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PARTE PRIMA
Sconnessioni; Keynes non basta più (G. Viale);Nei cerchi del potere (Susan
George);Il vertice di Durban a 19 anni da Kyoto (De Marzo); Come uscire dalla
crisi (Viale);Il grigio declino dell’università (Balicco, Tomba) ;L’organizzazione dei
saperi e la riforma Gelmini (Bevilacqua); Come cambia il … clima. Il cambiamento
della questione ambientale dal 1962 ad oggi 2011, L’università dello sviluppo
sostenibile (Scandurra); Modernità1, Modernità2; Modernità3; Modernità4; Il lato
oscuro del progresso (Chesneaux); La fine del progresso (Bauman); La grande
lezione di Leopardi: dominare la natura è un’illusione (Esposito); Riflessi di
esistenze in transito (Ceserani); L’Apocalisse è già qui (Viale)
Sconnessioni
Una caratteristica del nostro sciatto tempo è la separazione degli
ambiti: la fabbrica ai sociologi, il mercato agli economisti, le istituzioni ai
politologi. Non funziona così. Non funziona nemmeno per i bisogni della
conoscenza dei fenomeni: che, separati nella complessità delle loro
componenti, diventano oscuri e risultano falsi. Tanto meno funziona per
le necessità dell'intervento nei processi: che, spezzati, nel
comportamento dei loro soggetti, diventano inagibili e risultano
immodificabili. Occorre dotarsi di una visione lucida del Gesamtprozess
di sistema, dove tutti gli attori in campo vengono riconosciuti nel loro
spazio di movimento, con i loro interessi, e soprattutto con la forza che
intendono usare per farli valere. (M. Tronti)
Una delle caratteristiche del nostro tempo é la tendenza alla
frammentazione, caratteristica dei sistemi rigidi in momenti di crisi.
La frammentazione agisce innanzitutto a livello sociale creando una
aumento continuo dei conflitti ma é presente anche a livello concettuale
perché é prevalsa una visione meccanica del Mondo che ce lo fa
pensare come costituito di pezzi indipendenti che possono essere
modificati a volontà ad uno ad uno e poi assemblati dagli esseri umani
secondo i loro progetti.
Per questo tendiamo
ad affrontare solo pezzi della realtà,
dimenticandoci delle connessioni dei sui componenti e non curandoci in
alcun modo delle dinamiche in arte intrinsecamente imprevedibili dei
processi. Questo atteggiamento é presente a livello globale e ci porta in
questo momento storico a considerare come non collegate le quattro
crisi che stiamo affrontando:
ambientale, sociale, energetica, economica.
Il Manifesto del 23 febbraio
Keynes non basta più
COMMENTO - Guido Viale
COMMENTO - Guido Viale
Non è possibile prospettare una via d'uscita in un quadro nazionale o continentale privo dei
riferimenti ai vincoli e alle opportunità offerte dalla crisi ambientale
L'orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi ambientale: non solo dai mutamenti
climatici, che rappresentano ovviamente la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e
suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell'inquinamento e della devastazione
a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall'esaurimento del petrolio
e degli altri idrocarburi (che sono anch'essi "risorse naturali", anche se utilizzate per devastare la
natura); dall'esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che alimentari (il nostro "pane
quotidiano"); dall'inquinamento degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della
vita e delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c'è chi pensa di poter fare argine con
l'innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove tecnologie. È in gran parte un'illusione, ma
anche se fosse possibile farlo su una o alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro
interconnessione in un sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di
crescita economica, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, senza fare riferimento a questo
quadro, è un discorso vuoto.
La crisi ambientale offre all'economia delle opportunità e impone dei vincoli: le opportunità sono
note (a chi ha interesse per la questione): sono le potenzialità di una conversione ecologica di
produzioni e consumi verso beni e servizi meno dipendenti dai combustibili fossili, meno devastanti
per la biodiversità, e verso la qualità e la disponibilità di risorse primarie; le potenzialità di una
occupazione maggiore e diversa, caratterizzata a una più estesa valorizzazione delle facoltà
personali e della cooperazione; le potenzialità legate alle caratteristiche fisiche, storiche e sociali di
ogni territorio; i territori sono diversi uno dall'altro e la loro ricchezza dipende dalla conservazione
di questa diversità.
