Ricercatrici in carriera

Transcript

Ricercatrici in carriera
24ORE
CULTURA & SOCIETÀ
martedì
12 novembre 2002
12
PAROLE NEL TEMPO
“Il vasaio vede
di mal’occhio il vasaio,
l’artigiano l’artigiano,
e il poeta il poeta”
Niccolò
Machiavelli
Un ritmo incalzante nel nuovo libro «Dis/giungere Basilea»
di GIGI ZOPPELLO
B
l'Adige
asta sentirlo parlare una volta, Luigi Serravalli. Basta una
volta, per restare ammaliati,
conquistati dall’impressionante sapere di quest’uomo, eppure
il suo parlare è lieve, fatto di immagini, suggestioni, rimandi. Come quando si viaggia. Ed è un viaggio il filo del
suo nuovo romanzo «Dis/giungere Basilea», edito in questi giorni da Uct a
Trento.
La vicenda parte, è ovvio, dalla storia autobiografica: il protagonista è in
treno, viaggia verso Basilea per andare alla Kunsthalle, la grande rassegna d’arte. È il suo lavoro: viaggia, osserva e scrive. Prima in treno, poi nel
piccolo albergo, poi a Berna, mentre
Il viaggio di Serravalli
nella sua testa e nei suoi pensieri si fa
strada l’immagine di Hockey Boy, un
bambino, un oscuro ispettore, con il
suo apparato di collaboratori misteriosi.
Ma non è solo questo, il romanzo: è
affollato di memorie letterarie, di suggerimenti, quasi dei tranelli tesi al lettore ad ogni angolo. E poi, il tema di
sottofondo: l’arte e l’artista, in un continuo chiedersi quale sia l’essenza della creazione.
Quello che però ci piace di più è il
linguaggio: freschissimo, verrebbe da
dire «giovane», se non fosse una mancanza di rispetto per l’autore che giovane non è. C’è nella scrittura di
«Dis/giungere Basilea» un ritmo incalzante, che si abbandona ogni tanto ad affascinanti divagazioni. In certi momenti, sembrerebbe il più colto
Alberto Arbasino, quando affastella
immagini per dare un mosaico che riflette più realtà di quelle che si vedono... «Per le strade mal selciate, piene di buche, pochi autobus traballanti,
alcune vetture venute dai garages di
tutti i paesi (...) e poi, per la maggior
parte, camion sconquassati, pachere,
bulldozer, impastatrici, gru mobili, insomma macchine da lavoro, che non
si sa in quali misteriosi uffici siano impegnate dato il generale trasando».
In appendice, un paio di paginette
rivelatorie: Serravalli quasi si scusa
(e non ne avrebbe motivo). «Evidentemente questo libro, che non è un vero libro, potrebbe avere moltissimi finali. Per ora, mi fermo qui. Non è impossibile che riprenda questo viaggio, o altri viaggi, in futuro. Il tempo,
più che infinito, è in finito».
Un arrivederci, dunque, ed è la cosa più bella. «Il solo finale giusto non
può essere altro che un interrogativo» dice Serravalli. E aspettiamo la risposta.
Secondo appuntamento all’Irst del ciclo di incontri «Donne e scienza»
«E’ un lavoro che
richiede un po’ di
elasticità ed il
sostegno morale
di un partner»
Ricercatrici in carriera
La scienziata Lina Sarro si racconta
di MICHELE CARPAGNANO
Secondo appuntamento, ieri
all’ ITC-Irst di Povo, del ciclo di
conferenze "Donne e Scienza".
Protagonista del primo incontro
fu Justine Cassell, professoressa del MIT (Massachusetts Institute of Technology) che, lo
scorso ottobre, tenne una lezione sullo sviluppo di interfacce in
grado di supportare la comunicazione verbale e non tra utente e computer. Ma soprattutto la
scienziata americana aveva sottolineato come «la figura della
donna e quella dello scienziato,
purtroppo non coincidono» e
che le radici di una ancora troppo percepibile distnzione di genere nell’ambito della ricerca
scientifica affondano nella prima infanzia: «la distinzione tra
young boy e young girl è una diretta conseguenza dei tipi di giochi che i piccoli maneggiano». Il
giocattolo, insomma, come impersonificazione nei ruoli che
enfatizza la distinzione di genere.
