I Pianificatori - corneliascript

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I Pianificatori - corneliascript
I P ianificato ri
P r ologo
U n a sto ria fantastica
Thomas Crawford, un avo da parte di mio padre è su tutte le
pareti delle stanze del mio piccolo castello nel Kent. Nessuno della
famiglia ha mai saputo perché in ogni quadro, quell’uomo appare in
spoglie diverse, l’unico accenno che tutti mi hanno dato è che era
un uomo di rare qualità. La vita di Thomas Crawford è stata avvolta
in un mistero. Sono l’ultimo erede della famiglia Crawford e dei Kent
da parte di mia madre, cosicché alla mia morte si estingueranno
due secolari famiglie. Lavoro presso il Centro di Cultura Inglese di
Londra e, fra qualche giorno, andrò a ricoprire il posto di addetto
Culturale presso la nostra Ambasciata a Roma. Poiché questo
impegno mi terrà lontano dalla Gran Bretagna per qualche anno,
decido di mettere un poco d’ordine tra i documenti di famiglia.
Ho quasi finito di sistemare una montagna di documenti
quando, in fondo a un piccolo cassetto del secretaire del mio studio,
vedo una busta gialla con due aquile: il sigillo dei Crawford. Soffio
sulla busta impolverata e leggo una piccola annotazione: Da
consegnare, in rispetto della tradizione cavalleresca dell’Ordine dei I
Pianificatori, all’ultimo erede in ordine dinastico di Thomas Crawford.
Sorridendo penso: giustappunto, mi mancava anche questa piccola
eredità! Dentro la busta ci sono due fogli ingialliti, uno firmato da
Thomas Crawford, l’altro da Carmine Caruso, una persona a me
sconosciuta, e un disco di un tipo che non conosco. In calce a
entrambi i fogli c’è una data: Roma, 11 gennaio 1998. Non sorrido
più con quei documenti in mano che risalgono a più di duecento
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anni fa. Dopo questa scoperta non posso più partire per Roma, devo
rimandare la mia partenza a tutti i costi. Il disco lo porterò subito al
Secret Service Bureau, dove hanno apparecchiature adatte a
leggere anche documenti variamente trascritti o registrati. Da una
prima lettura capisco che i fogli sono documenti della massima
importanza storica e non solo. Le sole persone che potranno
scoprire la veridicità dei documenti, lavorano al National Archives
nel Surrey, una contea nel sud-orientale dell’Inghilterra, dove sono
custoditi oltre mille anni di storia. Decido allora di fare esaminare
tutto il materiale anche da degli storici, poiché in essi si parla di
tanti fatti ritenuti una leggenda. Forse ora potrò sapere qualche
cosa in più della secolare famiglia Crawford e del mio misterioso
avo.
Al Secret Service Bureau hanno fatto un lavoro eccezionale: i
tecnici sono riusciti, ascoltando il disco, a stabilire che il primo
documento, pur riportando ogni parola di quanto inciso, non sia
stato scritto dal mio avo e il nome in calce è puramente indicativo.
Gli esperti, analizzando quanto inciso, non hanno dubbi che il disco
riporti la voce del mio antenato raffigurato in tutti i quadri del
castello. Rimane un mistero chi possa avere scritto uno dei due
documenti: quello firmato Thomas Crawford. Il secondo foglio è una
lettera firmata e i grafologi non hanno dubbi che sia stata scritta
dallo stesso firmatario: Carmine Caruso. Negli archivi di Londra,
oltre a dei discorsi registrati dal mio avo, sono stati rintracciati degli
atti e lettere scritti da Thomas Crawford e Carmine Caruso: due
personaggi molto noti in quegli anni a diversi servizi segreti
mondiali e in particolare a quelli inglesi e italiani. Dalla data del
documento sono trascorsi oltre due secoli e l’Archivio di Stato mi ha
autorizzato a divulgarne il contenuto. I documenti che ho trovato
sono della massima importanza e permetteranno di fare luce
sull’esistenza di una setta chiamata “Ordine dei I Pianificatori”
diretto da un Ordine Maggiore chiamato Cupola, formato da un
ristretto numero di persone nobili. La storia di questa setta che
sembrava appartenesse alle tante leggende dei secoli trascorsi, ora
può e deve essere riscritta. Purtroppo devo constatare che, anche
dopo due secoli dall’esistenza di quella setta, impera ancora l’idea
che un numero limitato di persone possa dominare il Mondo. Riporto
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integralmente quanto lasciato registrato dal mio lontanissimo
parente Thomas Crawford.
In
fede
Londra, marzo 2235
Roger Crawford ultimo erede dei
Crawford
C a pitolo I
L’incont ro
Sono le sette del mattino, fa freddo, ma esco lo stesso nel
giardino pensile del terrazzo. Sono ricco e posso permettermi i
migliori giardinieri di Roma ma, senza presunzione, io curo la parte
più bella del mio giardino: quella delle piccole serre climatizzate
delle azalee, dei rododendri e delle camelie dai più svariati colori.
All’inizio della primavera i giardinieri metteranno allo scoperto tutte
le piante e, dagli aerei che sorvoleranno il cielo di Roma, si vedrà il
più bel giardino pensile del mondo. Una pesante giacca da camera,
mi protegge dal freddo e posso godermi il panorama senza timore
di un raffreddore. Davanti a me si estende Roma, la città eterna con
tutta la sua grandiosità e bellezza. Una leggera foschia non riesce a
offuscare lo splendido scenario. Abito l’attico, con oltre trecento mq
di terrazzo, di un altissimo palazzo sul colle di Monte Mario, un
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posto ideale dal quale si vede un panorama affascinante. Girando lo
sguardo riesco a vedere tutte le Consolari romane e in questo
momento sono rivolto verso la Casilina e la Prenestina, a est di
Roma da dove sta sorgendo il sole. Nella vita ho fatto mille mestieri,
pur appartenendo a una famiglia nobile e tra le più agiate
dell’Inghilterra. Reduce da un periodo in cui avevo fatto il marinaio,
arrivato in Italia non badai ad alcuna spesa e acquistai questa
piccola reggia, arredata con mobili antichi d’epoca vittoriana, e
lampadari di cristallo di Bohemia, che illuminano a giorno ogni
angolo della casa. La diffusione sottofondo di musica classica crea
un alone difficilmente spiegabile, quasi di mistero. Bach, Vivaldi,
Haydn, Mozart, Rossini, Schubert, Puccini, che con Verdi e Mascagni,
i miei autori preferiti per particolari occasioni, sono gli artefici che
rendono straordinario il mio soggiorno romano. Vivo in Italia da
molti anni, sotto mentite spoglie, con un obiettivo preciso: scoprire
l’identità di una persona. Per fortuna, in questo Paese, nessuna
autorità si è mai posta la domanda di come un semplice impiegato
si possa permettere una simile casa; sarebbe stato complicato dare
un qualsiasi chiarimento. A quest’ora dovevo già essere sotto casa,
aspettando che il mio amico Carmine Caruso mi venisse a prendere
con la macchina per andare a Porta Portese, il più grande e antico
Mercato delle Pulci di Roma; invece alle sei e mezzo squilla il
telefono, è lui:
«Giovanni, rimandiamo alla prossima domenica, ci sentiamo
più tardi».
Ci conosciamo da tanti anni e siamo abituati agli imprevisti da
ambo le parti. Per fare un poco di “scena” come si usa dire a Roma,
gli chiedo:
«Ma, che c..zo devi fare?».
Non mi ha sentito, aveva già messo giù la cornetta. In verità non
andava neanche a me di uscire con questo tempo, anche se la
foschia in genere prelude un bel tempo. Tolgo la giacca, sistemo i
cuscini alla spalliera del letto e mi ricorico, allungo il braccio e
prendo il libro posato sul comodino. Riesco appena a leggere poche
pagine, chiudo il libro e rimango pensieroso. Due cose mi
arrovellano il cervello: il libro che sto leggendo e il fatto che
Carmine abbia rimandato l’appuntamento. Devo necessariamente
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raccogliere le idee e avere un quadro completo dei miei rapporti
con Carmine Caruso. Non vorrei che ora, dopo diversi anni impiegati
per irretire quell’uomo e per scoprire realmente la sua identità,
tutto andasse a monte per un mio errore. Vado in camera e da un
vano segreto ricavato dall’interno di un armadio, prendo il mio
diario. È scritto in Kentese, una lingua antica: un dialetto parlato nel
Kent, una contea a sud-est di Londra, e che risale agli anni 870 , al
tempo di Alfredo il Grande. Solo nelle più antiche famiglie inglesi si
usa scrivere i documenti riservati, nella lingua dei nostri padri.
Comincio a sfogliarlo e risalgo a quando avevo avuto
l’autorizzazione di portare avanti il mio progetto. Posso tralasciare
tutto il periodo di permanenza a Roma di Carmine Caruso, poiché
sono sicuro di avere avuto la possibilità di controllarlo.
Comincio a scorrere il mio diario e mi fermo ai primi anni del
1980. Ho annotato puntigliosamente tutti gli avvenimenti più
importanti e i dialoghi avuti o sentiti giorno per giorno. Allenato a
questo esercizio, solo dopo avere superato difficili prove di
memorizzazione, ero stato inviato in Somalia, a Chisimaio, dalla
Company “Indian Corporation”, una Società di copertura dell’Ordine
de I Pianificatori Britannici al quale ero affiliato. Dovevo svolgere un
compito difficile e dal momento in cui mi ero imbarcato in
Inghilterra come cambusiere su una nave da crociera, diventavo
uno sconosciuto agli occhi di tutti. Nell’immediato avevo necessità
di confondermi tra la gente e il posto migliore mi sembrò il porto,
l’ideale per trascorrere qualche ora a pescare confuso tra tante altre
persone. Mi avevano informato che quel posto, affacciato
sull’oceano Indiano, era una fonte inesauribile di pesci e molluschi
di tutte le specie. Le acque profonde permettevano anche ai pesci
di grossa taglia di venire a caccia di cefali, sarde e aguglie. Le
grosse ricciole e i dentici non disdegnavano la caccia alle loro prede
preferite: cefali, aguglie e sarde. La parte immersa delle banchine,
sede naturale delle cozze, era il posto preferito delle orate, prede
tra le più ambite dai pescatori. L’indomani, dopo un’intera
mattinata trascorsa a pescare con risultati deludenti, proprio
mentre stavo penando per salpare una spigola, sentii un tonfo
nell’acqua e un urlo disperato. Vidi un bambino di carnagione quasi
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scura che stava annegando, senza pensarci due volte posai la
canna e mi tuffai, raggiungendo dopo poche bracciate il bambino.
