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PARTE PRIMA Sconnessioni; Keynes non basta più (G. Viale);Nei cerchi del potere (Susan George);Il vertice di Durban a 19 anni da Kyoto (De Marzo); Come uscire dalla crisi (Viale);Il grigio declino dell’università (Balicco, Tomba) ;L’organizzazione dei saperi e la riforma Gelmini (Bevilacqua); Come cambia il … clima. Il cambiamento della questione ambientale dal 1962 ad oggi 2011, L’università dello sviluppo sostenibile (Scandurra); Modernità1, Modernità2; Modernità3; Modernità4; Il lato oscuro del progresso (Chesneaux); La fine del progresso (Bauman); La grande lezione di Leopardi: dominare la natura è un’illusione (Esposito); Riflessi di esistenze in transito (Ceserani); L’Apocalisse è già qui (Viale) Sconnessioni Una caratteristica del nostro sciatto tempo è la separazione degli ambiti: la fabbrica ai sociologi, il mercato agli economisti, le istituzioni ai politologi. Non funziona così. Non funziona nemmeno per i bisogni della conoscenza dei fenomeni: che, separati nella complessità delle loro componenti, diventano oscuri e risultano falsi. Tanto meno funziona per le necessità dell'intervento nei processi: che, spezzati, nel comportamento dei loro soggetti, diventano inagibili e risultano immodificabili. Occorre dotarsi di una visione lucida del Gesamtprozess di sistema, dove tutti gli attori in campo vengono riconosciuti nel loro spazio di movimento, con i loro interessi, e soprattutto con la forza che intendono usare per farli valere. (M. Tronti) Una delle caratteristiche del nostro tempo é la tendenza alla frammentazione, caratteristica dei sistemi rigidi in momenti di crisi. La frammentazione agisce innanzitutto a livello sociale creando una aumento continuo dei conflitti ma é presente anche a livello concettuale perché é prevalsa una visione meccanica del Mondo che ce lo fa pensare come costituito di pezzi indipendenti che possono essere modificati a volontà ad uno ad uno e poi assemblati dagli esseri umani secondo i loro progetti. Per questo tendiamo ad affrontare solo pezzi della realtà, dimenticandoci delle connessioni dei sui componenti e non curandoci in alcun modo delle dinamiche in arte intrinsecamente imprevedibili dei processi. Questo atteggiamento é presente a livello globale e ci porta in questo momento storico a considerare come non collegate le quattro crisi che stiamo affrontando: ambientale, sociale, energetica, economica. Il Manifesto del 23 febbraio Keynes non basta più COMMENTO - Guido Viale COMMENTO - Guido Viale Non è possibile prospettare una via d'uscita in un quadro nazionale o continentale privo dei riferimenti ai vincoli e alle opportunità offerte dalla crisi ambientale L'orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi ambientale: non solo dai mutamenti climatici, che rappresentano ovviamente la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell'inquinamento e della devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall'esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che sono anch'essi "risorse naturali", anche se utilizzate per devastare la natura); dall'esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che alimentari (il nostro "pane quotidiano"); dall'inquinamento degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della vita e delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c'è chi pensa di poter fare argine con l'innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove tecnologie. È in gran parte un'illusione, ma anche se fosse possibile farlo su una o alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro interconnessione in un sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di crescita economica, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, senza fare riferimento a questo quadro, è un discorso vuoto. La crisi ambientale offre all'economia delle opportunità e impone dei vincoli: le opportunità sono note (a chi ha interesse per la questione): sono le potenzialità di una conversione ecologica di produzioni e consumi verso beni e servizi meno dipendenti dai combustibili fossili, meno devastanti per la biodiversità, e verso la qualità e la disponibilità di risorse primarie; le potenzialità di una occupazione maggiore e diversa, caratterizzata a una più estesa valorizzazione delle facoltà personali e della cooperazione; le potenzialità legate alle caratteristiche fisiche, storiche e sociali di ogni territorio; i territori sono diversi uno dall'altro e la loro ricchezza dipende dalla conservazione di questa diversità. Ma i vincoli sono altrettanto rilevanti: il consumo di suolo e di risorse non può procedere al ritmo seguito finora; molte delle produzioni che hanno guidato lo sviluppo industriale dell'ultimo secolo dall'edilizia all'automobile, dagli armamenti all'utilizzo dei combustibili fossili, dal turismo di massa alle monocolture alimentari - non potranno continuare per molto sulla stessa strada: non solo per mancanza di risorse e per eccesso di rilasci inquinanti, ma anche per saturazione dei mercati: della domanda solvibile. Vincoli e opportunità indotti dalla crisi ambientale dovrebbero essere i criteri informatori di qualsiasi politica industriale: cioè delle scelte che determinano o orientano le decisioni su che cosa, quanto, con che cosa, come e dove produrre. Sono scelte che non possono essere lasciate al mercato, cioè al libero gioco della domanda e dell'offerta; perché nessun mercato è in grado di cogliere tutti i segnali che provengono dalla complessità del contesto ambientale, da cui non si può più prescindere. In secondo luogo, la globalizzazione ha trasformato alcune aree geografiche del pianeta in manifatture del mondo. A questo è dovuta la contrazione della domanda di lavoro - qualificato e no - che ha colpito i paesi di più antica industrializzazione, imponendo alle relative classi lavoratrici un drammatico deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita: precarizzazione, disoccupazione, contrazione dei redditi, compressione del welfare. Questo processo ha investito tutti i settori e tutta o quasi - la gamma delle produzioni e, in misura maggiore, i beni consumati dalle classi lavoratrici: i cosiddetti beni-salario. Mentre nelle cittadelle di più antica industrializzazione sono rimaste quasi solo alcune produzioni di beni di investimento di maggiore complessità, molte delle attività di coordinamento e gestione delle attività delocalizzate e alcuni segmenti di produzioni più o meno tradizionali di beni suntuari (ormai riuniti in un'unica categoria merceologica onnicomprensiva, denominata per l'appunto "lusso"). Tutto ciò ha profondamente alterato l'efficacia delle politiche economiche. Gli Stati ne hanno perso alcune (la determinazione del tasso di sconto, la politica dei cambi, la creazione di moneta, la politica doganale) o per averle cedute a enti sovranazionali (è il caso dell'Unione europea e soprattutto dell'eurozona); o perché esse sono state di fatto requisite dalla finanza internazionale: cioè da organismi di diritto privato detentori - e anche creatori - di una massa monetaria sufficiente a condizionare le decisioni di ogni Stato: anche di quelli più potenti. Ma, soprattutto, le misure economiche adottate in una parte del pianeta possono distribuire i loro effetti (diluendoli o moltiplicandoli) su tutto il resto del mondo (lo si è visto con la crisi dei mutui subprime) e magari non avere alcun effetto, né positivo né negativo, nel paese dove sono state prese. Ciò ha minato molte delle misure di sostegno della domanda di matrice keynesiana con cui di recente si è cercato di stimolare la produzione e, con essa, l'occupazione. Raramente oggi gli incrementi di produzione si traducono in aumenti dell'occupazione - a volte innescano salti tecnologici o organizzativi che addirittura la riducono - ma sempre meno la produzione aggiuntiva messa in moto da una politica di sostegno della domanda riguarda lo stesso paese in cui è stata adottata. Lo si è visto con gli incentivi alla rottamazione con cui quasi tutti i paesi occidentali hanno cercato di fare fronte alla crisi del 2008-2009: in molti casi il sostegno all'occupazione nazionale è stato insignificante. Ma questo è particolarmente vero per la maggioranza dei beni-salario il cui consumo potrebbe essere alimentato da un sostegno ai redditi più bassi. Gli effetti riguarderebbero soprattutto beni di importazione a basso costo; il che si traduce solo in maggiori squilibri della bilancia commerciale da finanziare con l'indebitamento. Le politiche keynesiane che hanno sorretto lo sviluppo dei cosiddetti "trenta (anni) gloriosi" erano tarate sul contesto di uno Stato nazionale ancora in gran parte in possesso delle principali leve della politica economica (e che non per questo aveva rinunciato a sviluppare anche una robusta politica industriale adatta alle condizioni dell'epoca: per esempio nel campo della siderurgia, degli approvvigionamenti energetici, della navigazione, della infrastrutturazione e, ovviamente, degli armamenti; per sconfinare magari in campi, come l'alimentare o l'automobile, da cui avrebbe forse potuto esentarsi). Ma oggi un ragionamento sulle "vie di uscita" dalla crisi sviluppato in un quadro nazionale (come quello al cui interno hanno funzionato per alcuni decenni le politiche keynesiane), o anche continentale, ma privo di riferimenti ai vincoli e alle opportunità indotti dalla crisi ambientale non è più plausibile. Non ha più molto senso ragionare su meri aggregati economici espressi in termini monetari, senza tener conto che nessuna politica economica è più praticabile senza una contestuale politica industriale che orienti e condizioni l'oggetto delle produzioni e le modalità (individuali o condivise) del consumo di molti beni e servizi. Questo, a mio avviso, è un limite inemendabile delle analisi e delle proposte correnti di stampo keynesiano, come quelle peraltro esemplari di Giorgio Lunghini sul manifesto del 16 febbraio («Riscopriamo Keynes per uscire dalla crisi»). Non solo; una politica industriale che faccia riferimento alla crisi ambientale, cioè orientata a produzioni e consumi sostenibili - la "conversione ecologica" - non è concepibile se non in un contesto di progressiva riterritorializzazione: con un ridimensionamento e una rilocalizzazione delle produzioni in prossimità (relativa) dei mercati di smercio; o in un rapporto diretto - o comunque meno esposto alle alee di un interscambio non programmato - tra produzione e consumo. Questo indirizzo, che non è protezionismo né abolizione, della competitività (l'idolo del nostro tempo) ma una sua moderazione certamente sì, rimette al centro delle politiche economiche e industriali il governo del territorio. Ed è anche, a mio avviso, l'unica alternativa plausibile al progressivo deterioramento dell'occupazione, dei redditi e delle condizioni di vita delle classi lavoratrici dell'occidente industrializzato, ormai trascinate in una corsa al ribasso per allinearle a quelle dei paesi emergenti; la politica salariale della Grecia (salari minimi quasi al livello di quelli cinesi) ne rappresenta oggi la manifestazione più lampante. Il Manifesto del 27 ottobre 2011 Susan George OLTRE LA CRISI Nei cerchi del potere La finanza sta lentamente distruggendo la società, cancellando al tempo stesso il problema più drammatico, quel riscaldamento climatico che potrebbe determinare la cancellazione stessa della civiltà umana. Per questo occorre individuare delle strategie che fermino questa macchina di guerra. Un intervento della studiosa statunitense, ospite all'incontro annuale dell'editoria sociale, che inizierà domani a Roma i suoi lavori In Europa la crisi finanziaria è quella che preoccupa la maggioranza della popolazione e gode della copertura più ampia sulla stampa, ma non è l'unica. Uomini e donne fanno bene a preoccuparsi della finanza, visto che nella vita reale l'attuale caos finanziario si traduce in alta disoccupazione giovanile, pesanti tagli ai servizi pubblici e in tutte quelle misure di austerità che sono destinate ad aggravare la crisi. Ci troviamo inoltre in una grave crisi di disuguaglianza. In Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti, dagli anni Venti o Trenta del Novecento il benessere non è mai stato così mal distribuito. Gli indignados, gli «indignati» hanno completamente ragione a identificarsi con il «99 per cento»: hanno compreso che l'uno per cento al top ha aumentato enormemente il proprio reddito mentre tutti gli altri lo stanno perdendo. Tuttavia, ritengo che la crisi più drammatica sia quella di cui meno parliamo, il global warming e il cambiamento climatico. La crisi climatica avrà infatti gli effetti più profondi sulla stessa civiltà, e in paragone renderà irrilevanti le nostre preoccupazioni finanziarie. Provo a spiegare con un'immagine ciò che intendo. Immaginiamo che il mondo sia governato da cerchi concentrici o sfere di potere, in cui il più potente sia collocato nella sezione più esterna. Oggi, il cerchio più potente, quello che più influenza le nostre vite, è la finanza. La finanza globalizzata manda letteralmente avanti il mondo, basta osservare la quantità di soldi che le banche hanno ricevuto dai governi (il che significa dai contribuenti, in altri termini da me e da voi). Un recente rapporto stilato dalla Federal Reserve (Fed) americana stima in sedici trilioni di dollari (16.000.000.000.000) la somma di soldi spesi dalla Fed per salvare le banche. Una cifra che non tiene conto di quel che gli inglesi, i tedeschi, i francesi e via dicendo hanno speso per le loro banche. Una cifra di cui non conosco l'esatto ammontare. Immaginiamo comunque che ogni dollaro speso dalla Fed per salvare le banche corrisponda a un secondo sul nostro orologio. Sedici trilioni di dollari, tradotto in secondi, corrisponde a cinquecentomila (500.000) anni. La voracità della finanza Le banche, da parte loro, hanno speso grandi somme di denaro per fare lobbying sui governi, affinché rimuovessero tutte le restrizioni ai loro movimenti. Questo tipo di deregulation ha contribuito in modo significativo alla crisi: le banche hanno assunto grandi rischi con i soldi miei e vostri. Dal loro punto di vista, erano nel giusto, dal momento che erano too big to fail e sapevano che i governi sarebbero dovuti intervenire per salvarle, in caso di crollo. Allo stesso tempo, hanno fatto ampio ricorso ai prestiti, spesso assumendo rischi di 30 o 40 dollari per ogni dollaro proprio. Ma nonostante questo sono state salvate senza alcuna condizione. Non hanno dovuto cambiare alcunché nel loro operato e rimangono too big to fail. In questo senso, la finanza è senz'altro il cerchio più ampio, quello collocato all'esterno. Il successivo cerchio di potere è l'economia reale, dove la gente investe, produce, distribuisce e consuma. Negli Stati Uniti, quest'economia reale riceve soltanto il 20 per cento dell'investimento disponibile, mentre il resto finisce direttamente al settore finanziario. Marx ha fondato la sua analisi sull'economia reale: gli industriali ottengono profitti producendo beni e servizi reali, sfruttando i lavoratori nel processo di produzione e tenendo per sé stessi il surplus di valore. Oggi, non c'è più bisogno che l'economia reale faccia soldi. Negli ultimi venti anni circa, si è potuto ottenere molto di più scommettendo direttamente sui prodotti finanziari e vendendo sempre di nuovo lo stesso prodotto finanziario. Il terzo circolo di potere è la società, che include il governo, il quale deve obbedire alle regole della finanza e dell'economia. I governi obbediscono a tali regole, anziché fare in modo che siano la finanza e l'economia ad obbedire loro, cosa che porterebbe benefici alla popolazione. I sistemi di protezione sociale e perfino la salute e l'educazione sono sotto attacco ovunque, anche in quell'Europa che si ritiene sia il continente più ricco. Negli scorsi 3 o 4 anni i governi sono diventati sempre più indebitati, soprattutto a causa delle somme che hanno dovuto impiegare per salvare le banche. E oggi ci si aspetta che la gente paghi di nuovo: dopo aver già pagato il salvataggio delle banche, ora deve pagare nuovamente perché i debiti governativi sono troppo alti. L'ultimo cerchio è quello ambientale, la biosfera, un cerchio molto limitato a paragone degli altri tre. Per la maggior parte dei governi, prendersene cura rappresenta una sorta di lusso, che oggi non ci si può permettere di affrontare. Si tratta di un atteggiamento miope, e tragico. Ora, non sarete certo sorpresi nel sentire che la soluzione a tutti i problemi è semplice da affermare ma estremamente difficile da realizzare. E' la prima volta nella storia umana che la gente è sollecitata a compiere un simile cambiamento fondamentale: dobbiamo capovolgere l'ordine dei cerchi che ho appena descritto. La biosfera deve venire per prima e divenire il più potente dei cerchi, perché è il più potente. Non possiamo contraddire le leggi della fisica e della chimica, e se lo facciamo siamo sicuri di perdere. Non ho mai parlato di «salvare il pianeta» perché il pianeta si prenderà cura di sé come ha fatto per 4 miliardi e mezzo di anni. La vera questione non è tanto se il pianeta sopravviverà, quanto se gli esseri umani in quanto