via, per scelta o per forza, è un danno irreparabile.
Il desiderio della giustizia
Le azioni umane hanno origine anche da un altro desiderio, forte e radicato nel cuore: quello della
giustizia. Questo tema assume in Verga varie sfumature.
In alcuni passi giustamente famosi c’è la richiesta di una vera e propria giustizia sociale. Citeremo,
ovviamente, la novella Libertà, nella quale, rievocando lo storico episodio di Bronte, lo scrittore
siciliano ci mostra la rivoluzione dei contadini contro i galantuomini, contro i cappelli, i potenti
proprietari terrieri. Ma il racconto di Verga, più che soffermarsi sul fatto storico, è centrata sulla
convinzione dell’impossibilità di mutare le leggi della miseria e della sopraffazione, dalle quali non si
può evadere. Non solo: c’è come una riflessione sull’impossibilità radicale della giustizia nella vita
dell’uomo, perché anche coloro che si battono per questo ideale commettono poi azioni ingiuste,
omicidi efferati, proprio come i contadini di Bronte che nella furia uccidono anche gli innocenti.
L’arrivo dei supposti paladini della giustizia (il generale garibaldino che, appunto, “veniva a far
giustizia”), si rivela una vera e propria delusione. Dopo la rivoluzione e tanto sangue versato, le cose
tornano come prima, perché “all’aria ci vanno i cenci”. L’ultima battuta è quella del carbonaio Neli
Pirru, che finisce in galera: “O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto
che c’era la libertà!”, dove appare chiaro il fallimento dell’ideale “libertà-giustizia”, o meglio,
dell’illusione che questo ideale possa realizzarsi in un mondo dominato dalla sofferenza prodotta
dalla darwiniana lotta per la vita e dalla sopraffazione del più forte sul più debole.
Questa sopraffazione è evidente in novelle come Don Licciu Papa e Il Reverendo, in apertura della
raccolta Novelle rusticane. La scena è occupata dai potenti, che manipolano la giustizia per
raggiungere sempre e solo il loro scopo e che, anzi, mentre si fanno largo attraverso la sopraffazione,
osano addirittura ripetere la parola giustizia.
In Don Licciu Papa proverbi come “Ci vogliono i santi per entrare in Paradiso!” e “La Giustizia è fatta
per quelli che hanno da spendere” dicono proprio tutto. Il desiderio di giustizia dei poveri diavoli ,
come Compare Arcangelo, viene sempre frustrato (mettersi contro un potente è come la “storia della
brocca contro il sasso”: al debole si toglie tutto. I galantuomini non si prendono solo i beni, la casa
(“quei sassi” che “lo conoscevano”), ma anche il cuore della figlia, anche gli affetti più cari. Uno non è
più padrone di niente, anche se vorrebbe esserlo di qualcosa.
Tra le due novelle citate c’è Cos’è il Re, nella quale il protagonista, Compare Cosimo, è costretto al
servizio penoso e per lui rischioso di portare sul suo carro la Regina. In seguito, il Re, cioè la legge,
decreterà il pignoramento dei suoi beni e poi gli porterà via il figlio Orazio per farlo artigliere. Per
Compare Cosimo non sembra esserci giustizia.
Il Reverendo è la novella che parla di un potente appartenente all’ordine ecclesiastico, tutto meno
che un uomo di Dio (aveva il “breviario coperto di polvere”), capace di intrighi e sopraffazioni di ogni
sorta, sempre a braccetto con quelli che contano. E’ un arrivista, un arrampicatore sociale, uno che
“voleva portarsi avanti; e ci si portava, col vento in poppa”. Ma in questa novella s’introduce qualcosa
di nuovo. Anche per il Reverendo, che fa giustizia a modo suo (scambiandola per la “volontà di Dio”),
il vento cambia, e da privilegiato, si trova a dover invecchiare constatando che tutto è cambiato. Ed è
così che brontola: “Non c’è più religione, né giustizia, né nulla!”.