Con fatica, poiché si dibatteva a più non posso, riuscii a portarlo
verso una scalinata della banchina. Intanto, dalla folla di gente
curiosa che mi aveva circondato, si fece avanti un uomo bianco con
una profonda cicatrice alla base del collo, a torso nudo, alto,
muscoloso e abbronzato all’inverosimile, che mi tolse il bambino
dalle braccia e cominciò a praticargli la respirazione a bocca a
bocca. Mi accorsi che quella persona era esperta, perciò, pur
avendo un titolo di soccorritore, non intervenni. Per fortuna poco
dopo il bambino vomitò tutta l’acqua che aveva bevuto: era salvo.
Quando il bambino si riprese completamente, vidi solo una massa
incredibile di capelli riccioluti e due occhioni neri che facevano
capolino tra le braccia del suo salvatore. Mentre ero circondato dalla
gente che mi voleva ringraziare, si avvicinò, porgendomi la mano
destra, l’uomo che aveva praticato la respirazione al bimbo
riccioluto che ora era avvinghiato al suo collo:
«Questo è Abdi, le sono molto grato per averlo salvato; mi
dispiace per il suo pesce, ma non mancherà occasione per un’altra
cattura. Qui la pesca e la caccia sono gli sport che danno più
soddisfazioni, con qualche dispiacere. Vede questa cicatrice sul
collo, è il regalo che mi ha voluto dare un leone quando avevo
quindici anni. Lei è nuovo del posto? Mi scusi non mi sono
presentato: Mi chiamo Carmine Caruso, e vivo qui a Chisimaio, sono
marinaio e fra due giorni mi dovrò imbarcare per andare prima in
Francia e poi in Italia. Il bambino è figlio di miei amici. Mentre
rispondeva a quelle persone, ho capito che lei è italiano come me.
Sono nato a Mogadiscio, i miei genitori siciliani sono tornati in Italia,
ma io ho scelto di restare in Somalia dove ho le mie radici.
Gli strinsi la mano, dicendogli:
«Sì sono arrivato ieri, sono italiano, livornese per essere
preciso, mi chiamo Giovanni Giordani, anch’io sono marinaio e
alloggio all’Exelsior. Sono sbarcato dalla “Principessa” quell’enorme
nave laggiù e ho ritirato il tesserino d’imbarco. Sono un cuoco
specializzato, però so fare tutto quello che serve a bordo. La mia
famiglia ha sempre mangiato pane e mare. Sono stanco di vivere
nella confusione e cerco un imbarco tranquillo. Salvare quel
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bambino è stato uno scherzo, sono specializzato per il salvataggio
in mare. Il bambino è figlio di un bianco?.
Mentre gli facevo questa domanda, vidi una donna di colore, con
dei bellissimi lunghi capelli corvini, che si avvicinava:
«Carmine, chi è questo signore? Ѐ la persona che s’è tuffata?.
«Sì, è il signor Giovanni Giordani:
Poi rivolgendosi a me:
«Le presento la mia m amica. Lei è Faizah Lo Presti, la più bella
somala di Chisimaio e madre di Abdi. Il marito della signora è un
marinaio italiano che per ora è su un peschereccio. Mi scusi se la
tratteniamo, siete tutto bagnato e vorrà cambiarsi.
Non risposi subito, ero rimasto ammaliato dagli occhi di un nero
splendente di quella donna e non potei fare a meno di chiederle:
«Mi scusi signora Lo Presti, in quale profondo mare ha rubato i
suoi occhi?.
Per lei rispose il signor Caruso:
«Allora non mi sono sbagliato dicendo che è la più bella
somala!.
Dopo mille ringraziamenti da parte della signora Faizah, ci
salutammo. Dirigendomi verso l’albergo vidi che Carmine Caruso
andava via con quella donna. Strada facendo non potei fare a meno
di pensare all’opportunità che mi era capitata quel giorno.
Nel pomeriggio, mentre stavo seduto su un alto sgabello di un
bar del porto, sorseggiando un Martini dry fresco, avvertii la
presenza di una persona dietro di me, mi voltai e vidi Carmine
Caruso che, con un gran sorriso, indicandomi uno sgabello:
«Posso sedermi? Ero andato a cercarla all’albergo e non
trovandola ho pensato che forse la potevo incontrare qui. Senta, ho
una proposta da farle: se vuole un imbarco, cercano un addetto alla
cucina. Ieri, durante una rissa con dei russi, è morto Mariano
Accardi il cuoco del mercantile “Croce del Sud” che partirà domani e
su quale devo imbarcarmi; dovrebbe darmi la risposta entro oggi: se
accetta, quel posto è suo. Che ne pensa? Non si preoccupi, parlo io
col Capitano e la faccio assumere subito.
Rimasi per un attimo pensieroso, poi gli risposi:
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«In effetti, stavo cercando un imbarco, potrei accettare il
lavoro solo se facciamo una sosta, almeno per un giorno, a Port Said
dove devo incontrare degli amici.
«Certamente, se l’appuntamento con i suoi amici non è
urgente, si può imbarcare anche qui a Chisimaio. Ci fermeremo a
Mogadiscio, Hafun, Massaua e a Port Said per poi proseguire
direttamente verso Marsiglia, mi rispose prontamente Caruso
aggiungendo:
«Mi scusi signor Giovanni, posso offrirle un altro Martini dry o
preferisce un Brugal, che lei conoscerà di sicuro come tra i migliori
rum. Qui a Chisimaio è il preferito da tutti i marinai?.
«Un Brugal non si rifiuta mai!, gli risposi battendogli la spalla.
Mentre stavo scendendo dallo sgabello, il mio portafoglio riposto in
una tasca posteriore scivolò per terra. Nel prenderlo, volutamente,
feci cadere una fotografia. Carmine si chinò per prenderla. La
osservò con attenzione, contrasse i muscoli della mascella e notai
un leggero pallore sul viso, perciò gli domandai:
«Conosce quest’uomo, le ricorda qualcuno?.
«No, è impossibile che sia lui. La persona cui rassomiglia era
inglese, e lei è italiano, rispose facendomi di seguito delle
domande:
«Chi è quest’uomo, ha vissuto negli anni passati, diciamo
intorno al 1950, a Mogadiscio, è ancora vivo?.
«È mio padre, so che ha fatto il militare in Marina, forse è stato
anche in Africa. Ora vive a Livorno ma non mi ha mai parlato della
sua vita militare.
Dopo questa precisazione il viso del signor Caruso s’illuminò, gli
occhi gli scintillavano, e un sorriso gli comparve sulle labbra.
Poco prima di salutarci, mi rivolse una domanda secca in una lingua
che dimostrai di ignorare: «Umefanya kazi baharini kwa muda gani? .
«Oh, di gelato ne mangio a quantità, risposi.
Il signor Carmine scoppiò in una fragorosa risata: «Ma che cosa ha
capito? Le stavo domandando da quanto tempo fa il marinaio! Le
parlavo in swahili una lingua del posto e noto che lei non la
conosce.
Ritenni giusto dargli delle spiegazioni:
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«Mi scusi per il mio italiano particolare, sono nato e cresciuto
in Toscana e parlo l’inglese e il francese e non conosco il swahili.
Sono in mare da quando ho finito la scuola di cuoco e sono anche
un ottimo pasticciere, quello che farò sarà il mio decimo imbarco,
questa è la prima volta che lavorerò su un mercantile. Ho sempre
fatto il cuoco su navi di crociera, ho girato quasi tutto il mondo,
meno che le coste dell’Africa orientale, a parte questo breve viaggio
sino a Chisimaio.
«Giovanni, allora non rimane che fare timbrare il suo tesserino
d’imbarco, poi questa sera ceneremo sulla “Croce del Sud” col
Capitano Riccardo Locasciulli. Ti metteremo subito alla prova con un
dolce che a me piace tanto: l’ananas flambé! Vieni andiamo alla
Capitaneria, disse Carmine Caruso abbracciandomi e passando
subito a darmi del “tu”.
«Se mi garantisci l’imbarco, faccio vidimare il tesserino dalla
Capitaneria e poi vado subito in albergo a preparare il sacco, gli
risposi accettando il suo invito ad abbandonare il “lei”.
Il sole era appena tramontato e da lontano si sentiva il richiamo del
muzzein che dall’alto
minareto della moschea richiamava i
musulmani alla preghiera. Carmine si rivolse in una lingua a me
sconosciuta a un somalo e poi mi chiese di andare con lui:
«Giovanni, vieni con me. Ti faccio conoscere la più grande
moschea di Chisimaio, rimarrai senza fiato. Prima di entrare togliti
le scarpe e una volta dentro, osserva senza parlare: i somali
conoscono l’italiano e tu potresti dire qualche cosa di sbagliato.
Dentro la moschea vale a poco il fatto che io viva a Chisimaio e che
parli la loro lingua, per loro sono sempre un infedele. Nel silenzio
più assoluto, dopo esserci levate le scarpe, Caruso mi fece visitare
tutta la moschea. Ho visto tante chiese, ma poche così maestose
come quella moschea. Mi fece uno strano effetto entrare dentro
l’enorme salone dove i musulmani stavano pregando. Per un istante
ebbi l’impulso di inginocchiarmi anch’io. Carmine se ne accorse e mi
strinse la mano come a dirmi di stare fermo. Quando uscimmo dalla
moschea, come un automa, mi feci il segno della croce, dentro quel
luogo avevo visto tanti uomini che cercavano… non so, non lo so
proprio! Andai alla Capitaneria e feci timbrare il cartellino
d’imbarco: avevo trovato il modo di stare accanto a Caruso e ora il
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mio progetto cominciava ad avere delle solidi basi. Andai a
cambiarmi e poi aspettai che Carmine mi raggiungesse in albergo.
