TUC – TUC ………….. E COSì Sia

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TUC – TUC ………….. E COSì Sia
VIETNAM E CAMBOGIA
Gruppo Deanna Micheloni 06.08.2010 - 29.08.2010
TUC – TUC ………….. E COSì Sia !!!
Non so se a causa di un inverno lungo, freddo e piovoso, o se per un improvviso senso di colpa se
quest’anno decidiamo di voler sudare ma, soprattutto, di voler capire: destinazione Sud Est
Asiatico, in Cambogia e Vietnam. Ci aspetta infatti un clima tropicale, non proprio monsonico, ma
umido, molto umido e ci aspetta anche la storia tremenda di due paesi che, limitandoci alla sola
storia contemporanea, sino a poco più di trent’anni fa, sono stati costretti a convivere con
mitragliatrici, mine e quell’orribile rumore dei B52 americani che preannunciava una tempesta di
bombe portatrici di morte e distruzione. Poi, come se non bastassero le violenze della guerra
causate dalla testardaggine degli Americani, ci si sono messi anche i governi locali che,
approfittando del vuoto di potere venutosi a creare dopo il cessate il fuoco, hanno imposto il loro
totalitarismo praticando le più orribili stragi di innocenti dopo il periodo nazista. Noi tutte queste
cose vorremo cercare di capirle meglio, osservando con attenzione questi due popoli che,
faticosamente, stanno cercando di risollevarsi, leccandosi ancora le ferite. Allora tutti a Fiumicino,
armati di grandi speranze e prontissimi per un’altra avventura. Tornando a considerazioni meteo,
forse caldo e pioggia non ci abbandoneranno; certamente non ci abbandonerà Deanna, la nostra
“tour leader”, anzi, con il suo sorriso solare e il suo piglio deciso, saprà certamente portare
comunque il sereno. A farle compagnia siamo in 14: Lorenzo e Carla, Fabrizio e Elena, Marco e
Lorella e poi Sonia Carla, Tommaso, Valter, Mauro, Alberto, Emanuele e Matteo, il cassiere.
L’Egypt Air ci porta, con un po’ di ritardo, al Cairo e poi a Bangkok, questa volta in perfetto orario.
Qui ci sono due comodissimi pulmini ad aspettarci che ci accompagneranno, via terra, al confine
con la Cambogia dove, come nel set di un film di Almodovar, ci troviamo immersi in un ambiente
per niente ostile, ma a dir poco colorito. Un ragazzo piccolo, magro, con gli occhi da furetto, ci
organizza il passaggio della frontiera presentandoci le stesse difficoltà che si incontrerebbero nello
scalare l’Everest: il tutto per cercare di raggranellare qualche dollaro per lui e per la sua
combriccola di amici compiacenti. Noi non ci perdiamo d’animo, anzi, iniziamo subito ad intavolare
una trattativa che porterà i suoi frutti. Comunque tutto intorno il clima è divertente; un via vai
continuo di gente che si muove con disordinata frenesia, tutti comparse dello stesso film. I
motorini, come api impazzite sul miele, la fanno da padrone e sfrecciano irrispettosi ai lati di grandi
carri pieni zeppi di ogni genere di cose, persone comprese, trainati da ragazzi all’apparenza esili,
ma dotati evidentemente di grande forza, soprattutto di volontà. Nell’attesa che al bar, si proprio al
tavolo di un bar, lo zelante funzionario cambogiano visti i nostri passaporti, abbiamo ancora il
tempo di gironzolare in un mercato coperto dove, almeno per noi, l’attrazione principale, sono i
grandi cesti di cavallette fritte. Fotografiamo ma non assaggiamo, l’unico coraggioso è Fabrizio
che, maremma diavola, gli garbano come fossero gamberetti. Ridendo e scherzando si sono fatte
quasi le 19,00; lo zelante funzionario ha terminato il suo lavoro e il furetto, soddisfatto, ci lascia alla
frontiera dove siamo sopraffatti da timbri e foto segnaletiche: prima per uscire dalla Thailandia, poi
per entrare in Cambogia, poi, perché non si sa mai, ancora un timbro e un controllo volante.
Arriviamo al pulmino dove l’efficiente furetto aveva già fatto caricare i nostri bagagli di cui avevamo
perso il controllo al nostro arrivo e, dopo due ore e mezzo, siamo a SIEM REAP, Hotel Freedom,
con accoglienza calorosa ma, soprattutto, ottima cena con gamberi spettacolari. Piuttosto provati
andiamo a nanna con Angkor nella testa, domani l’appuntamento è di quelli da non perdere.
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08.08.2010 La giornata è buona e Mister Hac, non solo proprietario dell’Hotel, ma anche autentico
boss locale, ce la organizza a nostro piacimento senza nessun problema anzi, viste le lamentele di
Deanna per le manovre di finanza creativa del suo amico furetto per il passaggio della frontiera e il
costo del visto incrementato di 10 $ a testa, ci riconosce un rimborso di 5 $ a persona. Visto il giro
d’affari che gli garantisce Avventure, questa è sicuramente una manovra di economia reale.
Partiamo accessoriati di guida e pulmino alla volta di ANGKOR che, a questo punto, non è più solo
nelle nostre teste, ma anche nelle nostre gambe e nei nostri occhi. Altra foto segnaletica e
immediato pass personalizzato valido tre giorni da tenere sempre a portata di mano e ci troviamo
in una giungla forse non più molto misteriosa, ma certamente molto affascinante. Angkor è una
delle 7 meraviglie del mondo, orgoglio nazionale per tutti i Khmer, che sono poi l’etnia che
comprende il 90% della popolazione cambogiana, e meta imperdibile per il vero viaggiatore. E noi,
che con un po’ di presunzione, ci consideriamo tali, vogliamo verificare sul campo quanto siano
veramente meritate tutte queste lodi. Il sito è davvero enorme e, come nel migliore dei ristoranti,
presenta nel menù più di 200 piatti. Non potendo rinunciare all’antipasto, iniziamo da due templi
minori, che comunque soddisfano il nostro palato: il PRASAT KRAVAN e il BANTEAY KDEI. Il
secondo più bello del primo, con la grande faccia scolpita sulla porta d’ingresso e, proprio di fronte
al tempio principale, con i severi NAGA, serpenti con più teste, simili ad un drago, ad accoglierci.
Entrambi rispettano comunque l’antica architettura Khmer del tempio-montagna, cioè con la torre
principale con la cima arrotondata più alta rispetto al resto della struttura. Lin, la guida, è gentile e
simpatico e sa farsi ascoltare. Dopo le prime schermaglie con un inglese imbastardito, inizia la
guerra dei numeri; Lin vomita date, non perché non le ha digerite, ma perché sono davvero tante;
Deanna tenta la traduzione simultanea, Alberto e Mauro la correggono, sembra non ne indovini
una e Lin, ormai sbragato sul sedile, ride come un forsennato. Quasi sviene quando si parla di
prima e dopo Cristo. Lin, dove hai lasciato Stanlio? Tra una risata e l’altra arriviamo al TA PROHM,
uno dei miti di Angkor, uno che se non gli scatti almeno 30 foto si gira dall’altra parte e ti toglie il
saluto. Nessuno di noi corre questo pericolo, resteremo sicuramente amiconi per sempre. Mentre
in alto le nuvole e il sole si bisticciano l’azzurro del cielo, davanti ai nostri occhi l’uomo e la natura
si bisticciano la foresta e, come spesso accade in questi casi, è la natura che vince. Il tempio
assomiglia più ad un villaggio, fatto di torri, cinta muraria e piccoli vicoli e tutto è stretto in un
macabro abbraccio. Le radici degli enormi alberi che sovrastano il tempio si sono insinuate nei
tetti, tra porte e finestre come terribili serpenti che nei cunicoli della terra stritolano la loro preda.
Affascinante, misterioso, meraviglioso? Scegliete voi l’aggettivo più appropriato, credo possano
andare bene anche tutti e tre insieme. Breve sosta a base di noodles da un amico di Lin in
compagnia delle scimmie e torniamo sul campo di battaglia; ANGKOR WAT, il più grande, il più
spettacolare, il più maestoso, il tempio dei templi, millenario esempio di devozione agli dei.
L’impatto che si ha quando si percorre il viale che supera il fossato e ci introduce nel tempio è di
quelli da restare senza fiato e, una volta dentro, ti giri intorno quasi spaesato e ti sembra di fare un
viaggio a ritroso nel tempo. I meravigliosi bassorilievi e le fini decorazioni che fanno di questo
tempio un luogo unico, sembrano prendere vita sotto i nostri occhi: il NAGA a sette teste striscia
tra le nostre gambe, accende i suoi occhi gialli e agita insieme tutte le sue lingue biforcute in uno
spettacolo di nuoto sincronizzato mentre le APSARA, le ninfee celesti, ci guardano con occhi dolci
e, con movimenti sinuosi del corpo, ti invitano a restare. La parte centrale del complesso, con la
torre principale, è imponente, come è imponente la parte esterna che la circonda con un corridoio
di straordinari bassorilievi lungo 800 metri. Qui si rivivono tutte le emozioni di un poema epico:
eserciti che si affrontano in battaglia, parate militari, scontri tra dei, “DEVA”, e inferi, “ASURA”,
nell’eterna lotta tra il bene e il male. Difesi da una schiera di elefanti, vediamo i morti lasciati sul
campo di battaglia in un mare di sangue, mentre gli stendardi dei vincitori sventolano come
aquiloni alti e beffardi; braccia e gambe si agitano accompagnate da urla strazianti e lo sbattere
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delle armi si fa sempre più assordante. Ci giriamo di scatto e Lin, con una risata delle sue, ci
riporta sulla terra. Bellissimo! Ci avviciniamo ora alla città fortificata di ANGKOR THOM, fatta
costruire dal più grande re di Angkor, dal nome impronunciabile, JAYAVARMAN settimo. Qui lo
spettacolo inizia già all’esterno; scendiamo dal pulmino e a piedi percorriamo la strada che
conduce alla porta meridionale, alta 20 metri, decorata da proboscidi d’elefante e sovrastata da un
enorme viso che, severo e minaccioso, sembra voler controllare il turista. Ai lati della strada due
lunghe file di teste ci seguono passo passo con gli occhi sgranati dispensando, a destra un
rimprovero e a sinistro un sorriso. Ogni riferimento alla nostra situazione politica è puramente
casuale! Risaliamo in pulmino e arriviamo dritto al cuore di Angkor Thom, il BAYON. Da fuori ti
colpiscono le 54 torri che, come tante mani rivolte verso il cielo, formano il tempio; poi, man mano
che ti avvicini, in un’atmosfera carica di magia, ti senti come osservato. Saliamo le ripide scale e il
peso di occhi sconosciuti, che non vedi ma che riesci solo a percepire, ti schiacciano a terra; il
sudore ti brucia negli occhi e solo quando sei in cima e ti asciughi il viso, incroci gli occhi delle 216
facce che ti circondano. Dovunque ti giri c’è sempre qualcuno che ti guarda e non è difficile
scoprire in questi sguardi uno spirito di complicità. Occhi grandi, labbra carnose, profili perfetti: qui i
maestri scultori Khmer hanno dato il meglio di se. Il sole intanto ha vinto la sua personale battaglia
con le nuvole e riserva i suoi ultimi raggi alle guance di queste meravigliose figure che si tingono di
rosa e d’arancio; tutto si anima, come in una grande festa di compleanno. A questo punto ho
esaurito gli aggettivi sia superlativi che assoluti ma, all’unanimità, votiamo il Bayon come il tempio
più bello che abbiamo visto, degna chiusura di una giornata memorabile. Per fortuna è, per ora,
solo un arrivederci: torneremo ancora ad Angkor nei prossimi giorni.
09.08.2010 Sveglia di buon ora e mattina dedicata alla visita dei villaggi galleggianti sul lago
TONLE’ SAP. Lin la spara subito grossa: il lago Tonlè Sap è il più grande dell’Asia. Buuuuuu!!! Gli
spalti mormorano e lui si fa una delle sue grasse risate. Arriviamo ad un compromesso
concedendogli che, in realtà, è il lago più grande del Sud Est Asiatico. Prima del lago, però, subito
una sosta; una delle attrazioni all’interno della zona dei templi è l’Angkor Baloon, un’enorme
mongolfiera che si alza per 200 metri sopra la giungla come l’occhio di un ciclope. Niente mare
all’orizzonte, ma una magnifica distesa di risaie dai mille colori e, sullo sfondo, l’ombra scura di
Angkor Wat, ancora addormentato, coccolato dai suoni della foresta che tutto intorno lo protegge.
Un po’ da Giapponesi, ma alla fine lo spettacolo è stato abbastanza bello. La strada che da Siem
Reap porta verso il lago è molto bella, uno sterrato che taglia a metà distese di risaie. Almeno per
ora il sole ci da una mano e il verde lussureggiante delle piantine di riso si illumina con il contrasto
che i raggi del sole sprigionano quando incontrano l’acqua che ha allagato i campi. Lin ci dice che
il raccolto viene fatto una sola volta l’anno; questo spiega l’alternanza di colori tra un quadrato e
l’altro del campo, come in una grande e calda coperta patchwork. Nel verde intenso lavorano le
donne, chine a raccogliere il riso, nel marrone scuro gli uomini, che spingono i buoi per preparare il
terreno per la semina successiva. Ci fermiamo per fotografarli e, nonostante la fatica, ci salutano
come si fa tra vecchi amici. Penso non finiranno mai di stupirci questi cambogiani: sempre gentili,
sorridenti, quasi spensierati, nonostante la miseria, le costrizioni e il pesante macigno della loro
storia recente. Arriviamo all’imbarcadero che, in realtà, non è che un pontiletto di legno mezzo
sgangherato con ormeggiate tre o quattro barche lunghe e strette; una è la nostra. Il capitano è un
omino piccolo e sgraziato, il marinaio è un bambino di circa 10 anni; speriamo bene ma, si sa, a
volte l’apparenza inganna. Il canale che porta al lago sarà profondo poco più di un metro e pieno di
vegetazione; iniziano a vedersi anche le prime case galleggianti e il lago, piano piano, prende vita.