Molti personaggi di Verga si fanno giustizia da sé, specie nelle storie che parlano di delitti passionali. Il
marito tradito si vendica del rivale e della sua donna a modo proprio, con le proprie mani, spesso in
preda all’istinto più sanguinario, come accade in Jeli il pastore, o in Cavalleria rusticana, o nella stessa
Lupa, in cui Nanni si libera dell’oppressione a colpi di scure. A volte, come ne La caccia al lupo,
attraverso un freddo e calcolato piano. Nella già citata Un processo, Malannata, che ucciso il rivale
Rosario Testa, si giustifica a modo suo: “Io glielo aveva detto a Testa: “Guarda che a te non te ne
importa. Tu ci hai moglie e figliuoli; ma io non ho che questa qui, Testa!”, confessione che in modo
innocente e disarmante ci mette di fronte al desiderio di un minimo di giustizia nei rapporti umani.
C’è poi la richiesta di una giustizia più radicale, di fronte all’esistenza. Come in Malaria, dove la gente
muore in mezzo a una natura rigogliosa e uomini e donne sono uniti da un destino di immobilità, di
sofferenza e di rassegnazione. “La malaria entra nelle ossa col pane che mangiate e vi par di toccarla
come l’afa pesante di luglio”. Non c’è modo di ribellarsi, bisogna solo accettare la dura legge: il pane
che si mangia bisogna sudarlo.
L’unica nota vitale è la ferrovia che hanno costruito, per mezzo della quale passa un treno che corre
rapido quasi volesse sfuggire al contagio con allegre brigate di cacciatori, con belle signore col capo
avvolto nei veli e l’argento e l’acciaio brunito delle sacche e delle borse, luccicavano e colpivano
l’attenzione di Compare Carmine. Costui seduto sulla panchina, dopo aver mostrato la banderuola,
diceva: “Questi qui non li coglie la malaria”, che è un poco come dire: la vita non è uguale per tutti.
C’è poi quella che potremmo definire l’ingiustizia delle ingiustizie: la morte, tanto più ingiusta quanto
ci si crede invincibili ed eterni. È il caso di Mazzarò, l’infaticabile costruttore di ricchezze.
a un certo punto comincia a capire “che cominciava a farsi vecchio e la terra doveva lasciarla là
dov’era”. E allora ecco la recriminazione: “Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la
vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!”.
La suprema giustizia sarebbe quella di essere eterni, essere padroni della propria vita, essere felici
secondo i propri desideri. Ma questo, e Verga lo sa e ce lo fa capire, non è un privilegio degli uomini.
Il ghigno beffardo delle cose umane
Rosso Malpelo torna spesso a visitare “il carcame del grigio in fondo al burrone” e lì, davanti alla
carcassa del vecchio asino, esprime la sua semplice e amara filosofia: “Ecco come vanno le cose!
Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; (...) Ma ora gli occhi se li mangiano i
cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se
non fosse mai nato sarebbe stato meglio”.
Come dargli torto? Se il Paradiso non esiste, se le stelle non rimandano a un luogo “dove vanno a
stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai genitori” (come crede Ranocchio, ma
perché dovrebbe “portar la gonnella”, come dice Malpelo), allora che senso ha nascere per soffrire e
poi finire in una fossa, mangiati dai cani?
Come abbiamo visto, nelle novelle e nei romanzi di Verga persiste il tema dei grandi desideri del cuore
umano, che sono all’origine di atti, manifestazioni, modi di essere; ma tutto viene vanificato dalla
corrosiva presenza della morte intesa come nulla. La vita, con tutto il suo rumore, è svuotata di senso
dall’inconsistenza di tutto: dopo la morte non c'è niente, niente più rimane, niente si salva.