Quando salimmo sulla “Croce del Sud”, ad attenderci c’era il
Capitano Locasciulli e Carmine Caruso mi presentò a tutto
l’equipaggio. A cena il capitano volle che al nostro tavolo ci fossero
gli ufficiali di bordo e la signora Lo Presti, con il piccolo Abdi, loro
amica da lungo tempo. Prima di iniziare a cenare il capitano
Locasciulli volle precisare:
«Questa sera, facciamo uno strappo alla regola mangiando con
le posate. I piatti che ora gusteremo si dovrebbero mangiare
rigorosamente con le mani. Signora Lo Presti abbiamo il suo
permesso?
La signora Faizah fece un semplice sorriso di assenso.
La cena fu tutta all’insegna della cucina somala, in onore della
signora Faizah e di suo figlio. Il cuoco somalo cucinò dei piatti
veramente eccellenti: riso alla somala, zuppa di granchio, filetti di
tonno e diversi piccoli assaggi sempre della cucina somala. Come
avevo promesso a Carmine, preparai alcune ananas flambé al rum.
Dovetti anche cimentarmi con una banana flambé come richiesto
da un ufficiale keniota. Per l’occasione preparai una esotica banana
flambé al succo d’arancia, burro, zucchero e rum. Al termine della
cena Caruso domandò al capitano: «Che ne dici Riccardo, Giovanni
ha superato la prova?, poi rivolgendosi agli ufficiali:
«Penso che da questa sera Giovanni Giordani sia il nostro
nuovo cambusiere. Sono sicuro che non ci farà rimpiangere il
povero Mariano.
Avevo gustato degli ottimi piatti, perciò chiesi spontaneamente:
«Ma, non avete già un ottimo cuoco a bordo?.
«Mohamed lavora in un ristorante di Chisimaio e soffre il mal di
mare, fu la semplice risposta del capitano.
Carmine Caruso aveva fatto tutto lui, e da quel momento ebbi
l’impressione che non fosse il semplice marinaio che avevo
conosciuto al porto.
All’alba, sciolti gli ormeggi e salpate le ancore partimmo.
Ricordo che sulla banchina c’era la signora Lo Presti che indossava
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una “futa”coloratissima e i capelli raccolti in un fazzoletto rosa,
accompagnata dal piccolo Abdi. Prima che partissimo, vollero salire
a bordo per salutare tutti, specialmente Carmine. Il lungo e caloroso
abbraccio di Caruso con la madre di Abdi mi colpì ma, scacciai
subito qualsiasi cattivo pensiero. Carmine, sentendosi osservato,
forse lesse qualche cosa nei miei occhi, tenendo la mano della
signora la invitò ad abbracciarmi:
«Faizah, ricordati sempre di Giovanni: come un giorno io salvai
tuo marito, da ieri tuo figlio gli deve la vita.
Con quelle parole fugò ogni mia recondita supposizione.
Partiti da Chisimaio ci fermammo in rada a Mogadiscio per due
giorni. Volevo andare a comprare qualche oggetto di artigianato
somalo ma Carmine non volle che io scendessi per visitare la città.
Gli chiesi spiegazione e si giustificò dicendomi che in quel periodo
Mogadiscio era una città da evitare. Solo chi era conosciuto poteva
girare senza alcun pericolo. Dopo Mogadiscio, poco prima di
raggiungere il Corno d’Africa attraccammo al porto di Hafun per
caricare del sale marino. Quella zona esporta sale in tutto il mondo.
Partimmo lo stesso giorno e stavamo superando il promontorio
Capo Guardafui, dove c’è un faro gigantesco, alla punta più
orientale dell’Africa, quando si sentirono degli spari. Dalla cucina
dove stavo preparando il pranzo, salii di corsa sulla plancia e vidi
tutto l’equipaggio armato di mitra. Senza indugio, chiesi anch’io
un’arma. Carmine stava dando degli ordini ai marinai e parlava il
swahili, la stessa lingua che aveva usato a Chisimaio, quando mi
domandò da quanto tempo ero marinaio. Io capivo e parlavo
perfettamente il swahili ma, avevo deciso che nessuno lo scoprisse.
Mentre in plancia c’era un gran trambusto, vidi, con sorpresa, che il
Capitano stava seduto su una sdraio intento a leggere un libro. Ebbi
subito dopo la spiegazione dell’allarme sulla Croce del Sud.
Un’imbarcazione si stava avvicinando al nostro mercantile e degli
uomini armati ci comandavano di fermare i motori e di farli salire a
bordo. Solo allora il Capitano si affacciò al bordo della nave per
andarsi a sedere subito dopo, esclamando:
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«I soliti pirati, meno male che c’è Caruso! Non ti preoccupare
Giovanni, fra cinque minuti puoi tornare in cucina, è quasi l’ora di
andare a pranzo.
L’imbarcazione intanto s’era avvicinata al nostro mercantile e
Carmine si rivolse con tono deciso a un pirata armato di mitra nella
lingua che io facevo finta di non conoscere:
«Analegeza bunduki chini. Mimi ninazungumza kiswahili na nina neno
moja tu
Mi avvicinai a Carmine e gli chiesi che avesse detto al quel pirata e
lui sorridendo:
«Niente di importante, gli ho solo detto: - “Abbassa il mitra. Io
parlo swahili e ho una sola parola” -. Giovanni tu sai cosa significa
avere una sola parola? Ora stammi accanto, ti insegno come si
parla con certa gente. Non ti preoccupare, ti traduco tutto.
Gli feci un cenno affermativo con la testa e lui riprese a parlare col
pirata:
«Wewe unaitwa nani na bosi wako ni nani? 
Abbassando leggermente la testa verso di me mi bisbigliò:
«Tu come ti chiami e chi è il tuo capo?
«Jina langu ni Sheikh Mohamed na bosi wangu anaitwa Omar
Abdukadir, rispose il pirata.
«Io mi chiamo Sheikh Mohamed e il mio capo è Omar
Abdukadir, fu rapido a tradurmi Carmine.
Il dialogo tra il mio amico e il pirata, che intanto aveva abbassato il
mitra, proseguì sino a quando lo fece salire a bordo col suo Capo e
un altro pirata. Esprimendosi in swahili Carmine, si rivolse
direttamente al capo e ricordo esattamente le due ultime frasi
scambiate tra il mio amico e Omar Abdukadir:
« Zungumza na mimi! Mimi ninaitwa Carmine Caruso, mzaliwa wa
Mogadishu na jina langu la kiutani ni “Pastasciutta”. Mungu awe nawe
ndugu Omar! Anaye kupigia ni nmoja wa kikundi chako, ni lazima twende
mpaka Port S aid halafu Marseille. Nikirudi Mogadishu, nitakuja kukuamkua.
Kila la heri!
Chiesi a Carmine che cosa gli avesse detto in seguito e lui, dopo
qualche secondo di riflessione, mi tradusse la frase dicendomi di
non parlarne con nessuno:
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«Parla con me! Io sono Carmine Caruso, nato a Mogadiscio e
chiamato “Pastasciutta”. Fratello Omar, Allah sia con te! Chiama i
tuoi uomini, dobbiamo andare a Port Said e poi a Marsiglia. Quando
tornerò a Mogadiscio ti verrò a salutare. Buona fortuna.
Omar Abdukadir dopo avere discusso con i suoi compagni rispose a
Carmine:
«Nina hakika mnaweza enda mpaka Marseille ndugu Carmine Caruso.
Ndugu wote wanaoishi huko watafurahia kuwaona: Mkiwa Marsiglia,
muwasalimu ndugu wote Waislamu wa lango la Francois Martino .
Carmine mi tradusse tutta la frase detta dal somalo:
«Potete andare sicuri fino a Marsiglia fratello Carmine Caruso. Tutti i
nostri fratelli sono stati avvertiti. A Marsiglia saluta Francois Martino
da parte dei fratelli musulmani.
Prima si scendere dalla nave uno dei pirati mi disse in inglese:
«Are you Thomas, we met at Donver. Do you remember me on the
ship “Calcutta”?.1
Ebbi la prontezza di rispondergli:
«You’re wrong, my name is Giovanni Giordani and are italian. I’ve
never been on the shi “Calcutta”, and do not know you2
Il somalo dandomi la mano si scusò:
«Exuse brother, I was wrong. You resemble a sailor who I met a few
years ago.3
Per fortuna solo qualche marinaio assistette a questo dialogo e
sia il capitano che Carmine, intenti a salutare il capo dei pirati, non
ci fecero caso. In ogni caso se il pirata avesse insistito, sarei stato
costretto a sparargli. Stava rovinando un piano sul quale lavoravo
da tanto tempo.
1 «Tu1 sei Thomas, ci siamo conosciuti a Donver. Ti ricordi di me sulla nave “Calcutta?.
2 «Ti 2sbagli, mi chiamo Giovanni Giordani e sono italiano. Non sono mai stato sulla nave “Calcutta”, e non ti conosco.
3 «Scusa
3
fratello, mi sono sbagliato. Tu rassomigli a un marinaio che conobbi qualche anno fa
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Il viaggio proseguì senza ostacoli sino a Port Said dove ci
fermammo per tre giorni per poi fare rotta sino a Marsiglia. Dopo
l’avventura con i pirati somali, Carmine e io eravamo diventati
molto amici. Era lui il vero comandante del mercantile, riconosciuto
da tutto l’equipaggio. L’autorità e la successiva familiarità con la
quale Carmine Caruso aveva discusso con i pirati mi aveva, ancora
una volta, posto un assillo: qual’era l’enigma di quell’uomo. Chi era
Carmine Caruso? Avevo appurato che le notizie avute su di lui,
erano corrispondenti all’uomo conosciuto in Somalia. E io avevo
fatto bene ad andare a Chisimaio ed a imbarcarmi sulla “Croce del
Sud”? Era proprio Carmine Caruso la persona al centro del mio
progetto?
