la balbuzie di manzoni - Centro studi Valerio Micheli Pellegrini

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la balbuzie di manzoni - Centro studi Valerio Micheli Pellegrini
MANZONI PRIMA DEL RE
Valerio Micheli-Pellegrini
È facile mettere in sequenza pensiero, parola, voce, canto, scrittura.
Se per molti anni abbiamo potuto conoscere il pensiero degli altri solo
attraverso i loro scritti, oggi con i mezzi audiovisivi, possiamo invece
contare non soltanto su un’incalcolabile quantità di documenti, ma
anche su un’intera biblioteca di voci (addirittura un dizionario di Dino
Provenzal) corredate dalle immagini dei personaggi che le hanno
prodotte, con le loro intonazioni, il loro colorito e persino i loro
intoppi.
Centinaia di libri, sono stati dedicati alla linguistica, alla musica, alla
lirica; altrettanto potremmo dire dei testi riguardanti la fonetica.
L’estensione e la profondità nella conoscenza delle caratteristiche
generali di questi argomenti spiegano i motivi del continuo
approfondimento della ricerca, sui loro particolari e sui loro lati meno
conosciuti, come avviene sempre per ogni svolgimento di temi storici
o scientifici.
Indubbiamente commovente il film sulla balbuzie, lo stuttering, del re
d’Inghilterra, Giorgio VI.
Albert Frederick Arthur George, nato il 14 dicembre 1895 e spirato il 6
febbraio 1952, fratello di Edoardo VII, che aveva abdicato in suo
favore, aveva lasciato il trono alla figlia Elisabetta II.
Il problema, accuratamente studiato da Accornero (2010) e da Fassina
e coll. (nel 2011 gli Autori hanno proposto un questionario di
autovalutazione della balbuzie infantile), affonda le sue origini nella
storia del linguaggio umano, e sembra, forse senza volerlo, contribuire
allo sviluppo della foniatria, la scienza difficilmente separabile dalla
logopedia, anche se, quest’ultima si trova più di frequente applicata
nelle patologie infantili.
L’interesse mediatico, inquadrato nella potente struttura
cinematografica moderna, è stato amplificato dal coinvolgimento di un
sovrano, anche se l’illustre afflitto si trova in compagnia di personalità
indimenticabili, egualmente degne di essere approfondite nella loro
anamnesi patologica.
Con queste premesse era inevitabile il successo del The king’s speech
arrivato come un raggio di sole tra le nubi della tempesta, a proporre
una specie di favola sull’impaccio verbale, che Stefano Montefiori sul
Corriere della Sera del 30 gennaio 2011 (L’onorevole Bayrou e
l’orgoglio dei balbuzienti), ha trovato segnalato persino nei geroglifici
egiziani.
Tom Hoper, il regista, ha voluto creare un racconto filmato sul grave
problema di eloquio di quella persona di gentile aspetto che dall’alto
del balcone di Buckingham Palace, investita di una immensa
responsabilità per l’imminenza della seconda guerra mondiale, avrebbe
dovuto rivolgersi al suo popolo.
Il primo ministro Chamberlain, sarebbe stato sostituito nel 1940 da
Wiston Churchill, anche lui, forse non a caso, disturbato nelle
elocuzioni e per di più destinato nel 1945 a prendere la parola insieme
con il re, da quello stesso terrazzo, al termine del conflitto, nel 1945.
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Sotto una specie volutamente romanzesca, il film non poteva non
portare all’attenzione del pubblico una questione che potrebbe essere
davvero definita «sociale» poiché attinente al più sociale degli attributi
umani e cioè, il linguaggio.
«La lista dei balbuzienti è infinita» scriveva Montefiori soffermandosi
di proposito sul caso del politico francese François Bayrou, vincitore
di una minorazione osservabile oggi in «sessanta milioni di persone».
Ecco. Nel guardare le piccole immagini in quell’attraente articolo, non
ho potuto fare a meno di fermarmi sul ritratto di Alessandro Manzoni,
un nome troppo importante per non cogliere l’occasione di
commentarne alcuni lati fisici nei rapporti con le sue opere letterarie,
se non con la sua vita.