Improvvisamente l’acqua è come sparita, le piante l’hanno completamente inghiottita; il motore
della barca sbuffa come una vecchia teiera, singhiozza e si ferma. Capitano e mozzo, per niente
preoccupati, con destrezza e maestria, liberano l’elica dalle foglie, con un bastone ridanno
ossigeno alla barca, il motore riprende fiato e in men che non si dica navighiamo sicuri nel centro
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del Tonlè Sap. La giornata è bella, l’acqua è piatta come l’olio e decine di libellule ci scortano come
caccia in asseto da guerra intorno al Air Force One. Impieghiamo circa 2 ore prima di imboccare
un canale secondario che ci porta nella foresta alluvionale di KOMPONG PHHLUK. Scendiamo tra
un gruppo di bambini che formano una specie di comitato d’ accoglienza; belli, simpatici,
l’immagine esatta che ci siamo fatti di questo popolo. Alcuni corrono via, come a voler annunciare
il nostro imminente arrivo. Usciamo dagli alberi e ci ritroviamo nella preistoria: Kompong Phhluk è
un villaggio costruito su palafitte alte sei, sette metri e queste lunghe canne di bambù fanno
assomigliare le case a grandi scheletri di dinosauri. Ora, come allora, è lo spirito di sopravvivenza
che fa aguzzare l’ingegno; qui, infatti, ogni anno, le acque del lago salgono a causa della piena del
Mekong e inondano tutta la foresta. La vita continua quindi nell’acqua, quell’acqua che da la vita.
Bellissimo ed emozionante. Non credevo esistessero ancora posti del genere, dove tutto ai nostri
occhi sembra impossibile. Invece la vita scorre serena, nonostante l’unica vera comodità sembra
essere l’amaca. Tutti ci guardano con interesse e tutti ci salutano anche solo con un gesto della
mano. Può sembrare strano, ma tra i tanti sentimenti che ci girano per la testa osservando queste
case e le persone che le abitano, forse c’è anche un po’ d’invidia. C’è invidia nel vedere gentilezza,
solidarietà e compostezza, quei sentimenti che non è sempre facile trovare nelle nostre comunità.
Il comitato d’accoglienza ci riaccompagna alla barca; scattiamo ancora qualche foto a questi
meravigliosi bambini e ce ne andiamo, forse, con qualche nuovo insegnamento. Navighiamo veloci
verso il villaggio galleggiante di CHONG KNEAS dove è incredibile vedere come tutte le attività
quotidiane vengano svolte con naturalezza in un ambiente estraneo anche alla più fervida
immaginazione; nelle case, o meglio nelle barche trasformate in case, si cucina, si chiacchiera
intorno ad un tavolo, i cani abbaiano alle barche come da noi fanno al passaggio di biciclette e
motorini, le donne lavano piatti e pentole nel lago, nello stesso lago dove i bambini si lavano senza
pudore, e poi c’è il fabbro, il meccanico, il carpentiere. Addirittura marito e moglie spostano la loro
casa a remi tra le barche forse per andare a cercare un posto più tranquillo dove trascorrere la loro
luna di miele. Peccato il classico temporale estivo ci fa anticipare un po’ il rientro, senza farci
godere sino in fondo lo spettacolo, ma eravamo già ai titoli di coda. Torniamo verso Siem Reap e
facciamo una puntatina ai templi del complesso di ROLUOS. Il PREAH KO, il BAKONG e il LOLEI
sono i più antichi templi costruiti dai Khmer e, indubbiamente, dimostrano tutta la loro età. Il più
interessante è il PREAH KO, con l’imponente torre centrale e con gli stipiti delle porte d’ingresso
decorati con intrigate iscrizioni in SANSCRITO, l’antica lingua Hindu. Forse appagati dalla bella
gita sul lago, forse per un po’ di stanchezza o per la leggera pioggerellina che, a tratti, ci rinfresca il
viso, non riusciamo ad apprezzare sino in fondo questo sito, attratti di più da una doccia tiepida e
dall’idea di ritrovarci seduti comodamente a cena. Detto fatto, alle 20,00 siamo tutti davanti
all’albergo a contrattare, tra un risata e una pacca sulle spalle, il trasporto nella zona del mercato
con i TUC TUC, motorini trasandati che trainano un carrettino dove si possono accomodare sino a
quattro persone. Strappiamo il prezzo migliore, 10 $ andata e ritorno per quattro TUC TUC e
partiamo. Nel traffico caotico vanno che è una meraviglia; senza regole, senza paura, sono i veri
padroni della strada. Poco importa se il faro non funziona o se i freni sono un po’ così così,
l’importante è il clacson: tuc-tuc, tuc-tuc e via contro mano e lo sciame di api operaie si allarga per
far passare l’ape regina; tuc-tuc, tuc-tuc e il semaforo gli fa l’occhiolino nascondendo il rosso dal
suo volto; tuc-tuc, tuc-tuc e le strisce pedonali si alzano come zebre imbizzarrite in una parata
militare. Tuc-tuc, tuc-tuc è un po’ l’immagine della Cambogia, è il ritmo che regola i battiti del cuore
nel gioco strano della vita. Bello e divertente. Mangiamo bene in un mercato allestito tipo festa
dell’unità, giretto notturno tra le bancarelle e tuc-tuc, tuc-tuc, tutti a letto prima della mezzanotte per
non correre il rischio che il TUC TUC si trasformi in un taxi bianco e giallo con aria condizionata!!!
10.08.2010 Pass alla mano ed entriamo ad Angkor per l’ultima volta; superiamo il percorso
tradizionale per andare a visitare un sito 30 km più a Nord. Il nostro amico Lin rientra in un giro di
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date, dinastie e nomi di Re in un vortice di numeri, battute e risate da cabaret. Arriviamo così al
primo tempio, il BANTEAY SREI, uno dei pochi templi la cui costruzione non è stata ordinata da un
re, bensì da un BRAHMINO, antico sacerdote dalla forza magica, e dedicato alle donne. E, proprio
come le donne, è una vera scoperta, positiva fortunatamente ! Il tempio non impressiona per le
dimensioni, ma per la raffinatezza; straordinarie decorazioni con sfumature di rosa e di giallo
rappresentanti figure femminili con vestiti degni del miglior Valentino circondate da fiori di loto o
magnifiche rappresentazioni di episodi del poema epico Ramayana. Un vero gioiello incastonato
nella foresta. Visitiamo poi il MEBON, un bel tempio-montagna caratterizzato dalla presenza, ai
quattro lati del basamento, di altrettanti elefanti, poderosi guardiani di tutta l’area sottostante. Ora
tocca al PRE RUP, anche lui un tempio-montagna ma, a differenza degli altri due, di dimensioni
davvero imponenti. La scalata per arrivare alla torre principale è davvero impegnativa, ma la fatica
è ripagata dalla bellezza del tempio, dal grande colpo d’occhio e dalla brezza leggera che, effetto
ventilatore, ci da una mano a sopportare il caldo che, oggi, è piuttosto pesante. Torniamo indietro
verso il sito di Angkor Thom e ci fermiamo alla TERRAZZA DEGLI ELEFANTI, un grande
palcoscenico lungo 350 metri dove si esibiscono guerrieri, cavalli, garude, figure mitologiche
mezzo uomo e mezzo uccello che la leggenda descrive talmente grandi da oscurare il sole e
soprattutto loro, gli elefanti, in una parata meravigliosa, per perfezione e maestosità. Con questo
spettacolo, a metà tra il circense e il fantastico, il nostro giro ad Angkor è davvero finito; l’amico Lin
ci riaccompagna a Siem Reap da dove, con un pulman di linea, raggiungeremo PHNOM PENH.
Prima di salire sul pulman, piuttosto comodo nonostante la solita aria condizionata assassina,
pane e salsiccia per tutti. Certo noi in questo campo siamo davvero abituati male, ma questa
salsiccia, come direbbero in toscana, fa veramente “cacare”!!! Comunque, per il famoso detto “quel
che non ammazza, ingrassa”, ce la mangiamo lo stesso; se non altro la pancia piena concilia il
sonno. Il viaggio è buono e, nonostante due soste tra topi volanti vivi e ragni grossi come vedove
nere fritti, arriviamo nella capitale in perfetto orario alle 19,30. Nel caos di folla che ci accerchia alla
discesa, spiccano le braccia alzate di un omino con il cartello Deanna Micheloni, un nome una
garanzia. Il nostro salvatore ci toglie dalla ressa e ci accompagna a piedi al vicinissimo albergo. Il
tempo necessario per una sosta tecnica al bagno e siamo di nuovo in strada per raggiungere la
zona dei ristoranti lungo il Mekong, non prima però di una trattativa tanto estenuante quanto
divertente, indovinate con chi? I Tuc Tuc, per organizzare la giornata di domani. Qualche parola in
inglese, molti gesti, un minestrone di italiano e cambogiano, risate a non finire per arrivare ad un
accordo, come al solito, gratificante per tutti. Puntuali, domani, ci aspetteranno alle 7.30.
11.08.2010 E noi, puntuali, alle 7.30 siamo tutti sul Tuc Tuc. Qui il traffico è davvero infernale; il
solito sciame impazzito di motorini e le solite regole, cioè nessuna! Ma il Tuc Tuc è davvero tosto;
non molla un metro e comanda la circolazione, in più ci sa mettere di buon umore, ed oggi ne
abbiamo davvero bisogno, visto che la mattina è dedicata a cercare di capire gli errori e gli orrori di
POL POT e dei suoi Khmer Rossi. Phnom Penh, considerata una volta “la perla dell’Asia”, sta
vivendo in questi anni una seconda giovinezza. Soffocata dalle guerre e dalle rivoluzioni, basti
pensare che da 500.000 abitanti passò drasticamente a 50.000 nei tre anni di dominazione Khmer
(1975 – 1978), la città sta cercando di rialzare la testa, come un pugile che, andato al tappeto più
volte durante il combattimento, è stato dato per sconfitto troppo presto. L’intera Cambogia e la sua
capitale meritano sicuramente la vittoria e, nell’incontro ancora in corso, si aspetta solo il colpo del
KO, un pugno definitivo a paure, tradimenti e oppressioni che tanto male hanno fatto a questo
paese. Ma cosa è successo in quei tre anni maledetti in questo tormentato paese? Purtroppo tutto
quello che un uomo non potrebbe nemmeno immaginare e che noi vogliamo provare a capire
visitando quei posti che oggi, senza vergogna, documentano gli orrori provocati dalla pazzia di un
uomo e dei suoi quattro scagnozzi. Iniziamo dal CHOEUNG EK, il campo di concentramento
situato 15 km fuori città in cui i Khmer Rossi portavano i prigionieri dopo le torture. La gioia e la
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spensieratezza che ci hanno trasmesso i Tuc Tuc svaniscono quasi subito, cioè quando, all’entrata
di quello che ora sembra un angolo tranquillo di paradiso immerso nel verde, ci fermiamo davanti
al monumento eretto in memoria di quelle persone che qui hanno lasciato la loro vita: più di 8.000
teschi, ordinati e classificati per sesso ed età, pesano sulle nostre coscienze come 8.000 macigni.
Molti di questi crani sono sfondati; sono le firme di quei luridi assassini che, per risparmiare
pallottole senza nemmeno farsi sfiorare dall’idea di risparmiare vite umane, uccidevano le loro
vittime a bastonate. Dietro al monumento le fosse comuni: il verde dell’erba ha ricoperto un po’
quegli orrori, ma in quei prati non crescono fiori, sbucano invece qua e la lembi di stoffa o pezzi di
ossa che appartenevano a quelle persone che, mai dimenticate, speriamo non siano morte invano.
Vicino ad un grosso albero c’è una fossa dove sono stati ritrovati i corpi di centinaia di bambini.
Quell’albero che non può parlare, che non può piangere, che non può urlare, quell’albero complice
involontario di una violenza assurda, inumana, vile; quella di un uomo che, non si sa con quale
coraggio, prendeva un bambino per i piedi e lo sbatteva con la testa contro al tronco sino a farlo
morire, per poi gettarlo come un giocattolo rotto che non si usa più. All’uscita un video ripercorre
quegli inspiegabili tre anni di storia e invoca quelle 17.000 vittime sepolte a Choeung Ek insieme al
ricordo di un paese che fu. Neanche il Tuc Tuc questa volta sa ridarci immediatamente serenità;
solo il rumore dei clacson ci risveglia dai nostri pensieri, pensieri che il vento tiepido della mattina
ormai inoltrata riesce a portare via con se. Cosa può esserci di peggio della morte? La risposta
sembra scontata: niente. Tutto quello che facciamo è votato alla vita e anche di fronte ad una
malattia la morte è sempre l’ultimo dei pensieri, è quella cosa che capisci di non essere mai
preparato ad affrontare. Entrando nel Museo TUOL SCENG, conosciuto tragicamente come S-21,
ex scuola superiore requisita dai Khmer per trasformarla in centro di detenzione e tortura,
purtroppo ci si rende subito conto come la morte, a volte, è vista come una liberazione, un
desiderio quasi morboso a cui non si vuole resistere. L’ordinarietà di questo edificio contrasta con
le brutalità esposte; nel Padiglione A, quello dove venivano rinchiusi e torturati i prigionieri ritenuti
più pericolosi per il regime, le 20 celle che lo compongono sono altrettanti pugni nello stomaco. In
ogni stanza, arredata con il solo letto di ferro al centro, con sopra la cassettina usata per
raccogliere i bisogni corporali e gli strumenti usati per le torture, è appesa la foto della persona
seviziata: corpi con il viso tumefatto e disarticolati, come un cappotto gettato con noncuranza sul
divano, vivi nel fisico ma già morti nello spirito, corpi a cui è stata strappata l’anima, abbandonati
all’umiliazione prima e alla sofferenza poi. Continuiamo il giro negli altri padiglioni dove sono
esposte centinaia di foto di persone transitate da questo luogo, strappate alle loro famiglie e poi
scomparse per sempre. Nei loro occhi si leggono la paura e la rassegnazione, occhi che non
mostrano nessuna speranza, se non quella di una morte rapida e indolore. Come è possibile
ridurre uomini, donne e bambini in queste condizioni? Da dove può nascere un odio tanto grande?