Nella novella Passato! questa ossessione del nulla è affidata all’anafora del verbo “penso”, che
esprime il grado di coinvolgimento emotivo dell’autore riguardo a questo tema:
“Penso ai sentieri verdeggianti (...) Penso a quell'ora dolce del tramonto; (...) Penso a quell'ora calda
di luglio quando il sole inonda la pianura riarsa; (...) Penso alle notti profonde; (...) Penso alle lunghe
notti d'inverno spazzate dal vento e dagli acquazzoni; (...) Penso alla mia fanciullezza, che sembra sia
tutta trascorsa in quella nota campagna (...)” (Novelle Sparse, Passato!).
In questa novella Verga fa quasi un bilancio di tutta la sua vita: ricorda i luoghi in cui è stato e quelli in
cui ha vissuto; le esperienze trascorse e la sua infanzia; ciò che è stato e ciò che ha passato, compreso
il primo amore. C’è stato anche il dolore, la perdita di persone care. E infine, sulle cose trionfa la
morte, che distrugge tutto ciò che si è stati. La vita attorno a noi scorre, cambia, muore, rinasce, ma
noi, quando moriamo, non rinasciamo. Non siamo come l'erba che, “morta anch'essa”, poi risorge.
Solo i sassi e le pietre della fossa non svaniscono: restano sempre lì, sempre uguali. Delle persone,
invece, svanisce tutto. E questa consapevolezza genera un sentimento di sconforto, di freddo, di
vuoto, perché tutto quello per cui si è lottato nella vita non vale nulla contro la morte. Perfino il
dolore, che sembrava una presenza dura e invincibile, viene sconfitto:
“E quando penso che lo strazio feroce di questo dolore non è più così vivo dentro di me, che ogni
strappo dell'anima lentamente va rimarginandosi, mi viene uno sconforto amaro, un senso desolato
del nulla, d'ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore, e vorrei sdraiarmi su quell'erba, sotto
quei sassi, anch'io nel sonno, nel gran sonno.”
Davanti alla potenza del nulla, non resta che dimenticare, sprofondare nel grande buio, proprio come
fa Malpelo, che s’incammina da solo verso il suo buio destino, con una cieca volontà di dissolvimento.
Se la vita è così, sarebbe davvero meglio non nascere, o almeno farla finita il prima possibile.
In questo pessimismo che ricorda le vette leopardiane, le “cose umane” appaiono come un grande
inganno. La novella La festa dei morti, della raccolta Vagabondaggio, potrebbe benissimo essere
accostata ad alcune Operette Morali. Qui Verga è beffardo, meno languido rispetto a Passato! e più
crudo, più brutale, ma il suo messaggio è lo stesso, stavolta affidato ad una danza macabra, con teschi
e defunti di ogni età che si ritrovano a far festa intorno al sepolcro di un prete morto in peccato
mortale.
La rappresentazione dei cadaveri (chissà se Verga voleva qui ricordare i corpi esposti nella cripta dei
Cappuccini di Palermo) mira a colpire il lettore, per ricordargli che non si sfugge alla morte, qualunque
cosa si faccia, chiunque si sia stati.
Per tre volte lo scrittore riprende anaforicamente, e con un climax ascendente, la parola “ghigno”: “un
ghigno sinistro”; “il ghigno sinistro di tutte le cose umane”; “il ghigno beffardo delle cose umane”.
L’idolo si mostra crudelmente, impietosamente per quello che è. Il cappio si stringe al collo, l’illusione
viene meno.
Verga ci dice che la vita ci prende in giro: per anni e anni una persona non fa che lavorare, soffrire,
amare, fare del bene, fare del male... fatica per qualcosa che poi... poi scomparirà insieme a lei! E cosa
resta?
“Più nulla! più nulla! - Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. - Né i tuoi occhi bramosi,
pei quali egli sfidò il disonore e la morte onde portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti
rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? - E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio
sanguinoso che mise in mano a quell'altro l'arma omicida (...)”.