Ma i vincoli sono altrettanto rilevanti: il consumo di suolo e di risorse non può procedere al ritmo
seguito finora; molte delle produzioni che hanno guidato lo sviluppo industriale dell'ultimo secolo dall'edilizia all'automobile, dagli armamenti all'utilizzo dei combustibili fossili, dal turismo di
massa alle monocolture alimentari - non potranno continuare per molto sulla stessa strada: non solo
per mancanza di risorse e per eccesso di rilasci inquinanti, ma anche per saturazione dei mercati:
della domanda solvibile.
Vincoli e opportunità indotti dalla crisi ambientale dovrebbero essere i criteri informatori di
qualsiasi politica industriale: cioè delle scelte che determinano o orientano le decisioni su che cosa,
quanto, con che cosa, come e dove produrre. Sono scelte che non possono essere lasciate al
mercato, cioè al libero gioco della domanda e dell'offerta; perché nessun mercato è in grado di
cogliere tutti i segnali che provengono dalla complessità del contesto ambientale, da cui non si può
più prescindere.
In secondo luogo, la globalizzazione ha trasformato alcune aree geografiche del pianeta in
manifatture del mondo. A questo è dovuta la contrazione della domanda di lavoro - qualificato e no
- che ha colpito i paesi di più antica industrializzazione, imponendo alle relative classi lavoratrici un
drammatico deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita: precarizzazione, disoccupazione,
contrazione dei redditi, compressione del welfare. Questo processo ha investito tutti i settori e tutta o quasi - la gamma delle produzioni e, in misura maggiore, i beni consumati dalle classi lavoratrici:
i cosiddetti beni-salario. Mentre nelle cittadelle di più antica industrializzazione sono rimaste quasi
solo alcune produzioni di beni di investimento di maggiore complessità, molte delle attività di
coordinamento e gestione delle attività delocalizzate e alcuni segmenti di produzioni più o meno
tradizionali di beni suntuari (ormai riuniti in un'unica categoria merceologica onnicomprensiva,
denominata per l'appunto "lusso").
Tutto ciò ha profondamente alterato l'efficacia delle politiche economiche. Gli Stati ne hanno perso
alcune (la determinazione del tasso di sconto, la politica dei cambi, la creazione di moneta, la
politica doganale) o per averle cedute a enti sovranazionali (è il caso dell'Unione europea e
soprattutto dell'eurozona); o perché esse sono state di fatto requisite dalla finanza internazionale:
cioè da organismi di diritto privato detentori - e anche creatori - di una massa monetaria sufficiente
a condizionare le decisioni di ogni Stato: anche di quelli più potenti. Ma, soprattutto, le misure
economiche adottate in una parte del pianeta possono distribuire i loro effetti (diluendoli o
moltiplicandoli) su tutto il resto del mondo (lo si è visto con la crisi dei mutui subprime) e magari
non avere alcun effetto, né positivo né negativo, nel paese dove sono state prese. Ciò ha minato
molte delle misure di sostegno della domanda di matrice keynesiana con cui di recente si è cercato
di stimolare la produzione e, con essa, l'occupazione. Raramente oggi gli incrementi di produzione
si traducono in aumenti dell'occupazione - a volte innescano salti tecnologici o organizzativi che
addirittura la riducono - ma sempre meno la produzione aggiuntiva messa in moto da una politica di
sostegno della domanda riguarda lo stesso paese in cui è stata adottata. Lo si è visto con gli
incentivi alla rottamazione con cui quasi tutti i paesi occidentali hanno cercato di fare fronte alla
crisi del 2008-2009: in molti casi il sostegno all'occupazione nazionale è stato insignificante. Ma
questo è particolarmente vero per la maggioranza dei beni-salario il cui consumo potrebbe essere
alimentato da un sostegno ai redditi più bassi. Gli effetti riguarderebbero soprattutto beni di
importazione a basso costo; il che si traduce solo in maggiori squilibri della bilancia commerciale
da finanziare con l'indebitamento.