Oggi fa addirittura sorridere sapere che il “compagno Duck”, braccio destro di Pol Poth e uno dei
principali attori di questa carneficina di innocenti, ormai ottantenne, viene condannato a 35 anni di
carcere per crimini di guerra; purtroppo è un sorriso amaro, che non lascia dubbi alla sua
interpretazione: non c’è e non potrà mai esserci perdono per persone come il “compagno Duck”.
Abbiamo vissuto davvero un’esperienza unica, da raccontare per non dimenticare. Usciamo dalla
S-21 e, ad occhi chiusi, ci riempiamo i polmoni di aria pulita, il nodo in gola si scioglie lentamente e
il cuore rallenta; risaliamo sugli inseparabili Tuc Tuc e andiamo ad immergerci nel caos di suoni e
colori del PSAR TUOL TOM PONG, meglio conosciuto come il MERCATO RUSSO. Qui la
confusione regna sovrana; negli stretti corridoi tra una fila di bancarelle e l’altra ti senti chiamare,
toccare, prendere per mano, tutto sempre nell’estrema gentilezza che contraddistingue il
cambogiano. Allora ti fermi, guardi e contratti, contratti sino allo sfinimento. A volte l’affare va in
porto, a volte no, ma rimaniamo comunque tutti soddisfatti nel divertente gioco delle parti. L’odore
intenso dell’aglio e del fritto ci portano dritti al reparto alimentare. Anche qui, senza nessuna
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regola, mangiamo quello che ci capita a tiro, senza far caso a come viene preparato; una signora
ci offre ottimi involtini primavera, poi assaggiamo un frutto viola più bello che buono, poi ci sediamo
proprio davanti ad una ragazza che prepara noodles con carne e verdure veramente speciali, poi
ancora frutta, dalle forme strane, variopinta, sistemata nelle ceste a regola d’arte: scansiamo
immediatamente il “frutto puzzone” che ci ha fregato una volta e non ci frega più, ed assaggiamo
quasi tutto il resto. Bello e buono. Un tuffo nella vita di tutti i giorni che ha saputo ridarci il sorriso. E
i Tuc Tuc? Se siamo noi a perdere loro, certo loro non perdono noi; sorridenti e caciaroni ci
portano davanti al PALAZZO REALE e qui li salutiamo ringraziandoli per la compagnia. Entriamo
in un luogo incantato, sembra di sfogliare un libro delle favole, tra vialetti fiancheggiati da statue
che sembrano volerti indicare la direzione, giardini rigogliosi con piante a cespuglio dalle forme
bizzarre, spruzzi d’acqua che rimbalzano da un angolo all’altro delle siepi e, imponente, il palazzo.
Ancora residenza del Re SIHAMONI, non è visitabile interamente, ma colpiscono la Sala del
Trono, con una scalinata degna di Cenerentola e, soprattutto, la Pagoda d’Argento, chiamata così
per la presenza di una parte di pavimento ricoperto da ben 5.000 piastrelle d’argento del peso di 1
kg ciascuna. La Pagoda è un vero scrigno ricco di pietre preziose, reali testimonianza della
ricchezza della civiltà Khmer: un buddha di smeraldo, un buddha d’oro e d’argento decorato con
più di 9.000 diamanti, maschere impreziosite da gioielli ed ancora altri buddha, di diverse
dimensioni, ma tutti ugualmente preziosi. Anche questo molto bello. Passeggiamo un po’ lungo il
Mekong, prendiamo un aperitivo da Friends, un locale aperto con il fine di devolvere parte degli
incassi per sovvenzionare programmi umanitari e consentire ai giovani che ci lavorano di imparare
un mestiere e raggiungiamo l’albergo per una doccia veloce; ma siamo nervosi. Ci guardiamo negli
occhi, siamo tutti in astinenza da Tuc Tuc. Non importa dove andiamo a mangiare, l’importante è
salire ancora su quei trabiccoli scaccia pensieri. TUC TUC ……… e così sia !!!
12.08.2010 Oggi lasciamo la Cambodia, come la chiamano qui, con il cuore già bello pieno di
ricordi ed emozioni; a costo di essere ripetitivi, ma quello che più ci ha colpito è la gentilezza,
l’educazione, la serenità di questo popolo che, ripartito a camminare da solo da poco più di 30
anni, di strada ne ha già fatta molta, ma molta gliene resta da fare. Una cosa però ci solleva: la
direzione è sicuramente quella giusta. Raggiungeremo il Vietnam navigando il Mekong e il viaggio
è una piccola avventura. Viene a prenderci davanti all’albergo un pulmino che ha solo 14 posti, noi
siamo 15, ma, in compenso, non ha bagagliaio. Qui ci vuole il mago Hudinì per sistemarci tutti.
Invece, increduli, il giovane autista ci incastra tutti, bagagli compresi, come in un lego. L’equilibrio è
precario, ma i mattoncini reggono. Ci fermiamo in una piccola stazione per prendere i biglietti della
barca e un gruppo di ragazzi spagnoli, nel vederci, si diverte paragonandoci a delle “sardinas”.
“Non ti curar di lor ma guarda e passa” recitava il poeta e noi così facciamo; proseguiamo per un
indirizzo imprecisato ed arriviamo ad un imbarcadero di fortuna passando dalla casa del
proprietario della barca: speriamo bene! La lancia di legno ci ospita tutti, con i bagagli, abbastanza
bene ma, stranamente, non partiamo. Dopo più di mezzora indovina un po’ chi sbuca dalla casa?
Quei simpaticoni di spagnoli e sono anche un bel gruppo. Ancora una piccola magia e la scatola di
“sardinas” ora è piena sino all’orlo. Finalmente partiamo. Dopo circa 2 ore siamo al confine;
sbarchiamo e, davanti al solito piatto di noodles, aspettiamo il timbro sul visto d’entrata e
cambiamo qualche dollaro in Dong. Cambiamo anche barca e questa volta gli spagnoli ci hanno
fregato: ci dividono in due lance, una sembra una Ferrari, occupata purtroppo dai figli di Alonso,
l’altra una 500 anni ’70. Ci mettiamo le tute blu di Mirafiori e saliamo. Il viaggio è scomodo ma bello
e, dopo altre 2 ore, approdiamo in Vietnam, a CHAU DOC dove, come un miraggio, ci aspetta un
pulmino extra lusso tutto per noi. Tendine abbassate, sedili reclinati e sonno garantito sino a CAN
THO da dove inizieremo le nostre scorribande. GOOOOD MOOOOORNING VIETNAM !!!!!!
Intanto assaggiamo la cucina; nella trattoria Mekong, tanto per rimanere in tema, mangiamo ottimi
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Wantong, sia al vapore che fritti e serpente, in umido con il chili e fritto, decisamente buono visto il
quasi generale scetticismo. Poi tutti a nanna.
13.08.2010 Oggi sveglia anticipata, c’è da andare al mercato. Ovviamente niente di cui siamo
abituati a fare quasi quotidianamente a casa e cioè macchina, carrelli, bilance, cassiere; saliamo
invece in barca e navighiamo lungo il delta del Mekong alla ricerca dei mercati galleggianti. Il
Mekong è uno dei fiumi più lunghi del mondo; nasce nella lontana Cina, attraversa la Birmania, il
Laos, la Cambogia dove, dopo più di 4.500 km, si divide in due tronconi per sfociare poi in
Vietnam, nel Mare Cinese Meridionale in almeno cinque punti diversi. Da qui il nome che i
vietnamiti danno al fiume: SONG CUU LONG, fiume dei nove draghi. L’acqua è calma e il silenzio
della mattina è rotto solo dal rumore sordo del motore che ci culla con una dolce e un po’
monotona ninna nanna. La guida che ci accompagna è giovane e carina e questo serve a
risvegliare almeno la componente maschile del gruppo; 22 anni e niente fidanzato, qualcuno
potrebbe anche farci un pensierino! Dopo circa mezzora troviamo il primo mercato, ed è una
meraviglia. Tutto è in continuo movimento, lento, tranquillo, senza urla e scossoni. Le barche si
muovono come in una partita a scacchi; si studiano, si affiancano, cambiano posizione, fanno le
loro mosse e, dopo un po’ di contrattazione, sempre molto lentamente, una delle due si allontana:
scacco matto! Anche noi entriamo nel gioco. Non abbiamo niente da vendere, così veniamo
affiancati da barche di piccola taglia che offrono per lo più frutta, sempre in una continua
alternanza di mosse che, in questo caso, non portano ad alcun vincitore. In un’altra parte del
mercato le barche più grosse riforniscono quelle più piccole: niente nastri trasportatori o muletti,
ma solo le braccia forti di un popolo laborioso. Sacchi di farina e ceste di verdura passano di mano
in mano in un’alternanza ritmata di suoni e di colori. Angurie e meloni volano da una parte all’altra
come mossi dalle mani esperte di un giocoliere di strada e per tutti questo gioco durerà ancora per
ore. Riprendiamo la navigazione lungo il fiume che, comunque, è sempre vivo e detta i ritmi
dell’intera giornata. Ora le barche sono aumentate e passano anche grosse chiatte cariche
all’inverosimile si sabbia e materiale per l’edilizia, tanto cariche che sembrano annegare; lungo la
riva alcune persone si lavano, le donne preparano il bucato e i pescatori sistemano l’attrezzatura
per un’uscita imminente. Arriviamo ad un altro mercato, ancora più bello del precedente. Le barche
sono quasi tutte di piccolo taglio e occupano una parte più ampia di fiume. Qui si vende
esclusivamente al dettaglio e questo favorisce lo spettacolo che è quasi tutto al femminile. Fiere,
impettite sulla poppa della barca muovono con maestria il lungo remo di bambù che consente loro
movimenti fluidi e sicuri. Come farfalle dai mille colori, si spostano da una barca all’altra per
vendere o barattare la loro merce. Una giovane donna si avvicina per offrirci bellissimi pompelmi
mentre, con la coda dell’occhio, controlla anche un’anziana signora che, sulla prua, non convinta
del tutto del giusto equilibrio tra domanda e offerta, vorrebbe più pompelmi in cambio della sua
cassetta di verdura mista. Gli scambi sono davvero frenetici e l’aria, nonostante la quiete del fiume,
è allegra e fresca come una bottiglia d’acqua gassata appena stappata. Noi sembriamo fantasmi
che, senza fiatare, si aggirano tra i corridoi di una casa sconosciuta credendo di essere invisibili.
Invece tutti ci guardano con curiosità ed interesse, quasi a voler stringere un legame affettivo.
Dopo i tanti abbordaggi subiti, ora siamo noi ad affiancare una barca; niente pirati o tesori, ma solo
un’invasione pacifica. E’ la barca dei genitori della nostra giovane guida che ci accolgono con la
consueta simpatia e gentilezza. Foto e sorrisi per tutti e riprendiamo la navigazione per la via del
ritorno. Il pulmino extra lusso che chissà quante volte rimpiangeremo nel corso del viaggio, è ad
aspettarci davanti al molo per portarci a SAIGON. I primi chilometri ci danno l’esatta percezione di
quanto sia grande il Mekong. Attraversiamo due ponti nuovi di zecca e sotto il fiume sembra la
mano di un gigante: dal grande palmo ad anfiteatro si diramano, come serpenti, le lunghe dita che
si perdono nell’infinito del mare e ai lati decine di canali, tutti testimoni di scene quotidiane di vita
vissuta. Veramente soddisfatti ci abbandoniamo alla pennichella pomeridiana e alle 16.00 siamo a
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Saigon. Questa città fu capitale della Repubblica del Vietnam dal 1956 al 1975, anno in cui fu
invasa dai nord vietnamiti e ribattezzata dal governo di Hanoi HO CHI MINH CITY. E’ una città
grande e frenetica, dove il moderno avanza e convive bene con il passato. I motorini, manco a
dirlo, sono il termometro di questo progressivo cambiamento. Se sino ad oggi li abbiamo definiti
come sciami di api impazzite, qui sono un vero e proprio esercito organizzato, che ogni mattina si
schiera sul campo di battaglia pronto ad invadere la città. Fanteria, cavalleria, guastatori, carristi
prendono posizione e combattono una guerra pacifica contro se stessi, un tutti contro tutti come
quando si giocava a pallone in parrocchia: niente tattica, niente strategia militare, ma pura lotta per
la sopravvivenza. L’albergo è vicinissimo al grande mercato coperto di BEN THANH dove si vive la
stessa frenesia e noi, in piena crisi d’astinenza da shopping, ci tuffiamo senza ritegno nel caos a
capofitto. Giriamo tra gli stretti corridoi attratti da tutto e catturati da occhi e da voci che sembrano
appartenere da sempre ad amici fraterni. Siamo tanto presi dagli acquisti che quasi non ci
accorgiamo della trasformazione: come dottor Jekyll e mister Hyde il mercato cambia faccia:
all’interno chiude e all’esterno, dove prima circolavano indisturbati i soliti motorini, è apparso un
cordone di ristoranti ambulanti che stringono d’assedio le strutture ormai senza vita del mercato
coperto. Ovviamente anche qui, come tutte le storie a lieto fine, vincono i buoni, come buoni sono i
giganteschi granchi che ci divoriamo senza pietà calpestando tutte le elementari regole del
galateo. Anche noi non siamo cattivi, siamo piuttosto come i famosi biscotti di Prato, brutti ma
buoni, solo con una giusta dose di voracità. Con la pancia piena e le dita che sanno ancora di
tamarindo ce ne andiamo a nanna.