L'elenco continua, parlando delle lacrime versate per i morti amati, della maternità e dell'infanzia
vissuta, delle speranze avute in vita, di tutte le esperienze vissute. E’ un lungo elenco che rende vivide
alla memoria le circostanze che tutti conosciamo, che tutti viviamo. Ma poi “l'onda che s'ingolfa
gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola del Prete» si porta via per
sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa.”
L'onda è la morte, che quando arriva porta via tutto, appunto “la memoria di ogni cosa”, non
lasciando più null'altro..
Il “ghigno beffardo delle cose umane” torna a ribadire il suo significato anche nella conclusione della
novella, quando viene rappresentata un’umanità indaffarata e tutta interessata al denaro, al possibile
tesoro nascosto dentro la “Tavola del Prete”. Non trovando dei soldi o un testamento, si decide di
trarre dalle ossa tre numeri da giocare al lotto: “Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo”.
E’ palpabile in questa conclusione una compiaciuta e beffarda ironia nei confronti di un’umanità tutta
presa dai propri miseri idoli (il denaro, il progresso – la tomba viene distrutta per costruire un nuovo
porto) e cieca di fronte all’unica verità: il nulla.
Il “ghigno beffardo delle cose umane” produce la famosa galleria dei vinti verghiani: Padron 'Ntoni,
che vede sgretolarsi la famiglia pezzo a pezzo e che muore solo come un cane in un grande anonimo
ospedale di città, lui che voleva morire nel suo letto e nel suo paese, circondato dai suoi cari; Mazzarò,
che ha passato tutta la vita ad accumulare campi, soldi, roba, senza pensare a mettere su famiglia, e
sul punto di morte si accorge di come tutta quella roba ora non sarà più sua, non avrà più nulla e
vorrebbe portarsela con sé; Mastro Don Gesualdo, che come Mazzarò, è destinato a lasciare ad altri le
ricchezze accumulate e si rende conto, nell’ultimo dialogo con la figlia, che i suoi eredi dissiperanno
tutto quello per cui ha vissuto e faticato; i contadini di Libertà, che speravano nella giustizia politica
portata dalla rivoluzione e invece si accorgono che tutto resta come prima; ‘Ntoni, Peppa (l’amante di
Gramigna), Lia, l’anonimo protagonista di X e tanti altri personaggi, distrutti dai loro sogni, dalle loro
illusioni. Come la casa di Lacrymae rerum, che alla fine diventa solo un cumulo di macerie, con tutti i
suoi segreti, le sue gioie e i suoi dolori.
I “poveracci” e la pietà di Verga
L’immagine che abbiamo scelto per la nostra copertina è famosa: si tratta dell’allegoria
dell’Infidelitas, rappresentata da Giotto nella cappella degli Scrovegni di Padova. Chi sceglie un idolo
si affida a qualcosa che apparentemente lo gratifica (la statuetta, tenuta in mano dalla figura
femminile, che offre un ramoscello), ma in realtà lo tradisce e lo distrugge (la statuetta ha nell’altra
mano un cappio che, immaginiamo, strangolerà presto la donna).
Questa è esattamente la vicenda che caratterizza moltissimi personaggi di Verga, condannati alla
sconfitta del loro desiderio o perché si sono affidati a un sogno inconsistente, o perché il loro punto
di riferimento, potremmo dire il loro nord, non ha la capacità di reggere all’urto del destino insito
nelle cose umane, che è un destino di morte. Il cuore ha dei desideri grandi, ma è condannato a
venire strangolato, cerca a modo suo la felicità e non la trova.
Verga ritiene dunque che tutti gli uomini siano sottoposti ad un destino crudele che li condanna
all’infelicità e al dolore. Per questo dolore non c’è soluzione e la voce dello scrittore siciliano qui
sembra riprendere la sconsolata visione di Leopardi e anticipare quello che sarà il maladjustement di
Montale. A Verga non resta allora che uno sguardo pietoso e di compassione per i dolori e le sventure
dell’uomo e non ha caso è stato definito dal Russo “poeta tragico della pietà per la vita”. In che modo
si manifesta, si può leggere questa pietà nella sua opera?