Arrivati in tarda mattinata a Vieux Port di Marsiglia,
sbarcammo con tutto l’equipaggio. Saremmo partiti alle prime luci
dell’alba, perciò avevamo tutto il tempo per fare un giro nei
bassifondi e toglierci anche qualche voglia. La zona del porto offriva
tutto quello che poteva desiderare un marinaio: dalle donne
all’alcol. Il mare secca la gola e un buon bicchiere di rum o di
cognac è l’unico rimedio. E poi… il mare ti stanca, e che cosa c’è di
più riposante del caldo corpo di una prostituta, anche se dà amore a
pagamento? La vita del marinaio impone anche questi sacrifici!
Carmine era molto conosciuto anche a Vieux Port e per lui non
valeva la regola del marinaio: una moglie in ogni porto. A Marsiglia
lo aspettavano almeno due donne con relative amiche. Che fatica
riscaldare più di un’alcova! Alla partenza rimanevano solo poche
ore e poi addio a Vieux Port e alle sue puttane.
«Che facciamo ora?» chiesi a Carmine.
«Che domande: un giro per taverne e bettole!», mi rispose
mettendomi una mano sulla spalla. Dopo averne visitato un paio,
avevamo ancora la gola arsa dal Mediterraneo.
Fu allora che Carmine mi volle portare in quella che lui
considerava la vera casa del rum: “Sangue di Nelson”, la migliore
taverna di Marsiglia. Dentro il locale c’era una nube di fumo dagli
odori più strani. Uomini di tutti i tipi, femmine di prima qualità e una
confusione di lingue. Ci sedemmo sugli ultimi due posti liberi di un
lungo tavolo che non era altro che una lunga fetta del tronco di
14
un’enorme quercia, proveniente chissà da dove, poggiata su tre
cavalletti. Il rum lo portò una donna che chiamare formosa è
riduttivo. Aveva un fondo schiena talmente invitante che non
resistetti alla voglia e mi attardai a palparlo. Joséphine, la gentile
signora, moglie del padrone, come seppi dopo, cominciò a strillare
più forte della peggiore bagascia del porto: «Encatané, vas toucher le
cul à ta mère!4» e giù di lì altre “dolcezze”, tutte in stretto dialetto
marsigliese.
Intervenne un portuale francese che mi sferrò un cazzotto in
pieno viso. Mentre cercavo di reagire, vidi solo il luccichio di una
lama vicino al mio collo e una mano che afferrava un polso, e
riecheggiò un gemito. Tutta la gente scappò, lasciandoci soli con il
cadavere di un uomo con un coltello nella pancia. Tremavo come
una foglia e Carmine, seduto al tavolo, mi guardava con sguardo
animalesco sorseggiando lentamente il suo rum. Ebbi solo il fiato di
chiedergli:
«Caruso, che facciamo ora?».
Rispose con voce roca:
«Niente, bevi il rum e andiamo via, tra poco la nave parte».
Prima di uscire, diede un calcio al cadavere dicendo:
«Uno stronzo di meno!».
Il buio della notte ci fu complice, nel vicolo non c’era nessuno
e non ci curammo di un uomo che entrava furtivamente nella
cantina. Mentre ci recavamo verso la nostra nave, mi raccontò che
cosa era successo in quei pochi istanti: dietro al primo uomo che mi
aveva colpito, ne era arrivato un altro intenzionato a farmi un
occhiello alla pancia con un coltello. Caruso aveva avuto la
prontezza e la forza di afferrargli il polso, di roteargli il braccio e di
conficcargli il coltello nello stomaco. Alla fine del racconto aggiunse:
«Quando sei in certe condizioni, non devi pensare che alla tua
pelle. Non avere pietà per quello lì. Amico mio, devi sapere che se
porti un coltello con te, è perché all’occasione giusta lo userai. A
questo punto devi essere cosciente di giocarti anche la vita. Sono le
regole della strada. Le accetti? Se non vuoi correre rischi, cambia
4 «Brutto
4
porco, toccalo a tua madre!
15
mestiere. A Genova raccogli il tuo sacco, fatti pagare, sbarca e
cambia mestiere. La strada, i porti non sono il tuo mondo. Guardati,
tremi e stai vomitando per una persona ammazzata. E non sei stato
neanche tu!».
Arrivati a Genova, subito dopo l’attracco, lasciai la nave e
accettai il suo consiglio: cambiai vita.
Qualche anno dopo, Carmine mi venne a trovare a Roma dove,
come copertura, lavoravo al Ministero degli Esteri: «A Civitavecchia
ho deciso, sono stanco di stare in mare e la salsedine mi sta
mangiando, se mi trovi un lavoro, mi fermo in questa bella città,
non voglio tornare a Palermo, lì in Sicilia, la mia seconda terra». Era
quello che speravo avvenisse. Ora finalmente potevo riallacciare i
rapporti con lui. Dovevo necessariamente fare la parte di chi si
dovesse disobbligare: gli ero debitore e feci di tutto per sistemarlo.
Il caso volle che il suo primo impiego a Roma, fosse da un arrotino.
Il mondo delle lame gli era familiare e per i primi tempi si trovò
bene. Successivamente, per le sue conoscenze del mondo arabo lo
nominai direttore responsabile di una mia società di export-import
che aveva rapporti con gli Emirati Arabi. Per evitare qualsiasi
fastidio col Ministero degli Esteri, l’Arabic export-import era
intestata a un prestanome. Quando Carmine era ritornato in Italia
pensai: dopo avere aspettato tanto tempo finalmente ho un colpo di
fortuna, posso portare a buon fine il mio progetto!
Decido che a questo punto una buona doccia diventi
necessaria, dieci minuti sotto l’acqua calda e fredda mi faranno
ritornare in piena forma. “Il Simulatore” di Frederik Forsyth mi
aspetta sul comodino. Sono giunto quasi alla metà e ogni pagina mi
avvince più della precedente. Mi sono sempre piaciuti i libri di
spionaggio e di guerra. Questo è uno strano libro; mentre le pagine
scorrono, un sospetto comincia a prendere corpo nella mia mente:
sono sicuro di conoscere il protagonista. Metto il segnalibro e chiudo
il libro. Non posso più continuare a leggere se prima non chiarisco i
miei dubbi. Ѐ possibile che lo scrittore, scrivendo quella storia,
avesse in mente una persona di mia conoscenza? L’unica cosa da
fare è cercare di scoprire tutti i trascorsi dello scrittore e poi
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ripercorrere la storia delle persone che conosco. Questa indagine mi
occupa quasi tutta la mattinata. Alla fine ho un quadro completo.
Dopo diverse telefonate, in Gran Bretagna, in Nigeria e nel Biafra e
infine a Parigi e a Granada in Spagna non ho più alcun dubbio.
Ho controllato a ritroso la vita di tutti i miei amici e solo una
rispecchia quella narrata da Frederik Forsyth. I miei sospetti
cominciano ad avere una forma, un nome e un cognome. La vita è
quella di Carmine Caruso. L’avevo conosciuto quando faceva il
marinaio, e di lui avevo raccolto tante informazioni, ma questa
mattina ho la certezza di avere scoperto un’altro suo lato oscuro.
Ora conosco la reale identità dell’uomo enigmatico: tutti gli eventi
coincidono. A lui, sicuramente, s’è ispirato lo scrittore del romanzo
“Il Simulatore”. Carmine è stato ad Ashford nel Kent, paese natale
di Frederik Forsyth ha frequentato l’Università di Granada, ha fatto il
giornalista in Nigeria e nel Biafra, ha lavorato per la televisione
inglese e ha vissuto qualche anno a Parigi. Tutto risalta come in una
cartina tornasole. A questo punto è impossibile che, considerata la
corrispondenza delle date, Carmine non abbia mai incontrato
Forsyth. A rendere ancora più plausibili le mie congetture ci sono
altri due particolari: Carmine e Frederik, a distanza di pochi anni,
sono stati entrambi piloti nella Royal Air Force. Il secondo
particolare è noto solo a pochi. Caruso in Nigeria e nel Biafra faceva
il giornalista, in verità era al servizio del movimento per la
liberazione di quel Paese. Frederik Forsyth, fu accusato di favorire
quel movimento di liberazione e per questo andò via dalla BBC.
Mentre rifletto sulla facilità con cui ho scoperto anche l’attività
di spionaggio di Caruso, gli occhi mi cadono sul calendario: oggi è
domenica 11 gennaio 1998. È una data che mi ricorda tante cose:
da quel giorno, cinquant’anni fa, per colpa di mio padre, cominciò a
cambiare la mia vita. Sono sicuro che l’affiliato all’Ordine dei I
Pianificatori Latini, al quale do la caccia da tanto tempo è anche una
spia. I Pianificatori Britannici saranno contenti del mio operato.
Finalmente io, il loro capo, potrò portare a termine il mio progetto:
eliminare Carmine Caruso. Bene, se devo agire, che sia oggi; devo
perciò farlo venire a casa mia e mi affretto a telefonargli:
17
«Carmine, sto leggendo “Il Simulatore”, devo assolutamente
vederti oggi».
Risponde dopo lunghi secondi:
«Sbrigo una faccenda e poi vengo, mi raccomando il caffè».
Ho detto che gli devo la vita ed è vero. Se sono ancora vivo, è
perché quella notte a Vieux Port di Marsiglia avevo accanto
Carmine. Il tempo passa e il caffè e già uscito. Caruso prende solo
caffè bollente. Questo fatto mi costringe a preparare nuovamente
una caffettiera. La metterò sul fuoco solo quando Carmine suonerà
il campanello. Mi affaccio in terrazza, è cambiato il tempo e adesso
piove, motivo in più perché a Roma il traffico impazzisca. Forse
anche a causa della pioggia il mio amico ritarda, sebbene quando è
alla guida corra come un pilota di Formula Uno. Ha perso il conto di
quante multe deve pagare e ricordo che quando gliene notificarono
una, davanti al postino esterrefatto e senza parole, strappò l’atto
giudiziario borbottando: «Mi hanno rotto le scatole».
Mentalmente non posso che apprezzare l’abilità di Carmine.