14.08.2010 Dopo aver preso coscienza delle brutalità dei Khmer Rossi, oggi iniziamo ad affrontare
il difficile tema della guerra del Vietnam e delle sue altrettanto grandi brutalità: visitiamo i tunnel di
CU CHI. E per capire il logorio a cui erano sottoposte le truppe americane e i loro conseguenti
bombardamenti sconsiderati, non si poteva scegliere posto migliore. Iniziate a costruire già negli
anni ’40 dai Viet Minh nella guerra contro i dominatori francesi, le gallerie di Cu Chi sono diventate
un mito per il popolo vietnamita, tanto che il villaggio di BEN DINH che le ospita venne insignito del
titolo di “Villaggio Eroico”. Questo grande intestino della terra raggiunse negli anni ’60 la lunghezza
di 250 km e ci si accedeva tramite botole ben nascoste nella boscaglia. Distribuiti anche su più
livelli, questi cunicoli collegavano interi villaggi e sapevano accogliere tutte quelle attività
necessarie per resistere al nemico: magazzini, fabbriche di armi, ospedali, cucine e centrali
operative. Considerando che Cu Chi è stata la zona più bombardata di tutta la guerra del Vietnam,
si può immaginare la frustrazione dell’esercito americano che ha ottenuto zero spendendo invece
molto in vite umane. Oggi la zona di Cu Chi ha raggiunto davvero la pace diventando un’attrazione
turistIca molto interessante nella quiete della foresta. In un bel percorso naturalistico è
emozionante calarsi nelle botole del terreno che spariscono sopra la tua testa come la valletta
nella scatola dell’illusionista o ammirare i meccanismi diabolici che azionano le trappole con cui i
vietcong giocavano con gli americani come fa il gatto con il topo. Ma l’esperienza veramente
incredibile è infilarsi in una di queste gallerie; alta 1,2 metri, larga 80 cm e senza illuminazione, si
percorre quasi carponi e in apnea mentre il sudore ti brucia negli occhi. Sono i 50 metri più lunghi
della vita e la mente ti si affolla di strani pensieri. Immaginate viverci, sotto il continuo
martellamento dei bombardamenti e con l’ossessione di sentirsi continuamente braccati da cani
affamati. Sarà per il forte spirito nazionalistico, sarà per l’odio verso un ospite inatteso e,
soprattutto, indesiderato, sarà per il semplice spirito di sopravvivenza, ma questa è una di quelle
cose che, se anche la vedi, non riusciresti mai a dargli una spiegazione convincente. In realtà
credo che una spiegazione ci sia, racchiusa in una sola parola che, solo a pronunciarla, fa paura:
la guerra, l’esercizio più autolesionista che si possa fare per portare un uomo ad odiare un suo
simile. La visita è stata davvero molto interessante anche se i ritmi dettati dagli agenti che ci
accompagnano sono ancora di chiaro stampo militare. Ma a noi, in questo caso, va bene così;
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dobbiamo essere infatti alle 12.00 al Tempio della Santa Sede di TAY NINH, capitale del
CAODAISMO, o Cao Dai, che significa “Chiesa della Terza Rivelazione”, per la cerimonia solenne
del sabato. Il caodaismo è una religione nata in Vietnam nel 1926 che riunisce concetti propri
dell’hinduismo, del buddismo, del cristianesimo e dell’islam e, come in tutte queste religioni, i
caodaisti credono in un unico Dio che è appunto il fondatore di tutte le religioni del mondo. Dal
buddismo hanno ereditato il concetto di “persona buona” e l’assoluto rifiuto di uccidere, un principio
che, anche in relazione a quanto visto solo qualche ora prima, dovrebbe essere sempre vero,
indipendentemente da qualsiasi credo religioso. Arriviamo precisi ed entriamo nel grande tempio di
Cao Dai insieme ai fedeli. Vestiti con lunghe tuniche bianche e strani copricapo intrecciati come i
manici di un cestino di vimini, si infilano alla spicciolata lungo i corridoi che circondano l’immensa
sala centrale. Solo al suono del gong, che da inizio al canto dolce e melodioso della preghiera, ci si
rende conto di quanti siano. Come in una parata, al presentat arm, si allineano tutti in file perfette
divise a settori, con in testa gli anziani, riconoscibili dai colori sgargianti del blu, del rosso e del
giallo delle tuniche. Tutto si svolge a ritmi lentissimi, sempre scanditi dal gong di un grosso
tamburo sistemato dietro l’altare principale; ad ogni colpo i fedeli si inchinano per tre volte in segno
di estrema devozione e si rimettono poi in ginocchio continuando a recitare la monotona cantilena
della preghiera con lo stesso tono metallico di una voce che esce da un megafono. Tutto molto
scenografico, come il tempio che, con un gusto ed uno stile che definirei almeno discutibile,
mescola in modo casuale stili architetturali francesi con pacchiane cineserie, riscontrabili nelle
imponenti colonne decorate da draghi variopinti che si arrampicano a torciglione sino al soffitto.
Limitandoci a giudicare la sacralità del luogo e non il guscio che la accoglie, lo spettacolo, se così
lo possiamo definire noi blasfemi frequentatori del tempio, è stato interessante. Torniamo a Saigon
e in città troviamo la pioggia e sempre lo stesso esercito di motorini in continuo movimento. Carla
si chiede come sia possibile, in quelle condizioni climatiche, non fare incidenti. Detto fatto, è quasi
subito accontentata: due motorini si scontrano e volano per le terre. Niente drammi e niente
assicurazioni, si guardano, guardano le motorette e ripartono in battaglia. Nemmeno il tempo di
ironizzare sulla gufata di Carla che il nostro driver aggancia, indovinate un po’, un motorino. Allora
Carla, come la mettiamo? Anche qui niente drammi; due calci ben dati per sganciare la ruota dello
scuter dal paraurti del pulmino e si riparte. Andiamo nel quartiere di CHOLON per visitare la
Pagoda di GIAC LAM, la più antica di Ho Chi Minh City. Di chiaro stampo cinese, è finemente
decorata e ricca di statue e pannelli colorati. Spicca nel centro A DI A, il Buddha del Passato,
rivolto verso un albero rosso in legno che fa molto Natale ma è in realtà un altare dove i fedeli
attaccano dei foglietti con i nomi dei loro parenti malati per chiederne la guarigione. Il profumo
dolce dell’incenso e le preghiere dei monaci che sfilano in processione accompagnati dalla voce
nasale di un cantante solista, conferiscono a questo luogo un non so che di mistico. Mentre
usciamo un monaco anziano è folgorato dalla bella presenza di Emanuele e Alberto e dalla loro
pelata molto simile alla sua; vuole convincerli a rimanere offrendogli abiti e ospitalità nella sua
camera. Purtroppo non sapremo mai in cosa consiste veramente l’iniziazione al buddismo, i nostri
due compari, infatti, hanno declinato l’invito con signorilità. Ceniamo ancora nelle bancarelle
davanti al mercato che tanto ci erano piaciute ieri; questa volta scegliamo pesce elefante, tirato
fuori vivo da una vasca, finito a bastonate, fritto e servito ritto sul piatto a mo di vela spiegata. Bella
la scenografia, un po’ meno la trama, comunque sempre soddisfatti.
15.08.2010 Niente pulmino e niente orari; giornata in libertà dedicata alla visita di Saigon. Per
iniziare cerchiamo di rivivere la storia recente della città e le sue vicissitudini legate alla guerra con
i cugini del Vietnam del Nord. Prima tappa il MUSEO DELLA RIUNIFICAZIONE. In origine
PALAZZO DELL’INDIPENDENZA, sede presidenziale e luogo di rappresentanza dove accogliere
le delegazioni straniere, questo palazzo ha vissuto uno strano destino. Da sempre simbolo di
Saigon e dei Sud Vietnamiti è diventato, dal 30 aprile 1975, simbolo dei Vietcong e della loro
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supremazia militare. Il primo carro armato “rosso” entrato in città ha infatti sfondato il cancello del
palazzo e un soldato ha esposto all’ultimo piano dello stesso la prima bandiera Nord Vietnamita.
Sono bastate poche ore per cancellare definitivamente con un solo colpo di spugna la storia di un
popolo. In una sala del palazzo sono esposte, con precisa cronologia storica, tutte le foto che
documentano questi avvenimenti; Saigon viene ribattezzata Ho Chi Minh City, il Palazzo
dell’Indipendenza, non più sede del governo, diventa il Museo della Riunificazione, Hanoi è la
nuova capitale di un unico Vietnam, ma l’eliminazione del 17 esimo parallelo non ha certo
eliminato le differenze tra due popoli che, ideologicamente diversi, ancora oggi non si sentono del
tutto parti integranti di un unico paese. Tornando per un attimo al museo, la parte più interessante
è rappresentata sicuramente dai sotterranei, un vasto sistema di gallerie a prova di bombe da dove
potevano essere seguite tutte le fasi della guerra. Ed è proprio per capire che cosa ha significato
per questo paese e per gli Stati Uniti d’America questa guerra che andiamo al MUSEO dei
RESIDUATI BELLICI. Nel piazzale esterno sono esposti solo alcuni degli strumenti di morte
utilizzati dall’esercito americano: carri armati, mezzi corazzati, aerei, bombe e armi. Ma questi
sono oggetti freddi, inanimati, un ammasso di ferro e bulloni che oggi non fanno più paura a
nessuno. All’interno, invece, le foto esposte sembrano prendere vita sotto i nostri occhi atterriti
dalla paura e dall’orrore; ci faranno da guida umile e silenziosa, accompagneranno i nostri pensieri
che si stanno attorcigliando nella mente per cercare di trovare un perché a quello che stiamo
vedendo, un solo banale motivo che possa giustificare questa tragedia. Così, come catapultati in
un film in bianco e nero, vediamo prima le campagne, i villaggi, le città violentate dai
bombardamenti. Ma in quelle stesse città, in quegli stessi villaggi vivevano esseri umani, donne e
bambini innocenti rapiti troppo presto dalle emozioni della vita. E allora la paura della morte ti
assale e un grosso nodo ti si stringe in gola sino a farti soffocare quando, con gli occhi lucidi, ti
soffermi incredulo a fissare lo sguardo distaccato di un soldato americano che, come un trofeo di
caccia, mostra nella mano destra il pezzo lacerato di un corpo umano. Spavento, disgusto, quasi
odio sono i sentimenti che provi vedendo altri corpi legati e trascinati per i piedi da un carro armato
come non si farebbe neppure con un maiale pronto per essere macellato, oppure nel cercare di
riconoscere tra i sassi i resti carbonizzati di persone che, forse, hanno avuto l’unico torto di trovarsi
nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il film continua senza interruzioni e, come un coltello
affilato, ti entra nel costato sino a raggiungere il cuore quando ti sbatte in faccia, con uno schiaffo
ben assestato, le immagini delle mutilazioni che questa guerra ha inflitto. Bambini senza gambe,
senza braccia, completamente sfigurati dai bombardamenti e dal napalm. Bambini che magari
hanno salvato la vita, ma a cui è stata tolta la speranza nel futuro. Le immagini continuano a
correre, una voce muta ti rimbomba nella testa e un sentimento di sconforto, di impotenza ti
aggredisce perché solo ora ti rendi conto che la guerra non è finita 35 anni fa, è ancora li che,
giorno dopo giorno, ti presenta il conto, ed è un conto sempre troppo salato. Le immagini terribili di
ragazzi che ancora oggi nascono deformi a causa degli erbicidi, dei defoglianti e di chissà quali
altre schifose armi chimiche utilizzate dai militari americani sono li a testimoniarlo. Poi, come un
flash improvviso, ti sembra di esserti svegliato da un sonno pieno di incubi; una musica dolce attira
la nostra attenzione. Un ragazzo di circa 10, 12 anni, senza occhi, come un teatro buio con il
sipario calato nel silenzio, suona con rara maestria una pianola. Proviamo vergogna a guardarlo,
quasi a voler rifiutare una realtà che nessuno di noi conosceva. Giriamo increduli ancora qualche
minuto ed è incredibile constatare come un museo possa essere tanto efficace nel trasmettere e
far capire al visitatore le atrocità che una guerra può portare. Personalmente è stata una delle
esperienze più toccanti della mia vita. Consoliamoci con il tempo, almeno quello è buono; sole e
caldo non troppo ossessivo ci permettono di gironzolare senza meta. Passiamo davanti
all’ambasciata francese e a quella americana, ci infiliamo nel bel palazzo che ospita la Posta
Centrale e visitiamo la chiesa di Notre Dame. Ripercorriamo la strada che ci riporta verso l’albergo,
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incappiamo proprio di fronte all’Hotel Continental, tanto caro ai giornalisti inviati di guerra e
facciamo un’ultima puntatina al mercato dove, come il vero giocatore incallito, non riusciamo a
tenere nemmeno l’ultima fiche. Poi via alla stazione ferroviaria da dove, con un treno notturno,
raggiungeremo la costa orientale sino a NHA TRANG.