Forse avrei potuto trovare un segnale ancora sconosciuto, un
barbouillage come quello citato in una lettera a Claudio Faurel del 1
novembre 1821; poteva averlo conservato per l’ipotesi di un metodo,
di una sua via spontanea per un sostegno inventato, segretamente
organizzato, per ovviare a un disturbo tanto importante da essere stato
oggetto di innumerevoli trattati.
Mi domandavo perché Manzoni era stato inserito in quel gruppo;
perché in quella lista, probabilmente nota a Orazio Premoli, ad Attilio
Momigliano, a De Sanctis, a Mario Pomilio, a Luigi Russo, ad Alfonso
Bertoldi e a molti altri, non ci fosse anche Davis Carrel, quello di
Alice nel paese delle meraviglie.
La balbuzie è stata usata nel teatro e nel cinema per lo più come
occasione di comicità, di divertimento. Chi non ricorda
l’interpretazione inimitabile di Vittorio Gassman, il pugile balordo, nel
gruppo di stolti dei I soliti ignoti di Mario Monicelli ?
Altrettanto facile ricordarsi di personaggi storici, a partire dal molto
citato Demostene che, per contrastare l’impedimento, parlava tenendo
in bocca delle pietruzze; oppure dal potente Mosè, disturbato
nell’eloquio (Esodo 4,10) per gli esiti di un’ustione causata dall’aver
morso un pezzo di carbone incandescente.
Per non dire degli studiosi del passato, a partire da Galeno che
considerava l’os balbum legato allo squilibrio umorale tra la bile atra
e quella gialla, tra il sangue e il flegma; e di Gerolamo Mercuriale che
lo collegava con una eccessiva attività sessuale.
Se tra i tentativi terapeutici, tra il 1700 e il 1800, era stata usata la
rimozione di settori linguali in alternativa con il taglio di nervi
cervicali e labiali, poi abbandonato per il grave rischio di emorragie,
più di recente, dopo che Giovanni Morgagni l’aveva vista come effetto
di un’anomalia anatomica dell’osso ioide, già all’inizio del 1800, uno
dei più grandi otologi, il provenzale Gaspar Itard, autore del Traité
des maladies de l’oreille et de l’audition, aveva raccomandato l’uso di
una piccola placca aurea da tenere sotto la lingua per ovviare alla
debolezza dei muscoli coinvolti nella «anatomia della voce».
Le modalità dell’instaurazione ininterrotta della disfluenza tipica della
balbuzie, e di tutte le sue diverse caratteristiche, sono state analizzate
in tutti i particolari nel Traité pratique de phonologie et de phoniatrie.
La voix-la parole-le chant, pubblicato nel 1941 da J. Tarneaud con i
diffusi chiarimenti sul bégaiement svolti dalla S. Borel-Maisonny del
1941.
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La disfluenza verbale consiste in un impedimento delle parole, un
balbettio, un incheccamento, associato a ripetizioni involontarie di
suoni vocali o di esitazioni, oppure di pause genericamente definite
blocchi che precedono l’intenzione dell’eloquio.
In alcune persone l’impatto emozionale si manifesta con tanta forza,
da portare fino alla perdita del controllo fonatorio, non di rado
complicato dall’inconveniente dello stress e dell’ansia, fino ad arrivare
all’impedimento della più banale conversazione telefonica.
Il disturbo può essere complicato da comportamenti secondari di
diversa qualità: da segnalare la fuga fisica, le strategie di astensione e
con molta frequenza dal ricorso ai cosiddetti starters, intesi come
suoni o parole interposte, oppure come stratagemmi poi difficili da
correggere. Gli esempi più tipici sono rappresentati da suoni come
hum, ah, cioè ecc.
Guglielmo Romiti nei suoi lunghi anni di insegnamento dell’anatomia
aveva l’abitudine di dare inizio alle frasi con lo starter «gale-gale» !
Joseph Sheean paragonava l’anomalia ad un iceberg, con la parte più
grande invisibile corrispettiva dell’insieme dell’esperienze negative
della comunicazione verbale sopportata dal paziente.