Lui è veramente un simulatore e un vero attore. Quando si cala in
un personaggio, sparisce dietro quelle sembianze: l’ho visto alla
prova. Ѐ uno spettacolo vederlo rubare a Porta Portese. Uso
impropriamente la parola rubare, riferendomi a lui. Come si può
definire rubare, quando alla vittima si mostra, per tutto il tempo,
l’oggetto che si vuole portare via, rendendola complice
protagonista? Di solito lo fa per punire un commerciante esoso o
disonesto o per mettersi alla prova. Ѐ un grande narcisista. In verità
adotta una tecnica tutta sua: nella mano sinistra, a bella vista, tiene
ciò che ha deciso di “acquisire” (come dice lui, altri definirebbero di
rubare), mentre con la destra prende un oggetto simile e comincia a
contrattare. Riesce a distogliere l’attenzione sull’oggetto che tiene
con la sinistra, facendo concentrare lo sguardo del venditore sulla
mano destra. Contratta l’oggetto che ha sulla destra, ignorando
completamente quello che ha nella sinistra. Il gioco gli riesce
sempre. Alla fine, male che gli può andare, si porta via due oggetti
al prezzo di uno scontato. Sa contrattare in modo fantastico. Forse il
fatto di essere vissuto nel mondo arabo ha accentuato le sue
18
qualità. Riesce sempre ad abbassare il prezzo, anche di soli dieci
centesimi. Potrebbe essere un buon politico.
«Non pensare di fregarmi, sono somalo anch’io. “Mungu ni
mkuu”5. Fratello, l’Africa è grande, ma i fratelli s’incontrano sempre,
non mi riconosci? Allah akbar, Dio è il più grande”.
Frasi di questo genere gli sorgono naturalmente sulle labbra quando
è a contatto con la sua gente. La mia affermazione è reale. Carmine
è italiano al 100% ma si sente di appartenere all’Africa, in effetti, le
sue radici sono a Mogadiscio, la sua città natale.
C a pitolo I I
A ca rte scope rte
Che strano, sono le quattordici passate e Carmine è in forte
ritardo. Avevo deciso di andare a pranzo in un ristorante somalo, in
ricordo dei tempi passati, ma vista l’ora opto di mangiare solo un
panino e bere una birra.
Sono le quattordici e trentadue, suona il campanello, apro la porta e
Carmine entra nella stanza. Mi abbraccia dicendomi: «Scusami,
scusami mille volte.
«Hai pranzato? Vuoi che preparo qualcosa?
«Strada facendo ho mangiato un panino e bevuto un bicchiere di
Coca Cola, mi risponde.
5 Dio5è grande (lingua Swahili parlata nel Kenia e anche lungo tutta la costa dell’Africa orientale)
19
«Allora ora so che cosa ti serve! Accendo sotto il caffè» dico
mentre mi dirigo in cucina.
Aggiustandosi uno strano colletto da prete, mi segue e poco dopo
seduti intorno al tavolo, sorseggiamo il caffè.
Gli chiedo:
«Dopo, vuoi un Walker fresco?».
Risponde:
«Un Johnnie va bene, se insisti!».
«Vieni andiamo nel soggiorno, sul divano si sta più comodi gli
suggerisco.
Non è un grande bevitore, ma all’occasione non si tira indietro e
“tiene bene”. Anche nel bere ha una sua tecnica. Prima d’incontri
conviviali, durante i quali si prevedono grandi libagioni, beve un
buon cucchiaio di olio d’oliva. Mi ha raccontato che a causa di
quest’usanza, un suo grande amico, il re Farouk d’Egitto morì per
un’indigestione. Si dice che l’olio faccia da tappo ai fumi dell’alcol.
Mentre verso il whisky, Carmine mi blocca per un attimo la
mano e dice con voce sorniona:
«Dovevi chiedermi qualche cosa del libro?».
Leggo nei suoi occhi una sfida velata di crudeltà. Una sola volta
avevo visto quello sguardo. Ѐ lo stesso che aveva Carmine quando
mi salvò la vita nella bettola del Vieux Port di Marsiglia.
Carmine domanda a raffica:
«Allora, non mi rispondi? Che cosa dovevi dirmi, era così
importante da farmi venire subito?».
Mi lascia la mano e mentre si versa dell’altro Johnnie Walker,
continua a guardarmi ed io non ho il coraggio di dirgli niente. Ora
Carmine è un fiume in piena:
«Giovanni, deve essere proprio una cosa seria se ti comporti
così. Vuoi che ti dica io che cosa è successo? Ci conosciamo da
tanto tempo e fra noi due ci sono pochi segreti. Immagino che
leggendo quel libro tu sia arrivato a capire. Mi hanno riferito che dal
tuo PC sono partite strane telefonate. Amico mio non dirmi niente:
so già tutto. Tu oggi hai scoperto anche l’ultimo mio segreto: è vero,
sono una spia. Sono al servizio dell’AISE6 del mio Paese, ancora
6 AISE6 – Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna
20
prima che tu mi conoscessi come marinaio. Ho cercato per anni di
nascondertelo, forse non mi crederai ma era solo per proteggerti.
Da questo momento tutti gli eventi dipendono unicamente da te, io
mi comporterò di conseguenza».
Sono allibito, sa tutto quello che ho fatto questa mattina.
Accendo lo stereo e rifletto un attimo. Mentre le note del
preludio della Cavalleria Rusticana si diffondono nella stanza, gli
rispondo:
«Carmine, aspetta un attimo, vado in camera, devo darti una
cosa».
Penso: oggi o mai più, è l’occasione migliore. Da un piccolo cassetto
del mio secretaire prendo un borsellino di pelle grinzosa e un
pacchetto che apro mentre mi dirigo verso il soggiorno. Contiene un
Opinel, un coltello tipico della mala marsigliese e, forse, sarà
l’ultima volta che lo vedrò. Entro in cucina tenendo in mano la lama,
porgo il manico del coltello al mio amico e poso il borsellino sul
tavolo:
«Carmine, te lo ricordi? È quello del marinaio marsigliese, sì
proprio quello che infilzasti nello stomaco di quel marinaio a
Marsiglia. Prima di andare via, ebbi l’accortezza di prenderlo. Tu
l’avevi toccato e c’erano le tue impronte. Era un piacere che ti
dovevo. So, dopo avere scoperto chi sei, che quella precauzione è
stata inutile. Rimetto la mia vita nelle tue mani poiché, anche se
non ti tradirò mai, per te sono un pericolo. Se decidi di eliminarmi
fallo ora, qui a casa mia senza farmi soffrire».
Caruso non mi risponde. Trascura il coltello, la sua attenzione è
rivolta a un’altra cosa. Prende il borsellino: l’odora e se lo porta
vicino al cuore. Per un attimo ho l’impressione che stia svenendo.
Invece il suo viso da bianco cadaverico è diventato di un rossore
incredibile. Sia alza e, quasi con lo sguardo nel vuoto, mi chiede con
voce collerica e impersonale:
«Da chi l’hai avuto questo borsellino? Devi dirmelo, ora:
dimmelo! Da chi?.
21
«È un ricordo di mio padre, l’ho trovato nel suo cassetto,
conservato con cura. Ho pensato che ti possa interessare, quasi gli
urlo strappandogli il borsellino dalla mano.
Carmine rigira il coltello tra le mani poi dopo aver ruotato
l’anello di sicurezza, lo chiude pigiando il dorso della lama sul
fianco. Altri l’avrebbero chiuso con due mani. Lui no! Ѐ un esperto.
Tornato sereno, mi porge il coltello, mi abbraccia e mi dà un piccolo
morso all’orecchio destro:
«Giovanni, posso parlare senza alcun problema. Le microspie
messe nel tuo appartamento dai tecnici dei Servizi Segreti, sono
state disattivate. Ti chiedo soltanto di ascoltarmi attentamente
perché domani partirò per una missione e non ci vedremo per
diverso tempo. Saprò sempre tutto di te, e dirò ad altri di
proteggerti. Ora però è tempo che io ti dica tutto di me, e
comunque non aspetto e non mi interessa alcun tuo giudizio. La vita
non è fatta di coincidenze ma di fatti che noi costruiamo
volutamente. Lo facciamo proprio per mettere in moto quello che la
gente chiama “destino” Io appartengo ai “I Pianificatori Latini”,
molto prima di essere dell’AISE, i servizi segreti italiani. Sono sicuro
che tu sei a conoscenza anche di questo. Noi siamo gli architetti dei
destini: quello nostro, il tuo e quello di milioni uomini. La vita di ogni
essere umano è solo un mosaico costruito da noi».
Mi guarda fisso per un istante, forse aspetta un mio gesto di
assenso, poi riprende:
«Amico mio, quella notte a Marsiglia, ti ricordi che mentre ci
dirigevano alla nave per quei vicoli scuri, vedemmo un’ombra
entrare nella bettola? Qualcuno era andato a controllare il coltello:
non c’era più e tu eri l’unico che lo potesse avere preso. Chi ti ha
consigliato di leggere “Il Simulatore”, da chi l’hai avuto? La
settimana scorsa parlavamo di letteratura straniera e di libri di
spionaggio. Avevo detto di avere bellissimi libri, te ne ho prestato
uno e mi sono affidato al tuo intuito. Oggi ho portato un grande
ritardo, per me un fatto insolito, perché il Vaticano era gremito di
gente e dovevo necessariamente parlare con dei Cardinali. Erano
tutti impegnati nella celebrazione della Messa domenicale nella
Basilica di San Pietro. Vado in missione nel Ruanda come emissario
dello Stato Pontificio, scusami se ti ho rimesso alla prova. Anche se
22
abbiamo la massima fiducia dei nostri amici, ogni tanto, per
precauzione, dobbiamo verificarla. Sempre quella notte al Vieux
Port ti dissi ”La strada ha le sue regole e nessuno ti obbliga ad
accettarle”. Quella che io ho deciso di percorrere è sempre
maledettamente buia. Oggi sono venuto da te solo perché fai parte
di quel mondo che sognavo da bambino. La malvagità degli uomini
mi ha costretto a imboccare una via senza uscite».
Piccole gocce cadono dagli occhi di Carmine. Sono lacrime, è
sincero? Per un momento scorgo dietro quello sguardo, l’animo puro
di un bambino.