16.08.2010 Il viaggio in treno non è stato poi tanto male; scompartimenti puliti con 4 cuccette
accessoriate con materasso, cuscino e coperta e arrivo in perfetto orario alle 6.00 di mattina.
L’autista che ci sta aspettando non parla una sola parola d’inglese compromettendo un po’ ogni
scambio di informazioni. E’ programmato per una scansione sequenziale dei dati e si differenzia da
un PC non tanto per l’aspetto, ha un bel faccione piatto e quadrato come un video della samsung,
ma perché ogni tanto accenna un sorriso e, senza capire un tubo di niente, fa si ciondolando in
avanti la testa. Partiamo e dopo 2 minuti si ferma davanti ad un cancello, apre le porte del pulmino
e ride indicandoci una scalinata. Scendiamo e scopriamo di essere davanti alla Pagoda di LONG
SON. Ci colpiscono i soliti draghi decorati con quadratini di vetro e porcellana colorati, ma
soprattutto il gigantesco Buddha bianco che, dalla collina, domina e guida tutti i suoi figli. Saliamo i
152 gradini e arriviamo ai piedi di sua maestà che, grasso, sorridente e spaparanzato su un bel
fiore di loto, sembra contento di ricevere le prime visite della giornata. Sono le 6.15, ci siamo solo
noi e ci fanno compagnia le donne che spazzano le scale. Riscendiamo non prima di far visita
anche ad un Buddha sdraiato, giusto per non fare disparità, e proviamo a chiedere all’autista un
posto per fare colazione: notte fonda. Partiamo lo stesso facendogli leggere sulla guida il nome di
un bar ristorante, sembra aver capito. Ci porta a destinazione, peccato che la specialità del posto è
il pesce e solo l’odore, a quell’ora, ci fa allontanare velocemente. A piedi andiamo sul lungo mare,
per altro molto bello, e ci sfamiamo in un bar eliminando le tossine della notte in treno. L’autista,
come un investigatore privato, ci aveva seguito con discrezione, senza dare nell’occhio e subito
fuori dal bar ci prende a bordo. Il suo programma non può andare in errore, la sequenza di dati da
leggere e le prossime istruzioni da eseguire portano alle TORRI CHAM di PO NAGAR. Splendido
esempio dell’architettura CHAM, il sito, originariamente composto da 8 torri, ne presenta oggi solo
4, con l’imponente KALAN, la torre centrale a dominare le altre che gli stanno intorno. La torre è
fatta di mattoni incollati con una speciale resina di cui ancora oggi non si conosce l’origine; il Kalan
è il tempio dedicato a SHIVA, il dio distruttore e il LINGA YONI contenuto al suo interno, in una
stretta stanza quadrata è la sua rappresentazione. Con i suoi 28 metri d’altezza e il bellissimo tetto
piramidale a tre livelli, è il polo d’attrazione principale del sito che, nonostante la presenza dei
turisti, ha mantenuto il suo importante significato religioso. Ripartiamo, ci aspetta un lungo viaggio;
la strada costeggia il mare e i riflessi del sole sull’acqua, come le Sirene di Ulisse, ci chiamano, ci
chiamano, ci chiamano …. Come si fa a resistere? Qui il rischio non è quello di essere tutti
catturati da questi esseri malvagi mezzi donne e mezzi uccelli, ma di mandare il programma in
errore irreversibile, senza nessuna possibilità di ripristino. Invece questa volta il bravo autista
programmatore ci stupisce; capisce quasi subito la nostra richiesta e, di sua iniziativa, ci porta in
un posto davvero superbo, un’insenatura di sabbia bianchissima con un mare sfacciato che ci
mostra senza vergogna tutte le sue trasparenze. Cambio vestiti velocissimo come se fossimo ai
box della Ferrari e via ai 300 all’ora in acqua. Restiamo in ammollo nell’acqua tiepida come il
bucato delicato per più di mezzora ma non possiamo approfittarcene più di tanto. C’è sempre quel
programma che incombe su di noi e non dobbiamo mandarlo in errore. Fortunatamente nessun
errore perché la risalita verso HOI AN è stata davvero faticosa. Arrivo alle 22.00, stanchi ed
affamati. L’albergo è molto bello ma il ristorante è chiuso; proprio di lato, però, tre signore
simpatiche ma un po’ invadenti, sembra ci stessero aspettando e in quattro e quattr’otto tavolo
pronto e ottimi wanton. Con le signore ci ritroveremo domani mattina, avremo diverse cose da
chiedergli.
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17.08.2010 Dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, HOI AN e le sue bellissime case,
sono sopravvissute non solo alle distruzioni delle guerre recenti, ma sono anche uno dei
pochissimi esempi di architettura tradizionale vietnamita presenti oggi nel paese. Le case gialle
pastello si specchiano senza paura e con un po’ d’orgoglio nelle calme acque del fiume che
attraversa la città; non dimostrano affatto tutti i loro secoli di storia. Anzi, proprio in questi periodi si
rifanno il trucco; i tetti, rivestiti di tegole marroni concave e convesse, AM e DUONG, in
un’alternanza dal movimento ondulatorio che fa si che combacino in un tenero abbraccio, si
colorano di verde. I muschi e i licheni che le proteggono, con la pioggia, tornano alla vita brillando
di luce propria. Ma Hoi An mantiene intatta anche un’altra caratteristica: nel corso dei secoli, infatti,
fu raggiunta da navi cinesi e giapponesi e i suoi magazzini erano pieni zeppi di sete pregiate.
Ebbene oggi è ancora così e i sarti di Hoi An sono famosi in tutto il mondo per la capacità di cucirti
su misura un vestito in mezza giornata. E noi potevamo farci sfuggire un’occasione così? Certo
che no e allora entrano in gioco le tre allegre signore di ieri sera. Hanno davvero tutto quello che ci
serve e anche di più, come le pacche amichevoli sulle spalle e sul culo che dispensano con
generosità soprattutto a noi maschietti. Tra una pacca e l’altra modelli e misure si alternano alla
velocità della luce: Matteo e Alberto si vestono di tutto punto di un grigio elegante pronti al rientro
in ufficio, Deanna rinnova il guardaroba sportivo e quello per le serate di gala all’Angolo
dell’Avventura di Prato, Elena e Sonia cercano invece i modellini che più si adattano alla moda
giovane di oggi, io, Emanuele e Valter ci accontentiamo di sacchi lenzuolo in seta pensando già ai
viaggi futuri. Per tutti appuntamento alle 19,00 per la prova definitiva e la sfilata di rito. Oltre a
gestire bar, ristorante e confezionare vestiti, le nostre tre amiche affittano anche biciclette, proprio
quello che stavamo cercando; così, grazie agli affari conclusi e a qualche pacca sul culo in più, ce
le danno gratis. Le biciclette, ovviamente, che cosa avevate capito !!! Per un attimo torniamo tutti
bambini e, in una fila un po’ disordinata, pedaliamo allegramente nel traffico senza regole tra
decine e decine di scuter. Risate spensierate per tutti sotto un bel sole caldo ma splendido. Le
stradine del centro storico sono fortunatamente chiuse al traffico e la scelta bici si è rivelata
davvero azzeccata. Facciamo un primo giro di ricognizione, come i ciclisti veri prima di una tappa
importante del giro d’Italia, poi lasciamo le biciclette sul lungo fiume vicino al PONTE
GIAPPONESE, per iniziare proprio da li la nostra visita. E’ un ponte coperto, piuttosto piccolo,
costruito dai Giapponesi per unire il loro quartiere a quello cinese e riflette nella struttura e nelle
decorazioni il gusto giapponese per la sobrietà che tanto contrasta con la tendenza verso
l’eccesso caratteristica delle arti e dell’architettura sia cinese che vietnamita. Controllato a vista da
un lato da due scimmie, dall’altro da due cani e con nel centro il piccolo tempio di Chua Cau, il
ponte è depositario di un grande segreto: la leggenda racconta che proprio li sotto vivesse un
enorme mostro di nome CU, tanto grande da avere la testa in India, la coda in Giappone e il corpo
in Vietnam e che, ogni suo movimento, procurasse danni immensi proprio al Vietnam. Solo in
pochissimi sanno , e qui sveliamo il grande segreto, che il mostro si è reincarnato nel nostro
Presidente del Consiglio. Che CU !!! Bene, dopo la notizia bomba, ci tuffiamo nelle strette vie del
centro storico ed entriamo in alcune delle vecchie case, ancora abitate ma aperte al pubblico.
Visitiamo la OLD HOUSE DUC AN e la bellissima TAN KY. Tra colonne e mobili di chiara origine
cinese e soffitti a travi tipici delle costruzioni giapponesi, i proprietari ci presentano , con un po’ di
enfasi e il giusto orgoglio, tutti i loro avi che, immortalati fieri nelle fotografie che li ritraggono, di
fronte a tanti visitatori, sembrano voler riprendere le redini della casa. Salutiamo e andiamo tutti a
tavola davanti a un piatto fumante di CAO LAU, piatto tipico di Hoi An a base di noodles, verdure e
pezzetti di maiale che poi, a dire il vero, tanto una novità proprio non è. Riprendiamo la marcia e,
prima di entrare nella Sala delle Riunioni della Congregazione di PHUC KIEN, ci perdiamo Matteo
e Alberto: incontentabili, riescono a farsi fare in sole 3 ore un vestito di lino, accompagnato da due
camice e ben 5 cravatte. Prova fissata per le 17.00; la loro agenda personale inizia a farsi ricca di
impegni. Ricompattato il gruppo, riprendiamo le bici e affrontiamo la seconda tappa del Giro: Hoi
An centro, Hoi AN mare. Breve stop in albergo per la divisa di gara, in questa occasione composta
da ciabatte e costume, e via con lo scatto del passista sino alla spiaggia. L’acqua non è un gran
che, ma il godimento è quello delle foche a sguazzo tra un’onda e l’altra. Matteo e Alberto lasciano
anticipatamente il gruppo per la prima prova abito, noi stiamo a mollo ancora un po’, ci fermiamo a
prenotare un bel ristorante per la sera e, alle 19.00, puntualissimi tutti pronti per la sfilata di moda.
Le tre allegra signore si muovono con scaltrezza tra dong, camice, dollari e vestiti; in mezzora
accontentano quasi tutti, resta solo un ritocchino per l’abito di gala di Deanna, ma, in generale, la
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sfilata è stata un successone. Cena, bagagli, con le magie di Matteo per far sparire in uno zaino
due vestiti, un paio di pantaloni, tre camice e cinque cravatte e pronti per la partenza di domani.
18.08.2010 Mare e montagna nel trasferimento che ci porterà ad HUE’, trampolino di lancio per il
Nord del Vietnam. A soli 20 km da Hoi An ci fermiamo alle MONTAGNE DI MARMO; sono un
complesso di 5 montagne ed ognuna rappresenta un elemento naturale presente nell’universo:
THUY SON, acqua, MOC SON, legno, HOA SON, fuoco, KIM SON, metallo, THO SON, terra. Una
scalinata molto ripida, e qui ci vuole uno scalatore, non più un passista, ci porta sulla montagna di
THUY SON, la più grande delle cinque. Pagode e grotte si alternano sui sentieri ben curati che
offrono anche una bella vista sul litorale sabbioso. Entriamo nella grotta di HUYEN KHONG: in
fondo alla scalinata, custodita ai lati da quattro mandarini in tenuta da battaglia, si apre maestosa
la grotta a forma di cupola che custodisce al suo interno un tempietto su cui incombe, come una
minaccia, una grande stalattite simile ad una giraffa. Vista la grandezza, la temperatura e il difficile
accesso, la grotta veniva utilizzata dai vietcong come ospedale da campo; bello. Risaliamo in
superficie e torniamo indietro da un viottolo alternativo ed impegnativo; ci arrampichiamo come
caprette prima in uno stretto cunicolo della roccia che mette a dura prova la nostra linea, come
accade, prima di ogni estate, con la fatidica prova costume, poi, sempre tra le rocce, arriviamo nel
punto più alto della montagna, dove il panorama è un po’ offuscato dal sudore che dalla fronte ci
brucia negli occhi e scendiamo da un sentiero ciottolato, finalmente adatto ai nostri sandali. Siamo
di nuovo in pulmino e il mare si allontana sempre di più, sparisce e ricompare in un’alternanza di
insenature e isolotti sino a dominarlo nel suo insieme in un unico grande quadro. Siamo arrivati sul
PASSO DELLE NUVOLE che, fortunatamente, non tiene fede al suo nome. Foto di rito e giù, a
rotta di collo, verso la spiaggia. Sabbia fina e una lunga fila di palme, fanno da cornice ad un bel
mare tiepido ed accogliente. Come al solito accettiamo volentieri le coccole che solo il lento
sciabordio dell’acqua salata ti sa regalare. Un’ora di relax totale. Ripartiamo alla volta di HUE’,
antica capitale dell’impero NGUYEN, oggi tranquilla città adagiata sul fiume SUON HUONG, il
Fiume dei Profumi, da cui ha ereditato la caratteristica di città silenziosa, dove la vita scorre lenta e
senza scossoni, proprio come le acque del fiume che la corrente muove sempre con molta
attenzione, per non svegliare il bimbo che dorme nel suo letto. Huè è riuscita a sopravvivere
all’appiattimento voluto dal partito comunista solo in parte, rimanendo cioè arroccata intorno alle
mura della CITTADELLA. Ancora oggi, infatti, vive all’interno dei 10 km di mura una bella fetta
della popolazione. Purtroppo dei 148 edifici storici presenti un tempo, i bombardamenti americani
ne hanno risparmiati solo 20 ma, nell’insieme, la Cittadella riesce a mantenere quasi del tutto
intatto quel fascino che l’Imperatore GIA LONG, nel 1804, le aveva regalato. Le spesse mura,
quasi 2 metri di profondità, e un fossato, proteggono l’accesso al Recinto Imperiale, una Cittadella
nella Cittadella, mentre la Torre della Bandiera, con il suo pennone alto 37 metri accudisce , con lo
stesso amore con cui un babbo accudisce i suoi figli, la monumentale porta NGO MON, principale
accesso al Recinto stesso. E’ proprio dalla terrazza panoramica che sovrasta la porta che, nel
1945, L’imperatore BAO DAI pose fine alla dinastia NGUYEN abdicando di fronte al governo
provvisorio di Ho Chi Minh. Siamo gli ultimi visitatori e i tanti palazzi diroccati all’interno del Recinto
Imperiale danno a questo immenso spazio un aspetto un po’ desolato anche se le fini decorazioni
presenti nella Sala dei Mandarini o le colonne laccate che sostengono il palazzo di Thai Hoa ci
fanno immaginare, come in un sogno ad occhi aperti, quanto doveva essere fantastico questo
posto. Sono le 18.00 e i guardiani ci cacciano fuori, dove siamo subito accerchiati da decine di
risciò; sono insistenti e nemmeno troppo simpatici. Che nostalgia dei nostri inseparabili amici Tuc
Tuc: il motore scoppiettante, gli scricchiolii dei carrettini e la cantilena di quei clacson che ti
riempiono la giornata. Tuc Tuc, Tuc Tuc ….. e così sia !!! Ci facciamo trasportare dai ricordi e
torniamo a piedi verso l’albergo. I ponti sul grande fiume si illuminano di diversi colori come in un
gioco di fuochi d’artificio e la serata scorre via tranquilla seduti a mangiare sulla bella terrazza di un
ristorante proprio sul fiume.