specie sopravviveranno sul pianeta. La conferenza sul cambiamento climatico che si terrà a Durban alla fine del prossimo mese sembra sia destinata a un altro colossale fallimento, alla stregua delle precedenti conferenze di Copenhagen o Cancun. Presto, sarà troppo tardi, se non lo è già. Scienziati molto rispettabili ci suggeriscono che l'aumento della temperatura potrebbe raggiungere i 4 o 5 gradi Celsius e che ciò decimerebbe letteralmente la popolazione umana. Il secondo cerchio sarebbe la società, una società democraticamente organizzata in cui i governi rispondano al popolo e il popolo sia la base della loro autorità. Una democrazia reale non è possibile fino a quando i governi governano per conto del sistema finanziario. Il cerchio successivo, il terzo, sarebbe la vera economia, con genuini investimenti nel lavoro, nell'educazione e nella salute, e con un alto livello di spesa pubblica e più equi sistemi di tassazione e distribuzione delle rimesse. Preferisco evitare di parlare di società «socialista» o «comunista», così come di qualsiasi altro tipo di società che si presume perfetta, perché sono estremamente diffidente della gente e dei partiti che già credono di sapere esattamente come dovrebbero essere organizzate le future società libere. Spero ci possa essere una varietà di forme organizzative, adeguate alle diverse culture, storie e preferenze. Desidero conservare la biodiversità, e ritengo la sociodiversità un valore positivo. Per ultimo, ci sarebbe la finanza, il più piccolo e fragile dei quattro cerchi: semplicemente uno strumento, tra molti altri, al servizio dell'economia reale, della società e della biosfera. Questo non è - ripeto non è - un progetto utopico. È del tutto realizzabile se noi, il popolo, riusciamo a strappare il controllo dalle mani del sistema finanziario. Quando la crisi finanziaria è divenuta più grave, nel 2007-2008, ho cominciato a occuparmi dei modi in cui avremmo dovuto usare la crisi finanziaria per risolvere le altre due gravi crisi della disuguaglianza economica e sociale e del clima. Ciò significherebbe prendere il controllo della finanza e investire immediatamente in una transizione verde, creatrice di posti di lavoro, cercando i soldi là dove ci sono, tra la persone e le corporations che ora si trovano al top. Una transizione sociale e verde significa anche che dobbiamo socializzare le banche, e scrivo socializzare e non nazionalizzare perché, insieme al governo, parte dell'autorità spetterebbe ai cittadini, agli impiegati di banca e ai clienti. A quel punto le banche dovrebbero concedere prestiti alle imprese di piccole e medie dimensioni, in particolare a quelle con un progetto ambientalmente innovativo e alle famiglie che intendano comprare o costruire case a risparmio energetico o energeticamente neutrali. Molti studi hanno dimostrato che un'economia ecologica è anche un'economia che crea posti di lavoro, e a tutti i livelli della società, dai lavoratori edili agli scienziati della classe media. Il clima al primo posto Per le banche socializzate, l'altra priorità sarebbe di estendere il credito alle imprese sociali, le compagnie con qualche forma di controllo da parte del lavoratore. Nessuna legge sostiene che la democrazia debba fermarsi là dove comincia l'economia, e l'economia ha bisogno di essere democratizzata. Le banche dovrebbero essere viste come parte del network del servizio pubblico. Le attività economiche di piccole e medie dimensioni hanno un gran bisogno di credito. Piuttosto che salvare le aziende in via di fallimento per fare esattamente ciò che finora hanno fatto - per esempio produrre automobili - si paghi il personale, dai lavoratori agli ingegneri e così via, per inventare nuovi prodotti che siano i più socialmente utili e che possano essere prodotti negli attuali luoghi di lavoro. Abbiamo speso centinaia di anni trascurando la creatività di metà della razza umana - vale a dire le donne - e ancora oggi trascuriamo la creatività, quasi tutta, della gente che lavora. Ci sono molte altre misure da adottare, che richiederebbero una descrizione troppo dettagliata. Mi limito a elencarle: cambiare gli statuti e i mandati della Banca centrale europea, in modo tale che conceda prestiti direttamente ai governi, non alle banche, che a loro volta li concedono ai governi a interessi più alti. La Banca centrale europea non dovrebbe limitarsi a «controllare l'inflazione» (unico suo compito oggi), ma favorire la creazione di lavoro. Emettere Eurobond e impiegare gli investimenti per network intra-europei di trasporto ed energia puliti. Creare una tassa europea su tutte le transazioni finanziarie, incluse valute, stock, bond e derivati a 1 punto base (1/1000); chiudere i paradisi fiscali; cancellare l'intero debito africano nei confronti dell'Europa, in cambio di progetti di riforestazione localmente orientati e partecipati, che possano essere monitorati (uno «scambio debito per clima»); rivedere tutti gli accordi di libero commercio e scegliere gli elementi che favoriscono i diritti umani, del lavoro e dell'ambiente, scartando gli altri; accordare preferenza ai prodotti del commercio equo (monitorato). Soprattutto, mai dimenticare che le banche sono nostre, in un senso piuttosto letterale. In quanto contribuenti, infatti, abbiamo pagato per loro con i nostri soldi e se non l'avessimo fatto non esisterebbero più. Dunque, non preoccupiamoci di dirlo! Altrimenti, continueremo a vivere in una crisi morale, in una crisi finanziaria, sociale ed ecologica. Finora, abbiamo ricompensato i colpevoli e punito gli innocenti. E' arrivato il momento di capovolgere le cose.(Traduzione di Giuliano Battiston) VERTICE DI DURBAN (2012) UN ACCORDO FARSA CHE SE NE FREGA DEL CAOS CLIMATICO OPINIONI - Giuseppe De Marzo Dopo due settimane e 40 ore di extra time l'accordo di Durban in realtà non prevede nulla di vincolante per i grandi inquinatori, ma dice solamente che nel 2015 verrà definita un'intesa e che questa sarà valida nel 2020. Come un obeso che dopo 19 anni (gli anni passati dal primo summit ad oggi per trovare una soluzione sul clima) continua a rimandare al prossimo lunedì la dieta necessaria a salvargli la vita. Gli credereste? Trecentocinquamila morti ogni anno, innalzamento dei mari, scomparsa di molti paesi del pacifico, distruzione delle economie degli stati costieri, intensificazione dei fenomeni metereologici estremi, acidificazione dei mari, desertificazioni di intere aree del mondo, cinquanta milioni di profughi ambientali, centinaia di milioni di posti di lavoro a rischio, perdita di biodiversità a ritmi superiori rispetto alle precedenti estinzioni di massa: come si fa a rimandare ancora? Proprio qui in Africa, il continente che rischia di essere "cucinato" dal caos climatico, si è seppellito l'unico accordo in vita, quello di Kyoto, che vincola legalmente i paesi industrializzati a ridurre le emissioni. Nel 2012 scadrà senza essere sostituito da qualcosa di altrettanto obbligatorio. Il Cop17 di Durban sarà ricordato come un fallimento per l'umanità ed un grande affare per chi continua a far salire la febbre del pianeta. A sentire i governi dei grandi inquinatori, su tutti Usa e Cina, dovremo aspettare il 2015 per negoziare un accordo che sarà vincolante solo nel 2020. Il punto è che non abbiamo dieci anni! La scienza parla chiaro: il picco delle emissioni deve essere il 2015 e dall'anno seguente dovranno ridursi se vogliamo evitare di essere responsabili di un innalzamento della temperatura superiore ai 4 gradi nel corso di questo secolo. I governi avevano indicato solennemente a Copenaghen due anni fa, sede del Cop15, in due gradi il limite oltre il quale la conseguenza sarebbe trasformare la terra in un girone dantesco e sprofondare la gran parte dell'umanità nell'apartheid economica e ambientale. È cambiato qualcosa da allora? Basterà la green economy gestita dal colosso cinese a ridurre il riscaldamento globale? Evidentemente no. Come si fa quindi ad aspettare il 2020? Su chi dovrebbe obbligare i grandi inquinatori a ridurre le emissioni, ha prevalso l'idea di lasciare al mercato, alle forze produttive (o distruttive?) e alla finanza la capacità di ridurre le emissioni di gas clima alteranti, come se la crisi finanziaria non avesse insegnato niente sulla mano "visibile" del mercato. L'assenza dei principali capi di Stato del mondo inquinante e industrializzato al vertice dimostra del resto come la politica sia oggi incapace di prendere decisioni contrarie ai grandi interessi economici e finanziari, anche se in gioco sono le sorti dell'umanità. Chi per una ragione e chi per un'altra tutti privilegiano, sbagliando, le ragioni della crisi economica. Un pensiero primitivo, eppure vincente, quello che dipinge ancora in contrapposizione l'economia all'ecologia ed ignora i limiti segnalati dalla scienza. E non è certo questa la strada per coniugare le ragioni dell'ambiente con quelle del lavoro. Le proposte portate dalla società civile e dalla scienza per una seria riconversione energetica ed industriale dell'apparato produttivo, in grado di rispondere concretamente a queste due grandi urgenze, sono rimaste inascoltate. Nemmeno sui meccanismi di mitigazione ed adattamento si sono fatti passi avanti concreti per sostenere i paesi più poveri o più vulnerabili, come le isole nel Pacifico in pericolo per l'innalzamento dei mari. Gli Usa che avevano garantito cento miliardi di dollari ogni anno per il Fondo Verde hanno fatto marcia indietro e non si capisce chi metterà i soldi, come saranno ripartiti e come avverrà il trasferimento di tecnologie pulite. Siamo in balia delle onde. Per evitare di scoprirci naufraghi sul nostro stesso pianeta dobbiamo fare prestissimo e costruire un campo nuovo che esprima una cultura ed una pratica egemone che ripensi lo sviluppo a partire dai limiti del pianeta. Non è impossibile. La società civile, i movimenti, i lavoratori, i contadini e la scienza sono pronti. Speriamo che la politica questa volta scelga di stare dalla parte giusta. È l'ultima occasione. * portavoce A Sud Il Manifesto del 02 nov 2011 Guido Viale L'ITALIA E L'UE Un fronte comune, insieme ai Pigs Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte, ovviamente, lo è Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte dell'establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio). E Confindustria che lo ha sostenuto fino all'altro ieri anche; e allora, di che si lamenta?). Ma gli uomini e le donne al governo dell'Europa sono anch'essi promotori e prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che è però quello che hanno costruito e vellicato) di un virus altrettanto grave, di cui Berlusconi non è che la manifestazione più grottesca, infame e repellente. Quel virus è il pensiero unico: la convinzione, contro ogni evidenza, che il mercato, e solo il mercato, può tirarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. E che per tirarci fuori dai guai, per uscire dalla crisi, occorre rilanciare la crescita: cioè sperare - e che altro, se no? - in un aumento del Pil tale da generare entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a rimborsare, un po' per volta, una parte consistente del debito pubblico. Per loro l'economia è come un'auto a cui si è imballato il motore. Basta dargli una spinta e tornerà a correre cioè a crescere - di nuovo. Ma le cose non sono così facili; e non lo saranno mai più. E intanto, in attesa di questo miracolo, la soluzione vincente è il taglio della spesa pubblica: pensioni, sanità, scuola, trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico impiego, salari e stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di ricavarne le risorse necessarie a tacitare gli appetiti dei mercati, cioè di tutti coloro impegnati a produrre denaro per mezzo di denaro: banche, assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con la liquidità necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è in svendita: a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre vie le unghie alla speculazione non si parla; perché quello che chiamano mercato è speculazione: senza l'una non c'è l'altro, e viceversa; simul stabunt, simul cadent. Così, invece di crescere l'economia si avvita su se stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente. La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno - ma pochi lo dicono - che non si riprenderà più per decenni. Ma altri paesi, Italia in testa, sono già sullo stesso cammino e nessun paese dell'eurozona è più al sicuro. Per statuto la Banca centrale europea (Bce) non può fornire liquidità alle banche messe in crisi dai debiti sovrani (cioè degli Stati) che detengono: ufficialmente per non generare inflazione; in realtà per perpetuare quel blocco dei salari da cui ha avuto origine la cavalcata dei profitti degli ultimi decenni. Così, per garantire quei debiti si ricorre alla creazione di nuovi debiti in una catena senza fine (andando a chiedere l'elemosina persino in Cina) e l'Europa consegna alla finanza internazionale e alla speculazione le chiavi dell'economia: la creazione di liquidità, cioè la moneta. Siamo alla vigilia della Cop 17, il vertice dell'Onu che a Durban (Sudafrica) dovrebbe rinnovare, estendere e approfondire gli accordi di Kyoto per ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra, causa dell'imminente catastrofe climatica. Scienziati di tutto il mondo ribadiscono l'urgenza di un cambio di rotta, pena la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma nessuno si occupa più della questione e niente evidenzia meglio l'inconsistenza e vacuità della governance europea (e di quelle del resto del mondo: tutte fautrici e insieme prigioniere del pensiero unico). Già si sa che a Durban non si concluderà niente, come niente si è concluso a Copenhagen (Cop 15) e a Cancùn (Cop 16). Se tre anni fa erano Berlusconi e la pseudo-ministra Prestigiacomo a girare l'Europa per spiegare agli altri capi di governo che certi impegni erano irrealizzabili e dannosi per l'economia, ora il loro obiettivo è raggiunto: anche se in alcuni paesi qualche passo in avanti, comunque insufficiente, è stato fatto, su questo punto, in nome della crescita, l'allineamento dell'Europa al berlusconismo è ormai completo. C'è un'alternativa a questa spirale? Certo che c'è. E' la conversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi: la promozione di una democrazia economica fondata sull'autogoverno e un sistema produttivo decentrato, diffuso, diversificato, esperto, riterritorializzato (a chilometri zero, ovviamente dove è possibile), replicabile in tutto il mondo: tanto nei paesi di consolidata industrializzazione che in quelli emergenti e in quelli devastati da sfruttamento e globalizzazione. Una conversione che coinvolga i settori portanti della generazione e dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'alimentazione, dell'edilizia e della cura del territorio, della mobilità e della sanità; e promuova l'autogoverno dei saperi, dei servizi pubblici e dei territori, restituiti alla loro vocazione di beni comuni; e adotti consumi più sobri e meno aggressivi verso l'ambiente: non la rinuncia ascetica né la miseria a cui la finanza sta condannando il 99% della popolazione mondiale; bensì un graduale passaggio dai consumi individuali, in cui le scelte sono imposte dalla moda, dalla pubblicità, dal marketing, dagli sprechi, a un consumo condiviso, in cui gli acquisti vengono effettuati, nel rispetto degli orientamenti di ciascuno, attraverso processi partecipati come quelli dei gruppi di acquisto solidale (Gas). E con dei veri tagli alle spese viziose: che non sono la pensione dopo quarant'anni di lavoro in fonderia, e nemmeno il prepensionamento di uomini e donne nel pieno del loro vigore cacciati dalle aziende e senza alternative; ma le spese militari, l'evasione fiscale, le grandi opere inutili e dannose, la corruzione, i costi dei politici (dei politici, non della politica: quella vera non costa quasi niente). Solo nella prospettiva di una conversione ecologica le risorse che si ricavano da tagli del genere non verranno sprecate; evitando soprattutto di pagare un servizio del debito (in Italia oltre 100 miliardi di euro all'anno) che non può che affondare il paese. Non è il vagheggiamento di una società ideale, ma un programma che risponde a un elementare senso di giustizia in un processo fatto di conflitti, di partecipazione e di organizzazione delle forze necessarie per imporre soluzioni innovative e condivise: a partire dalle situazioni di crisi occupazionale che non hanno prospettive se non nella riconversione produttiva; e dal condizionamento dei governi locali, per risalire di lì ai governi nazionali e alle governance europee e mondiali. Ma dove sono mai le forze per imboccare una strada del genere? Quelle forze hanno fatto una comparsa a livello globale nella giornata del 15 ottobre, trascinate dall'indignazione nei confronti del modo in cui vengono governate, dalla volontà di valorizzare l'energia e l'intelligenza di una generazione messa ai margini dai poteri della finanza, dalla determinazione a non pagare i costi della crisi e i debiti contratti dagli establishment politici e finanziari al potere. Il segnale è partito dalla Spagna e le parole più