Le politiche keynesiane che hanno sorretto lo sviluppo dei cosiddetti "trenta (anni) gloriosi" erano
tarate sul contesto di uno Stato nazionale ancora in gran parte in possesso delle principali leve della
politica economica (e che non per questo aveva rinunciato a sviluppare anche una robusta politica
industriale adatta alle condizioni dell'epoca: per esempio nel campo della siderurgia, degli
approvvigionamenti energetici, della navigazione, della infrastrutturazione e, ovviamente, degli
armamenti; per sconfinare magari in campi, come l'alimentare o l'automobile, da cui avrebbe forse
potuto esentarsi). Ma oggi un ragionamento sulle "vie di uscita" dalla crisi sviluppato in un quadro
nazionale (come quello al cui interno hanno funzionato per alcuni decenni le politiche keynesiane),
o anche continentale, ma privo di riferimenti ai vincoli e alle opportunità indotti dalla crisi
ambientale non è più plausibile. Non ha più molto senso ragionare su meri aggregati economici
espressi in termini monetari, senza tener conto che nessuna politica economica è più praticabile
senza una contestuale politica industriale che orienti e condizioni l'oggetto delle produzioni e le
modalità (individuali o condivise) del consumo di molti beni e servizi. Questo, a mio avviso, è un
limite inemendabile delle analisi e delle proposte correnti di stampo keynesiano, come quelle
peraltro esemplari di Giorgio Lunghini sul manifesto del 16 febbraio («Riscopriamo Keynes per
uscire dalla crisi»).
Non solo; una politica industriale che faccia riferimento alla crisi ambientale, cioè orientata a
produzioni e consumi sostenibili - la "conversione ecologica" - non è concepibile se non in un
contesto di progressiva riterritorializzazione: con un ridimensionamento e una rilocalizzazione delle
produzioni in prossimità (relativa) dei mercati di smercio; o in un rapporto diretto - o comunque
meno esposto alle alee di un interscambio non programmato - tra produzione e consumo. Questo
indirizzo, che non è protezionismo né abolizione, della competitività (l'idolo del nostro tempo) ma
una sua moderazione certamente sì, rimette al centro delle politiche economiche e industriali il
governo del territorio. Ed è anche, a mio avviso, l'unica alternativa plausibile al progressivo
deterioramento dell'occupazione, dei redditi e delle condizioni di vita delle classi lavoratrici
dell'occidente industrializzato, ormai trascinate in una corsa al ribasso per allinearle a quelle dei
paesi emergenti; la politica salariale della Grecia (salari minimi quasi al livello di quelli cinesi) ne
rappresenta oggi la manifestazione più lampante.
Il Manifesto del 27 ottobre 2011
Susan George
OLTRE LA CRISI
Nei cerchi del potere
La finanza sta lentamente distruggendo la società, cancellando al
tempo stesso il problema più drammatico, quel riscaldamento climatico
che potrebbe determinare la cancellazione stessa della civiltà umana.
Per questo occorre individuare delle strategie che fermino questa
macchina di guerra. Un intervento della studiosa statunitense, ospite
all'incontro annuale dell'editoria sociale, che inizierà domani a Roma i
suoi lavori
In Europa la crisi finanziaria è quella che preoccupa la maggioranza
della popolazione e gode della copertura più ampia sulla stampa, ma
non è l'unica. Uomini e donne fanno bene a preoccuparsi della finanza,
visto che nella vita reale l'attuale caos finanziario si traduce in alta
disoccupazione giovanile, pesanti tagli ai servizi pubblici e in tutte
quelle misure di austerità che sono destinate ad aggravare la crisi. Ci
troviamo inoltre in una grave crisi di disuguaglianza. In Europa, ma
soprattutto negli Stati Uniti, dagli anni Venti o Trenta del Novecento il
benessere non è mai stato così mal distribuito. Gli indignados, gli
«indignati» hanno completamente ragione a identificarsi con il «99 per
cento»: hanno compreso che l'uno per cento al top ha aumentato
enormemente il proprio reddito mentre tutti gli altri lo stanno perdendo.
Tuttavia, ritengo che la crisi più drammatica sia quella di cui meno
parliamo, il global warming e il cambiamento climatico. La crisi climatica
avrà infatti gli effetti più profondi sulla stessa civiltà, e in paragone
renderà irrilevanti le nostre preoccupazioni finanziarie. Provo a
spiegare con un'immagine ciò che intendo.
Immaginiamo che il mondo sia governato da cerchi concentrici o sfere
di potere, in cui il più potente sia collocato nella sezione più esterna.
Oggi, il cerchio più potente, quello che più influenza le nostre vite, è la
finanza. La finanza globalizzata manda letteralmente avanti il mondo,
basta osservare la quantità di soldi che le banche hanno ricevuto dai
governi (il che significa dai contribuenti, in altri termini da me e da voi).