19.08.2010 Mattina dedicata alla navigazione del “tranquillo”, cioè il fiume dei profumi. Per non
stonare con l’ambiente che ci circonda, anche la barca con la prua a dragone che ci ospita, naviga
in modo molto tranquillo; per farci godere meglio il panorama? Nemmeno per idea, solo per
consentire alle donne dell’equipaggio di tirare fuori tutta la loro mercanzia e cercare di venderci
qualche cosa. Resistiamo con i denti per quasi mezzora, poi le prime schermaglie che portano alla
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passerella di Deanna Naomi Micheloni che, con disinvoltura e leggerezza, porta in passerella un
intimo un po’ improvvisato composto da pantaloni larghi e camicione fresco e svolazzante. Dopo
gli applausi e gli autografi di rito, la top model tratta senza freni e alla fine acquista il pigiama.
Meno male, così la barca viene dissequestrata e possiamo attraccare alla Pagoda di THIEN MU.
Simbolo della città di Huè, la torre ottagonale di sette piani è imponente; ogni piano è dedicato ad
un MANUSHI-BUDDHA, un buddha apparso con sembianza umane e protegge l’entrata al tempio
principale davanti al quale un buddha ridente, riconoscibile dalle grandi orecchie, sembra voler
accogliere il visitatore con la cortesia del più fedele dei maggiordomi. La leggenda narra che nel
1601 un indovino previde che colui che avrebbe costruito una pagoda in riva al fiume, sarebbe
stato il capostipite di una gran dinastia. Nguyen Hoa, governatore di quella provincia, seguì quelle
indicazioni e la previsione si confermò: come abbiamo detto la dinastia Nguyen fu l’ultima dinastia
imperiale e governò in Vietnam sino al 1945. Dal tempio la veduta sul “tranquillo” che si snoda
come un serpentone svogliato lungo la valle è bella, come è bello vedere arrivare una processione
di barche addobbate in modo un po’ pacchiano ma scenografico, annunciate dai canti dei fedeli,
che vengono al tempio per pregare. Ci imbarchiamo nuovamente sul dragone che, questa volta,
azzannando il “tranquillo” con i grossi denti della bocca, non avendo più niente da venderci, con
due colpi ben assestati della coda, ci riporta in poco più di 10 minuti all’imbarcadero in città.
Appuntamento per tutti alle 13.00 davanti all’albergo dove ci aspetta il pulmino per un giro nei
dintorni di Huè. Prima sosta alla spianata di NAM GIAO. Un tempo luogo sacro, composto da una
terrazza superiore a forma circolare rappresentante il cielo e due terrazze rettangolari più basse
rappresentanti la terra e l’umanità, ora è un luogo che ci lascia indifferenti, frequentato solo da
alcuni fedeli particolarmente attaccati alle tradizioni. Seconda fermata alla Pagoda di TU HIEU.
Questa venne scelta come sede degli eunuchi della Cittadella che ora sono seppelliti nel piccolo
cimitero a lato del tempio in belle tombe di pietra. Venerate dai monaci, è la natura che pensa a
regalargli un fiore; macchie di muschio dal verde acceso, infatti, le rendono meno tetre. Ci
avviciniamo al tempio dedicato al celebre maestro buddista THICH NHAT HANTH attivista
pacifista durante la guerra e costretto all’esilio dal 1966 e, insieme a noi, come dal nulla, si
materializzano decine di monaci che, non curanti della nostra presenza, iniziano ad intonare la loro
struggente e melodiosa cantilena. Non credo sia vocazione, ma starei ad ascoltarli per ore; non ci
si sente assaliti dalla fede, ma sicuramente questi canti hanno la capacità di farti estraniare dal
contesto e trasmetterti serenità. Terza sosta la tomba di TU DUC. Fu l’imperatore Tu Duc stesso a
progettare questa tomba imponente immersa in una tranquillità idilliaca tra pini, alberi di frangipane
e ninfee che addobbano il fossato che la circonda. Il tutto rispecchia fedelmente lo stile di vita
esagerato dell’Imperatore, il cui regno fu il più lungo della dinastia Nguyen. Le 104 mogli e le
innumerevoli concubine lo testimonierebbero, beato lui! Quarta ed ultima tappa la tomba di KHAI
DINH, penultimo imperatore del Vietnam. Per visitarla bisogna essere allenati; una ripida scalinata
porta prima al Cortile D’Onore dove, ai due lati, il comitato d’accoglienza è costituito dalle belle
statue di mandarini dai tratti non prettamente orientali. Ancora una scala e siamo davanti al tempio
che da fuori non è un gran che, ma che dentro sbalordisce per la sua ricchezza: soffitti affrescati e
decorazioni d’oro fanno da cornice alla statua di bronzo dorata dell’imperatore che fa anche da
guardiano alle sue spoglie, sistemate a 18 metri di profondità proprio sotto la statua. Fine del giro e
via all’aeroporto per raggiungere Hanoi per la notte.
20.08.2010 Per oggi Hanoi è solo una sosta tecnica, lasciamo parte dei nostri bagagli in albergo e
partiamo per NINH BINH per vedere la così detta HALONG di TERRA e tornare poi ad Hanoi solo
per andare alla stazione ferroviaria per la seconda esperienza di treno notturno per raggiungere il
Nord del paese. Usciamo dal solito traffico infernale di motorini che, manco a dirlo, accomuna,
almeno per questo aspetto, Hanoi alle altre città del Vietnam e, dopo una cinquantina di chilometri,
il paesaggio inizia a cambiare. All’orizzonte le prime montagne a forma di cupola iniziano ad
alternarsi alla pianura e, man mano che avanziamo, la loro presenza si fa sempre più incombente,
in un movimento ondulatorio che si manifesta con la stessa frequenza di un elettrocardiogramma,
dove l’acqua piatta è il foglio di carta in cui le montagne si stampano. Siamo a TAM COC e una
gita in barca ci permette di vedere da molto vicino queste formazioni di roccia calcarea che
affiorano dall’acqua del fiume NGO DONG. Saliamo in due per ogni barca insieme a due barcaioli;
Tommaso e Lorella sono in compagnia di un solo barcaiolo. In questi casi è l’uomo che deve
dimostrare la sua virilità, quindi Tommaso prende il remo e si pagaia tutti i 2 km della gita. I suoi 14
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anni fanno invidia a tutti, perciò niente sconti. La caratteristica di questi barcaioli, perlopiù donne, è
quella di remare con i piedi, in un movimento disarmonico che li fa somigliare a quei grossi ragni
con le zampe lunghe che si agitano sull’acqua. Il paesaggio è bellissimo e un pallido sole lo aiuta
ad esserlo ancora di più. Nel silenzio totale della valle le barche scivolano leggere come una
piuma sospinta dal soffio di un bambino e dalle risaie sbucano come iceberg le rocce in tutta la
loro possenza. Davvero una valle incantata, dove gnomi e folletti sono sostituiti da questi barcaioli
minuti ma dalla resistenza inaspettata. Un’altra meraviglia del tragitto sono le grotte, ne
attraversiamo ben tre: HAN CA, la più lunga e spettacolare con i suoi 127 metri, poi HANG GIUA,
di 70 metri e HONG CUOI, di 45 metri. L’acqua ti gocciola in testa e ti senti inghiottito dalla grande
bocca che ti spinge nel ventre della terra. Davvero bellissimo, come già diverse volte ci è capitato
di dire in questo viaggio. Peccato l’insistenza dei barcaioli che, nel tragitto di ritorno, vogliono
venderci a tutti i costi qualche cosa. Io tratto con una giovane vietnamita dal sorriso accattivante;
dopo averla fatta ammattire per un po’, le compro una tovaglia per pochi dollari, visto che il ricamo
è il prodotto principale dell’artigianato locale. Sulla strada di ritorno per Hanoi ci fermiamo a HOA
LU, un sito minore che comprende due templi lasciati però in uno stato di semi abbandono. Qui le
venditrici sono davvero noiose, per la prima volta le definirei maleducate e questo ci farebbe venir
voglia di lasciare subito il posto. Invece guardiamo i due templi, uno dedicato alla dinastia DINH e
l’altro alla dinastia LE. Poi, per godere di una veduta d’insieme della zona, impreziosita dalla
presenza sullo sfondo del monte YEN NGUA, saliamo una scalinata stretta e ripida, molto ripida e
altrettanto faticosa. Ansimanti e sudati fradici arriviamo in cima alla collinetta da dove il panorama
non è male ma, forse, non ne valeva la pena. Entriamo ad Hanoi con il buio e l’unica cosa che ci
attrae, oltre al solito traffico, sono delle bancarelle che espongono, in fila, una serie di animali
arrostiti e caramellati, sembrano quasi delle statue; hanno anche una codina che subito ci
insospettisce, poi ci folgora: sono cani! Tutti noi siamo di bocca buona ma, in questo caso, la gola
ci si stringe e un leggero senso di vomito ci assale; pensare di accarezzare un cagnolino, giocare
con lui, tenerselo accanto come si fa con un bambino e poi vederlo pronto per essere mangiato ci
da l’angoscia. Fortunatamente sentiamo presto quell’odore acre che caratterizza tutte le stazioni
ferroviarie del mondo e questo ci cancella tutte le sensazioni olfattive che solo la vista di quelle
povere bestie ci aveva provocato. Saliamo in treno e affrontiamo la notte con lampi e tuoni.
21.08.2010 Viaggio discreto, anche se quello dell’altra volta era stato un po’ più comodo;
comunque, in perfetto orario, alle 6.00, scendiamo a LAO CAI, proprio al confine con la Cina, nella
zona più montagnosa e, dicono, più spettacolare del Vietnam, abitata da minoranze etniche
provenienti per lo più proprio dalla vicina Cina che i francesi chiamavano “MONTAGNARDS”,
montanari, termine utilizzato ancora oggi. La prima sorpresa la scopriamo usciti dalla stazione: la
nostra guida è una ragazzina vestita con i tipici colori degli H’MONG a FIORI, una delle etnie più
numerose ed affascinanti delle 54 riconosciute in Vietnam. Si chiama Miao e il suo aspetto si
sposa bene con il nome che gli è stato dato. Dopo una rapida colazione partiamo per il mercato di
CAN CAU, posto sperduto a due passi dalla Cina. La strada che si arrampica per queste
montagne è brutta, ma il panorama che ci accompagna la fa sembrare un’autostrada. Il film che
stiamo guardando ha un unico produttore, regista, attore: la natura! E vi giuro che è un film da
premio oscar per la miglior fotografia, la miglior scenografia, la miglior regia e il miglior attore
protagonista. Basta la poca luce che filtra tra le nuvole grigie del cielo per far accendere come
un’insegna luminosa il verde delle risaie e far risaltare tutte le possibili forme che ci si può
immaginare guardandole: un teatro romano dagli alti gradoni scende da un crinale mentre in basso
lunghi fili comandano il volo regolare di 100 aquiloni. Un bambino sembra aver lanciato un sasso
nel lago e i cerchi che ne scaturiscono formano una spirale di verdi che riesce ad ipnotizzarti; le
lunghe onde di un mare verde smeraldo ti svegliano mentre lo sguardo si arrampica sino in cima
alla montagna dove mille splendide vele ti trasportano verso lidi lontani. Non credo di esagerare
definendo tutto questo uno spettacolo mai visto. E non vogliamo condire la cosa con un pizzico
d’avventura? Certo, bisognerà pur guadagnarsi il titolo di esperti viaggiatori in qualche modo ! Le
piogge devono aver distrutto parte della strada ora ridotta ad uno strato di fango; una ruspa sta
cercando di aggiustare in qualche modo i tratti più critici, ma il pulmino arranca, con una poco
simpatica sbandata verso il lato sinistro della strada dove ad accoglierci ci sarebbero le risaie a
braccia aperte. Per ora meglio di no, quindi scendiamo ed iniziamo a salire a piedi, ma il pulmino si
ferma ugualmente: dobbiamo spingere. Una, due, tre volte sino a quando le ruote non slittano più
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e possiamo raggiungere il mercato di CAN CAU. Altro film spettacolare con un oscar ex equo per il
miglior attore protagonista, gli H’Mong a Fiori, riconoscibili per le vesti dai colori vivaci e dai lustrini,
e gli H’Mong Blu, riconoscibili dalle decorazioni a zig zag delle vesti. Uno spettacolo vero, a volte
crudo, di vita di tutti i giorni che scorre tanto diversa dalla nostra e che fatichi a collocare nello
stesso secolo. Donne di tutte le età portano sulle spalle grosse ceste di vimini, comprano e
vendono con la stessa frenesia e la stessa allegria, tutte partecipi della stessa festa. Parlano tra
loro, contrattano e dispensano sorrisi anche a noi che le guardiamo ammirati e divertiti. I prodotti di
artigianato locale sono molto belli e tutti compriamo volentieri qualche cosa anche per consolidare
un ricordo che difficilmente riusciremo a dimenticare. Lo stesso non riusciamo a fare con il cibo.