chiare sono state dette a New York; ma la manifestazione più numerosa e dalla composizione più variegata di questo movimento in marcia è stata quella di Roma, dove si sono ritrovati, per la prima volta insieme, associazioni, movimenti, comitati, sindacati e persone (dai No Tav agli occupanti del Teatro Valle, dalla Fiom ai Cobas, dal Forum per l'acqua al movimento degli studenti) che da anni lavorano con tenacia a promuovere progetti e rivendicazioni tra loro diversi ma convergenti; e non è valsa a offuscarne il significato la messa in scena di una aggressività vacua e violenta. Una cosa emerge ormai con chiarezza: entro i vincoli di bilancio imposti dalla Bce a Grecia, Italia (quelli esplicitati dalla lettera con cui Draghi e Trichet hanno definito il programma di questo come di ogni prossimo governo) e in tutta l'Europa non c'è posto né per la politica, né per la proposta, né per l'alternativa. C'è posto solo per l'obbedienza, la rinuncia, il servilismo mascherato da buon senso di tanti columnist, e una spirale che porta direttamente al default; dopo aver però devastato occupazione, redditi, convivenza civile, tessuto produttivo e ambiente. La strada stretta della conversione ecologica passa allora attraverso lo scardinamento di questo diktat ed è a senso unico. La crisi in corso, con il salvataggio delle banche too big to fail (troppo grandi per fallire) ci fa capire quanta forza hanno in realtà i debitori. E' la condizione in cui si trova oggi il nostro paese: la sua insolvenza trascinerebbe nello stesso gorgo, insieme all'euro, tutta la costruzione dell'Unione europea e le economie sia deboli che "forti" di tutti gli altri paesi. Ci sono dunque le condizioni per imporre una ristrutturazione radicale e selettiva del debito pubblico italiano attraverso un negoziato condotto insieme ai paesi cosiddetti Pigs, tutti esposti alla stessa deriva. Cominciando così a sgonfiare la bolla del debito che dai mutui subprime alle banche e agli hedge fund, e da quelle agli Stati che le hanno salvate, e dagli Stati di nuovo alle banche e poi di nuovo agli Stati, continua e continuerà ad aleggiare sul continente, sconvolgendone tutto il sistema produttivo; e buttando a terra uno a uno come tanti birilli tutti gli Stati dell'Unione. Non sarà l'attuale governo - né il prossimo - ad avviare un negoziato del genere; ma questo è il discrimine intorno a cui raccogliere e ricostruire un'autentica forza di opposizione. Anche per salvare l'euro; e l'Europa che vogliamo. Riconversione ecologica della produzione e dei consumi, democrazia economica fondata sull'autogoverno. La possibilità c'è, a patto di scardinare i diktat dei vincoli di bilancio Il Manifesto del 3 nov 2011 Daniele Balicco Massimiliano Tomba PRIMA E DOPO LA GELMINI ll grigio declino dell'Università La logica aziendale è diventata dominante perché lo Spirito critico aveva già abbandonato da tempo gli atenei C'è una crisi dell'Università. Essa si manifesta, all'interno, come scontento generalizzato in ogni grado della sua struttura. All'esterno, con critiche più o meno pertinenti sulla sua inefficienza. I governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno cercato di porre rimedio a questa crisi attraverso una razionalizzazione di matrice aziendale. Inevitabile che così fosse, se l'istituzione più alta della ricerca e della formazione non è stata in grado di autoriforma, ma solo di amministrare risorse sempre più scarse. Durante le recenti proteste dei ricercatori, si è talvolta sentito l'appello alla metafora della nave comune da tenere a galla. Ma la nave dell'accademia, ancora decorata con alcuni orpelli feudali, è ormai in mano al cuoco di bordo. Il megafono non trasmette più la rotta, ma ciò che si mangerà la sera. Dallo stato attuale di crisi non si esce incolpando qualcun altro, sia esso il ministro, il rettore di turno, qualche barone, talvolta addirittura gli studenti «ignoranti»; questa strategia serve solo a proiettare verso l'esterno la propria responsabilità, o irresponsabilità, per ciò che sta accadendo. Poiché il dovere dell'Università è la formazione innestata sulla ricerca, la reazione degli studenti e il loro scontento rispetto alla cosiddetta «offerta formativa» vanno presi sul serio. Gli studenti non sono indifferenti, come farebbe comodo credere, ma reagiscono con una «intenzionale ottusità», con una sorta di autodistrazione difensiva alla riduzione della conoscenza in moduli indifferenti di informazioni usa e getta. Oggi lo studente deve immagazzinare un pacchetto di informazioni così come si leggono le istruzioni per montare un mobile. Il libretto di istruzioni può essere gettato via appena il mobile è montato. Questo è il risultato delle riforme che si sono succedute negli ultimi anni. Lo scopo comune è stato quelli di sincronizzare lo sfasamento fra ricerca, mercato del lavoro e istituti formavi. Poiché il problema non sta nelle diverse soluzioni da dare alla combinazione di questi elementi, ma negli elementi stessi, il disastro era fatale. Se la casa va a fuoco ha poco senso spolverare i tappeti. Oggi il valore della ricerca universitaria viene misurato quantitativamente in base alla produzione di articoli e brevetti, cioè secondo i criteri di una razionalità economica e amministrativa. Si sbaglierebbe a criticare l'estensione dei criteri di valutazione delle scienze naturali alle scienze umanistiche in nome di una romantica autonomia di queste ultime. Piuttosto si tratta di indagare come e perché i due campi confluiscono verso un'unità di nuovo genere. Compito di chi ha cura dello «Spirito» è cogliere questa possibilità in termini di mutamento e non con l'atteggiamento reazionario di chi intravede ovunque solo grandi orizzonti di decadenza o solo problemi di budget. Lo «Spirito» non è stato cacciato dai processi di razionalizzazione, come si vorrebbe facilmente credere, ma al contrario quei processi hanno operato perché lo «Spirito» aveva già abbandonato l'Università. L'ipertrofico conflitto per preservare e accrescere insignificanti fette di potere e briciole di finanziamenti, è lo spettacolo che sempre accompagna la decadenza delle istituzioni quando, spesa ogni energia per non-mutare, resta solo la lotta per accedere a posizioni vantaggiose all'interno di un ordine che si presume o si vuole mantenere immobile. Se l'ordine non viene messo in questione, resta la lotta nella gerarchia, una lotta per le posizioni di potere che prima o poi degenera in aperta corruzione. L'ordine, non messo in questione, diventa qualcosa di morto, e lo «Spirito« lo abbandona. La situazione è disperata, ma proprio perciò ci può essere salvezza. Bisogna però capire cosa è successo e che cosa sta succedendo. Formazione e ricerca, assieme. L'attuale oggettivazione dei saperi presenta sia elementi di novità sia di continuità con i processi di trasformazione del lavoro avvenuti durante le rivoluzione industriali. La continuità sta nell'atto della separazione. La grande industria espropriò, incorporandolo nella razionalità delle macchine, il sapere del lavoro artigianale. Oggi l'intellettuale vede il proprio sapere espropriato in quella infinita somma di informazioni che la memoria delle macchine informatiche incorpora. Grazie al computer, che sostituisce e incrementa la produttività del lavoro, nuovi ambiti di conoscenza vengono immagazzinati in pacchetti di informazioni pronti per l'uso. Un nuovo mutamento antropologico accompagna questa oggettivazione di sapere. Questo processo può rappresentare non la linea di decadenza del sapere classico, ma il campo di possibilità di nuove forme di ricerca, di formazione, di sperimentazione. Oggi le informazioni non sono più racchiuse nel cranio individuale del singolo intellettuale o docente, ma sono ovunque disponibili come bene comune da accrescere. Quello che è però certo è che la somma delle informazioni non produce, né produrrà mai, di per sé, conoscenza. La conoscenza non è una semplice raccolta di dati, ma è una forma, un processo che si apprende per imitazione. Per questa ragione, compito dell'università oggi è anzitutto quello di formare persone capaci di decodificare, di selezionare e di sostare di fronte al sapere comune depositato nella memoria alfanumerica delle macchine; e, nello stesso tempo, di saper farne a meno. Tutto il tempo, non solo la punta del presente che si autorappresenta come più avanzata, deve poter orientare un ricercatore, in qualsiasi disciplina. Si può progredire, infatti, anche, con balzi vertiginosi, nel ritorno a possibilità perdute, verso quella convergenza tra scienze, arti ed etica che non abbisognava di proclami ministeriali, esternazioni papali o noiose causuistiche di bioetica per porre limiti alla ricerca scientifica. Per poter fare questo serve lo stupore e il desiderio della ricerca, che è viaggio comune di esplorazione, nello spazio e nel tempo. L'Università non si salverà se non inizierà a trasformare radicalmente le forme di trasmissione del sapere ripensando e investendo quanto più possibile in quella comune esperienza che è il rapporto docente/allievo. Quell'esperienza ha bisogno di tempi adeguati, di spazi adeguati, di coraggio, di radicalità e di buon senso. Una formazione superiore che, in ogni suo grado, non si ponga questi compiti, è fatale che si perda. L’organizzazione dei Saperi e la riforma Gelmini Piero Bevilacqua ( Il Manifesto del 23 gennaio 2011) La riforma Gelmini, definita «epocale» dalla ministra - che evidentemente ha idee confuse su ciò che sono le epoche - divenuta legge, investirà la vita delle Università italiane nei prossimi mesi. Un diluvio di norme e regolamenti da applicare pioverà sugli atenei, proseguendo ed esacerbando le tendenze dell'ultimo decennio, durante il quale « l'innovazione continua»» delle cosiddette riforme ha tormentato docenti e studenti, perennemente alle prese con problemi organizzativi e novità procedurali da interpretare. Una pratica che ha assorbito non poco tempo ed energia alle loro ricerche e ai loro studi. Nulla di nuovo, dunque, se non il peggio che prosegue nella sua china, perché la riforma aggiunge un'ulteriore limitazione di risorse e di personale ai vecchi problemi. Ciò che tuttavia iscrive la nuova legge nel quadro delle ristrutturazioni universitarie della Ue è un dato di cui pochi, in verità, si sono occupati. Tutte le riforme dell'ultimo decennio non si sono neppure interrogate sulla qualità degli insegnamenti che si impartiscono nell'Università. L'unica preoccupazione che ha tenuto desta l'attenzione dei riformatori è stata quella di far corrispondere discipline e insegnamenti alle tendenze del mercato del lavoro. I solerti pedagogisti del capitale non hanno rovelli che per questo. E perciò anche un grande scrupolo nell'emarginare le discipline umanistiche, poco utili a produrre saperi strumentali, immediatamente spendibili nel mercato. Per il resto, nessuno sguardo sugli scenari attuali delle scienze, nessuna messa in discussione dell'esistente, nessun accenno a una possibile «riforma dei saperi» che allarghi gli orizzonti della ricerca e della formazione universitaria.La diffusione dell'ecologia Qui si può osservare nitidamente la miopia sistemica della cultura capitalistica dell'ultimo trentennio. È infatti il caso di ricordare che, mentre le nostre Università si reggono sugli insegnamenti delle vecchie discipline, sulle loro nette separazioni istituzionali - aggiornate nei contenuti da qualche solitario ed eterodosso docente - all'esterno il mondo dei saperi scientifici è stato investito da trasformazioni profonde, in questo caso davvero «epocali». Si pensi alla diffusione, negli ultimi decenni, dell'ecologia, «la scienza delle relazioni - come scriveva il suo fondatore, Ernst Haeckel - fra le cose viventi e il loro ambiente». Questo nuovo ramo del sapere non è una qualche disciplina specialistica che si viene ad aggiungere a quelle già esistenti. Esso ha letteralmente capovolto uno dei principi costitutivi su cui si è fondata e sviluppata l'intera scienza moderna: vale a dire la separazione e l'isolamento dell'oggetto dal suo ambiente, per essere studiato nella sua separata e solitaria struttura. L'ecologia ha mostrato, al contrario, che i fenomeni si indagano dentro il loro contesto ed ambiente, perché le connessioni, non sono accidenti, ma costituiscono la realtà intima e indisgiungibile degli stessi fenomeni. Possiamo studiare il seme del grano o l'ape in laboratorio, ma la loro vita reale si comprende nell'universo complesso del suolo, oppure tra le piante, i fiori e le altre famiglie degli insetti. La «prima scienza nuova», come Edgar Morin ha definito l'ecologia - con esplicito riferimento al nostro Giambattista Vico - per la prima volta mostra il mondo vivente in cui tutti siamo immersi come una complessa rete di connessioni i cui multiformi equilibri e relazioni costituiscono ciò che noi definiamo natura. Essa disvela, dunque, l'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni che la scienza moderna aveva frantumato in una moltitudine di specialismi. Il successo dirompente dell'ecologia che - salvo rari casi - stenta ancora a trovare spazi adeguati nelle aule delle Università, non è solo dovuto alla sua straordinaria fertilità metodologica. Basti pensare alla sua propagazione tra tante discipline tradizionali, dalla biologia alla chimica, dalla fisica alla botanica, o alla "esplosione" di un campo prima ignoto della biologia, come quello della biodiversità. Il suo vero e proprio trionfo è stato decretato da due clamorosi e drammatici fallimenti che la tecnoscienza ha subito nella seconda metà del '900. Il primo di questi, come tutti sanno, è il «buco dell'ozono». L'intera vicenda ha mostrato che nessuno dei chimici che avevano creato i gas clorofluorocarburi aveva idea degli equilibri gassosi degli strati alti dell'atmosfera. E di come questi potessero essere gravemente alterati dai gas costruiti in laboratorio. Come apprendisti stregoni che avevano destato potenze infernali, essi hanno dovuto prendere drammaticamente atto dell'esistenza di relazioni invisibili che regolano l'atmosfera in cui dimorano i viventi sul pianeta Terra. L'altro caso, ben noto, è il riscaldamento globale. Uno degli studiosi più impegnati sul campo, Nicholas Stern, l'ha definito «il più grave ed esteso caso di fallimento del mercato che si sia mai verificato». Giudizio certo calzante, ma tutto interno all'economicismo imperante. In realtà, la tardiva scoperta che le attività umane condizionano il clima della Terra costituisce il più grave scacco subito dalla scienza contemporanea. L'incapacità delle discipline dominanti di pensare la Terra come una biosfera, vale a dire come un universo di relazioni il cui equilibrio rende possibile la vita, mostra nitidamente come queste discipline hanno smembrato la natura per dominarla nelle sue singole parti, dimenticando che essa è un tutto. Scoprire, come oggi facciamo, che ciò che immaginavamo come infinitamente lontano e indipendente dalle attività umane, il clima, risente invece dell'azione dei nostri scarichi e dei nostri fumi, disvela l'urgente necessità di una «scienza nuova», di un sapere olistico di cui l'ecologia è portatrice. Dobbiamo, infatti, prendere atto che il cielo, immaginato come infinitamente lontano e distante da noi, è invece il tetto della nostra casa, e corriamo il rischio di renderlo rovente. Ora, questi nuovi saperi si stanno facendo strada. Com'è noto, è proprio per lo studio dei mutamenti climatici che si è formato l'Ipcc, voluto dall'Onu: il più grande consesso di studiosi mai messo insieme per studiare, con diverse conoscenze disciplinari, quella speciale totalità che è il clima terrestre. Anche all'interno di qualche Università di avanguardia l'ecologia va producendo un rimescolamento dei vecchi assetti disciplinari, e comunque un nuovo dialogo tra le scienze e tra queste e i saperi umanistici. È il caso, ad esempio, dell'Environmental Science, Policy and Management dell'Università di California, a Berkeley, dove filosofi e chimici, storici e botanici cooperano o dialogano su ricerche comuni. Ma si tratta di qualche stella in un firmamento spento. Riflessione analoga meritano i saperi umanistici, oggi letteralmente perseguitati come veicoli di parassitismi antieconomici, di contagiosi virus del pensiero libero e disinteressato. Eppure il rimescolamento senza precedenti di razze e culture che investe oggi il globo, reclama come non mai il concorso dei saperi umanistici per comprenderlo e interpretarlo. La necessità di una cultura cosmpolita, che faccia i conti con un eurocentrismo ormai angusto, capace di abbracciare le storie e le antropologie, le fedi e le lingue di moltitudini di genti ormai presenti nella nostra vita e nel nostro immaginario, reclama più conoscenze dagli storici, dagli antropologi, dai sociologi, dai geografi, dagli economisti, dai letterati. Mondo globale, università provinciali E come rispondono i riformatori a questa sfida, anche questa, realmente «epocale»? Con quali saperi si affronta la complessità del mondo che diventa globale? Conosco un solo sforzo serio in questa direzione, avviato in Francia dalle Maisons des Sciences de l'Homme : fortilizi dei saperi umanistici di cui avremmo così bisogno in Italia. Qui, al