Ieri è stato il turno di Lina Sarro, scienziata italiana della microelettronica e docente presso
l’Università di Delft (in Olanda),
dare un esempio positivo di ri-
cerca al femminile. Nella sua relazione, la prof. Sarro ha illustrato le tecnologie più recenti
nel campo della microelettronica e dei microsistemi con le relative applicazioni, dai prodotti
di largo consumo ai processi industriali, dalla medicina alla farmaceutica. Rieccheggiando le
parole di Justine Cassell, abbiamo chiesto alla professoressa
Sarro se da piccola giocasse con
le bambole. «Ne avevo - replica
la professoressa - ma ci giocavo
poco, preferivo giochi all’ aperto, nascondino, arrampicarsi sugli alberi, campana e quattro cantoni oppure Lego, costruzioni,
"teatro" ed altri giochi di fantasia come far finta di viaggiare o
vivere avventure spettacolari».
A proposito della distinzione
tra giochi per bambini (di solito
sofisticati videogames, complessi giochi di ruolo o "armi") e
quelli per le bambine (spesso capricciose bambole da accudire,
accessoriate cucine di plastica,
colorati ferri da stiro) come mezzo per enfatizzare la distinzione
di genere, la ricercatrice italiana pone l’accento sulle «"intenzioni" con cui si dotano i piccoli di questi giochi, che - prosegue
- possono essere dannose piu degli stessi giochi; bisognerebbe
regalare ai bambini, indipendentemente dal sesso, giochi che
stimolino la fantasia e la creatività. Naturalmente oltre ai genitori e ai nonni la scuola materna
e le elementari dovrebbero decisamente non influenzare o suggerire ruoli sociali in base al genere».
Ritorniamo al mondo accademico-scientifico per chiederle se
si sia mai sentita "discriminata"
in ambito accademico per il solo fatto di essere una brillante ricercatrice. «Discriminata, decisamente no. Però ci sono sono
alcune cose che "aiutano": per
esempio quando si pubblica un
lavoro, spesso dal nome non si
può dedurre se si tratti di un uomo o una donna per cui le valutazioni non ne sono influenzate.
Così è possibile stabilire una reputazione scientifica internazionale che poi può essere d’aiuto in situazioni nell’ambiente di
lavoro quotidiano».
E si è mai sentita "sottovalutata" in quanto donna?
«Forse - spiega la scienziata qualche volta».
Il suo intervento a Trento ha
anche il valore di esempio di ricerca al femminile, una sorta di
modello per tante giovani ricercatrici e studentesse che po-
La donna
scienziato è
svantaggiata
rispetto al
collega
uomo? Anche
Lina Sarro,
all’Irst di Povo,
parla di
«generi»,
educazione e
difficoltà nel
lavoro della
ricerca. Ma
più importanti,
dice, sono gli
esempi da
poter seguire
tranno rispecchiarsi in lei e nel
suo percorso, crede che le donne abbiano bisogno di "role models"?
«Le donne decisamente no,
forse le bambine, ma io credo
poco ai "role models". La giusta
situazione ambientale, le infrastrutture e la possibilità di seguire gli studi desiderati sono
molto più di aiuto che role models». Dunque per lei nessun "Role Model"? «Non ne ho avuto nessuno in particolare. Ci sono persone diverse (uomini e donne)
che ho ammirato e che per aspetti diversi e qualità specifiche mi
hanno ispirato ed incoraggiato.
Quindi più che creare un "role
model", è importante sottolineare che ci sono donne che hanno fatto carriera, raggiunto obiettivi importanti, ma che fondamentalmente hanno realizzato i
loro sogni o soddisfatto le loro
ambizioni».