Nella statistica di Ward del 2006, riguardante la balbuzie acquisita, la
disfluenza è 5 volte più frequente nei maschi che nelle femmine.
La balbuzie è un tipico disordine evolutivo che si manifesta in bambini
di trenta mesi quando periodi d’interruzione del discorso possono
essere alternati a stati di normalità della fluenza. La balbuzie cronica
può dipendere, nel suo sviluppo, dalle reazioni dei genitori per la
comparsa di una identificazione dovuta al giudizio degli altri, con
conseguente profonda frustrazione ed imbarazzo.
Lo stato emozionale ed anche funzionale della persona può rivelarsi
seriamente collegato con l’insorgenza della disfunzione, a sua volta
causa della difficoltà di comportamento in alcune situazioni sociali
disturbate dall’ansia, dallo stress o dalla vergogna, anche se è accertato
che la balbuzie non ha alcun riflesso sull’intelligenza.
Il grado di psellismo può essere variabile e incostante anche per
balbuzienti più gravi. Il parlare in pubblico è spesso temuto perché
causa di aggravamento del sintomo.
La balbuzie psicogena può essere messa in rapporto ad una esperienza
familiare come l’interruzione di una relazione, potendo addirittura
comparire all’improvviso; ne viene ammessa un’origine genetica,
anche se i fattori congeniti possono essere relativi a situazioni
stressanti come un trasferimento familiare, la nascita di un fratello o
l’improvvisa crescita delle esigenze linguistiche.
Le cure sono per lo più basate su tecniche di condizionamento del
comportamento con fasi diverse secondo i quattro momenti suggeriti
da Van Riper. Esistono anche terapie con agenti farmacologici per lo
più basati su ansiolitici. Secondo Ward (2006) per i pazienti adulti
non esiste una cura efficace anche se può essere ottenuto un recupero
parziale.
Coincidente con il richiamo al 1977, il 150° anniversario dell’opera (Il
Fermo e Lucia è del 1821-1823; i primi Promessi Sposi sono del 1827
e l’edizione definitiva è del 1840-1842), il commento prezioso di
Giorgio De Rienzo all’edizione del 2002 per i grandi romanzi del
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Corriere della Sera, RCS Editori, Milano, si tinge di un succoso
progredire di rilievi sulla grave carenza di sensualità femminile nel
romanzo, mentre menziona Giuseppe Pontiggia, a sua volta convinto
sia stato raggiunto, nel libro di Manzoni, quell’equilibrio misterioso
enigmatico, sogno di ogni scrittore, tra il poco che si dice e l’immenso
che non si dice.
Non ci è dato di sapere se Pontiggia abbia voluto tener conto di
quelle espressioni che talvolta la balbuzie avrebbe costretto Manzoni
a tener dentro.
De Rienzo, in un settore riguardante il protagonista Tramaglino, ne
descrive il viaggio cittadino con una coloritura quasi «vocale»;
quando il promesso sposo arriva in quel giorno fuori dell’ordinario
nella guerriglia per il pane, si scatena una babilonia di discorsi e una
bufera di ciarle con un turbinio di voci e parole che si compongono
per puro pretesto di intrattenimento.
Emerge la voglia di Manzoni di analizzare la folla, per richiamare
l’attrazione della gente, con l’uso delle voci più atte ad eccitare le
passioni ed anche un grido che ripetuto dai più forti esprima, attesti e
crei nello stesso tempo il voto della pluralità. Non basta, De Rienzo
sembra far perno sull’espressione babilonia dei discorsi, quasi volesse
indicarci un’assonanza con i ba-ba ed i bi-bi della balbuzie, con una
immagine che potrebbe essere stata fatta apposta per l’accostamento
con le espressioni nell’orgia tragicomica delle nostre parole veloci e
spesso inconcludenti, quando non siano malandrine.
Come non pensare ad un Manzoni studioso della parola altrui,
considerata come eloquio fonatorio libero dai freni della sua fastidiosa
quanto opprimente disfluenza verbale?