pedagogismo straccione del centro destra italiano, che rivendicava (ricordate?) la politica delle "tre i" - internet, inglese, impresa - le Maison hanno fatto corrispondere ben diversi significati alle stesse vocali: internazionalità, interdisciplinarietà e interistituzionalità. Ma anche in questo caso si tratta di una piccola cometa nei cieli spenti d'Europa. In realtà, mentre si costruisce l'Ue, mentre siamo inondati di retorica sull'avanzare del mondo globale, nelle Università non si fa nulla per costruire la nuova cultura cosmopolita del cittadino europeo e globale. Anzi, in tutti questi anni abbiamo assistito a un fenomeno culturale rilevantissimo di cui le Università portano una responsabilità primaria. Alludiamo al fatto che l'economia, uno dei più antichi saperi del mondo occidentale, diventata una scienza sociale dominante in età contemporanea, si è ormai ridotta, tanto nel suo operare sociale che nelle aule dell'Università, a una tecnologia della crescita economica. Oggi dominano nei curricula delle Facoltà di economia discipline come marketing, matematica finanziaria, economia aziendale, banche e mercati finanziari, ecc, tutto ciò che serve a fare di un giovane un dirigente o un dipendente di impresa. La sua formazione culturale strettamente al servizio delle necessità presenti del capitale. E nessuno - a quanto mi risulta - mena scandalo del fatto che in queste Facoltà non sia presente una materia come storia del lavoro, o come sociologia del lavoro. Non ha nulla a che fare il lavoro con l'economia, con la formazione della ricchezza? Da dove viene, chi ha costruito la società industriale del nostro tempo, in cui i neolaureati sono chiamati a operare? È evidente, in questo caso, che già nelle Università si cancella il lavoro - e le persone viventi che lo realizzano - dall'orizzonte formativo dei giovani economisti. Ma questa disciplina mostra oggi altre, ormai insostenibili, inadeguatezze. Com'è possibile che chi studia economia non possa accedere a un corso fondamentale di storia del colonialismo? Quale può essere la formazione di un giovane economista che ignora un tratto fondativo della storia economica europea: vale a dire il fatto che essa si fonda su cinque secoli di saccheggio delle risorse del Sud del mondo? Ma oggi il capitalismo, con la sua immane macchina divoratrice di energia e risorse, reclamerebbe una ben altra consapevolezza scientifica da parte delle discipline che lo promuovono e l'indirizzano. Non è l'attività economica una gigantesca e insonne manipolazione di risorse naturali destinate alla vita di esseri naturali? Non è l'economia una ecologia inconsapevole? Eppure, a tutt'oggi, i saperi ecologici dentro queste facoltà non hanno diritto di cittadinanza. Ecco dunque che di fronte all'ampiezza di questi problemi e di queste contraddizioni - il mondo dei saperi che sopravanza in ampiezza e profondità quello strumentale con cui il capitale vuol restringere gli orizzonti formativi delle nuove generazioni mostra quale portata strategica assuma l'Università nel nostro tempo. Quale luogo di affermazione di un sapere non piegato ai comandi del profitto, che guardi alla natura come a un bene comune da tutelare e non da saccheggiare e che operi al tempo stesso per un progetto di società solidale e multiculturale su scala planetaria. Si comprende bene, quindi, che la lotta dei ricercatori, degli studenti e dei docenti italiani è destinata a trovare motivi di continuità non solo nelle soffocanti imposizioni della legge Gelmini, ma anche in un più vasto orizzonte di ragioni e di prospettive. www.amigi.org Come cambia il….clima Il cambiamento della questione ambientale dal 1962 ad oggi 2011 1962, il libro di Rachel Carson, Silent Spring, La questione ambientale è cosa di pochi intellettuali e scienziati accusati di essere i nemici del progresso. Siamo in piena crescita economica, è l’era dello sviluppo illimitato The Silent Spring C'era una volta una città nel cuore dell'America dove tutta la vita sembrava scorrere in armonia con il paesaggio circostante. La città si stendeva al centro di una scacchiera di operose fattorie, tra campi di grano e colline coltivate a frutteto, dove, di primavera, le bianche nuvole dei rami in fiore spiccavano sul verde dei prati [...]. D'improvviso un influsso maligno colpì l'intera zona, ed ogni cosa cominciò a cambiare. La popolazione cadde sotto il potere di una diabolica magia; il pollame fu decimato da misteriose malattie; i bovini e le pecore si ammalarono e perirono [...]. Ogni giorno i contadini parlavano di malanni che colpivano le loro famiglie [...]. Si trattava di una singolare epidemia. Gli uccelli, per esempio, : dov'erano andati a finire? [...]. Nessuna magia, nessuna azione nemica aveva arrestato il risorgere di una nuova vita: gli abitanti stessi ne erano colpevoli (Carson, 1962). 1972 Il Club di Roma commissiona all’M.I.T il famoso rapporto sulle sorti future del pianeta Per la prima volta viene usato il calcolatore elettronico e simulato l’andamento di variabili utilizzando modelli matematici. Il collasso del pianeta è fissato al 2010. Inizia l’era della esauribilità delle risorse. Lo shoc petrolifero La Guerra del Golfo. Per la prima volta nella storia dell’umanità, ci si trova a fronteggiare il rischio di esauribilità delle risorse. I primi provvedimenti di austerità: la giornata senza auto e la circolazione a targhe alterne 1986. L’ONU commissiona un Rapporto sul cambiamento dell’ecosistema terrestre. La Commissione è presieduta dal Primo Ministro norvegese Gro Brutland. Nasce il concetto di SVILUPPO SOSTENIBILE. Il problema non è più l’esauribilità delle risorse ma l’equilibrio della biosfera. 1987, Il Rapporto Brutland, il concetto di sviluppo sostenibile. Forse le risorse sono sostituibili, non è questo il problema. Il problema è la stabilità dell’ecosistema planetario aggredito dagli esiti delle attività antropiche. Moderare l’uso delle risorse rinnovabili, contenere l’uso delle risorse non rinnovabili 1992, Protocollo di Kyoto, accordi sul clima, l’effetto serra, il riscaldamento climatico Gli scienziati sono ancora divisi sul riscaldamento climatico. L’effetto serra è dovuto o no all’attività antropica? Gli accordi prevedono una modesta riduzione dei gas serra tra i paesi occidentali. I Grandi della Terra si riuniscono a KYOTO, primo allarme planetario sul CAMBIAMENTO CLIMATICO. Gli effetti del cambiamento sono dovuti all’effetto serra causato dall’aumento di CO2 per effetto del consumo eccessivo di fossili. Gli Stati Uniti non sottoscriveranno mai questo accordo che prevedeva la riduzione dei gas serra del 20%. Dalla geopolitica alla politica della biosfera “Seguirò la scienza non la moda”. Così si è espresso il 25 aprile 2001 il Presidente degli Stati Uniti a proposito della sua politica sull’ambiente. “Riteniamo, ha detto – che la tecnologia sia avanzata al punto tale da poter far andare di pari passo crescita economica e politica ambientale”., un pensiero – questo – che poggerebbe su “solide basi scientifiche” 2009, Conferenza di Copenaghen, il riscaldamento ambientale, il clima Entrano sulla scena Cina, India, Brasile, per gli stati Uniti Obama. Ora gli scienziati sono d’accordo. Le regole della partita viene fissata dagli scienziati (aumento max della temp. 2 gradi), ma la gara del clima è tutta politica. FINALMENTE IL PROBLEMA…….ESISTE 1962-2009, 47 anni per decidere se la questione ambientale….. ESISTE Si fa spazio la posizione della green economy E’ colpa dell’uomo, oppure no? Kunh diceva: Dove un paradigma vede conigli, un altro vede anatre A questo punto della storia umana è quasi inutile stabilire se la colpa è dell’uomo oppure no Noi possiamo solo cercare di ridurre quanto più possibile l’emissione di gas serra. Nelle scienza, in condizioni di incertezza, vale il PRINCIPIO DI PRECAUZIONE. E’ in atto un cambiamento del clima. Nell’ultimo secolo la temperatura media alla superficie del pianeta è aumentata di 0,7C°. Il livello dei mari aumentato di 17 cm. La massa di ghiaccio in Groenlandia e in Antartide si è ridotta. L’estensione dei ghiacciai al Polo Nord si è ridotta. Si registra un forte aumento di gas serra in atmosfera. C’è correlazione tra aumento di gas serra e aumento di temperatura? Temperatura alla superficie e gas serra in atmosfera aumentano e diminuiscono insieme.Non sappiamo quale sia la causa e quale l’effetto. Il clima del pianeta è un sistema molto complesso… ci sono molte retroazioni (feed back) E’ l’aumento della temperatura che causa più gas serra in atmosfera o viceversa? O gli aumenti sono sinergici e si rafforzano a vicenda. I fattori che influenzano il clima sono molti a partire dal suo grande motore: il Sole. Ma nessuno sarebbe in grado di spiegare i cambiamenti climatici in atto senza tener conto dei fattori antropici.. Ovvero l’aumento dei gas serra prodotti dall’attività umana. E’ l’aumento della temperatura che causa più gas serra in atmosfera o viceversa? O gli aumenti sono sinergici e si rafforzano a vicenda. I fattori che influenzano il clima sono molti a partire dal suo grande motore: il Sole. Ma nessuno sarebbe in grado di spiegare i cambiamenti climatici in atto senza tener conto dei fattori antropici.. Ovvero l’aumento dei gas serra prodotti dall’attività umana. E’ l’aumento della temperatura che causa più gas serra in atmosfera o viceversa? SE INVECE…. Tutto procederà come adesso, entro il 2100 la temperatura potrebbe aumentare di 6C° (o 4C°).. Il livello dei mari crescerebbe di oltre 1mt!!! Quanto inquinano le guerre? La guerra in Iraq ha prodotto 141 milioni di tonnellate di CO dal marzo 2003 al dicembre 2007. La produzione di gas serra equivale a quella prodotta da 139 paesi in un anno Quando è stato annunciato che i paesi ricchi spenderanno 10 miliardi di dollari per aiutare i paesi poveri a sopportare le conseguenze dei cambiamenti climatici, il sudanese Lumumba Di-Aping, presidente del G77 che riunisce un gruppo di paesi in via di sviluppo, ha dichiarato: L’appello di Obama del 2009 e la svolta del Papa del 2009 Stili di vita più sobri e più rispettosi dell’ambiente e di tutto il Creato; maggiore attenzione ai poveri e ai paesi vittime di fame, siccità, guerre, malattie; sviluppo solidale con al centro la dignità della persona umana Bene, non è neanche abbastanza per pagarci le bare Vi propongo due riflessioni: Il dio ecologico non può essere beffato (Bateson) Nell’ecologia non esistono scorciatoie (la poesia del vecchio marinaio di Coldridge) La soluzione non è nelle emissioni di gas serra ma nei tagli seri alla fonte: Lasciare il petrolio nella terra, Lasciare il carbone nelle miniere Dichiarazione finale della Conferenza dei Popolisul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra22 aprile 2009, Cochabamba, Bolivia Oggi, la nostra Madre Terra è ferita ed il futuro dell’umanità è in pericolo. Se il riscaldamento globale incrementasse di 2° C, eventualità a cui ci condurrebbe la cosiddetta “Intesa di Copenaghen”, esiste il 50% di probabilità che i danni provocati alla nostra Madre Terra siano totalmente irreversibili. Un numero compreso tra il 20 e il 30% delle specie sarebbe a rischio d’estinzione. Grandi estensioni di foreste sarebbero danneggiate, le siccità e le inondazioni colpirebbero differenti regioni del pianeta, si amplierebbero i deserti e si aggraverebbe lo scioglimento dei poli e dei ghiacciai nelle Ande e in Himalaya. Molti stati insulari sparirebbero e l’Africa soffrirebbe di un incremento della temperatura di più di 3º C. Si ridurrebbe, allo stesso modo, la produzione di cibo nel mondo con effetti catastrofici per la sopravvivenza degli abitanti di vaste regioni del pianeta e aumenterebbe in maniera drammatica il numero degli affamati nel mondo, che già ha superato la cifra di 1020 milioni di persone. Infine, siamo d’accordo a realizzare la 2ª Conferenza Mondiale dei Popoli sul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra nel 2011 come parte di questo processo di costruzione del Movimento Mondiale dei Popoli per la Madre Terra e per reagire ai risultati della Conferenza sul Cambio Climatico che si realizzerà alla fine di questo anno a Cancun in Messico. Cancun, Vertice Mondiale sul clima, dicembre 2010 E' questo l'accordo che i delegati a Cancun hanno accolto con applausi - e che la presidente dell'assemblea, la ministra degli esteri messicana Patricia Espinosa, ha quindi dichiarato approvato, nonostante la contrarietà della Bolivia, che infatti protesta («sono state violate le regole multilaterali del consensoo»). I delegati applaudono «perché pensano da politici», ha detto Pablo Solon, l'ambasciatore boliviano all'Onu che guidava la delegazione del suo paese a Cancun. «Ma questo accordo è insufficente, non impedirà alla temperatura globale di continuare a salire di 4 gradi centigradi, e sappiamo tutti che questo è insostenibile» Dal punto di vista del negoziato, un progresso è innegabile: la 16esima conferenza degli oltre 190 paesi firmatari della Convenzione dell'Onu sul clima ha «ripristinato la fiducia in un processo negoziale verso un futuro a basse emissioni di carbonio», Quelli che l'Onu definisce con eccesso di solennità gli «Accordi di Cancun» restano un documento debole. Circa le emissioni di gas di serra, il documento registra gli impegni assunti volontariamente dai vari paesi per il periodo fino al 2020: sia quelli quelli industrializzati che quelli in via di sviluppo, per i quali sarà istituito un registro. Si tratta di impegni volontari, non vincolanti, e i meccanismi di verifica restano da precisare: la novità politica è che anche grandi nazioni «emergenti» come Cina e India hanno accettato che prima o poi dovranno assumersi impegni verificabili - e gli Stati uniti anche. Non è più preciso il punto che riguarda i soldi. Il vertice di Cancun ribadisce l'impegno dei paesi industrializzati (già preso a Copenhagen) a mettere 30 miliardi di dollari da subito fino al 2012, e in seguito 100 miliardi all'anno fino al 2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo ad adattarsi al cambiamento del clima: ma non è chiaro se si tratta di aiuti o prestiti, né come saranno gestiti i fondi e da chi Il documento parla di un futuro «Fondo verde per il clima. E di «rafforzare» i clean development mechanism, «meccanismi di sviluppo pulito», già istituiti dal trattato di Kyoto (è il meccanismo per cui un paese industrializzato investe in imprese «sostenibili» in paesi in via di sviluppo e poi scala dal suo conto le emissioni così tagliate o risparmiate). Sarà istituito un Comitato esecutivo per il trasferimento di tecnologie. Non è più preciso il punto che riguarda i soldi. Il vertice di Cancun ribadisce l'impegno dei paesi industrializzati (già preso a Copenhagen) a mettere 30 miliardi di dollari da subito fino al 2012, e in seguito 100 miliardi all'anno fino al 2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo ad adattarsi al cambiamento del clima: ma non è chiaro se si tratta di aiuti o prestiti, né come saranno gestiti i fondi e da chi Il documento parla di un futuro «Fondo verde per il clima. E di «rafforzare» i clean development mechanism, «meccanismi di sviluppo pulito», già istituiti dal trattato di Kyoto (è il meccanismo per cui un paese industrializzato investe in imprese «sostenibili» in paesi in via di sviluppo e poi scala dal suo conto le emissioni così tagliate o risparmiate). Sarà istituito un Comitato esecutivo per il trasferimento di tecnologie. Vedremo come continuerà la nostra storia! Il Manifesto dell’11.01.2011 LAVORO E TERRITORIO L'UNIVERSITÀ DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE Enzo Scandurra L'immagine del Palazzo blindato - il 23 dicembre - che discute del futuro dell'università mentre tutt'attorno gli studenti manifestano il furto del proprio futuro, resterà nella memoria del Paese accanto ad altre sciagurate disgrazie nazionali. La Gelmini chiude un ciclo, d'ora in avanti «nulla sarà più come prima». Il ciclo è quello, iniziato con Berlinguer e poi proseguito senza soluzioni di continuità, della normalizzazione aziendalista, della trasformazione di una università intesa come libera comunità scientifica, in organismo burocratico transnazionale. La fine del modello humboldtiano: il modello europeo di università, organizzata per costruire la coscienza civica, rafforzare l'identità nazionale, produrre la nuova classe dirigente. Tuttavia - è doloroso ammetterlo - dopo l'università di élite durata fino al '68, nessuna proposta organica è mai stata fatta per riformare veramente l'università da parte della sinistra. Il leitmotiv della modernizzazione passava attraverso la smobilitazione del vecchio modello elitario per costruire qualcosa di più adatto al modello neoliberista e al mondo anglosassone: l'università come investimento individuale delle famiglie e non più come luogo del sapere critico. I segnali d'incendio c'erano tutti, già da subito dopo il '68. Mancava solo un governo autoritario e una sinistra allo sbando ammaliata dal mito ambiguo del modernismo. Come ha sostenuto Piero Bevilacqua, «nelle innovazioni che hanno investito l'Università e che ancora la agitano e la tormentano con un flusso interminabile di cambiamenti normativi e procedurali - non è dato rintracciare nessuna interrogazione