Si asciuga gli occhi col dorso della mano e ritorna il superbo
Carmine:
23
«Quando diventammo amici su quella nave, capii, e mi
sbagliai, che non era la vita che avresti voluto. A Chisimaio eri tanto
giovane, e guardandoti, per un motivo sconosciuto, ho rivisto un
volto; tu, chissà per quale motivo, mi eri familiare: eri dentro la mia
storia. In te ho visto uno stesso fanciullo di sei anni, affacciato a una
finestra della sua casa a Mogadiscio. Sotto i suoi occhi, uomini neri
massacravano altri uomini, mentre altri uomini bianchi assistevano
passivamente.
Maledetto amico, ora ho la pressione a 2000° perché sto
rivangando il mio passato: la mia fanciullezza. Lo capisci che quel
bimbo di sei anni affacciato alla finestra sono ora io con i miei
fantasmi? Tu, sì tu mio caro Giovanni, hai mai visto scannare un
uomo? Non da una belva ma dall'animale più feroce al mondo:
l'essere umano. Io sì, l’ho visto: ho ancora negli occhi il sangue che
schizzava dalla giugulare, pezzi di corpo che volavano per aria e un
corpo straziato in una pozza di sangue in mezzo al fango. Ora mi sto
vedendo con mio fratello, più grande di me di cinque anni, affacciati
alla finestra che guardavamo quella tragedia. Abitavamo al primo
piano di una casa vicino a una moschea. Io arrampicato su una
sedia traballante perché non arrivavo alla finestra, avvinghiato a
mio fratello che cercava di chiudermi gli occhi. Mia madre con le
mie due sorelle, di tredici e quattordici anni, piangenti, strette ai
suoi fianchi, che si disperava perché suo marito, nostro padre, non
tornava e non si sapeva che fine avesse fatto. Mentre il terrore e lo
spavento regnava nella nostra casa, all’improvviso un gran bussare
alla porta. Mia madre, credendo fosse mio padre, corse ad aprire e
si trovò davanti un keniota, armato con un fucile a tracolla e un
pugnale sporco di sangue in mano, che rimase per infiniti secondi a
guardarci, poi girò le spalle scese l’unica rampa di scale e non lo
vedemmo più. Quale mano fermò la mano di quell’uomo?
24
Come oggi, cinquant’anni fa, era di domenica l’undici gennaio
1948. Quel giorno in Somalia, mentre una Commissione dell’Onu
venuta a Mogadiscio per rendersi conto del rapporto somali e
italiani
ed
eventualmente
affidare
all’Italia
la
gestione
amministrativa del Paese, furono trucidati cinquantaquattro italiani
e quattordici somali. Gli inglesi, che dal 1941 occupavano la
Somalia, alimentarono quell’eccidio e rimasero indifferenti alla
carneficina, anzi i fucili della polizia somala, al loro servizio,
completarono l’opera dei “billao” i tipici pugnali somali. Dopo
l’eccidio una Commissione della Gran Bretagna accertò la
responsabilità degli ufficiali inglesi. Quel bambino, improvvisamente
divenuto uomo, con l’orrore negli occhi, in quel momento quell’11
gennaio 1948, prese una decisione estrema: avrebbe vendicato
quei morti. Io da allora ho vissuto con un solo obiettivo: la vendetta!
Di quegli assassini neri ne sono rimasti meno che le dita di una
mano, ritorno in Africa per loro; con gli altri ho già saldato il conto.
Ma il racconto di quel giorno non è finito. E tu devi sapere un altro
particolare episodio: è vitale che tu conosca quello che nemmeno in
Italia hanno mai detto e che non troverai in nessun libro di storia.
Sai da dove proviene quel borsellino e di che pelle è fatto? Ascolta:
in Somalia nel 1948 c’era una famiglia composta da quattro
persone, padre madre e due figli, un maschio e una femmina.
Abitavano alla periferia di Mogadiscio, furono tutti trucidati e poi
spellati, scuoiati come degli animali. Con le coppe dei seni delle
donne, gli assassini ne fecero dei borsellini. Quello che mi hai fatto
vedere è uno di quelli che giravano per Mogadiscio nei mesi dopo il
massacro. Gli italiani si rifugiarono per tanti giorni dentro al
Vicariato Apostolico o nel Convitto “Regina Elena”, oppure ovunque
c’era posto: nelle scuole, in qualche albergo o presso famiglie di
italiani. Fu aperta un’inchiesta ma nemmeno uno di quegli assassini
britannici o della polizia somala fu incolpato, e per la giustizia
nessuno pagò. E tuo padre aveva uno di quei borsellini!? Non ti sei
mai chiesto il perché?
25
Dopo il Ruanda andrò in Kenya, dove vive ancora qualcuno di
quegli assassini neri. Anche se è vecchio, il suo destino è già stato
scritto da tanto tempo. So che tu non mi tradirai mai perché pensi
di avere dei debiti con me: Giovanni da te voglio solo amicizia.
Dimentica chi sono e sappi che non sono mai stato sincero come in
questo momento. Io ho diretto la tua vita in questi anni, ho creato il
tuo destino, se avessi avuto dei dubbi su di te, ti avrei già ucciso. Te
l’ho detto che la strada ha le sue leggi».
I nostri sguardi s’incrociano e quasi sussurrando gli chiedo:
«E degli assassini bianchi, che cosa mi dici? Che fine hanno
fatto, li hai più cercati?».
Sono sempre più convinto di avere scoperto chi è Carmine Caruso.
Ma perché così d’improvviso ha confessato il suo passato? Ha capito
anche lui? Sa chi sono io? Ho sbagliato a fargli vedere il borsellino?
L’ho messo sul chi va là? È cominciato l’ultimo atto finale di una
commedia che dura da lunghi anni?
Carmine, per un attimo, rimane pensieroso. Sembra voglia
raccogliere le idee, poi mi risponde:
«Giovanni, solo io conosco i loro nomi, tanti di loro hanno
avuto quello che si meritavano. Per quelli che rimangono, mi sono
assunto il compito di portare a compimento la mia vendetta. Ho
preteso che I Pianificatori Latini lasciassero a me il piacere di
tracciare il destino di quei maledetti».
Deglutisco e mi verso del whisky. Ѐ diventato caldo. Prendo dei
cubetti di ghiaccio dal frigorifero e li metto nel bicchiere. «Ne vuoi
anche tu, ceniamo insieme al ristorante somalo, oppure cucino io?
Te lo ricordi sempre che sono un bravo cuoco?», gli chiedo.
«No, grazie Giovanni, verrei volentieri a mangiare un gran
piatto di “Beer iyo muufo”, ti ricordi ancora: fegato e pita, il pane
arabo e ad assaporare un “Qare abitan”7 fatto con angurie somale.
Credimi, ma non posso. Corro a casa a fare la valigia. Te l’ho detto,
andrò in Africa e partirò domani mattina; forse sarà per l’ultima mia
missione personale», risponde dirigendosi verso la finestra.
7 Bevanda
7
di frullato d’anguria con aggiunta d’acqua per renderla meno densa e poco zucchero. Si beve fredda
26
Senza che gli chiedessi niente, Carmine come se parlasse a sé
stesso:
«Sì, ora conosco tutti gli inglesi che stavano a Mogadiscio con
incarichi di responsabilità. Alcuni amici che lavorano negli archivi di
diversi Stati, mi hanno dato la lista completa dei loro nomi e sono
riuscito a vedere il Rapporto Flaxman8 molti anni prima che venisse
reso pubblico. Ormai vivi ne sono rimasti pochi ma i loro figli non
devono rispondere delle colpe dei padri. No, i figli non hanno colpa!
Ti sembrerà strano ma io conosco la parola “perdono”. Si può anche
perdonare, senza dimenticare».
Prima di prendere un’iniziativa, insisto per sapere tutto:
«È ben conservato quell’elenco, vuoi che lo tenga io?».
Leggo l’incertezza nei suoi occhi e infatti:
«Giovanni, ormai dovresti sapere che non mi fido di nessuno:
nemmeno delle cassette di sicurezza. Lo porto sempre con me.
Anche se lo dovessero trovare, rimarrebbe un semplice elenco di
persone, nessuno sa a che cosa si riferisca. Te lo ripeto, solo io sono
il depositario di questo segreto».
Fruga in un taschino dei pantaloni e prende un piccolo rotolo di
carta. Lo svolge e mi leggere una lunga serie di nomi. Prima di
rimetterlo nel taschino mi mostra quell’elenco e noto che tanti di
quei nomi sono sottolineati e altri sbarrati. Senza che ce ne
accorgessimo la stanza stava diventando quasi buia, il tempo è
volato ed ormai sono le diciassette. Carmine mi chiede:
«Giovanni, vuoi che accendo io la luce?»
La bottiglia di whisky è quasi vuota, e io ormai non ho più alcun
dubbio sull’identità di Carmine Caruso. Lui stesso ha confermato
quello che speravo fosse realmente. Il viaggio a Chisimaio di tanti
anni prima, non era stato infruttuoso. Mi rimane solo una cosa da
fare per completare il mio progetto, perciò gli rispondo:
«No Carmine, mi piace la penombra. Facciamo l’ultimo brindisi
alla nostra amicizia? Brindiamo al tramonto! Per te ho preparato
una straordinaria compilation di musica operistica».
8Il Rapporto
8
Flaxman sull’eccidio di Mogadiscio fu stilato da una commissione inglese presieduta dal colonnello
Flaxman assistito da altri due ufficiali inglesi. Il Console Italiano a Nairobi Della Chiesa partecipò solo come osservatore.
Il rapporto sull’eccidio fu subito segretato dall’Inghilterra. Negli anni ’90 fu reso pubblico.
27
Mentre stiamo brindando, squilla il telefonino di Carmine. Lui apre lo
sportellino per rispondere :
«Sì, sono io, prepara i documenti, poi lo richiude subito dicendo:
« Il solito scocciatore! Dai Giovanni brindiamo all’amicizia!.
Rimaniamo per qualche istante immobili con i bicchieri alzati,
fissandoci ascoltiamo la musica. Mi avvicino al suo orecchio
sussurrandogli:
«Aspetta a brindare, segui queste note, sono in tuo onore, tu le
conosci!.