Che cose consiglia ad una giovane studentessa che volesse intraprendere una carriera nell’ambito della ricerca scientifi-
ca? «Come tanti lavori, anche
questo richiede sacrifici, impegno e determinazione. L’esperienza all’estero (anche solo
qualche anno) oltre al valore
scientifico ha anche un grande
valore sociale e di crescita personale. Per cui la ritengo quasi
indispensabile. Fortunatamente
ci sono sempre più possibilità
tramite vari "exchange programs" sia per studenti che ricercatori. Poi bisogna ricordare
che la ricerca non si fa da soli:
c’è la collaborazione di tante persone, non solo i membri dello
stesso gruppo ma anche di gruppi diversi. Per cui un "team spirit" o meglio "being a team
player" è importante». E cosa
consiglia al suo compagno? «Di
essere un punto di riferimento
per il dopo lavoro, di incoraggiamento nei momenti difficili,
di aiuto e comprensione, insomma una specie di " supporter/fan". Ma penso questo sia applicabile a tutte le donne che lavorano. Certo che questo tipo di
lavoro, con orari irregolari, problemi scientifici le cui soluzioni
non sempre rispettano "time
schedules" previsti, si richiede
un po più di elasticità mentale e
sostegno morale da parte di un
partner».
Abbiamo visitato la prima mostra: un balzo nel futuro più attuale, sconcertante ma familiare
N
on capita tutti i giorni
che si apra un museo di
arte contemporanea in
Italia. E ancora più raro che, a capo del progetto (il Macro di Roma), ci sia un trentino.
Danilo Eccher, già direttore della Galleria Civica di Trento, poi
a capo della Gam di Bologna,
punta decisamente sui nuovi linguaggi nella capitale. Ma cosa offre? Com’è la prima mostra? Siamo andati a vedere.
di FRANCESCA CAPRINI
U
na signora dal viso duro punta il suo sguardo fra le inferriate della finestra. E’ in cucina. O almeno così si può desumere dai mestoli che spuntano a bordo foto. Un ragazzo
- bel biondo, nulla da dire - perso nel casino senza speranza
della sua camera. Poi c’è quello esibizionista. Cede all’aspetto un po’ voyeristico della
cosa, si fa trovare in mutande,
al telefono. Infine il più normale
di tutti, quello che incarna l’uomo medio all’ora di cena: appeso ad un trapezio. Non dondola nemmeno, non gli è permesso: da contratto deve 1) rimanere fermo immobile per almeno dieci minuti 2) affacciato alla finestra 3) dopo il crepuscolo 4) chiudere le tende
se si stanca (e se non le ha?)
ecc ecc..
Shizuka Yokomizo, classe
’66, nata a Tokyo, dev’essere
una brillante ragazza dalla fantasia mai ferma. Ma i risultati
lasciano un po’ di stucco. Si
parla ovviamente da profani,
ma in fondo il dilemma di fronte all’arte contemporanea è
sempre quello: piace, non piace, deve piacere perché qual-
Eccher a Roma: ipercontemporaneo
Così il direttore trentino lancia la sfida del nuovo Macro
che grande l’ha definita grande e noi non ci capiamo nulla?
Chissà. Certo è che «Dear
Stranger», serie di ritratti fotografici di perfetti sconosciuti,
è una bella idea (l’autrice spedisce a casa dei prescelti "cari sconosciuti", una lettera-contratto in cui spiega il suo desiderio di volerli fotografare senza essere vista, tutti nello stesso momento della giornata - al
tramonto - in un giorno prestabilito), che vorrebbe appunto sondare la «componente concettuale della relazione
fra artista e soggetto». Ma le
grandi foto sembrano foto qualunque di gente che si è messa
in posa, non sembra trasparire l’intento , l’emozione, né da
parte dei soggetti, né da parte
dell’occhio fotografico. E questo era il primo salone della
grande Macro.
Macro - cioé Museo d’Arte
Contemporanea di Roma - è il
possente progetto di prossimo
completamento (si parla di tre
anni di lavori) che il nostro Danilo Eccher ha pensato per la
capitale, dove era direttore della defunta GCAM, oggi direttore di MACRO, appunto. Piccolo gioco di parole per un acronimo assolutamente ammiccante, che nasconde dietro a
cinque lettere la volontà di ampliare gli spazi già esistenti della ex birreria Peroni, in Via Reggio Emilia, aggiungerci i due
padiglioni del colorito quartiere di Testaccio e condire il
tutto con iniziative e orari
Una delle fotografie di Shizuka esposte alla Macro di Roma
(apertura fino alle 24!) che facciano di un museo d’arte contemporanea un fulcro di vita e
discussione, confronto e divertimento.