profonda sullo stato dei saperi nel nostro tempo, nessuna seria preoccupazione sui caratteri e i bisogni delle scienze contemporanee. Né tanto meno sulle questioni relative al loro studio, apprendimento, trasmissione, se non dal lato puramente tecnico e organizzativo. Eppure, proprio questo è oggi il cuore più profondo della questione: quali saperi si impartiscono nelle nostre Università? Qual è il grado della loro presa e rappresentazione del mondo reale? Come si è trasformata e ristretta, sotto le pressioni della macchina economica, la natura della loro utilità sociale? Quale spazio conservano i saperi disinteressati, le conoscenze finalizzate alla formazione umana e spirituale delle nuove generazioni?» A queste domande non c'è mai stata risposta. I saperi ingessati delle discipline diventano sempre più incomunicanti rispetto alla domanda che viene dal mondo reale di interconnessione. I saperi attuali trasformano il nostro mondo sferico in un mondo piatto unidimensionale, il mondo del pensiero unico. Tre grandi questioni oggi appaiono indissolubilmente legate: la questione ambientale, quella economica e del lavoro, quella sociale. È a partire da queste tre crisi, fortemente interconnesse, che potrebbero nascere nuovi saperi con i quali sostituire le vecchie discipline ottocentesche e riduzioniste fondate sulla separazione e sulla frammentazione dei sistemi allo studio. Per esempio il passaggio dalle "grandi opere" di ingegneria civile alla salvaguardia del territorio e alla sua ristrutturazione, l'agricoltura, la produzione di auto che non usano combustibili fossili, le energie rinnovabili, l'organizzazione urbana fino alla costruzione di edifici non energivori, lo smaltimento dei rifiuti e così via, per non parlare dei contributi provenienti dai saperi umanistici rinnovati che possono contribuire ad affrontare il tema di un nuovo sviluppo in armonia con l'ambiente. Il territorio, in questa prospettiva, da suolo inerte, produttore di rendita fondiaria parassitaria, diventa luogo vivente delle comunità insediate, laboratorio di pratiche virtuose che vanno nella direzione di uno sviluppo equilibrato e autosostenibile. E così anche i nuovi saperi dovrebbero ritrovare una loro connessione con le pratiche che si sviluppano su questi territori sottratti allo sfruttamento della rendita. Questo significherebbe aprire alla modernità: fondare saperi e pratiche in grado di arrestare e invertire le tendenze catastrofiche del nostro tempo. Non è una dolce utopia; le condizioni di oggettiva drammaticità del pianeta e dei suoi abitanti producono la necessità di grandi cambiamenti. Questi, e non altri, avrebbero dovuto essere i temi alla base di una vera riforma universitaria. (Modernità1) uscito su l’Altro il 18 giugno 2009, p.7 Siamo antichi o moderni? Cosa significa oggi essere moderni? Di primo acchitto la domanda appare fin troppo ingenua, quasi ovvia, scontata. Ciascuno di noi sa cosa significa, ma poi a voler spiegare la cosa ad altri riesce assai più difficile. Eppure si tratta di una espressione comune che utilizziamo frequentemente nella conversazione. Diciamo ad esempio: “ma tu non sei moderno..” e l’altro difficilmente ci domanderà cosa intendiamo dire. Ovvio, si capisce. Ma se quel nostro interlocutore ci rispondesse a sua volta con una domanda del tipo: “cosa intendi dire?”, allora ci troveremmo in un certo imbarazzo. Come diceva sant’Agostino: Io so cos’è il tempo, ma se dovessi spiegarlo non saprei farlo. Domanda: cosa significa essere moderni? Fù Bernard de Fontenelle che nel 1688 pose la questione della modernità. Scrisse un piccolo testo:”Disgression sur les anciens et les modernes” che affrontava il nesso tra le nozioni di modernità, progresso e futuro. Detto in altri termini, per de Fontenelle la superiorità dei moderni sugli antichi risiede/va nel fatto che il tempo lineare dei moderni implica una successione storico-temporale che procede dal peggio verso il meglio rispetto all’idea di circolarità del tempo storico sostenuto dagli antichi. Bene, questa è ancora oggi l’idea diffusa sul concetto di progresso: una retta che va dal basso verso l’alto, dal peggio verso il meglio; progresso è una parola-concetto che sta ad indicare qualcosa di assolutamente positivo ed evolutivo. Domanda: è affermazione? così? La vostra esperienza quotidiana conferma questa A distanza di 150 anni da de Fontenelle, Leopardi stroncherà questa idea (che pure sopravvive nel pensiero contemporaneo) con quella famosa e ironica frase de La Ginestra: “le magnifiche sorti e progressive”. Dopo di lui, verso la metà dell’Ottocento sarà Darwin a sostenere (scientificamente) che l’evoluzione è cieca e casuale e non procede dal basso verso l’alto. Marx e Darwin diedero alla stampa quasi contemporaneamente i loro lavori che avrebbero cambiato il mondo. Tuttavia se a Marx era molto simpatico Darwin, non altrettanto era il sentimento che provava quest’ultimo nei confronti di Marx. Il filosofo di Treviri - possiamo dirlo - era determinista e un po’ meccanicista e pensava davvero che la storia procedesse dal peggio verso il meglio: la rivoluzione sarebbe stata inevitabile! Poi fu ancora, nel Novecento, Benjamin che si incaricò, nelle sue tesi sulla filosofia della storia, di demolire questa idea persistente attraverso quella straordinaria immagine-metafora dell’angelo della storia di Klee. L’angelo è sospinto irresistibilmente in avanti da una bufera (il progresso) ed ha il viso girato all’indietro (la storia). Ciò che vede ai suoi piedi sono rovine e macerie, ma non può fermarsi, il vento del progresso lo sospinge inevitabilmente in avanti. Questi personaggi, Leopardi, Benjamin, erano veri e propri profeti che avrebbero anticipato la catastrofe del moderno. Ma non era questo il modo di pensare della maggior parte degli uomini che invece aderivano (ed aderiscono ancor oggi) alle idee di de Fontenelle. Dunque moderno, almeno rispetto alle brevi e precedenti considerazioni fatte, significa fiducia nel progresso, nella scienza e nella tecnica ipotizzate come elementi che ci libereranno per sempre dalla tirannia dei nostri bisogni materiali, dalle forme di superstizione, dalla dipendenza dagli oracoli, dalla natura intesa come madre maligna e indifferente alle sofferenze dell’uomo, dalle vecchie visioni cosmologiche. Questa fiducia implica, come sosteneva de Fontanelle, un futuro luminoso, prevedibile, manipolabile: il Sol dell’avvenire. Il mutamento del significato di tempo (dal kairos dei Greci al tempus dei romani) definito da Fontenelle apriva nuovi orizzonti e nuove prospettive, aveva un significato liberatorio (l’uomo non più schiavo delle superstizioni e libero di autodeterminarsi). Domanda: cos’è Kairos Ma…quel concetto aveva un lato oscuro i cui nefasti effetti si sarebbero rivelati solo molto più tardi. Esso apriva a una nuova visione universalistica (poi pericolosamente avviata verso il fondamentalismo) che vedeva l’Occidente come il luogo della Verità, della scienza moderna (unica) e le altre culture come forme ancora non sviluppate e barbare, diciamo pure inferiori; antichi anziché moderni, appunto. Questa visione, rafforzatasi nel tempo, avrebbe portato al fondamentalismo dell’Occidente, alla reductio ad unum del mondo, coincidente, appunto, con l’Occidente. Il delirio di onnipotenza nato col furto del fuoco avrebbe contagiato gli uomini e aggredito la natura considerata uno sfondo inerme al servizio dei voleri dell’uomo. Diceva de Fontenelle: “Noi siamo in debito con gli antichi perché essi hanno esaurito la maggior parte delle idee false che si potevano produrre”. Niente si sarebbe successivamente dimostrato più ingenuo e falso e se avete dei dubbi guardatevi intorno. Domanda: quali erano le idee false degli Antichi? Oggi sarebbe assai difficile sostenere che lo sviluppo ci ha reso più liberi e più felici, che esso ci ha liberati da antiche tirannie e retaggi, che esso ha debellato fame e sofferenze del mondo, che viviamo in armonia con la natura, che il tempo liberato dalla necessità della produzione (così ci avevano promesso) sarebbe stato a totale e illimitata nostra disposizione. Molti, compreso il grande Marx, sono caduti nella trappola di attribuire alla teoria di Darwin e in particolare a quella sua espressione sopravvivenza del più adatto il senso del progresso (Marx vedeva nella teoria di Darwin, a torto, una conferma della inevitabilità dell’affermazione della classe operaia ritenuta la più adatta a prendere il potere). Se a sopravvivere è il più adatto allora, costoro affermavano, è ovvio che la specie successiva è migliore di quella precedente in un processo lineare e senza fine. Peccato che lo stesso Darwin sostenne più volte che più adatto non significa migliore (almeno nel senso che noi umani diamo a questo aggettivo). Stephen J. Gould, grande scienziato e grande divulgatore dell’opera di Darwin, in proposito disse: sapete qual è la specie più diffusa oggi sul pianeta? I batteri! Peccato che essi non sono né intelligenti, ne migliori e nemmeno simpatici. Ma sono i più adatti a sopravvivere ai cambiamenti. (segue nei prossimi articoli) Modernita2 Il delirio di onnipotenza della Scienza Su “l’Altro” del 25 giugno 2009, p.10 Nel precedente articolo abbiamo parlato della querelle tra antichi e moderni a proposito dello scritto di de Fontenelle del 1688, Disgression sur les ancien set le modernes. Secondo de Fontenelle, essere moderni significa confidare nella positività del progresso e della scienza. Così modernità e progresso si combinano tra loro per dare forma a una nuova idea di futuro. La modernità, dunque, e secondo de Fontenelle, rompe con la metafisica, con le narrazioni cosmologiche e le profezie degli oracoli: l’uomo è ora capace di autodeterminarsi e creare il proprio futuro. Ma quand’è che si afferma questa nuova ideologia? Quand’è che si afferma questo delirio di onnipotenza di pensare che la natura e lo stesso futuro sono governabili e manipolabili. Quand’è, insomma, che nasce il moderno? Alcuni fanno risalire tale evento ai Greci che inventarono la democrazia moderna; altri alla rivoluzione industriale e all’avvento della tecnica. Non è, ovviamente, importante stabilire, in questo caso, la data. La scelta del fatto o dell’epoca cui far risalire la modernità sottende significati diversi attribuibili alla stessa nozione di modernità. A noi piace condividere la visione di Hannah Arendt secondo la quale tre grandi eventi si collocano alla soglia dell’età moderna (Arendt, Vita Activa): domanda: chi è Hannah Arendt? la scoperta dell’America, la Riforma e l’invenzione del telescopio. Parlerò molto rapidamente dei primi due aspetti per concentrami sul terzo che poi significa collocare la nascita del moderno nella Rivoluzione Scientifica del Seicento. Con la scoperta dell’America tutti (o quasi) gli ecosistemi entrano in contatto tra loro. Possiamo parlare della prima e vera globalizzazione. Gli uomini, dice Arendt, vivono ora in una continuità globale che ha le stesse dimensioni della terra: ogni uomo è tanto un abitante della terra quanto lo è del suo paese. Domanda: cos’è la globalizzazione? La nascita della modernità è inoltre segnata dalla Riforma, ovvero con il processo di eclissi della trascendenza e della fede nell’aldilà. Questo processo è stato chiamato secolarizzazione e sta ad indicare la separazione (impossibile nei premoderni) tra Stato e Chiesa. Alcuni sostengono che non siamo mai stati, o ancora non siamo, moderni (Bruno Latour) perché tale processo di secolarizzazione non è stato mai risolto compiutamente (Habermas). Ma è la scoperta del telescopio a stabilire la nuova visione del mondo diversa da quella dell’antichità o del medioevo: “Da quando un bimbo nacque in una mangiatoia, c’è da dubitare che sia accaduto qualcosa di così grande con così poco clamore” (Whitehead). Domanda: perché è così importante la scoperta (o invenzione?) del telescopio Perché? Con la scoperta del telescopio si affermerà il principio che ciò che è vero non è più solo ciò che è legato ai sensi. Una potentissima protesi meccanica (il telescopio) potrà rivelare nuove verità prima sconosciute: “In altre parole, l’uomo si era ingannato nel confidare che la realtà e la verità si rivelano ai suoi sensi e alla sua ragione se solo egli rimaneva fedele a ciò che vedeva con gli occhi del corpo e della mente”. Aristotele: la metafisica aristotelica poneva al centro dell’osservazione l’esperienza, ovvero l’indicazione dei sensi, che erano fonte di autorità nelle discussioni sul mondo e qualora si fossero creati conflitti tra l’esperienza e la ragione, quest’ultima avrebbe dovuto cedere il posto alla prima. Il motto di Galilei, diventato il metodo universale di ricerca, sarà: “sensate esperienze e certe dimostrazioni” a stabilire che è vero solo ciò che può essere dimostrato attraverso l’esperimento scientifico. Da qui il passo breve di reductio scientiae ad mathematicam; è attraverso la mente che Galilei produsse la ricostruzione razionale del mondo della modernità: il Gran Libro della Natura è scritto ormai nei simboli della matematica e della geometria. Galilei: “Eminenza ricordo che quand’ero alto così, trovandomi su una nave, mi misi a gridare eh, come si allontana la riva! Ora so che la riva stava ferma e che la nave si allontanava!” Cardinale Barberini: “Furbo, furbo, eh! Quello che si vede, cioè che il firmamento gira attorno a noi, può darsi che non sia vero, come dimostra l’esempio della riva e della nave! Mentre quello che è vero, cioè che la terra gira, non lo si può vedere materialmente”. D’ora in avanti sarà la scienza a rivelare la verità oggettiva (le leggi universali, valide in ogni parte del cosmo) e non più l’ingannevole testimonianza dei sensi legati alla conoscenza pratica come affermava Aristotele. E’ una rivoluzione di una portata senza precedenti soprattutto se si valutano i successivi passaggi ad opera di Bacone, Cartesio, Newton, Leibnitz, Laplace. Possiamo trarre alcune brevi ma rilevanti conclusioni già da quanto detto. L’epoca moderna inaugura il nuovo potere umano enormemente accresciuto in seguito alla scienza e alla tecnologia. Potere capace di distruggere qualsiasi forma di vita organica sul pianeta e lo stesso intero pianeta (non siamo così lontani da questa prospettiva). Al tempo stesso, però, dobbiamo anche ammettere che l’epoca moderna inaugura un nuovo potere creativo, produrre, dirà Arendt, nuovi elementi mai trovati in natura, produrre dispositivi che riducono il dolore, alleviano le vite umane sofferenti, debellano il male. C’è già in questo un’ambivalenza della modernità, un lato oscuro che rischia, ad ogni istante, di rovesciare in distruzione ciò che è creazione, ma questa è una considerazione che varrà la pena di riprendere più attentamente. Al tempo stesso Cartesio (il Grande Moderno) sposta l’attenzione della filosofia (che con lui diventa moderna) dall’anima, o dall’uomo in generale, all’Io in quanto distinto da questi. Da allora “la verità scientifica e quella filosofica si sono separate”, la vita activa sostituirà la vita contemplativa, il centro dell’universo (il punto archimedeo) si sposterà dalla terra nella mente dell’uomo ormai diventato come Dio, così come la filosofia, da allora, sembrò condannata “a star sempre un gradino al di sotto della scienza e delle sempre più straordinarie scoperte scientifiche”. Da allora ogni progresso è stato connesso allo sviluppo di dispositivi e strumenti sempre più perfezionati. Bacone (che valeva poco come scienziato ma era un grande divulgatore delle altrui scoperte) dirà che scientia est potentia. L’aggressione alla natura parte da là: la natura doveva essere osservata nelle sue leggi per essere successivamente dominata “come una prostituta” (grande femminista Bacone!). Ne derivava una visione meccanicistica e deterministica del mondo: una volta note le leggi dell’universo, sarebbe stato facile, diceva Laplace, prevedere il corso del futuro. Da allora si pose il problema della Grande Legge Universale, quella che avrebbe potuto spiegarci ogni perché; sarebbe bastato un solo colpo di manovella per far girare il mondo dalla parte giusta. Il sacro venne relegato a premoderno, venne abolito l’ignoto e con esso la regione della fede. L’uomo poteva diventare onnipotente (e c’è ancora chi lo pensa!), la mente, considerata nobile, venne disincarnata dal corpo considerato ingombrante e deteriorabile (Cartesio) provocando la grande scissione e separazione della modernità. Il dualismo, con Cartesio, sarà alla base della scomposizione del mondo in parti semplici e tra loro sconnesse e, forse, alla base di quel dominio sul corpo (soprattutto se femminile) considerato incestuoso, peccaminoso, fatto di liquidi, straordinariamente inferiore al cospetto della nobiltà della mente (segue in altri articoli). Enzo Scandurra Modernita3 L’impero della tecnica che desacralizza e lascia il vuoto. E allora si torna a Dio…. Su “l’Altro” del 7 luglio, p.11 Abbiamo, nei precedenti articoli, brevemente tratteggiato il significato e la nascita della modernità. Abbiamo dimostrato, per così dire, come essa abbia un carattere ambivalente. Da una parte procede verso la emancipazione dell’individuo, la sua autoderminazione, la presa di coscienza di essere al mondo; dalla’altra