Nella stanza risuonano le note dell’intermezzo della Cavalleria
Rusticana e seguono (qualcuno direbbe “stranezza del destino”) le
voci di Lola: «Alla vostra fortuna!, di Turiddu: «Beviam! dei paesani:
«Viva! Beviam! Rinnovisi la giostra! di Turiddu: «Benvenuto! Con noi
dovete bere: ecco, pieno è il bicchiere, e di compare Alfio: «Grazie, ma il
vostro vino io non l’accetto. Diverrebbe veleno entro il mio petto.
Colgo un bagliore nei suoi occhi quando vede la pistola che è
comparsa nella mia mano destra. Carmine è intelligente. Ha capito,
non parla, mi domanda tutto con gli occhi, sa di essere sconfitto.
Strillo:
«Sì, maledetto sì. Carmine, la strada ha le sue leggi. Io non
conosco che la parola “vendetta”, il perdono mi è sconosciuto. Tu
me lo ricordi continuamente: la strada ha le sue regole».
Carmine posa lentamente il bicchiere sul tavolo, poi lo riprende e
scolata l’ultima goccia mi guarda socchiudendo gli occhi:
«Vedi? Io ho brindato alla nostra amicizia! E tu non bevi?
Poi si gira e si dirige verso la finestra, l’apre e lancia il bicchiere
sulla strada. Ritorna accanto a me e quasi sorride quando comincia
a parlare:
«Giovanni Giordani, è una Walther PPK? La conosco, è
un’ottima arma, l’ho usata diverse volte, anche se preferisco la mia
Beretta 92. Allora ora, se vuoi, posso chiamarti anche Thomas
Crawford, Capo dei “I Pianificatori Britannici”. Oggi te l’ho detto
all’inizio che tu solo dovevi decidere cosa fare. Ho sempre saputo
chi eri veramente, ancora prima del tuo arrivo in Africa! Ti ricordi
che a Chisimaio mi volesti mettere alla prova facendomi vedere la
foto di tuo padre? Abbiamo giocato, ci siamo inseguiti, per tanti anni
ma, e tu non mi crederai, la mia è stata vera amicizia. Ero certo che
28
tu avevi scoperto che io fossi un aderente ai I Pianificatori Latini e
allora, per porre fine a questa lunga commedia, ti ho messo su un
piatto d’oro tutte le ulteriori tracce sulla mia persona. Tu sei una
persona intelligente, spero solo che capirai che dovevo fare quello
che ho fatto: io dovevo vendicare tante vite innocenti. Mi risuonano
i gemiti e sento ancora l’odore del sangue, sì del sangue di quella
fanciulla, di quel bambino. delle donne, degli uomini tutti italiani e
di un tassista armeno scambiato per italiano e dei tanti somali che
morirono per difendere gli italiani. Una bambina di quattro anni si
salvò perché rimase coperta dai cadaveri di sua sorella di appena
quattordici anni, di suo fratello più grande di due anni e dei suoi
genitori. Lo scorrere del tempo non potrà cancellare dai miei occhi
l’immagine di tante mani straziate dalle coltellate, mani portate sui
visi per difendersi dagli assassini. Ho cercato di farti capire di non
volere che le colpe dei padri ricadessero sui figli, e tu ora mi
dimostri di rifiutare la mia amicizia. Thomas, pensi che non
immaginassi quando avresti scelto di vendicarti? Oggi ricorre
l’anniversario: sono passati cinquant’anni da quel giorno maledetto!
La strage degli Italiani a Mogadiscio cominciò alle undici e alle
quindici era finito quasi tutto e si sentivano solo i pianti dei
sopravvissuti e i canti dei vincitori, mentre continuavano le razzie
nelle case distrutte, e i camion degli inglesi giravano per la città
raccogliendo i morti e gli innumerevoli feriti . Dio mio, quanti
camion sporchi di sangue ho visto fare la spola verso l’Ospedale De
Martino!9 Voi, I Pianificatori Britannici, sbagliando, avete sempre
sottovalutato I Pianificatori Latini. Anche allora non sentiste quello
che vi veniva suggerito e non avete considerato che potesse
esistere un futuro. Eppure lo sapevate che esisteva l’Ordine dei I
Pianificatori Latini. La mia voglia di vendetta attirò l’attenzione della
Cupola dell’Ordine Latino che dopo avermi addestrato mi diede il
consenso di vendicarmi. Non hai più rivisto tuo padre, non è
ritornato a Londra dopo l’ultimo suo viaggio? Non lo troverai mai,
nemmeno il suo corpo. Io ho ucciso il colonnello Clayton Crawford
9 A Mogadiscio
9
in quegli anni c’erano tre ospedali: il De Martino che fungeva anche da ospedale militare e il Maurizio
Rava dove nascevano la maggior parte dei figli degli italiani e il Forlanini
29
perché era lui che comandava quegli assassini. Nel 1960 avevo
diciotto anni e lo facemmo ritornare in Somalia per un safari; tuo
padre amava la caccia, le sue prede preferite erano gli italiani. L’ho
ucciso in mezzo alla savana con un billao, poi gli ho strappato il
cuore, l’ho calpestato e dato da mangiare agli avvoltoi, il resto delle
sue carni sono state il pranzo delle iene somale. Tu hai già deciso?
Vuoi vendicare tuo padre? Allora si applicano le regole sino in fondo.
Le regole, le leggi e la strada. Difficile è vivere. Ѐ molto più facile
morire, basta un battito di ciglia!».
Ora si diffondono le note dell’overture dei Vespri Siciliani e il
coro finale: Vendetta! Vendetta! Ci guidi il furor! Già l’odio ne affretta le
stragi e l’orror! Vendetta, vendetta è l’urlo del cor!
«Già, dovevo immaginarlo: La Cavalleria Rusticana e i Vespri
Siciliani! Tu sai che sono siciliano. Sono le sue ultime parole,
mentre le note finali della Cavalleria Rusticana accompagnano l’urlo
lontano delle donne: Hanno ammazzato compare Turiddu! Nello stesso
momento due colpi di pistola lo fanno rovinare a terra: uno alla
fronte e uno al cuore. Due colpi da professionista. Mi tocco
l’orecchio destro e ho l’impressione di sentire i denti di Carmine: il
morso di questa mattina era una sfida? Tolgo il silenziatore dalla
pistola, corro in camera e prendo tutte le mie carte. Brucio i
documenti italiani, posso finalmente, dopo tanti anni, riacquistare il
mio nome Thomas Crawford, tornare ad essere inglese.
Squilla il cellulare di Carmine, lo lascio suonare e non
rispondo, ho fretta: un aereo mi aspetta a Fiumicino. Prima di uscire
mi chino sul cadavere di Carmine per prendere la sua Beretta 92, la
pistola che aveva sempre con sé. Non la trovo: Carmine non era
armato? Non ho tempo per pensare, ho fretta e devo partire. Perdo
ancora pochi secondi e frugo nel taschino dei suoi pantaloni. Prendo
il foglietto con l’elenco dei nomi che poco prima Carmine mi aveva
mostrato. Lo apro e scorro i nomi, tra quelli sbarrati c’è anche
Clayton Crawford, quello di mio padre: l’ufficiale inglese più alto in
grado nel 1948 a Mogadiscio. Carmine Caruso, dieci minuti prima, si
era vantato di essersi vendicato in modo animalesco straziando il
suo corpo. In tutti questi anni ho sempre saputo che era stato
30
ucciso ma ignoravo come era stato eliminato. Nel 1961, per
vendicarlo mi ero arruolato nell’esercito inglese. Col nome che
avevo, era stato facile entrare a fare parte dei Servizi di
Intelligence. Per riuscire a sconfiggere Carmine sono dovuto
diventare il Capo dei “I Pianificatori Inglesi”.
La puttana della bettola, il marinaio francese, l’uomo col
coltello e tanti altri fatti erano state pietre che avevano tracciato il
mio destino? Carmine Caruso aveva ordito tutto? Era stato sincero,
mi aveva protetto veramente, la sua era stata reale amicizia? Non
lo saprò mai! Era venuto senza pistola solo per dirmi che partiva?
L’odio non mi dato la possibilità di verificarlo e per anni ho finto di
essergli amico. Ora posso tornare in Inghilterra, ho portato a
termine la mia vendetta. Raccolgo tutti i documenti più importanti e
li sistemo insieme a vari gioielli dentro uno zaino ed esco. Nulla mi
lega più all’Italia e I Pianificatori Britannici mi attendono. Loro
sistemeranno tutto, laddove dovessero sorgere problemi di qualsiasi
genere. Fra un’ora scoppierà la bomba che ho innescato. Si penserà
a una fuga di gas l’esplosione cancellerà ogni cosa.
Mentre mi avvio verso la macchina, qualcuno mi chiama con
un perfetto inglese: «Mister Thomas Crawford, a moment, I have to
deliver a letter10».
Istintivamente mi fermo e mi volto. Un uomo di
carnagione bruna, capelli neri riccioluti e occhi neri come due
meravigliose perle nere dei Mari del Sud, mi porge una busta.
«Before starting, read the letter 11». Rimango pietrificato mentre l’uomo
mi strappa dalle mani l’elenco dei nomi, che, troppo sicuro di me
stesso non avevo nascosto. Quel meticcio che ora mi parla in
italiano, ha dei lineamenti familiari: rassomiglia molto a Carmine.
«Apra la busta, non perda tempo, legga il biglietto e poi la
lettera, signor Giovanni», mi dice in modo imperativo.
10 «Signor
1
Thomas Crawford, un momento, devo consegnare una lettera
11 «Prima
1
di partire, legga la lettera
31
La busta contiene: una fotografia di mio padre giovane con la divisa
di ufficiale inglese, ripreso davanti a una moschea e una lettera.
Prima di leggere chiudo per un istante gli occhi e mi compaiono due
figure: quella di una bellissima donna somala e del suo bambino
meticcio che salvai a Chisimaio.
«Tu sei Abdi di Chisimaio?», gli domando e continuo:
«Hai gli stessi occhi di tua madre, ti ricordi che ti salvai? Stavi
annegando e mi tuffai in mare, poi si prese cura di te il signore
Carmine Caruso.