Subito De Rienzo ci riporta a quel fastidio nella frase malignità più
funeste si possono nascondere nella babilonia dei discorsi del mondo;
e ancora con il ritorno al termine trufferia di parole, nella sequenza
quasi patognomonica, prendendo il metodo proposto da tanto tempo
d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare prima di parlare.
Potremmo a questo punto, far menzione di una intenzione ovvero di
una voglia autocommiserativa ma parlare, questa cosa così sola è
talmente più facile di tutte quell’altre, che anche noi, dico noi uomini
in generale, siamo un po’ da compatire, come presagio triste per la
parola fatta moribonda dalla corruzione.
Con le nostre fantasie puramente ipotetiche ma forse non del tutto
improbabili, poteremmo assumere le vesti di uno qualsiasi dei
partecipanti ai colloqui fiorentini sulla vita di Manzoni e chiedere la
parola al presidente Gilberto Baroni. Vorremmo avere il permesso di
metter giù qualche spunto aggiuntivo a quelli usati tanto acutamente da
Andrea Drigani per dissecare (si fa per dire) l’invenzione sullo stato
d’animo di don Abbondio all’incontro con i Bravi. A parere di Drigani
si trattava più che di un atto di violenza, di una intimidazione, intesa a
suscitare in coloro che la ricevono un senso di trepidazione e di
turbamento.
Crediamo che una «paura» del tutto simile abbia potuto influenzare
Lisandrino, già timido per natura, un piccolo bambino rinchiuso nel
collegio di Merate e frenato nelle sue manifestazioni colloquiali dagli
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incubi incogniti di una disciplina arrivata di colpo a sostituire quella
familiare o addirittura quella materna.
È molto probabile che Carlo Lapucci, nella sua satura prefazione,
abbia inteso accogliere queste circostanze negative come causa di
disturbi del linguaggio, puntando sulla remissività degli umili che
subiscono ogni torto.
L’atteggiamento che Dolfi definisce abbondioniano, di cedimento di
fronte al sopruso del più forte che troverebbe forse sinonimo del
nonnismo o ancor di più, dello stalking, può accompagnarsi, nei
piccoli, ad una repulsione interna come causa di reazione per
l’insorgenza della balbuzie quando al germinare del periodo
adolescenziale, il pensiero, come scrivevano Pichon e Tarneaud,
diventa linguo-speculativo e l’individuo deve prepararsi alla funzione
ordinatrice del linguaggio e soprattutto a quelle realizzatrice e
appetitiva.
Manzoni, più tardi, continuamente messo alla prova durante le
chiacchierate serali con Visconti, Berchet, Torti, De Cristoforis, a
commentare l’opera del Parini con il Grossi ed il Porta, sembrava aver
esaltato quel vizio di pronuncia che Tommaseo aveva definito un
modo tutto suo di riflettere sulla parola prima di dirla.
Come Winston Churchill, appunto, e come Indro Montanelli.
Armando Torno sul Corriere della Sera del 21/03/2011 ha riportato
alcuni giudizi su Manzoni ricavandoli dai Ricordi di Giovanni
Visconti-Venosta: …i suoi pregi, come memoria e giovialità, si
uniscono alla inguaribile timidezza…;…se discorreva con persone che
non gli fossero familiari, alle volte leggermente balbettava; …non
poteva andar solo, a cagione di una malattia nervosa che soffriva da
moltissimi anni e che, se non era accompagnato, gli dava la
sensazione che gli mancasse il terreno sotto i piedi.
Nel suo saggio, Titta-Rosa ne parla decisamente quando cita una
lettera del 6 dicembre 1825, di Berchet all’Arconati, sulle pause prefonatorie di Manzoni, pronto a distrarre gli invitati aprendo la
tabacchiera ed offrendo una presa a sua madre donna Giulia.
Se vogliamo porre mente alla recente ricerca di Drigani sulla
religiosità dei Promessi Sposi, non dobbiamo stupirci se Titta-Rosa
aveva affermato che Manzoni è difficile da capire ed è facile
fraintenderlo. Era stato un errore farlo leggere nelle scuole. Manzoni
era come un lago, liscio in superficie ma pieno di gorghi: la sua
tragica ed angosciata intuizione del male e, per contraccolpo, la sua
quasi disperata sete del bene.