procede, aumentando il suo delirio di onnipotenza e tuttavia rendendolo sempre più dipendente dai dispositivi meccanici, informatici e mediatici. La tecnica, che della modernità ne rappresenta l’essenza, ci insegna Severino, ha come fine assoluto solo la propria sopravvivenza e la propria riproduzione. Una prima raccomandazione, dunque, sarebbe quella di maneggiare la modernità con molta cautela come fosse un oggetto di cristallo, affascinante, certo, ma assai fragile. Oggi rischiamo di prendere dalla modernità solo gli aspetti più rozzi e volgari. Ad esempio il riduzionismo. Non solo il riduzionismo scientifico, quello, per intenderci, che considera il mondo al pari di un orologio meccanico, ma anche il riduzionismo delle idee, del pensiero e, per quel che ci riguarda in questa sede, il riduzionismo della politica (di cui il sistema bipartitico ne è esempio paradigmatico). Noi viviamo in una epoca dove il pensiero ultrasemplificato prevale sempre rispetto al pensiero complesso: Berlusconi docet!. Spiegare, ad esempio, perché Adriano Sofri è ancora in carcere richiede l’adozione di una argomentazione complessa. Dire, al contrario, che se Sofri è in carcere ci sarà pure una ragione e dunque affermare implicitamente che esso è colpevole in quanto ancora in carcere è una spiegazione ultra semplificata (e falsa) ma risulta “più convincente”. E’ per questo che le persone di sinistra dovrebbero disertare certe trasmissioni televisive dove non c’è spazio per alcuna argomentazione che non adotti il metodo della semplificazione. Il riduzionismo e il meccanicismo, così come il casualismo sono i dispositivi alla base della nascita della scienza moderna, ma essi oggi sono superati ampiamente anche dalle stesse e nuove teorie scientifiche. La legge di Newton, ad esempio, spiega solo una piccolissima porzione di fenomeni naturali ed è sbagliato portarla ad esempio di modello generale di interpretazione del mondo. Se do un calcio ad una palla potrei, possedendo le giuste e necessarie informazioni sulla forza impressa, peso della palla, velocità e direzione del vento, ecc., prevedere la sua traiettoria applicando le leggi della meccanica classica, ma se do un calcio a un cane.. beh, difficilmente quello si comporterà secondo queste leggi. Il mondo vivente non funziona secondo le leggi della meccanica classica e questo è bene averlo sempre presente. E infatti da alcuni anni il paradigma della fisica (paradigma che pretendeva di spiegare ogni fenomeno dell’universo) è stato soppiantato da quello della biologia. Il problema è che noi siamo abituati a disorganizzare un mondo naturale che invece è altamente organizzato. Il riduzionismo e il meccanicismo, il determinismo funzionano ma solo in particolari (e limitati) domini di pertinenza, ovvero solo (e neppure sempre) dove abbiamo a che fare con oggetti inanimati. Ma essi ci danno versioni contraffatte della realtà e rischiamo sempre di confondere il modello con la realtà che attraverso di esso vogliamo rappresentare. Un pilastro portante della modernità è stato il lungo processo di emancipazione dell’individuo condotto attraverso la secolarizzazione. In un certo senso possiamo affermare con Sergio Quinzio che tutta la civiltà moderna è il prodotto dell’emancipazione dei legami della rigida società medievale. Ma quale eredità ci ha lasciato questa secolarizzazione che alcuni ritengono (Habermas, per esempio) incompiuta? Essa ha sdoganato l’individuo dai partiti e dalle chiese ma ha poi continuato autonomamente a svolgersi fino a procedere nel senso opposto risucchiando l’individuo all’interno di una nuova e inedita dipendenza più sottile e pervasiva: il neocapitalismo liberista. Franco Cassano, diceva che “l’astuto giocatore è stato giocato”. L’ossessione di desacralizzare e sconsacrare è diventata una furia per abbattere il vecchio potere che nel frattempo assumeva nuove forme: il Nuovo Potere evocato da Pasolini. Nuovo Potere che non solo non teme più la richiesta di libertà, ma anzi la sollecita come sostegno alla propria espansione. L’epoca attuale vede convivere modelli ibridi: prospettive laiche e religiose insieme, culto dei santi, spettacolarizzazioni secolarizzate, oroscopi, maghi, filosofie new age importate dall’Oriente e quella piaga tutta moderna che ha nome di nuovismo secondo la quale tutto ciò che è nuovo è migliore del vecchio (l’ideologia veltroniana) Ora, quest’epoca sconsacrata, priva di speranza e senza nemmeno una visione laica compiuta, celebra ogni giorno i nuovi riti moderni: folle di cittadini che alla domenica si recano in massa al santuario dell’Ikea (quasi un supermercato religioso) per fare sempre nuovi acquisti dei quali si avverte sempre più bisogno; eserciti armati che si spostano sul pianeta per “esportare” la nostra democrazia, beni comuni che vengono continuamente erosi e sottratti alle comunità di origine. La modernità impazzita dispiega tutto il suo potenziale: la cancellazione della storia e della memoria, la potenza della tecnica che si colloca al di fuori di ogni principio etico mettendo sempre più a nudo non la potenza ma la solitudine dell’uomo onnipotente sempre più consumatore di beni effimeri prodotti da quella stessa tecnica. Nella scuola e nelle università è prevalso nettamente lo spirito moderno: tecnicizzare ogni momento della conoscenza; gli studenti sono diventati clienti, la conoscenza si misura in crediti, l’efficienza si misura dal numero di persone che passano gli esami; nella sanità anche i malati sono clienti da assistere a distanza prescrivendo loro medicinali e cure senza la compassione e la pietà che un tempo caratterizzava l’atteggiamento del medico di famiglia e, spesso, senza averli mai conosciuti. C’è un tasso di desacralizzazione e tecnicizzazione che invade ogni aspetto della nostra vita ormai minuziosamente controllata e regolata da dispositivi che ci travalicano. E ora, dopo che la sbornia consumata dell’onnipotenza della tecnica ci ha fatto fare l’esperienza del nulla e ci ha messo di fronte alla difficoltà di dare un senso umano alla storia e all’esistenza, ora si torna “a parlare di Dio” perché la favola bella dello Sviluppo e del Progresso non si è mostrata in grado di sostituire il bisogno spirituale e quello della speranza.(segue in altri articoli) Enzo Scandurra Modernita4 L’epoca postmoderna non ha bisogno di valori? Su “l’Altro del 17 luglio, p.11 (6668 battute) Nei precedenti articoli abbiamo affrontato il controverso tema della modernità. A partire dalla querelle di de Fontenelle del 1688 tra antichi e moderni, attraverso la nascita della scienza nuova nel Seicento fino ai nostri giorni. Molti sostengono che questa fase lunga della modernità sia in via di esaurimento o che, quanto meno, questa stessa nozione non sia più adeguata a rappresentare l’epoca che stiamo vivendo. Cito, in proposito, un grande studioso italiano di questi aspetti, Remo Ceserani: . “ […] è capitato a me e ad altri studiosi dei più vari aspetti della storia sociale e culturale di distinguere fra postmodernismo (come fatto di ideologie, movimenti culturali e artistici, correnti di pensiero) e postmodernità (come epoca storica) e di considerare il passaggio tra modernità e postmodernità come un salto epocale”. Ora c’è da chiedersi, in che consiste questo storico passaggio epocale? E si può veramente attribuire ad esso l’aggettivo epocale?. Questa è la risposta che si dà Ceserani: “L'unico modo che abbiamo per interpretare un cambiamento e ritenerlo così ampio e profondo da considerarlo "di sistema" dopo aver ribadito che di "interpretazione" nostra si tratta e non di qualcosa di misurabile e riscontrabile materialmente nelle cose, è di notarne la contemporanea e simultanea comparsa in molti paesi e l'ampiezza della sua diffusione geografica, la concomitanza con cui si è manifestato in tante aree diverse della vita, dell'esperienza, della nostra coscienza e del nostro immaginario, la intensità con cui esso ci si è presentato, ci ha sorpreso, sconvolto, disorientato”. Effettivamente non possiamo negare che il cambiamento avvenuto negli ultimi trenta anni non sia di portata planetaria e, al tempo stesso, investa la vita dei singoli individui. Questi fenomeni (ai quali accennerò tra poco) attraversano territori e paesi diversi; hanno tratti in comune e spingono verso una omogeneizzazione che tende ad annullare differenze e tradizioni locali. Tra questi fenomeni inserirei per primo quel modo di produrre merci e beni intangibili cui abbiamo dato il nome di globalizzazione. Ma ne aggiungerei diversi altri: l’indebolimento degli stati-nazione ad opera della stessa globalizzazione e di Autority internazionali non elettive (Wto, Banca Mondiale, G8, ecc.), il processo di de-territorializzazione dell’attività produttiva cui consegue quello di sradicamento delle persone e cose dai loro territori di origine, il collasso del mondo ex comunista, la caduta del muro di Berlino, la scomparsa della Grande Fabbrica fordista, la perdita di centralità del lavoro, il disorientamento dovuto alla caduta di credibilità di parole simbolo come: patria, nazione, Classe, appartenenza, famiglia, ma poi ancora altri che agiscono nel profondo delle coscienze dei singoli. In breve a tutto questo squadernamento del mondo avvenuto così rapidamente e contemporaneamente in ogni suo angolo, noi abbiamo dato il nome di postmodernità ad indicare comunque l’uscita da un’epoca che poteva essere ancora rappresentata da alcune parole-chiave ed alcuni simboli. Ora viviamo, per usare un’espressione di Bauman ma ancor prima di Gramsci (ovviamente riferito a ben altre e diverse condizioni), in una sorta di interregno: “La crisi consiste precisamente nel fatto che il vecchio sta morendo e il nuovo non può ancora nascere; in questo interregno appaiono molti simboli morbosi”. Chiamare postmodernità questo interregno è, ovviamente, operazione puramente “soggettiva”. Con questa espressione si riesce, al più, solo a indicarla come successiva e posteriore alla modernità, con ciò stesso stabilendone rispetto ad essa la diversità e la continuità. Sarebbe un po’, scusate l’esempio rozzo, se chiamassimo i figli con l’espressione di postpadri non riuscendo a trovare per essi un nome appropriato. Questa nuova epoca provoca a livello individuale sgomento, sorpresa, disorientamento come se ciascuno di noi fosse caricato del compito (assolutamente improbo) di ri-definire concetti, valori, simboli e addirittura vocaboli e parole essendo, quelli precedenti ed utilizzati fino ad oggi, svuotati di significato. Senza parlare poi dei problemi etici messi in campo dallo sviluppo della tecnologia (vita artificiale, clonazione, accanimento terapeutico, ecc.). Lo abbiamo visto nel recente caso di Eluana Englaro quanto fosse difficile riuscire, per ognuno di noi, a formulare un giudizio, comunque una propria visione del problema. Bisogna ormai rassegnarsi (e questo è un tratto rilevante dell’epoca postmoderna) al fatto che non esistono più “contenitori” politici, ideologici, morali cui possiamo attingere o soltanto riferirci per farci una propria idea del mondo?. Siamo lasciati allo sbaraglio di noi stessi e di quella cosa, un po’ indefinibile per la verità, che abbiamo chiamato “libertà”?. Ma si tratta veramente di libertà? L’epoca postmoderna non ha più veramente alcun bisogno di ideologia, di etica, di morale, di valori? E’ questa la sua libertà? In nessuna altra epoca precedente l’uomo ha sperimentato una “libertà” così ampia e c’è da dubitare che si possa ancora chiamare con questo nome una “libertà” che non ha limiti, che non si pone il problema di relazionarsi e confrontarsi con quella dell’altro, svincolata da ogni codice collettivo. Oggi due giovani possono decidere di vivere insieme senza più essere condizionati dal ceto di provenienza, dal reddito, dal livello culturale di ciascuno, da differenze di etnia, di credo religioso e così via. Non basta, ciascuno può ancora liberamente decidere se condurre un’esistenza da single oppure da compagno/a, accoppiarsi con una persona di genere diverso oppure dello stesso sesso. Rilevo, senza formulare alcun giudizio, che questo non era mai successo in epoche precedenti e forse proprio per questo la nuova libertà richiede l’assunzione di nuove responsabilità che in passato erano delegate a chiese, partiti, famiglie. Qualcuno dirà che proprio questo è il bello dell’epoca postmoderna, la fine di gabbie, pastoie, retoriche, autoritarismi, valori e perfino dogmi. Non voglio arrischiarmi a dare giudizi, ma se ci guardiamo un po’ intorno possiamo condividere il sentimento che questa è comunque un’epoca di passioni tristi e di un accentuato individualismo. Mi limito a dire questo. Resta il fatto che anche la politica procede incerta, stenta a definire – come invece dovrebbe – una propria visione del mondo. Iin passato si chiamava ideologia, ma a pronunciarla oggi, questa parola, si rischia assai. (fine) Enzo Scandurra Il lato oscuro del progresso Tra "magnifiche sorti e progressive" e la mai sopita tentazione della barbarie. Il percorso del Progresso non è così lineare come si auspicava all'epoca dei lumi. E sono sempre più evidenti i rischi dello sviluppo, che a volte sopraffanno i vantaggi provenienti dalla crescita di saperi e di scienza. Che, troppo spesso, si coniugano con ingiustizia e barbarie. Obbligandoci a combattere gli arretramenti e le intollerabili ricadute JEAN CHESNEAUX (01.02.2001) Il progresso, scrive Victor Hugo nei Miserabili, è "lo stato dell'uomo... il passo collettivo del genere umano", poiché "il progresso avanza". Da più di due secoli, il Progresso - che veniva volentieri scritto con la P maiuscola - si è affermato contemporaneamente come visione storica, causa politica, miglioramenti tecnici. Per gli Enciclopedisti e i Philosophes del XVIII secolo, rappresentava l'avvenire di Ragione verso il quale stava dirigendosi l'umanità. E' stato al progresso che hanno fatto riferimento la rivoluzione francese e, sulla sua scia, i movimenti del 1830 e 1848, nella lotta contro il dispotismo, le ingiustizie e l'arbitrarietà. Per Marx, il progresso, in una concatenazione non meno ineluttabile, ha preso la forma di una successione dei "modi sociali di produzione", come la schiavitù, il feudalesimo, il capitalismo; successione che ha fondato la legittimità storica del socialismo futuro. La borghesia, sosteneva il Manifesto comunista del 1848, non aveva già "coinvolto nella corrente della civiltà persino le nazioni più barbare?". Questi slanci politici e visioni teoriche facevano riferimento a passi avanti tecnici: ferrovie, elettricità, vaccini, e più vicino a noi, energia nucleare, voli spaziali, genetica, informatica - cioè altrettante prove del fatto che l'umanità avanza. Il progresso, così concepito, alleggerisce la fatica umana, libera lo spirito, avvicina le società umane. Sotto tutte queste sfaccettature, il Progresso era contemporaneamente una constatazione fattuale, un progresso indefinitamente aperto a nuovi passi avanti, e un ideale, un progetto collettivo visionario. Era la forma stessa del divenire umano, lungo l'asse del tempo. In questa prospettiva lineare, continuista e anche ottimista, la "grande ruota della storia" procede verso l'avvenire malgrado inevitabili sobbalzi occasionali, è l'avvenire stesso. Ma poi c'è stato Auschwitz, che ha dato al principio di progresso un colpo reso ancora più severo dal fatto che sono seguiti altri ritorni di barbarie. Odi nazionalisti e massacri di massa nei Balcani, in Africa o nel Caucaso. Ricadute di società intere nel fanatismo religioso oscurantista, islamico, brahmanita o ebraico. L'insicurezza riappare e blocca rotte marittime o terrestri a lungo "sicure", sia in Asia del sud-est o nell'America andina. I "guasti del progresso" sconvolgono l'industria alimentare e l'alta atmosfera. La città, che dal XIX secolo era il simbolo stesso del progresso, il luogo per antonomasia dei progressi politici, tecnici e culturali, sembra trasformarsi in un magma regressivo, sotto il peso della propria crescita sovradimensionata e incontrollabile. "Questa città - dice di Mexico la poetessa Isabel Freire - l'ho vista cadere a pezzi/ disfarsi sotto i miei occhi / non era più una città / era un incubo...". Da ogni parte, la sinistra e la sua cultura si scontrano brutalmente con i problemi della regressione e visibilmente non sono preparate a farlo. Un pensatore come il marxista indipendente Walter Benjamin, molto preoccupato dalla prima guerra mondiale, in particolare dai gas usati in combattimento, aveva già preso in considerazione il fatto che il progresso potesse rinviare alla barbarie. "Impossibile diceva - conservare l'ideologia del Progresso di fronte alla realtà irriducibile della sofferenza umana". Seguendo il suo esempio, non dobbiamo esitare ad abbattere il tabù di un Progresso evidente a se stesso, che si autolegittima. Un dibattito difficile deve aprirsi, dove sopratutto non si dovrà cercare di opporre meccanicamente il Progresso in sé e la Regressione in sé. Poiché entrambe queste posizioni riportano a una stessa visione continuista della temporalità, soltanto rovesciata. Esaminando i casi - così flagranti attorno a noi - di ricadute e di tendenze regressive, è possibile constatare che c'è