Abdi ha una pistola puntata verso di me e mi guarda con odio. I suoi
occhi mi trafiggono come due frecce nere:
«Mister Thomas io non le devo niente, lei quel giorno non mi
salvò affatto. Io sapevo nuotare e Carmine Caruso, mio padre, mi
aveva buttato in acqua per riuscire ad agganciarla. Ora si sbrighi,
legga la lettera! È l’ultimo gesto d’amicizia di mio padre, io non
l’avrei fatto.
Tutto ora mi era chiaro!
Ho appena aperto la busta ed estratte la foto e la lettera,
quando, con una pistola premuta sul mio fianco sinistro, Abdi mi
costringe a sedermi alla guida della mia Aston Martin V12 Vantage.
Dalle prime righe del biglietto capisco di non avere alternative. Il
mio corpo è tutto un formicolio e non riesco a muovere nessun arto.
Riesco a sentire, ma non posso parlare, le mie labbra sembrano
cucite, quello che vorrei dire posso trasmetterlo, attraverso dei
sensori collegati alla mia testa, al PC che il meticcio tiene sulle
gambe. Mi ordinano di raccontare la mia ultima giornata di vita e, se
voglio, anche parte della mia storia; loro conoscono quasi tutto.
Sanno che non svelerò alcun nome dei I Pianificatori, Carmine non
mi chiede di fare la spia, lui conosce bene le regole cavalleresche.
Durante la mia permanenza tra I Pianificatori Inglesi, dove ho
ricoperto vari ruoli, per la prima volta, quello di vittima è l’unico che
corrisponde alla realtà. “Per il profondo senso d’amicizia che mi univa a
te” è il titolo della lettera, l’ultima cortese comunicazione che Il
Pianificatore Latino Carmine Caruso ha voluto lasciarmi. Io, il Capo
dei I Pianificatori Britannici, ora ho solo un rammarico: non avere
mai considerato che nella vita esiste anche un valore chiamato
“Amicizia”.
32
Roma,
Thomas Crawford
11
gennaio
Per il profondo senso d’amicizia che mi u niva a te
33
1998
Giovanni Giordani o Thomas Crawford, questo è il tuo vero nome, hai aperto
la busta, stai leggendo questa lettera che mio figlio Abdi ti ha consegnato?
Allora sei già immobilizzato! La busta e la lettera sono state trattate con una
sostanza nervina che agisce in pochi secondi. S olo una parte del tuo cervello
è ancora attiva: puoi pensare e sentire. Credimi amico mio: sino all’ultimo
secondo ho sperato che Abdi non t’incontrasse. A te piace la buona musica ?
Ora si sta diffondendo la colonna musicale del film “La mia Africa” che
andammo a vedere insieme. È un bel film con Merly Streep e Robert
Redford, quella sera fui felice di rivedere la mia terra in tua compagnia. Ho
fatto preparare questa musica in tuo onore e in ricordo del primo giorno che
ci incontrammo. Io sono vivo e mi sto dirigendo verso l’aeroporto. Te l’ho
detto, devo andare in Ruanda e poi in Kenya. Tu, poco fa, hai ucciso John
Crawford, il tuo amato fratello. Questa mattina, quando mi hai visto, avrai
pensato: il rigido colletto che indossa è parte dell’abito talare che ha usato
per entrare in Vaticano. Era vero solo in parte: il colletto serviva per non farti
accorgere che non avevo nessuna profonda cicatrice al collo. Quella cicatrice
era l’unica cosa che mi distinguesse da tuo fratello. La differenza era solo
quell’importante piccolo particolare, tu conosci quella cicatrice: l’avresti
notato e ti saresti insospettito. E tu non potevi sapere di John e di come
avevamo operato su di lui. Lunghe e laboriose operazioni di plastica facciale
l’avevano trasformato, con risultati eccellenti, in un mio perfetto sosia.
Successivamente i nostri scienziati, dopo avere rielaborato e approfondito gli
studi del dott. C.G. Jung sulla psicologia e alchimia avevano fatto di tuo
fratello un essere pensante identico a me. Per la prima volta nella storia
dell’umanità, varcando le porte del subconscio, la sua memoria era stata
cancellata e tutti i miei ricordi, le mie emozioni, le mie sensazioni di gioia e di
dolore erano stati trasferiti nel suo cervello. Tu non sai niente dell’archetipo
dell’individuazione e della psicologia della trasformazione e di come il Dr
Jekyll possa diventare il semplice sig. Hyde. Pensi che R. L. Stevenson nello
scrivere il romanzo “The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde” si fosse
inventato tutto? No, anche gli scrittori a volte trovano spunto dalla scienza. Il
nostro è stato un lavoro lungo e laborioso e I Pianificatori Latini sono gli unici
autorizzati dalla nostra Cupola a continuare gli studi. In Italia ci siamo riusciti
e il resto del Mondo è ancora all’oscuro dei nostri risultati. Ti sarai
meravigliato del fatto che io non avessi tentato alcuna reazione? No di certo!
S ono sicuro che avrai pensato: Carmine sa di non avere scampo. Ti sei
ritenuto sempre l’eterno superiore e mai ti ha sfiorato il minimo dubbio. Mai
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un’incertezza! Questo è stato, purtroppo, il tuo punto debole. E invece tuo
fratello aveva avuto precise indicazioni. Credimi, la mia vendetta ora è più
amara. John è stato sacrificato solo perché voi inglesi non conoscete la
parola “pietà”. Lui s’è comportato come il perfetto kamikaze che noi
volevamo, conscio di sacrificare anche la sua vita. Questo perché ragionava
come me, pronto dunque al sacrificio. Quando John è caduto, ho sentito delle
fitte alla testa e al cuore. L’hai colpito lì, è vero? Anche per questo suo
sacrificio, pur concedendoti di vivere qualche minuto di più, ho deciso il tuo
destino. Tra tuo padre e me c’è una grande differenza. Tuo padre, quando
partecipò moralmente all’uccisione di quattro donne e cinquanta uomini, non
ebbe alcuno scrupolo! Tra le persone uccise ci furono molte giovani vite, tra
le quali, il più piccolo, Gianfranco, un fanciullo di dodici anni, pugnalato a
morte da donne somale sotto gli occhi del padre. Sì, tuo padre l’uomo della
fotografia! Clayton Crawford non ebbe pietà di loro e distrusse anche la mia
fanciullezza. Sorrideva mentre le sue vittime morivano, incitando altri
assassini a proseguire la carneficina. E Romolo di 61 anni trucidato sulla
sedia a rotelle sotto gli occhi indifferenti di tuo padre? S ai quante donne
italiane furono violentate quel giorno e che per vergogna non denunciarono il
fatto? Tu non sai che quella notte, la notte dell’11 gennaio 1948 mentre gli
italiani piangevano i morti e le madri stringevano al petto i corpi i dei loro figli
assassinati, gli ufficiali inglesi brindavamo e cantavano in coro canzoni
oscene! Io, bambino di sei anni, ho visto i corpi straziati dai billao, ho girato
per gli ospedali e ricordo le loro mani lacerate dai coltelli mentre, come
difesa, si proteggevano il volto e il corpo, rammento ancora le pozze di
sangue umano e le risate dei tuoi connazionali: ecco i motivi della mia
vendetta. Per noi, I Pianificatori Latini, è sempre esistito un alto valore
assoluto da rispettare: quello dell’Amicizia. Ed io con te l’ho rispettato sino
alla fine. Ricordi che questa mattina avevo dato a te la possibilità di
decidere? Tu decidendo della mia vita, hai delineato anche il tuo destino. Non
mi piace uccidere, anche quando lo devo fare: ora Abdi sa come agire. Ha
l’incarico di ucciderti lasciandoti quel poco tempo per rivedere la tua vita e
narrarla sino in fondo, e leggerai anche quest’ultimo messaggio. I sensori
applicati alla tua fronte trasmettono tutto in quel piccolo computer che mio
figlio ha sulle gambe. Io conservo ancora l’umanità che nemmeno l’odio per
tuo padre è riuscito ad annullare. Ti giuro che quello che dirai, o meglio
penserai, rimarrà un nostro segreto e sarà mia cura trasmetterlo all’ultimo tuo
erede. Stai finendo di leggere? Ecco ora stai ascoltando l’inizio
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dell’undicesima traccia: “If I Know of song of Africa”12, durerà due minuti e
quattordici secondi. Dopo due secondi inizierà la dodicesima traccia, l’ultima:
“End title”13, di tre minuti e cinquantaquattro secondi. No, non chiudere gli
occhi, non ancora. È giusto che tu sappia ancora delle notizie: accompagnata
dalle risate di tuo padre e dalle urla furiose dei somali, l’agonia di tante
vittime quel giorno fu molto lunga, sotto il sole cocente e in mezzo al fango.
Invece io per te ho pietà: ascolta il Clarinet Concert A major K 622 di Mozart
che ho aggiunto come traccia finale. Ora, Thomas ora ti sono rimasti pochi
secondi … il fragore dell’esplosione della bomba che hai messo
nell’appartamento, coprirà le ultime note e il suono della Ruger S P 101 che
userà mio figlio. Solo tu e lui sentirete quell’unico cupo rumore: Thomas
Crawford, per il mio sincero affetto e per la tua simulata amicizia, dovevo
darti il piacere di sapere come saresti morto. Ricordi la frase conclusiva del
“Martin Eden”? “E nell’istante stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo”. Anche
dalla vita di Martin Eden ho imparato che: “Le regole, le leggi e la strada.
Difficile è vivere. Ѐ molto più facile morire, basta un battito di ciglia!” .
Roma, 11 gennaio 1998
Caruso
Carmine
12 Se1 io conosco una canzone dell’Africa
13 Fine
1 della storia o ultima canzone
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La C u p ola dei I Pia nificato ri Latini, dispo ne che q uesta b usta contenente
docu menti r iser vati del Pia nificato re B r i tan nico T ho mas C ra w fo r d, per
t ra dizione cavalleresca dell’Ordi ne B r i tan nico - Lati no, venga consegnata,
alla fa mi glia C ra w fo r d della Co n tea di K e n t, La b usta sigillata col si mbolo
dei C ra w fo r d do v rà essere consegnata all’ulti mo discendente del C a po
T h o mas C ra w fo r d.
Vittorio Amenta
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