Un recente rapporto stilato dalla Federal Reserve (Fed) americana
stima in sedici trilioni di dollari (16.000.000.000.000) la somma di soldi
spesi dalla Fed per salvare le banche. Una cifra che non tiene conto di
quel che gli inglesi, i tedeschi, i francesi e via dicendo hanno speso per
le loro banche. Una cifra di cui non conosco l'esatto ammontare.
Immaginiamo comunque che ogni dollaro speso dalla Fed per salvare
le banche corrisponda a un secondo sul nostro orologio. Sedici trilioni
di dollari, tradotto in secondi, corrisponde a cinquecentomila (500.000)
anni.
La voracità della finanza
Le banche, da parte loro, hanno speso grandi somme di denaro per
fare lobbying sui governi, affinché rimuovessero tutte le restrizioni ai
loro movimenti. Questo tipo di deregulation ha contribuito in modo
significativo alla crisi: le banche hanno assunto grandi rischi con i soldi
miei e vostri. Dal loro punto di vista, erano nel giusto, dal momento che
erano too big to fail e sapevano che i governi sarebbero dovuti
intervenire per salvarle, in caso di crollo. Allo stesso tempo, hanno fatto
ampio ricorso ai prestiti, spesso assumendo rischi di 30 o 40 dollari per
ogni dollaro proprio. Ma nonostante questo sono state salvate senza
alcuna condizione. Non hanno dovuto cambiare alcunché nel loro
operato e rimangono too big to fail. In questo senso, la finanza è
senz'altro il cerchio più ampio, quello collocato all'esterno. Il successivo
cerchio di potere è l'economia reale, dove la gente investe, produce,
distribuisce e consuma. Negli Stati Uniti, quest'economia reale riceve
soltanto il 20 per cento dell'investimento disponibile, mentre il resto
finisce direttamente al settore finanziario. Marx ha fondato la sua analisi
sull'economia reale: gli industriali ottengono profitti producendo beni e
servizi reali, sfruttando i lavoratori nel processo di produzione e
tenendo per sé stessi il surplus di valore. Oggi, non c'è più bisogno che
l'economia reale faccia soldi. Negli ultimi venti anni circa, si è potuto
ottenere molto di più scommettendo direttamente sui prodotti finanziari
e vendendo sempre di nuovo lo stesso prodotto finanziario.
Il terzo circolo di potere è la società, che include il governo, il quale
deve obbedire alle regole della finanza e dell'economia. I governi
obbediscono a tali regole, anziché fare in modo che siano la finanza e
l'economia ad obbedire loro, cosa che porterebbe benefici alla
popolazione. I sistemi di protezione sociale e perfino la salute e
l'educazione sono sotto attacco ovunque, anche in quell'Europa che si
ritiene sia il continente più ricco. Negli scorsi 3 o 4 anni i governi sono
diventati sempre più indebitati, soprattutto a causa delle somme che
hanno dovuto impiegare per salvare le banche. E oggi ci si aspetta che
la gente paghi di nuovo: dopo aver già pagato il salvataggio delle
banche, ora deve pagare nuovamente perché i debiti governativi sono
troppo alti. L'ultimo cerchio è quello ambientale, la biosfera, un cerchio
molto limitato a paragone degli altri tre.
Per la maggior parte dei governi, prendersene cura rappresenta una
sorta di lusso, che oggi non ci si può permettere di affrontare. Si tratta
di un atteggiamento miope, e tragico. Ora, non sarete certo sorpresi nel
sentire che la soluzione a tutti i problemi è semplice da affermare ma
estremamente difficile da realizzare. E' la prima volta nella storia
umana che la gente è sollecitata a compiere un simile cambiamento
fondamentale: dobbiamo capovolgere l'ordine dei cerchi che ho appena
descritto. La biosfera deve venire per prima e divenire il più potente dei
cerchi, perché è il più potente. Non possiamo contraddire le leggi della
fisica e della chimica, e se lo facciamo siamo sicuri di perdere. Non ho
mai parlato di «salvare il pianeta» perché il pianeta si prenderà cura di
sé come ha fatto per 4 miliardi e mezzo di anni. La vera questione non
è tanto se il pianeta sopravviverà, quanto se gli esseri umani in quanto
specie sopravviveranno sul pianeta. La conferenza sul cambiamento
climatico che si terrà a Durban alla fine del prossimo mese sembra sia
destinata a un altro colossale fallimento, alla stregua delle precedenti
conferenze di Copenhagen o Cancun. Presto, sarà troppo tardi, se non
lo è già. Scienziati molto rispettabili ci suggeriscono che l'aumento della
temperatura potrebbe raggiungere i 4 o 5 gradi Celsius e che ciò
decimerebbe letteralmente la popolazione umana. Il secondo cerchio
sarebbe la società, una società democraticamente organizzata in cui i
governi rispondano al popolo e il popolo sia la base della loro autorità.