innovazione e non solo rimando al passato. I genocidi dell'Africa centrale - ritorno manifesto alla barbarie - sono stati possibili solo nel contesto di un mercato degli armamenti molto "avanzato" finanziariamente e tecnicamente, grazie a una stretta cooperazione tra loschi trafficanti e grandi potenze "moderne". Il fatto che si incrocino in questo modo progresso e regressione non è per nulla compatibile con i vecchi schemi lineari e positivisti del movimento della storia. Possiamo piuttosto fare appello qui a una visione "alla Benjamin" della temporalità storica, come processo intermittente, a scossoni, segnato da rotture e lacerazioni. "L'immagine familiare del letto del fiume - diceva Benjamin - deve sfumare di fronte a quella del vortice". Il Progresso, nella sua configurazione tradizionale, si sviluppava verso un orizzonte indefinitamente aperto. In questi tempi di crisi urbana, di crisi ecologica, di crisi del civismo e della cittadinanza, dobbiamo piuttosto riflettere sui limiti che deve lucidamente osservare il divenire umano. Limiti della crescita urbana e della demografia. Limiti dello sfruttamento delle risorse della natura: la mucca si nutre d'erba, non di resti animali usciti da industrie equivoche. Limiti nell'uso di un rimpinzamento mediatico che distoglie dalla praxis. Lungi dal restringere il nostro campo di iniziativa, la "cultura dei limiti" porta a nuove ingiunzioni... Così, messi a confronto con le dure realtà del nostro tempo, obbligati a rinunciare alle illusioni di un Progresso considerato orizzonte assoluto, garanzia fideista di un avvenire a priori migliore, non siamo tuttavia rimandati a un caos shakespeariano, a una "narrazione di rumore e di furore, raccontata da dei folli e vuota di ogni significato". Il nichilismo storico, di cui si compiacciono i "post moderni", congeda con lo stesso disdegno il dogmatismo del Progresso in sé e la convizione che il genere umano possa lottare in nome di un ideale, resistere all'ingiustizia e all'aberrazione, realizzare dei passi avanti grazie alla volontà politica e alle conoscenze. Idee che sono al centro dei valori della sinistra e che non sono, almeno queste, andate in crisi per demerito. Semplicemente, questi passi avanti - di cui possiamo essere ancora fieri - sono lungi dall'assemblarsi armoniosamente, in un processo univoco e "globalmente positivo" chiamato Progresso. Questi passi avanti nel passato si sono alternati a dei passi indietro, sono stati controbilanciati da ricadute, da arretramenti che bisognerà continuare ad affrontare, all'orizzonte dell'avvenire. Il progresso - questa volta senza maiuscola - non è forse altro che la successione di queste lotte, di queste ricadute, di questi passi avanti. Pensiamo alla riattivazione e all'estensione del "diritto di Norimberga" a mezzo secolo di distanza, come "imperativo universale" in risposta alle nuove barbarie. Il nostro divenire "progredisce" soltanto a spirale - vecchia immagine cinese... PROGRESSO LA FINE DEL PROGRESSO 17 settembre 2011 — pagina 47-48-49 sezione: R2 (Z.Bauman) Il concetto di "Natura" è entrato nel nostro vocabolario con un' aura di santità: indicava la Creazione divina e, come tutto ciò che è divino, evocava l' esperienza del «numinoso», ossia quel peculiare intreccio di terrore, paura e adorazione che, come nella celebre proposta di Rudolf Otto, costituì l' avvio dell' idea di Dio e tutt' ora ne rimane la vera essenza. Per questa ragione la "Natura" significava anche un qualcosa che torreggia al di sopra della comprensione e del potere d' agire degli uomini, e con cui pertanto essi non potevano trafficare: la Natura, proprio come il Dio che l' aveva concepita e fatta venire all' essere, doveva essere riverita e adorata. La semplice idea di interferire o di immischiarsi con la Natura era ritenuta al contempo inane, implausibile e sacrilega. In verità, come ha mostrato il grande filosofo russo Mikhail Bakhtin, le elevate catene montuose e gli sconfinati mari hanno indotto fin da tempi immemorabili un «timore cosmico», che nella prospettiva di Bakhtin costituiva l' origine nonché la perpetua e prolifica fonte di ogni fede religiosa. L' idea di ri-produrre la Natura allo scopo di costringerla a servire meglio le comodità degli uomini (idea audace, insolente, presuntuosa e per molti blasfema) è nata assieme alla modernità. La svolta moderna nella storia umana è stata equivalente, nella sua essenza, a un progetto di ricambio manageriale, ossia l' intenzione di assumere la Natura, creata da Dio benché lasciata dopo la Creazione alle sue proprie vicende, sotto la gestione degli uomini, per assoggettarne l' attività al controllo, alla progettazione e alla programmazione da parte degli uomini. C(segue dalla copertina) ome ha sinteticamente affermato Francesco Bacone, uno degli araldi di maggiore spicco dello spirito moderno, per comandare alla Natura occorre obbedirle. Il presupposto implicito che rendeva questa ingiunzione tanto convincente quanto attraente era che, una volta che gli uomini di sapere, ossia i praticanti della scienza emergente, avessero stilato un inventario delle ferree regole che guidavano i processi naturali, gli uomini avrebbero imparato a volgere tali regole a proprio vantaggio: cioè a ottenere, in modo regolare e invariabile, effetti positivi per il loro benessere, impedendo e prevenendo quelli dannosi e indesiderabili. Gli uomini comanderanno alla Natura obbedendo alle sue leggi: era questo in realtà ciò che voleva dire Bacone. Voltaire portò l' ingiunzione baconiana alla sua conclusione logica dichiarando che il segreto delle arti è di correggere la Natura. Per la mentalità moderna tutto ciò che sta nel mondo è lungi dall' essere perfetto e quindi può essere reso migliore. Niente è tanto buono da non poter beneficiare di un' ulteriore correzione: cosa ancor più importante, tutto agogna a venire corretto. Del resto non esiste niente che, in linea di principio, gli uomini non possano correggere, prima o poi, se si armano della conoscenza appropriata, degli strumenti giusti e di sufficiente determinazione. Alla fine del Settecento a questo incessante sforzo di correzione è stato dato il nome di "cultura". Esso rivendicava in questo modo come proprio archetipo le antichissime pratiche dei coltivatorie degli allevatori, sebbene esse potessero apparire limitate nelle loro ambizioni, quando le si accostava alla grandiosità mozzafiato del progetto moderno. "Natura" (cioè la condizione che nonè frutto di scelta umana) e "cultura" (cioè tutto ciò che gli esseri umani erano capaci di fare per adeguarsi meglio ai propri bisogni e desideri) erano l' una contrapposta all' altra. Tuttavia la loro linea di separazione veniva considerata eminentemente flessibile e soggetta a spostarsi: si riteneva infatti che il progresso della scienza e del know-how umano fosse destinato ad ampliare il dominio della cultura, riducendo al contempo con regolarità il volume delle cose e degli eventi che opponevano resistenza all' intelligenza, all' astuzia e all' inventiva degli uomini. Oggi, diversi secoli dopo,i tempi sono maturi per arrischiare quanto meno una valutazione provvisoria, un "bilancio di carriera" di quest' ambizione moderna di dominio della Natura. Le sensazioni che un tale bilancio susciterà saranno a dir poco contraddittorie. Da una parte è lusinghiero per l' intelligenza, l' acume e la laboriosità degli uomini, dato che la nostra capacità di sfruttare le ricchezze della Natura e volgerle a nostro vantaggio (si legga: di utilizzarle per aumentare la nostra opulenza e comodità) è cresciuta enormemente, superando di gran lunga i sogni di Bacone. Dall' altra, tuttavia, siamo ormai giunti pericolosamente vicini alla linea d' arrivo dei progressi sostenibili e plausibili. Quanto più ci avviciniamo a tale linea, tanto più diveniamo consapevoli della sua differenza radicale rispetto allo "stato ultimo" di perfezione che Bacone e Voltaire avevano immaginato. La presunta serie infinita di battaglie vinte contro la resistenza della Natura ci ha portati davanti alla prospettiva (alcuni dicono: l' imminenza) di perdere la guerra. Anzi forse, intossicati per aver vinto questa lunga striscia di battaglie, abbiamo già raggiunto il punto di non ritorno, che in questo caso significa che la sconfitta definitiva è ormai divenuta una conclusione inevitabile e irrevocabile. <...& Più o meno una dozzina di anni fa due chimici di spicco dell' atmosfera, Paul Crutzen e Eugene Stoermer, si sono resi conto che l' epoca geologica nella quale si presumeva che vivessimo, quella nota con il nome di "Olocene", era in ogni caso passata e che siamo entrati viceversa in un' epoca diversa della storia, nella quale le condizioni planetarie sono plasmate dalle attività di origine culturale della specie umana più che da qualsiasi forza naturale (per esempio, in fattorie e altri luoghi selezionati da esseri umani si piantano molti più alberi di quanti crescano nelle "foreste naturali". Negli ultimi due secoli gli uomini hanno "sciolto" e rilasciato nell' atmosfera un volume di carbon fossile che la Natura aveva impiegato centinaia di milioni di anni per legare e ammassare). Crutzen e Stoermer hanno suggerito che questa nuova epoca meriti il nome di «Antropocene», ossia «la recente epoca dell' uomo». Ci sono voluti alcuni anni perché il resto dell' establishment scientifico prestasse dapprima riluttante attenzione, e in seguito ammettesse con crescente adesione la verità dell' intuizione di Crutzen-Stoermer... «Attribuire una data precisa all' inizio dell' Antropocene», dicono Crutzen e Stoermer, «pare assai arbitrario, tuttavia proponiamo l' ultima parte del diciottesimo secolo (...). Scegliamo questa data perché, nel corso degli ultimi due secoli, gli effetti globali delle attività umane sono divenuti chiaramente notevoli. Questo è il periodo nel quale i dati recuperati dai nuclei dei ghiacciai mostrano l' inizio di una crescita nella concentrazione atmosferica di diversi "gas serra" (...). Una tale data d' inizio coincide anche con l' invenzione del motore a scoppio da parte di James Watt, nel 1784...». Il messaggio trasmesso dagli studi di Crutzen e dei suoi collaboratori e seguaci dice che è molto tardi, ma non ancora troppo tardi, per cambiare la direzione di tendenza dell' Antropocene e del culturale-che-si-fa-naturale. La distruzione del pianeta non è (quanto meno finora) assolutamente una conclusione inevitabile. I nostri nuovi saperi e il nostro impressionante potere tecnico possono ancora venire reimpiegati per rendere il pianeta meno, non più, vulnerabile, e per inn a l z a r e , i n v e c e c h e p e r diminuire, la qualità della vita. Quel messaggio va inteso come un segnale d' allarme e una chiamata alle armi. Il punto è, tuttavia, che non si deve oltrepassare il punto in cui la chiamata alle armi si trasforma in una campana a morto...Come suggerisce il termine stesso "Antropocene", l' agire umano è divenuto una forza critica nel determinare il destino di un sempre più ampio spettro di sistemi biofisici. Una conseguenza di questo spartiacque è che qualsiasi tentativo di spiegare la condotta o di prevenire il futuro delle condizioni di vita sul pianeta deve partire rivolgendosi all' agire umano culturalmente connotato. Come sempre, quanto più grande è la vittoria (in questo caso, della cultura sulla natura), tanto più grandi sono le responsabilità che ne conseguono. Il nostro futuro è ancora in bilico, così come le opzioni aperte a tutti noi che lo abbiamo a cuore. La giuria, come si suol dire, è ancora riunita. Ma ormai è ora di rientrare con il verdetto. Quanto più a lungo la giuria resta riunita, tanto più grande sarà la probabilità che sia costretta a scappare dalla camera di consiglio perché sono finite le bibite fresche... Traduzione di Daniele Francesconi © Consorzio per il festivalfilosofia - ZYGMUNT BAUMAN La grande lezione di Leopardi dominare la natura è un' illusione 17 settembre 2011 — pagina 49 sezione: CULTURA (R. Esposito) Dalla metà del secolo scorso si può dire che la riflessione filosofica oscilli tra due poli opposti, senza riuscire a trovare un baricentro unitario. Il primo è quello che Ernst Bloch definì ' principio-speranza' . Pur lontano e critico verso le filosofie del progresso, egli teneva vivo il riferimento alla freccia del futuro. La verità più profonda dell' uomoè incapsulata nel momento del ' non-ancora' , in quella dimensione a venire destinata a proiettare il presente sempre al di là di se stesso. Benché piantato nel mondo della natura, l' essere umanoè capace di trascenderlo, balzando sul carro in corsa della storia. La speranza che dà senso alla nostra vita, strappandola ai suoi limiti costitutivi, non è un' esperienza soltanto soggettiva, ma una potenza reale che piega l' essere in direzione del divenire. Il polo contrario che, ad ondate successive, torna ad attrarre il pensiero contemporaneo è il ' principio-disperazione' - spinto all' estremo da Günther Anders nel suo libro sull' uomo ' antiquato' , perché sorpassato dalla sua medesima potenza distruttiva. Preda di un ' dislivello prometeico' tra la misura finita della sua immaginazione e la capacità illimitata del suo potere produttivo, l' uomo si scopre esposto alla possibilità senza ritorno della propria autodistruzione. Scritto negli anni della guerra fredda, il libro di Anders si riferisce principalmente al rischio della bomba atomica, ma la sua diagnosi coinvolge l' intera esperienza dell' homo technologicus. Portando al culmine la critica del progresso elaborata dai vari Mann e Spengler, Nietzsche e Heidegger, egli individua la nostra malattia nell' inarrestabile sconfinamento della tecnica nell' orizzonte, sempre più devastato, della natura. Come sostiene nella sua relazione Bauman, la natura non soltanto ha perso la propria aurea magica, l' antico statuto di creazione divina che ne assicurava l' intangibilità da parte dell' uomo, ma è interamente affidata al suo controllo e al suo sfruttamento intensivo. Ormai siamo al di là anche delle pretese prometeiche dell' homo faber- teorizzate da Baconeo Voltaire. Oggi la tecnica non si limita ad occupare lo spazio della natura, ma arriva al punto di volerla sostituire riproducendo in modo artificialei suoi prodotti- compresa la stessa natura umana. Questo progetto, tuttavia, non ha fatto tutti conti con la resistenza del proprio oggetto di dominio. Non è anzi escluso che finisca per rimbalzare su di esso rovesciandosi rovinosamente su colui che l' ha messo in opera. Rispetto a tale analisi, tutt' altro che infondata, va tuttavia osservato che la natura non è poi così fragile e indifesa. A questo proposito già James Lovelock aveva sostenuto, in quella che si è chiamata ' ipotesi Gaia' (dal nome della divinità greca), che la terra costituisce un sistema vivente autoregolato capace di mantenere le sue caratteristiche chimico-fisiche proprio grazie ai comportamenti degli organismi viventi che lo abitano. Ciò accadrebbe per una sorta di effetto retroattivo che ristabilisce di continuo l' equilibrio tra ciò che vive e le condizioni entro cui si sviluppa la vita. Così si spiega il fatto che il livello di ossidazione o il grado di salinità del nostro ambiente naturale restino più o meno costanti anche in presenza di mutamenti strutturali. E' perciò che, dopo l' era glaciale, la temperatura della terra non ha subito grandi variazioni benché, nel corso del tempo, il calore del sole sia notevolmente aumentato. E' vero che, secondo la stessa teoria, l' attività umana ha prodotto danni considerevoli a Gaia - già a partire dallo sviluppo dell' agricoltura che, sostituendo gli ecosistemi naturali delle foreste con i campi di coltivazione e l' allevamento di animali, ha modificato il metabolismo terrestre. Ma non è detto che l' equilibrio del sistema non possa essere salvato dagli stessi errori degli uomini. Al punto da ipotizzare che una successiva glaciazione potrebbe essere in qualche modo compensata dall' effetto serra che abbiamo noi stessi determinato. Naturalmente ci muoviamo in un campo di ipotesi tutt' altro che certe - e anzi contestate da altri studiosi. Resta il fatto che la partita tra uomo e natura appare tutt' altro che chiusa. Una linea di pensiero, che ha in Giacomo Leopardi la propria punta più acuta, ha ottimi motivi per credere che il rapporto di forza tra noi e la natura rimanga largamente sbilanciato a suo vantaggio. Come ci ricordano anche recenti terremoti e tsunami, nonostante tutti i sogni faustiani, di fronte alla potenza dirompente della natura, i nostri sforzi di dominarla appaiono a volte persino patetici. E non è la morte stessa un fenomeno naturale che segna la nostra esistenza in una forma che siamo ben lontani dal poter padroneggiare? Ciò che possiamo fare - sospesi come siamo tra il ' principio-speranza' e il ' principiodisperazione' -è attivare quell' atteggiamento che Hans Jonas ha chiamato ' principioresponsabilità' , sforzandoci di passare da un' etica antropocentrica ad un' etica globale che associ la cura dell' uomo a quella degli altri organismi viventi e dello stesso mondo naturale. Tra la fede visionaria nella tecnica e la sua demonizzazione passa la sobria consapevolezza che la scienza può essere insieme causa e risoluzione