Pezzi di maiale macellati con le mani e mangiati quasi crudi in una zuppa di verdure; una specie di
polenta gialla dall’odore imprecisato tagliata con un filo di ferro arrugginito e mangiata con i
noodles, il tutto per strada, su tavolini improvvisati tra polvere e fango. Unico strappo alla regola
per il RUOU, il vino di riso di cui gli H’Mong sono abili produttori e che tutti mi offrono; alla fine,
anche per cortesia, decido di assaggiarlo e non è niente male. Ci aggiriamo quasi spaesati tra tutti
questi suoni , questi rumori, questi colori, non sappiamo dove guardare attratti da tutto e da tutti.
Scattiamo foto bellissime, ed ogni foto viene scaricata senza bisogno di un cavo USB direttamente
in una cartella del nostro cuore e archiviata in una cella della nostra memoria. Torniamo verso
BAC HA dove domani, domenica, c’è il più grande mercato della zona. Sistemiamo le nostre cose
in albergo, facciamo un primo giretto tra gli H’Mong che vivacizzano con le loro bancarelle la
piazzetta del paese e Miao ci accompagna in un trekking tra le risaie. Il sole è splendente e
viviamo le stesse emozioni di questa mattina, aumentate da quelle che, in più, sa regalarti il
contatto diretto con la gente. Il verde ci assale quando scendiamo tra i cordoli dei campi coltivati; le
spighe del riso maturo ormai prossimo alla raccolta ci accarezzano le gambe e lo sguardo si perde
nel verde infinito. Entriamo in una casa H’Mong mentre la signora sta raccogliendo in un sacco il
grano lasciato ad asciugare al sole. La casa, come la vita da queste parti, è essenziale: una stanza
un po’ più grande divisa da tende per creare, forse, un minimo di riservatezza ed intimità, una più
piccola utilizzata per mangiare ed una stanzetta a mo di distilleria per preparare il vino di riso che
la signora vende nei mercati. Tutto qua, quel poco che fa pensare molto. Due ragazzini ci seguono
divertiti, come se per loro fossimo un gioco. Non chiedono niente, ma quando gli regalo una penna
per uno, felici, la mettono subito in tasca come a nascondere un tesoro prezioso. Continuiamo la
passeggiata; due donne, cesta in spalla, rientrano dalla risaia, mentre lungo lo sterrato due ragazzi
tengono a bada tre grossi buoi d’acqua che ciondolano svogliati le loro corna puntate in avanti
come manubri di bicicletta. Il gracchiare di un motore ormai vecchio attira la nostra attenzione:
nelle due case vicino gli uomini stanno macinando il grano con due macchine rudimentali simili a
due lavatrici caricabili dall’alto ma con due grossi imbuti al posto del cestello. Ci allontaniamo per
qualche centinaio di metri e ci sembra di essere usciti da un bellissimo presepe vivente dove la
realtà sostituisce la finzione. Tutto perfetto, domani il secondo tempo del film.
22.08.2010 Al mercato, si sa, si va sempre il mattino presto, così alle 7.30 siamo già fuori per
vedere e per comprare, attività quest’ultima che riesce sempre bene a tutti. Non abbiamo
nemmeno il problema di cercarlo il mercato, è lui che trova noi; la cittadina di BAC HA non ha più
strade, non ha più piazze, ma è tutta un intreccio di banchi e banchetti dai mille colori dove gli
H’Mong a fiori si muovono con ordinata follia, proprio come in un formicaio quando è il momento di
fare la scorta alimentare per l’inverno. Iniziamo il nostro giro dalla parte di mercato dedicata agli
animali, ed è un po’ uno strazio. Le comodità e il benessere a cui, più o meno tutti, siamo abituati e
la vita prettamente cittadina che ci stritola tra orari e impegni forsennati, fanno un po’ a cazzotti con
quanto vediamo, ma niente credo sia criticabile più di tanto in questo contesto. Paperi e galline
stipati in grosse ceste intrecciate di vimini infilano la testa nei buchi per chiedere aiuto nella
speranza di arrivare alla libertà, piccoli maiali chiusi in sacchi di iuta piangono come bambini,
vorrebbero correre, ma una volta tirati fuori vengono legati con una corda ad una zampa e sollevati
per essere mostrati ai possibili acquirenti e poi i cani, anche loro legati con una cordicella al collo
pronti per essere venduti, ti guardano con occhi dolci ed interrogativi, cercano forse di capire quale
futuro li aspetti. Noi siamo abituati a vederli girare per casa, saltare su letti e divani, curati e
coccolati, non certo caramellati; la loro angoscia è sicuramente giustificata. Torniamo all’allegria
del mercato dove le donne H’Mong vendono i loro abiti variopinti, in un’esplosione di colori che
vanno dal blu, al rosso, al giallo, all’arancio, sparpagliati senza un ordine preciso nella tavolozza
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del pittore. Ed è bello vederle comprare orecchini, gambali e cappelli con la stessa civetteria che
contraddistingue il sesso debole in qualsiasi parte del mondo. Le ragazze più giovani si accorgono
di essere osservate e allora ti guardano e accennano un sorriso in uno sguardo tra il malizioso e
l’impacciato che fa tenerezza. Questo mercato è davvero una grande festa tra persone legate a
doppia mandata alle loro tradizioni che resistono intatte da diversi secoli e dove la parola odio
sembra non essere contemplata. Il degno finale di un film meraviglioso. Riprendiamo bagaglio e
pulmino e ci spostiamo a SAPA, la Cortina vietnamita. Ho letto, non ricordo dove, un estratto da
una poesia, di cui non ricordo l’autore, che, più o meno, diceva così: “Sulla strada per Sapa, i fiori
e le foglie si confondono, le nuvole camminano tranquillamente, si sente il profumo della foresta di
qua e di la e i frutti maturi tirano i rami dentro ai giardini di qualcuno”. In effetti Sapa è veramente
bella così come la descrive il poeta, anche se sembra ancora molto lontana per il vietnamita e non
certo per i chilometri. In perfetto stile coloniale ereditato dalla dominazione francese, la cittadina è
accogliente, la gente è cordiale e le montagne che la stringono in un grande abbraccio sono di un
verde rigoglioso che, nonostante le nuvole basse, impressiona. Mangiamo per strada ottimi
spiedini di maiale arrostiti sul fuoco alimentato dall’aria di uno scassatissimo ventilatore
posizionato a fianco di una gratella un po’ arrangiata e ci perdiamo per le strette vie del centro in
cerca di affari. Il made in Vietnam di marche famose fa da calamita e ci restano attaccati giacche a
vento, giubbotti e pantaloni belli e convenienti. Domani ci inoltreremo nella valle per godere ancora
una volta dello spettacolo della natura.
23.08.2010 Al confine della provincia cinese dello YUNNAN, la valle di Sapa è attraversata dal
fiume MUONG HOA, l’ultimo tocco di pennello dell’artista che fa di un bel quadro una vera opera
d’arte. La zona è abitata da minoranze etniche H’Mong Neri, Dzay e Dzao che vivono in villaggi
confinanti che raggiungeremo con un breve ma intenso trekking. Il primo villaggio è LAO CHAI
abitato dagli H’Mong Neri. L’impatto non è dei migliori; il pulmino è letteralmente preso d’assalto ,
stile diligenza negli sconfinati spazi dell’West, dalle donne H’Mong con la loro mercanzia e
seguono tutte una tattica feroce basata sullo sfinimento dell’avversario. Una o, per i più fortunati,
due donne scelgono come preda uno di noi e lo accompagnano per tutto il tragitto sino al villaggio
successivo. Subito cercano di scambiare due parole, poi iniziano a martellarti per comprare
almeno una cosa da loro. Non si arrendono davanti a niente e, con la pazienza del ragno, cercano
comunque di intrappolarti nella loro ragnatela. Ma tutto questo non ci impedisce di goderci la
passeggiata. Ancora una volta il sole ci da una mano e tutto intorno a noi il paesaggio prende vita
nel grande miracolo della natura. Il verde delle risaie inonda la valle e risalta ancora di più dietro ai
colori sgargianti dei vestiti delle nostre accompagnatrici che intanto sono diventate silenziose.
Attraversiamo il villaggio che, in realtà, altro non è che un piccolo agglomerato di case e, come nel
passaggio di testimone in una gara di staffetta, veniamo presi in consegna dalle donne Dzay, etnia
che abita il villaggio di TA VAN. Il copione resta lo stesso: assalto alla diligenza e panorami
mozzafiato. Attraversando il piccolo centro abitato viviamo però un’esperienza nuova: entriamo in
una scuola dove i bambini, di un’età compresa tra i 10 e i 12 anni, subito ci guardano con sospetto,
poi con curiosità. Si sciolgono solo quando le nostre due maestre del gruppo, Lorella e Carla,
cantano alcune canzoncine che, come a Sanremo, sono un classico nelle scuole dell’infanzia. Il
successone arriva con … “ ci son due coccodrilli e un orango tango …. “. Anche la maestra è
divertita e da il là ai bambini perché ci cantino qualche cosa, così vivono il loro momento di gloria.
L’impegno è massimo e l’applauso che gli dedichiamo ci esce direttamente dal cuore. Altro
villaggio e altro passaggio di testimone: siamo a TA PHIN e le donne che ci prendono in consegna
sono Dzao Rossi e sono davvero molto belle. Le solite vesti coloratissime sono arricchite da un
copricapo rosso e la rasatura dei capelli sulla fronte evidenzia la rotondità del viso. Quest’ultima
parte del trekking è sicuramente la più bella. Camminiamo per un lungo tratto in mezzo ai campi di
riso e respiriamo il profumo della terra; niente urla, niente motori, niente clacson, ma solo il fruscio
del riso maturo e il gorgogliare dell’acqua nel fiume. Ah, il fiume, ed ora? Miao ci fa togliere scarpe
e calze, lo attraversiamo e continuiamo scalzi lungo la risaia. Niente drammi, anzi! Sentire la terra
sotto i nostri piedi ci avvicina a capire una vita che non è la nostra, fatta si di restrizioni e di
sacrifici, ma vera, condizionata dai capricci della natura che tanto da, ma che a volte toglie e che
comunque sa riservare sempre un angolo di felicità. Salutiamo le nostre simpatiche
accompagnatrici e risaliamo in pulmino soddisfattissimi. Torniamo a Sapa e precisamente dalla
nostra amica degli spiedini. Oggi ci siamo tutti e facciamo saltare il banco: birra, coca e spiedini di
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carne e pesce buonissimi e in quantità. Il conto questa volta è lungo e difficile e, infatti, è sbagliato;
ma non serve la calcolatrice, con il primo sorriso si aggiusta, con il secondo si paga e si saluta. Ci
imbarchiamo per l’ultima volta su un treno notturno che ci riporta ad Hanoi.
24.08.2010 Arriviamo alle 4.30 del mattino, abbiamo lasciato a Lao Cai Miao e ritroviamo,
puntuale, il “Topino”, l’autista che ci aveva accompagnato anche all’andata; d’altronde, insieme,
non sarebbero andati sicuramente d’accordo. Hanoi dovrebbe essere ancora solo una tappa;
senza passare neppure dal via, dovremmo raggiungere la baia di Ha Long, invece Topino ci
riaccompagna in albergo: il tifone MINDULLE, posizionato proprio sul golfo di Ha Long vuole
provare a rovinarci la festa. Bivacchiamo in albergo sino alle 8.00, svaligiamo il banco della
colazione e aspettiamo notizie che, purtroppo, non sono buone: ne oggi ne domani potremo
andare ad Ha Long, poi si vedrà. Intanto ci organizziamo: oggi giro della città, domani gita a MAI
CHAU per vedere i villaggi sulle palafitte. Ci dividiamo: una parte in giro per negozi, noi andiamo al
MAUSOLEO di HO CHI MINH. Fa un po’ impressione la grandezza della struttura che ospita la
salma del grande capo comunista mai dimenticato o, forse, mai fatto dimenticare, ma soprattutto fa
impressione la quantità e la rigidità delle guardie che lo sorvegliano. Blocchi e divieti a non finire e
una mini maratona per arrivare a vedere la salma, tutti in fila come bambini delle elementari alla
prima gita scolastica, in religioso silenzio e con le braccia stese lungo il corpo. Si respira un po’
troppo aria di regime, come mai ci era successo al Sud del paese, ma ci è sembrato giusto
rendere omaggio ad un uomo che ha contribuito a scrivere un pezzo importante di storia
contemporanea. “ Potete uccidere 10 miei uomini per ognuno dei vostri che io uccido. Ma anche
così, voi perderete ed io vincerò”. Con questa frase motivò prima il movimento VIET MINH contro
giapponesi e francesi ed ottenne l’indipendenza, nel 1945, della Repubblica Democratica del
Vietnam; poi guidò il Vietnam del Nord in una guerra impossibile contro il colosso americano, con
gli esiti che oggi tutti gli storici gli riconoscono: aver lottato e vinto per un Vietnam libero e unito.