Una democrazia reale non è possibile fino a quando i governi
governano per conto del sistema finanziario. Il cerchio successivo, il
terzo, sarebbe la vera economia, con genuini investimenti nel lavoro,
nell'educazione e nella salute, e con un alto livello di spesa pubblica e
più equi sistemi di tassazione e distribuzione delle rimesse. Preferisco
evitare di parlare di società «socialista» o «comunista», così come di
qualsiasi altro tipo di società che si presume perfetta, perché sono
estremamente diffidente della gente e dei partiti che già credono di
sapere esattamente come dovrebbero essere organizzate le future
società libere. Spero ci possa essere una varietà di forme
organizzative, adeguate alle diverse culture, storie e preferenze.
Desidero conservare la biodiversità, e ritengo la sociodiversità un
valore positivo. Per ultimo, ci sarebbe la finanza, il più piccolo e fragile
dei quattro cerchi: semplicemente uno strumento, tra molti altri, al
servizio dell'economia reale, della società e della biosfera. Questo non
è - ripeto non è - un progetto utopico. È del tutto realizzabile se noi, il
popolo, riusciamo a strappare il controllo dalle mani del sistema
finanziario.
Quando la crisi finanziaria è divenuta più grave, nel 2007-2008, ho
cominciato a occuparmi dei modi in cui avremmo dovuto usare la crisi
finanziaria per risolvere le altre due gravi crisi della disuguaglianza
economica e sociale e del clima. Ciò significherebbe prendere il
controllo della finanza e investire immediatamente in una transizione
verde, creatrice di posti di lavoro, cercando i soldi là dove ci sono, tra la
persone e le corporations che ora si trovano al top. Una transizione
sociale e verde significa anche che dobbiamo socializzare le banche, e
scrivo socializzare e non nazionalizzare perché, insieme al governo,
parte dell'autorità spetterebbe ai cittadini, agli impiegati di banca e ai
clienti. A quel punto le banche dovrebbero concedere prestiti alle
imprese di piccole e medie dimensioni, in particolare a quelle con un
progetto ambientalmente innovativo e alle famiglie che intendano
comprare o costruire case a risparmio energetico o energeticamente
neutrali. Molti studi hanno dimostrato che un'economia ecologica è
anche un'economia che crea posti di lavoro, e a tutti i livelli della
società, dai lavoratori edili agli scienziati della classe media.
Il clima al primo posto
Per le banche socializzate, l'altra priorità sarebbe di estendere il credito
alle imprese sociali, le compagnie con qualche forma di controllo da
parte del lavoratore. Nessuna legge sostiene che la democrazia debba
fermarsi là dove comincia l'economia, e l'economia ha bisogno di
essere democratizzata. Le banche dovrebbero essere viste come parte
del network del servizio pubblico. Le attività economiche di piccole e
medie dimensioni hanno un gran bisogno di credito. Piuttosto che
salvare le aziende in via di fallimento per fare esattamente ciò che
finora hanno fatto - per esempio produrre automobili - si paghi il
personale, dai lavoratori agli ingegneri e così via, per inventare nuovi
prodotti che siano i più socialmente utili e che possano essere prodotti
negli attuali luoghi di lavoro. Abbiamo speso centinaia di anni
trascurando la creatività di metà della razza umana - vale a dire le
donne - e ancora oggi trascuriamo la creatività, quasi tutta, della gente
che lavora. Ci sono molte altre misure da adottare, che richiederebbero
una descrizione troppo dettagliata. Mi limito a elencarle: cambiare gli
statuti e i mandati della Banca centrale europea, in modo tale che
conceda prestiti direttamente ai governi, non alle banche, che a loro
volta li concedono ai governi a interessi più alti.