dei nostri problemi. - ROBERTO ESPOSITO Riflessi di esistenze in transito REMO CESERANI Leggendo in questi giorni vari articoli di commento ai risultati di un'indagine del Censis sulle "paure" degli italiani, fra cui due pubblicati su Repubblica e scritti rispettivamente da Umberto Galimberti ed Eugenio Scalfari e anche un editoriale di Valentino Parlato su questo giornale intitolato appunto "Paura" e dedicato alla micro-criminalità, sono spinto a tornare sui temi del post-moderno e della globalizzazione. Mi è parso interessante, soprattutto nell'articolo di Galimberti, il collegamento che vi è istituito fra un sentimento collettivo, un atteggiamento psicologico a quanto pare diffuso in larghi strati della nostra società (e che si può facilmente cogliere anche in molti temi presenti nell'immaginario) e le forme che ha preso, sul più ampio sfondo mondiale, l'organizzazione economica. La tesi di Galimberti è che quello diffuso tra gli italiani e i cittadini di molti altri paesi come il nostro (immersi nelle meraviglie del tardo capitalismo) non è un sentimento di paura causato da fatti specifici e concreti ma "un'angoscia più imprecisa che [quei cittadini] non riescono a individuare e a cui non sono capaci di dare un nome". Quell'angoscia, secondo Galimberti, è l'effetto della "globalizzazione economica" e della "deterritorializzazione" delle nostre comunità umane. L'economia della globalizzazione, secondo Galimberti e Scalfari, è fondata sul "denaro che produce denaro". "Merci e denaro percorrono le vie del mondo più liberi dell'uomo, e rispetto a loro l'uomo trova il proprio riconoscimento solo come funzionario del denaro". L'effetto sulle comunità umane è distruttivo, poiché cancella ogni "riferimento al tessuto storico, morale, produttivo che per secoli ha rappresentato la ricchezza del territorio radicando gli individui, i loro interessi, la loro identità ai luoghi, alle patrie, alla nazione". Il fenomeno della globalizzazione sembra al centro dell'attenzione: gli vengono dedicati libri e saggi in abbondanza; il termine compare in modo sempre più ossessivo in tanti articoli di giornale e di recente è affiorato anche in un articolo di argomento letterario, dedicato a Hugo Loetscher da Massimo Raffaeli su Alias il 22 luglio; qualche settimana addietro, inoltre, proprio al rapporto fra globalizzazione e letteratura è stato dedicato un seminario all'università di Leida, a cui ho partecipato anch'io accanto al sinologo americano Arif Dirlik, al comparatista danese Svend Larsen, agli specialisti di studi post-coloniali Theo D'Haen e Reinier Salverda. La questione mi sembra di notevole importanza. Quando è capitato a me e ad altri studiosi dei più vari aspetti della storia sociale e culturale (Harvey, Jameson, Bertens, Welsch, Huyssen, Featherstone) di distinguere fra postmodernismo (come fatto di ideologie, movimenti culturali e artistici, correnti di pensiero) e postmodernità (come epoca storica) e di considerare il passaggio tra modernità e postmodernità come un salto epocale, presumibilmente avvenuto nei paesi a tardo capitalismo negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, credo che quasi tutti fossimo consapevoli di alcuni aspetti problematici di tale proposta e che noi stessi avessimo dovuto più volte rivolgerci alcune delle obiezioni che ci vennero mosse. (Non sto a ricordare, poi, gli inutili attacchi di chi ha voluto considerare dei tentativi di descrivere oggettivamente un fenomeno storico come esaltazione incontrollata del postmodernismo). Siete sicuri, ci dicevano i nostri critici e dicevamo a noi stessi, che il mondo sia davvero passato a un tipo di capitalismo diverso da quello affermatosi nell'epoca della modernità? Non date troppa importanza a fatti sovrastrutturali, di tipo culturale, o a fatti di puro accompagnamento e sostegno dello sviluppo economico, come le rivoluzioni tecnologiche (i mezzi di comunicazione, il digitale, la grande rete), che magari avranno anche accelerato tale sviluppo ma non ne hanno cambiato la struttura? Non vi accorgete che alcuni dei temi, delle novità psicologiche ed epistemologiche, dei tratti culturali e stilistici che considerate come tipici e caratteristici del postmoderno hanno delle chiarissime anticipazioni nell'epoca precedente? Ed elencano, via via, la complessità, la simultaneità, la leggerezza, la perdita della profondità storica e dello slancio utopico, l'indebolimento dei soggetti individuali e sociali, e cioè delle tradizioni culturali, dei partiti politici, delle identità nazionali, il gusto della superficie priva di densità esistenziale, la rivisitazione dei miti e il pastiche degli stili tutti quei tratti che Italo Calvino ha posto al centro delle sue Lezioni americane e Fredric Jameson ha analizzato in un libro ancora non tradotto in italiano. E come mai, aggiungevano i nostri critici e noi stessi ci chiedevamo, voi che pensate che siamo entrati in un'epoca nuova, completamente diversa dalla precedente, non riuscite a darle un nome, come invece hanno fatto, a più riprese, gli uomini che si sono trovati dentro l'epoca nuova della modernità e hanno accettato di divenirne tormentosamente e coraggiosamente i protagonisti (dichiarando il faut être moderne), o al massimo siete riusciti a indicarla come successiva e posteriore alla modernità, con ciò stesso stabilendone rispetto ad essa la diversità e la continuità? Non vi trovate, storici miopi e disorientati, nella stessa situazione di quei nostri concittadini che provano un sentimento di paura ma non sanno nominarlo e indicarne la causa? A questo punto può affiorare, e per esempio è affiorata più volte a Leida, l'ipotesi che quel termine così diffuso e fortunato di "globalizzazione", preso dagli studi sulla base economico-sociale delle società attuali, possa offrire finalmente il termine che si cercava e l'appoggio strutturale a cui collegare tutti i fenomeni tecnologici, mediatici, culturali, appartenenti all'immaginario, di cui abbiamo bisogno per far quadrare i conti. Certo, sembra abbastanza convincente pensare che la globalizzazione, o mondializzazione, o altro termine meno ingombrante per indicare il fenomeno descritto da Galimberti e da Scalfari (e da tanti altri, fino alle belle microanalisi sociali di Andrea Bonomi) designi probabilmente un carattere specifico e individuante dei rapporti economici contemporanei e che non valga, neppure in questo caso, l'obiezione che una tendenza all'allargamento dei mercati, degli scambi, e anche dei conflitti, era già presente e forte nella modernità (non a caso abbiamo chiamato "mondiali" due delle grandi guerre del Novecento). Ci sono una serie di fenomeni macroscopici che rendono l'odierna globalizzazione qualcosa di decisamente nuovo e diverso da qualsiasi fenomeno precedente: non solo la netta prevalenza, nella vita economica, della sfera finanziaria (con tutti i caratteri di velocità, volatilità, flessibilità conferitile dalla rivoluzione informatica), ma anche le trasformazioni profonde dei modi della produzione, la composizione diversa della produzione in termini di lavoro intellettuale e progettuale, di lavoro manuale o di macchina, la relazione diversa fra produzione, distribuzione e consumo (diversa, certamente, in termini di quantità, ma forse anche diversa, a lungo andare, in termini di qualità, con netta prevalenza del consumo ed effetti imponenti sul paesaggio, sia esteriore che interiore all'uomo), la dislocazione diversa dei luoghi della produzione rispetto a quelli della distribuzione e del consumo, il ribaltamento del rapporto fra industrie pesanti e industrie leggere, la totale mercificazione della produzione culturale e il suo chiaro asservimento alle leggi del mercato. E tuttavia ho alcune obiezioni da proporre a chi intenda indicare il termine di globalizzazione per caratterizzare complessivamente la fase storica che stiamo attraversando. Anzitutto il fenomeno riguarda i paesi a capitalismo avanzato, che sono soltanto una parte del globo attuale, lascia fuori molti dei paesi appartenenti a quello che un tempo (prima della caduta del secondo mondo e della sua assimilazione forzata e angosciata al primo mondo) si chiamava il terzo mondo; sembra anzi che il divario fra paesi ricchi e paesi poveri vada ulteriormente crescendo. In secondo luogo il vecchio e scolastico rapporto fra struttura e sovrastruttura non funziona più nelle società caratterizzate da complessità. I segnali di un cambiamento epocale, ammesso che esso sia ancora possibile oggi, non vanno cercati in un aspetto soltanto della vita sociale, quello di base dei rapporti economici (in particolare i modi della produzione) e da lì fatti diffondere gradualmente agli altri aspetti, sovrastrutturali, della vita. L'unico modo che abbiamo per interpretare un cambiamento e ritenerlo così ampio e profondo da considerarlo "di sistema" dopo aver ribadito che di "interpretazione" nostra si tratta e non di qualcosa di misurabile e riscontrabile materialmente nelle cose è di notarne la contemporanea e simultanea comparsa in molti paesi e l'ampiezza della sua diffusione geografica, la concomitanza con cui si è manifestato in tante aree diverse della vita, dell'esperienza, della nostra coscienza e del nostro immaginario, la intensità con cui esso ci si è presentato, ci ha sorpreso, sconvolto, disorientato. Tutto sommato, in mancanza di meglio, e pur apprezzando le analisi che delle nuove relazioni economiche hanno dato gli studiosi della globalizzazione, continuo a pensare inevitabile l'uso, per definire la nostra situazione culturale ed esistenziale, del termine, anche se approssimativo e infelice, di post-modernità. Il Manifesto del 17 marzo 2011 L'APOCALISSE È GIÀ QUI Guido Viale Apocalisse significa rivelazione. Che cosa ci rivela l'apocalisse scatenata dal maremoto che ha colpito la costa nordorientale del Giappone? Non o non solo - come sostengono più o meno tutti i media ufficiali - che la sicurezza (totale) non è mai raggiungibile e che anche la tecnologia, l'infrastruttura e l'organizzazione di un paese moderno ed efficiente non bastano a contenere i danni provocati dall'infinita potenza di una natura che si risveglia. Il fatto è, invece, che tecnologia, infrastrutture e organizzazione a volte - e per lo più - moltiplicano quei danni, com'è successo in Giappone, dove la cattiva gestione di una, o molte, centrali nucleari si è andata ad aggiungere ai danni dello tsunami. Non è stato lo tsunami a frustrare anche le migliori intenzioni di governanti, manager, amministratori e comunicatori: l'apocalisse li ha trovati intenti a mentire spudoratamente su tutto, di ora in ora; cercando di nascondere a pezzi e bocconi un disastro che di ora in ora la realtà si incarica di svelare. È un'intera classe dirigente, non solo del nostro paese, ma dell'Europa, del Giappone, del mondo, che l'apocalisse coglie in flagrante mendacio, insegnandoci a non fidarci mai di nessuno di loro. Solo per fare un esempio, e il più "leggero": Angela Merkel corre ai ripari fermando tre, poi sette, poi forse nove centrali nucleari che solo fino a tre giorni fa aveva imposto di mantenere in funzione per altri vent'anni. Ma non erano nelle stesse condizioni di oggi anche tre giorni fa? E dunque: c'era da fidarsi allora? E c'è da fidarsi adesso? Per chi non ha la possibilità o la voglia di sviluppare un pensiero critico e si lascia educare dai media, sono gli scienziati e i tecnici a poterci e doverci guidare lungo la frontiera dello sviluppo. I risultati di quella guida sono ora lì davanti ai nostri occhi. L'apocalisse ci rivela invece che sono gli artisti, con la loro sensibilità e il loro disinteresse, a instradarci verso la scoperta del futuro. Leggete Terra bruciata di James Ballard o, meglio ancora, La strada di Cormac McCarthy; o andate a vedere il film tratto da questo romanzo. Vi ritroverete immediatamente immersi in panorami che oggi le riprese televisive della costa nordorientale del Giappone ci mettono davanti agli occhi. E con McCarthy potrete rivivere anche il senso di abbandono, di terrore, di sconforto, di inanità che solo una irriducibile voglia di sopravvivere a qualunque costo e il fuoco di un legame affettivo indissolubile riesce a sconfiggere. L'apocalisse ci rivela che la normalità - quella che ha contraddistinto la vita di molti di noi per molti degli anni passati, ma che non è stata certo vissuta dai miliardi di esseri umani che hanno fatto le spese del nostro "sviluppo" e del nostro finto "benessere" - è finita o sta per finire per sempre. È finita per il Giappone - e non solo per le popolazioni sommerse dallo tsunami - che ora deve fermare le sue fabbriche, sospendere le sue esportazioni, far viaggiare a singhiozzo i suoi treni, chiudere le pompe di benzina, spegnere le luci, bloccare tutti o quasi i suoi reattori nucleari; senza sapere con che cosa sostituirli e senza sapere se e quando potrà riprendersi da un colpo del genere (un destino simile a quello che potrebbe far piombare di colpo la Francia nelle condizioni di un paese "sottosviluppato" se solo le accadesse un incidente analogo). I tanti programmi di «rinascita del nucleare» varati negli ultimi anni - che sono la risposta più irresponsabile e criminale alla crisi economica mondiale - si rivelano una truffa: il tentativo di far credere che con l'atomo consumi, sviluppo ed "emersione" di paesi che annoverano miliardi di abitanti possano riprendere e continuare a crescere come prima. Tant'è che quei programmi stavano andando avanti - e forse verranno mantenuti ancora per un po' - soltanto nei paesi senza nemmeno la parvenza della democrazia (tra cui l'Italia). Ma adesso tutti, o quasi, si dovranno fermare. Ma non saranno rose e fiori neanche per i paesi che viaggiano a petrolio, metano e carbone, come il nostro. Il Medio Oriente è in fiamme e se - o meglio, quando - crollerà il regno saudita, anche il petrolio arriverà con il contagocce. Soprattutto in Italia; ma anche in Europa. E allora addio sogni di gloria per l'industria automobilistica: non solo quelli di Marchionne (che sono un mero imbroglio), ma anche per quelli di tutta l'Europa. Per non parlare degli Stati Uniti: a giugno dovranno rinnovare una parte del loro debito, che è ben più serio e in bilico di quelli di tutti i paesi dell'Unione europea messi insieme; ma forse nessuno lo vorrà più comprare. Il che significa che un nuovo crack planetario è alle porte. Insomma, niente sarà più come prima. Era già stato detto all'indomani dell'11 settembre; ma poi ciascuno ha continuato a fare quello che faceva prima. Comprese le guerre; compresa le speculazioni finanziarie e la reiterazione della crisi che essa si porta dietro; e che è stata invece trattata come «un incidente di percorso», da cui riprendere al più presto la strada di prima, discettando sui decimali di Pil che da un momento all'altro potrebbero invece precipitare di un quinto o di un terzo. Quello che l'apocalisse dello tsunami in Giappone ci rivela è la "normalità" di domani. L'apocalisse è già tra noi, in quello che facciamo tutti i giorni e soprattutto in quello che non facciamo. Dobbiamo imparare ad attraversare e a vivere dentro un panorama devastato, dove niente o quasi funziona più: non solo per il crollo o il degrado delle sue strutture fisiche; o per l'intasamento della loro "capacità di carico"; ma anche e soprattutto per la manomissione delle linee di comando, per la paralisi delle strutture organizzate, per la dissoluzione dello spirito pubblico calpestato dalle menzogne e dall'ipocrisia di chi comanda. Volenti o nolenti saremo obbligati a cambiare il nostro modo di pensare e dovremo studiare come riorganizzare le nostre vite in termini di una maggiore sobrietà; e in modo che non dipendano più dai grandi impianti, dalle grandi strutture, dalle grandi reti, dai grandi capitali, dalle grandi corporation che li controllano e dalle organizzazioni statali e sovrastatali che ne sono controllate: tutte cose che possono venir meno, o cambiare improvvisamente aspetto dall'oggi al domani. Dobbiamo adoperarci per mettere a punto strumenti di autogoverno a livello territoriale, in un raggio di azione che sia alla portata di ciascuno, in modo da avvicinare le risorse fisiche alle sedi della loro trasformazione e queste ai mercati del loro consumo e alle vie del loro recupero: perché solo di lì si può partire per costruire delle reti sufficientemente ampie e flessibili che siano in grado di far fronte a una improvvisa crisi energetica, alle molte facce della crisi ambientale, a una nuova crisi finanziaria che è alle porte, al disfacimento del tessuto economico e alla crisi occupazionale che si aggrava di giorno in giorno; e persino a una crisi alimentare che potrebbe farsi improvvisamente sentire anche in un paese del "prospero" Occidente. Le fonti rinnovabili, l'efficienza e il risparmio energetici, il riciclo totale dei nostri scarti, un'agricoltura a chilometri zero, la salvaguardia e il riassetto del nostro territorio, ma soprattutto uno stile di vita più sobrio e restituito alla socievolezza sono i cardini e la base materiale di una svolta del genere. Va bene tutto ciò che va in questa direzione; anche le piccole cose. Va male tutto ciò che vi si oppone: soprattutto la rinuncia a un pensiero radicale.