Ancora una volta ci è sembrato di poter rintracciare un indizio,una spia lessicale nell’uso reiterato
dell’aggettivo “povero”, declinato nelle sue varianti: poveraccio (povero diavolaccio), poveretto,
poverino. In genere questi aggettivi compaiono quando il personaggio perde qualcosa, subisce un
affronto, soffre per una condizione particolare.
Un esempio particolarmente significativo è in Cavalleria rusticana. Nella sequenza iniziale Turiddu
Macca appare sicuro di sé, spavaldo, vincente nella sua uniforme di bersagliere. Poi viene a sapere
che la sua Lola si è sposata. La reazione immediata è quella del bravaccio: Turiddu appare
determinato, incrollabile, forte nell’affrontare la situazione. Poi riesce ad avere un contatto con Lola e
immediatamente Verga ce lo trasforma in un personaggio debole e sofferente. Ecco il testo: “Il
poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro la
ragazza con la nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza,
rincresceva di vederlo così, col viso lungo...”.
La voce roca, la nappa floscia del berretto, quell’andare dietro la gnà Lola. Da bravaccio Turiddu è
diventato un povero diavolo innamorato.
Poveretta è la Gna Nunziata madre di Turiddu, la quale, durante l’assenza del figlio, impegnato come
bersagliere nel servizio militare, aveva dovuto vendere “la mula baia e quel pezzetto di vigna sullo
stradone”.
L’aggettivo ritorna insistente nell’ultimo capitolo de I Malavoglia, all’avvicinarsi alla morte di Padron
‘Ntoni: “Intanto il poveraccio stava a vedere quello che dicessero gli altri, con gli occhi spenti, e aveva
paura che lo mandassero all’Albergo (...) Ci stava così attento, poveretto, che arrivava fino a dire che
se avessero avuto la casa del nespolo si poteva allevarlo nel cortile, il maiale (...) Quel povero vecchio
dovrebbero mandarlo all’ospedale per non fargli avere il purgatorio prima che muoia”.
In Rosso Malpelo Mastro Misciu è definito “povero diavolaccio” nel momento in cui è messo alla
berlina dagli operai della cava. Poveraccio è curatolo Arcangelo di Don Licciu Papa quando consola la
figlia piangente nel momento di abbandonare la casa. Poveraccio è Ammazzamogli di Malaria,
rimasto solo nella sua osteria. Una poveretta è Lucia di Pane nero, quando si rende conto che l’amato
Brasi approva il suo concedersi al padrone. Poveretti sono definiti i rivoltosi di Libertà quando
vengono rinchiusi in prigione. E si potrebbe continuare a lungo.
La pietà di Verga si fa poi particolarmente sentire quando i personaggi si rendono conto di non essere
padroni della propria esistenza, come Compare Nanni, padre di Santo in Pane nero, che a chi lo mette
in guardia dal contagio della malaria risponde: “Quasi fossi un barone che può fare quello che gli pare
e piace!”. O come il già citato curatolo Arcangelo, che grida il suo velleitario “Anch’io son padrone!”,
nel momento in cui perde tutto. E Mastro don Gesualdo, che nel dialogo con Diodata, riconosce (lui,
ricco e potente), di fronte a lei che gli ripete “Vossignoria siete il padrone”, che “non si può far
sempre quello che si desidera. Non sono più padrone” (parte I, cap. IV). E nel momento in cui chiede
invano di fare testamento, ha la speranza di “dimostrare a se stesso ch’era tuttora il padrone”.
Verga mette in scena gli uomini col loro profondo dolore e c’invita, tra le righe, in modo indiretto, a
stare in pena per loro, a piangere per loro, a sentire la sofferenza che è scritta nelle cose del mondo,
le Lacrymae rerum. Questo sentimento che genera in noi la lettura della sua opera, in conclusione, è
il dono di cui gli siamo grati.