Usciamo e, dopo un’altra mini maratona, andiamo anche a vedere la casa in cui visse Ho Chi
Minh e la sua ultima residenza da presidente del Vietnam. Dopo tutte queste mini maratone siamo
un po’ stanchi e, colti da improvvisa nostalgia da Tuc Tuc, prendiamo i risciò per un giro di 1 ora in
città. Risaliamo verso la Pagoda di TRAN QUOC, proprio in mezzo al lago TRUC BACH, poi
scendiamo sino alla TORRE della BANDIERA, uno dei simboli di Hanoi e ci fermiamo al Museo
dell’Esercito. Il museo è chiuso, è iniziato a piovere e l’ora contrattata è finita. I risciò ci scendono
senza pietà, vorrebbero altri dong, ma vista la pioggia che si è fatta insistente decidiamo per il
meno romantico e più pratico taxi e ci facciamo portare nella città vecchia. Ma quanto ci mancano i
Tuc Tuc !!! Giracchiamo un po’ tra le caotiche vie piene di negozi e motorini; la gente si muove
incurante della pioggia battente come se non la bagnasse. Noi, invece, nonostante le mantelle,
siamo fradici. Ci fermiamo in un ristorante e paghiamo la sosta molto cara: quasi 10 $ a testa per
una zuppa nemmeno troppo abbondante di noodles con pezzetti di carne che friggono in due
padelle sistemate sul tavolo e insaporita dal NUOC MAM, la famosa salsa di pesce fermentato che
odora di marcio, ma che, in fondo in fondo, non è male. Delusi sia della quantità che della qualità,
bisticciamo per il prezzo troppo salato, minacciamo di chiamare la polizia e usciamo lasciando
meno di quanto ci avevano chiesto. Senza voltarci ci allontaniamo, vendendo tra la pioggia, ad
ogni angolo della strada, la mafia vietnamita materializzarsi. Per salvarci dall’incubo ci infiliamo in
una caffetteria e, fortunatamente, il miglior caffè vietnamita lo beviamo proprio qui e questo ci
ripaga, almeno in parte, della delusione del pranzo, alla faccia della mafia vietnamita. La pioggia
non accenna a diminuire così ci rifugiamo in albergo sino alle 20.00, poi tutti a cena in un
bellissimo ristorante nel quartiere francese. La pioggia ci accompagna anche a letto, speriamo di
liberarcene domani.
25.08.2010 La giornata è grigia, ma le notizie che arrivano sembrano renderla migliore: il tifone su
Ha Long si sta spostando e domani potremo fare la nostra crociera. Tiriamo un sospirone di
sollievo e partiamo per MAI CHAU, una magnifica valle a 150 km da Hanoi abitata dai Thay
Bianchi. Anche qui si vive ancora come una volta, su palafitte di legno, senza nessun tipo di
infrastrutture ma in assoluta armonia. Ci fermiamo nel villaggio di LAC e rimaniamo subito
impressionati favorevolmente; nessun assalto alla diligenza, nessuna forzatura, ma un senso di
pace e tranquillità. Le donne Thay non indossano abiti particolari ma, abili tessitrici, li espongono
sotto le loro abitazioni insieme a molti altri articoli ricamati. Nella loro semplicità le case sono belle
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e ordinate. Una signoara si aggiusta i capelli e mi invita a salire, orgogliosa di mostrarmi la sua
abitazione. Sono due grandi stanze, con pochi mobili bassi ed eleganti che testimoniano come la
vita si svolga prevalentemente sul pavimento; niente sedie, niente tavoli, niente letti, solo stuoie e
cuscini. Mi ringrazia con mille inchini per una visita che per me è stato un regalo. Ci spostiamo di
casa in casa e compriamo volentieri qualche regalino poi, una signora, ci mette tutti a tavola:
zuppa di noodles e tiger come a casa di amici. Topino suona il clacson del pulman, è l’ora di
andare, destinazione NINH BINH per la notte e poi Ha LONG.
26.08.2010 Il tempo non è male e Speedy Gonzales, anche se il nome non rispecchia le andature
tranquille tenute dal pulmino mentre la somiglianza si, ci porta puntualissimi, alle 11.30,
all’imbarcadero di HA LONG BAY. Una gran confusione di gente ma, soprattutto, centinaia di
barche che, pronte ad inghiottire le loro prede, una a fianco all’altra come tanti alligatori, quasi ci
nascondono la vista dell’acqua, come se galleggiassero nell’aria. Aspettiamo il nostro turno e una
scialuppa ci porta appena fuori il molo dove ad attenderci, tutta per noi, c’è una bellissima barca in
legno che sarà la nostra casa per le prossime 24 ore. Cocktail di benvenuto, tavoli arredati con
gusto, cabine confortevoli e totale relax garantito dallo scivolare lento dell’imbarcazione nelle
calmissime acque verdi della baia; il tutto in un ambiente di incredibile bellezza che fatichi a
collocare. Il posto, infatti, si configura come una vera e propria laguna ma in realtà siamo in mare
aperto dove più di 3.000 isole si innalzano per molti metri sopra il livello del mare e si susseguono
una dopo l’altra, una a fianco all’altra, sino ad occupare l’orizzonte in una percezione strana di
quello che potrebbe essere l’infinito. Da tempo ormai, se dici Vietnam, la gente pensa al napalm e
al colonnello Kurtz, il Marlon Brando di Apocalypse Now; se dici Vietnam la gente pensa alla
guerra con gli Stati Uniti e agli orrori che l’hanno accompagnata; se dici Vietnam la gente pensa ad
Ho Chi Minh e al Partito Comunista Vietnamita, alle sue imposizioni e alla sua chiusura. Noi
abbiamo scoperto un’altra realtà, abbiamo scoperto un paese che, lentamente, sta uscendo dal
suo incubo e si sta aprendo al turista più curioso, mettendo in mostra le sue numerose meraviglie.
Ecco, la Baia di Ha Long rientra a pieno titolo tra queste, conquistando sicuramente il podio.
Letteralmente Ha Long significa “luogo dove il drago si è inabissato nel mare” e la leggenda
racconta che la baia sarebbe nata proprio dalla furia di un drago; ci sembra, a vederla oggi, che
abbia fatto davvero un ottimo lavoro. Oltre al drago, ringraziamo anche il tempo. Un bel sole, a
tratti solo velato, ci accompagna a spasso per la baia per l’intera giornata consentendoci due belle
escursioni. Dopo il pranzo a base di granchio e gamberi, scendiamo per infilarci nella pancia di una
montagna ad ammirare le bellissime stalagmiti stalattiti della grotta HANG DAU GO. Illuminate a
regola d’arte, queste formazioni calcaree si alzano dal terreno come un’enorme pila di piatti che
solo un miracolo riesce a tenere in piedi o pendono dal soffitto come giganteschi coni che
sembrano sorreggere una montagna di gelato. Le forme e i colori in realtà poi cambiano, in base
alla luce, al vento e all’acqua che gocciola dando vita a dei fenomeni che durano da migliaia di
anni. Torniamo all’aria aperta per la gita in kayak. Salvagente e pagaia per un’ora in completa
libertà, sfioriamo le montagne, alte con le pareti che cadono perpendicolari sull’acqua e rosicchiate
dal mare alla base come il topo fa con il formaggio e ci infiliamo in una grotta che sbuca in un
bacino naturale dove le scimmie sono l’unico elemento di disturbo ad una quiete che, comunque, ti
riappacifica con il resto del mondo. Tra schizzi e risate Mauro ed Emanuele trovano anche il tempo
e il modo di anticipare il bagno: si ribaltano con la loro canoa che, affondata solo per metà, resta
dritta come un piccolo iceberg azzurro. La foto ricordo, appena risaliti sulla barca, è d’obbligo. Ora
però è l’ora del bagno per tutti. Tuffi dalla prua della nave per i maschietti, a parte il fifone di
Tommaso che si lancia solo dalla scaletta, entrata più soft per le femminucce. L’acqua è tiepida e
non vogliamo sapere il perché, ma quando usciamo la pelle macchiata e un po’ oleosa non
testimonia certo per la sua purezza. Doccia purificatrice, ottima cena sempre a base di pesce per
finire sdraiati a contemplare le stelle con le tante luci delle barche ormeggiate a fargli da specchio.
Davvero una bella giornata, dopo lo spavento di non poter venire in questo paradiso.
27.08.2010 Lo spavento, però, Ha Long ce lo riserva lo stesso con il terribile temporale che si
scatena alle prime ore dell’alba; lampi e tuoni in quantità industriale turbano la tranquillità della
baia e il nostro sonno ma solo per poco meno di 1 ora, poi di nuovo la pace. Ma al risveglio la
pioggia, fitta e leggera, ha deciso di non abbandonarci, e sarà così per tutta la mattina. Dopo
colazione, armati di ciabatte, costume ed ombrello, scendiamo comunque in un’isola dove alcuni di
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noi sono attratti dalla bella spiaggia e si gettano in acqua, noi invece ci arrampichiamo per una
faticosa scalinata che porta ad una terrazza panoramica. Lo spettacolo è bello nonostante la
pioggia; lo sguardo può spaziare a 360° intorno alla baia e la profondità che ti garantisce l’altezza
ci fa apprezzare ancora di più questo posto incantevole dove le centinaia di isole davanti ai nostri
occhi sembrano pezzetti di un puzzle gigante in attesa di essere sistemati ognuno al posto giusto.
Torniamo sulla barca, mangiamo e alle 12.00, puntuali, siamo nuovamente al molo dove, puntuale,
Topino Speedy Gonzales, il topo più lento del Vietnam, solo lontano parente del topo più veloce
del Messico, ci sta aspettando. Anche Hanoi ci riabbraccia con la pioggia, pioggia che da a questa
città un velo di tristezza che forse non le appartiene. Azzardiamo un giretto nella zona del mercato,
ma dopo mezzora siamo fradici come pulcini; non ci resta che tornare in albergo, andare a
mangiare in un bel ristorante poco lontano senza badare a spese e poi a letto presto, domani
inizierà il lungo viaggio di ritorno.
28.08.2010 Muoviamo verso l’aeroporto di Hanoi alle 6.00, con Topino puntuale come al solito, con
il cestino della merenda come Yoghi e Bubu al posto della colazione e tutti con la stessa
preoccupazione: il volo che ci porta a Bangkok è di una compagnia low cost, peso massimo
consentito per bagaglio 15 kg. La sera abbiamo fatto magie per ridistribuire il peso in zaini e
zainetti, 6 $ a chilo in più scoccia a tutti pagarli, non solo a un ligure come me. Arriviamo alle 7.00,
salutiamo Speedy Gonzales e ci troviamo a tu per tu con il banco della compagnia per un duello
all’ultimo dollaro. Inizia la sfida Deanna, la più spendacciona, che fa volare la bilancia del bagaglio
a 21 kg; non ha possibilità, gli scontano 6 $, ma ne deve pagare 30. Alla fine non è l’unica a
superare il peso consentito ma, non si sa per quale motivo, è restata l’unica a pagare il
sovraprezzo. Un grazie sincero da tutti! Arriviamo a Bangkok in orario insieme ai nostri bagagli;
abbiamo 8 ore per dare un occhio anche a questa città, per questo fissiamo due pulmini che ci
scarrozzeranno sino a sera. Il traffico è infernale, code di macchine infinite, che ci riportano con la
mente al caos delle nostre città, invadono le strade e ci mettiamo 1 ora abbondante per arrivare
davanti al Palazzo Reale. Il complesso è monumentale e l’oro dei tetti e delle decorazioni acceca.
Otto statue giganti con le solite brutte facce con gli occhi fuori dalle orbite e le grandi bocche che
ridono in un ghigno che ha del malefico sono a guardia del tempio principale che custodisce il
BUDDHA di GIADA, uno dei luoghi più venerati della Thailandia; poi, tutto intorno, pagode e stupa
sempre decorati con stucchi e pietre colorate che testimoniano si lo sfarzo, ma anche l’eccesso.
Nell’insieme, personalmente, sono rimasto piuttosto deluso. Ci ha invece impressionato e, nello
stesso tempo, divertito, il grande BUDDHA SDRAIATO, alto 15 metri, lungo 45, ovviamente tutto
dorato e dal sorriso accattivante; un’opera difficile da concepire, come il grande BUDDHA in PIEDI
alto 35 metri, ancora un gigante dorato che scruta l’orizzonte come un faro per i naviganti.
Facciamo serata in un modernissimo centro commerciale, chi per l’ultimo massaggio, chi per gli
ultimi acquisti, chi per il primo panino di McDonalds dell’intero viaggio. Ci imbarchiamo a
mezzanotte e mezzo per l’Italia e questa volta le valige sono pesantissime: ci abbiamo custodito
tutti i mille ricordi di un viaggio intenso, a volte faticoso, sempre sorprendente, triste e riflessivo ma
anche gioioso e divertente, insomma un viaggio bellissimo in compagnia di un gruppo di amici
bellissimo. Mistica, misteriosa, maltrattata la Cambogia; orgoglioso, ostinato, operoso il Vietnam,
con un grande pregio che li accomuna: la stessa gentilezza, la stessa ospitalità. SAME SAME
……. BUT DIFFERENT !!! come recita la maglietta presente in quasi tutti i banchi di souvenir.
Nelle valige i ricordi, nei cuori le emozioni, che sono state a loro volta tante, soprattutto davanti agli
orrori della guerra e dei soprusi, quelle emozioni che ti bloccano i battiti, ti tolgono il respiro, sino a
quando gli volti le spalle e, senza dimenticare, il cuore ritorna alla vita. TUC TUC ….. e così sia !!!!!
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