Leggasi forse come proseguimento di un intento che ha
sempre contraddistinto Danilo Eccher: avvicinare l’arte contemporanea al pubblico, anche
quello "domenicale". Forse per
questo certe esposizioni sono
- o sembrano - così semplici.
Tanto semplici che ti mettono
in crisi.
Passiamo all’altra "personale", nella successiva "Sala Panorama". Qui una giovane bolognese, Alessandra Tesi, ha
fatto della diffusione della luce il suo studio. Presenta il lavoro preparato per l’occasione: una musica celestial-remixata introduce nella buia sala, dove un maxi-schermo è pieno di piedi (di preti?) che cam-
minano avanti e indietro. No,
non è un maxischermo: sono
750.000 per mila perle infilate
una ad una dalle pazienti manine di studenti di licei e istituti d’arte. Si, sono piedi di preti: si chiama "La Cattedrale". Il
"gioco delle perle di vetro" (un
remind a Herman Hesse) rende più luminosa l’immagine, e
le riprese, che sono leggermente rallentate, danno una
bella sensazione di leggerezza.
I piedi di preti non tanto.
Insomma, ci si perde fra Arte Povera che ogni tanto raggiunge una soglia di povertà tale da far venire un po’ di tristezza (cos’è quel fil de fer arrotolato e arrugginito? Ma Celant così la pensava?), e Transavanguardia, che invece - vedi Cucchi, Chia, Merz - si avvicina di più all’idea che il "popolo della domenica" ha dell’arte contemporanea, per finire nelle spire dell’ "Ipotesi di
Collezione", che sono gli accenni delle collezioni che in futuro si vorranno per la grande
Macro. Poi si vede la signora
custode, classica signora over
sessanta molto romana un poco dimessa, che legge "L’Arte
d’amare" di Fromm. Stupisce
anche questo.
Scese di nuovo per le scale l’ex Birreria è veramente un
piacevole spazio espositivo,
ampio, mosso e luminoso - si
incappa in un Dante ermafrodita a fianco di un carabiniere
stile Pinocchio ricoperto di falliche carrube, per giungere al
padiglione dedicato a Tony
Oursler, "Occhi, Fango, Diavoli, Nuvole". Veramente bello,
quello che questo artista americano ci propone, e che vediamo in questi giorni anche a
Trento allo Studio Raffaelli.
«Agenti-catalizzatori entrano
aggressivamente nel mondo».
Sono manichini di stoffa, in diverse posizioni e situazioni, su
cui vengono proiettate immagini di visi che parlano, urlano,
piangono. Sembra un viaggio
nei nostri peggiori incubi, soggetti paralizzati e immobili, incapaci di potersi difendere dalle angosce più infime della moderna società. Urli e sussurri
si rincorrono nel buio delle
stanze, enormi occhi (palle di
polistirolo che riflettono proiezioni di occhi davanti alla televisione) calano il visitatore
in atmosfere da Star Trek (prima maniera): i media e le "Poison Candy", le droghe, come
evasioni dalla realtà. Evasioni
pericolose e tragiche, che hanno però un loro motivo di essere ed è inutile far finta che
non esistano. E Ground Zero
vista come non si era mai vista: otto pannelli di fotografie
che ritraggono altrettanti monitor di videocamere digitali,
nelle quali è inquadrato ciò che
resta delle Torri.
Si esce dal padiglione finalmente contenti di aver pagato
l’entrata, non sapendo che in
un altro padiglione c’è Iva Zanicchi che canta in costume rinascimentale (videoinstallazione di Francesco Vezzoli, visto alla Civica di Trento a guida Cavallucci).
Diversi livelli di impatto, in
questa mostra. Alcuni più forti, altri per niente. Ma è il germe di un’idea enorme e bella.
Di un’idea Macro.