Il 7 di marzo del 2011 Manzoni avrebbe compiuto 226 anni e ancora
oggi restiamo ammirati per l’inquadramento dei caratteri delle persone
da confrontare più spesso di quanto si possa pensare con le personali
vicissitudini, tanto efficacemente sottolineate da Mario Pomilio.
I più grandi critici, dopo tanti decenni, non hanno smesso di
esaminare, uno per uno, quelli che lui ci ha presentati come un
fantomatico psicoterapeuta abile a porli davanti a noi come le note di
un pentagramma, con una melodia che non sembra voler nulla di
meglio che farsi ascoltare, con le stesse cadenze di accordi che
Tarneaud ha preso da Chateaubriand.
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Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose, potrebbe essere un
primo esempio di una serie di battimenti sillabici messi in bocca a don
Abbondio; lo stesso potrebbe dirsi di quell’endecasillabo perché m’è
stata spogliata la casa, come segnale ritmico musicale, proprio
dell’accento motorio che si impone alla prosa come gli esametri
alessandrini.
Sembra piacesse molto a Manzoni la scrittura fonetica, con frasi
composte di unità ritmiche, come in purtroppo e per questo son qui.
La Nazione del 6 marzo 1868, con il titolo Dell’unità della lingua e
dei mezzi per diffonderla, aveva pubblicato per intero una relazione a
Emilio Broglio, Ministro della Pubblica Istruzione firmata, oltre che da
Ruggero Bonghi e Giulio Carcano, anche dal venerato scrittore
Alessandro Manzoni (Maurizio Naldini, La Nazione 150 anni, 18592009, Casse di Risparmio, Firenze, Poligrafici, 2008).
Da giovane Manzoni aveva auspicato che una volta fatta l’Italia, si
potesse imparare un linguaggio per metà francese e per metà milanese,
poi era passato a proporre una lingua che unisse il fiorentino e il
milanese; dopo l’arrivo a Firenze del 1827, aveva deciso per l’uso del
solo fiorentino, e poi, nel 1868, non aveva esitato ad indagare sul
toscano e sulle sue speciali locuzioni.
Nulla vieta di pensare che Manzoni non sia stato per nulla danneggiato
dalla sua balbuzie ed anzi che essa sia stato incentivo per scoprire
molte se non tutte delle linee stilistiche dei suoi scritti filosofici, per le
sue ispirazioni poetiche e per le sue invenzioni drammatiche.
Manzoni in effetti aveva come primo scopo quello di scrivere, non
quello di parlare e, in ogni modo, come conseguenza diretta dell’alto
numero di componenti della sua famiglia, si sentiva consolato dalla
quiete calda e rispettosa delle persone vicine, pronte alle sue risposte
che sentivano correre su binari fonologici, ritenuti normali.
Don Lisander non era uomo di facili effusioni e possiamo ritenere che
non abbia mai manifestato per iscritto la natura della sua menomazione
fonetica, né abbia mai tentato una qualunque terapia.
Forse qualche influenza ereditaria predisponente alla balbuzie poteva
essere cercata nel ricordo dell’alternarsi di allegria ed ipocondria del
nonno Cesare Beccaria e potrebbe apparire nelle tendenze ereditate
dalla mamma Giulia, descritta di vivacità instabile.
La Giulia, indicata come la folle della famiglia, era andata sposa a
Pietro più vecchio di lei di 26 anni. La separazione tra i due genitori
era avvenuta proprio all’epoca del primo trasferimento in collegio del
figlioletto.
Non so se certi particolari siano stati raccolti nel 1874 da Antonio
Stoppani nelle pagine del suo I primi anni di Alessandro Manzoni.
Spigolature.
Il primo manrovescio di un maestro era arrivato potente e subitaneo
sul volto di quel bambino perché aveva pianto, quando la mamma lo
aveva lasciato in quell’istituto, e poco dopo era arrivato uno schiaffone
e poi di seguito rinnovate busse, e la bacchetta, proprio nell’età quando
le impressioni dirette restano indelebili.
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