La Banca centrale europea non dovrebbe limitarsi a «controllare
l'inflazione» (unico suo compito oggi), ma favorire la creazione di
lavoro. Emettere Eurobond e impiegare gli investimenti per network
intra-europei di trasporto ed energia puliti. Creare una tassa europea su
tutte le transazioni finanziarie, incluse valute, stock, bond e derivati a 1
punto base (1/1000); chiudere i paradisi fiscali; cancellare l'intero debito
africano nei confronti dell'Europa, in cambio di progetti di riforestazione
localmente orientati e partecipati, che possano essere monitorati (uno
«scambio debito per clima»); rivedere tutti gli accordi di libero
commercio e scegliere gli elementi che favoriscono i diritti umani, del
lavoro e dell'ambiente, scartando gli altri; accordare preferenza ai
prodotti del commercio equo (monitorato). Soprattutto, mai dimenticare
che le banche sono nostre, in un senso piuttosto letterale.
In quanto contribuenti, infatti, abbiamo pagato per loro con i nostri soldi
e se non l'avessimo fatto non esisterebbero più. Dunque, non
preoccupiamoci di dirlo! Altrimenti, continueremo a vivere in una crisi
morale, in una crisi finanziaria, sociale ed ecologica. Finora, abbiamo
ricompensato i colpevoli e punito gli innocenti. E' arrivato il momento di
capovolgere le cose.(Traduzione di Giuliano Battiston)
VERTICE DI DURBAN (2012)
UN ACCORDO FARSA CHE SE NE FREGA DEL CAOS CLIMATICO
OPINIONI - Giuseppe De Marzo
Dopo due settimane e 40 ore di extra time l'accordo di Durban in realtà non
prevede nulla di vincolante per i grandi inquinatori, ma dice solamente che
nel 2015 verrà definita un'intesa e che questa sarà valida nel 2020. Come un
obeso che dopo 19 anni (gli anni passati dal primo summit ad oggi per
trovare una soluzione sul clima) continua a rimandare al prossimo lunedì la
dieta necessaria a salvargli la vita. Gli credereste?
Trecentocinquamila morti ogni anno, innalzamento dei mari, scomparsa di
molti paesi del pacifico, distruzione delle economie degli stati costieri,
intensificazione dei fenomeni metereologici estremi, acidificazione dei mari,
desertificazioni di intere aree del mondo, cinquanta milioni di profughi
ambientali, centinaia di milioni di posti di lavoro a rischio, perdita di
biodiversità a ritmi superiori rispetto alle precedenti estinzioni di massa: come
si fa a rimandare ancora? Proprio qui in Africa, il continente che rischia di
essere "cucinato" dal caos climatico, si è seppellito l'unico accordo in vita,
quello di Kyoto, che vincola legalmente i paesi industrializzati a ridurre le
emissioni. Nel 2012 scadrà senza essere sostituito da qualcosa di altrettanto
obbligatorio.
Il Cop17 di Durban sarà ricordato come un fallimento per l'umanità ed un
grande affare per chi continua a far salire la febbre del pianeta. A sentire i
governi dei grandi inquinatori, su tutti Usa e Cina, dovremo aspettare il 2015
per negoziare un accordo che sarà vincolante solo nel 2020. Il punto è che
non abbiamo dieci anni! La scienza parla chiaro: il picco delle emissioni deve
essere il 2015 e dall'anno seguente dovranno ridursi se vogliamo evitare di
essere responsabili di un innalzamento della temperatura superiore ai 4 gradi
nel corso di questo secolo.
I governi avevano indicato solennemente a Copenaghen due anni fa, sede
del Cop15, in due gradi il limite oltre il quale la conseguenza sarebbe
trasformare la terra in un girone dantesco e sprofondare la gran parte
dell'umanità nell'apartheid economica e ambientale. È cambiato qualcosa da
allora? Basterà la green economy gestita dal colosso cinese a ridurre il
riscaldamento globale? Evidentemente no. Come si fa quindi ad aspettare il
2020? Su chi dovrebbe obbligare i grandi inquinatori a ridurre le emissioni, ha
prevalso l'idea di lasciare al mercato, alle forze produttive (o distruttive?) e
alla finanza la capacità di ridurre le emissioni di gas clima alteranti, come se
la crisi finanziaria non avesse insegnato niente sulla mano "visibile" del
mercato.
L'assenza dei principali capi di Stato del mondo inquinante e industrializzato
al vertice dimostra del resto come la politica sia oggi incapace di prendere
decisioni contrarie ai grandi interessi economici e finanziari, anche se in gioco
sono le sorti dell'umanità. Chi per una ragione e chi per un'altra tutti
privilegiano, sbagliando, le ragioni della crisi economica. Un pensiero
primitivo, eppure vincente, quello che dipinge ancora in contrapposizione
l'economia all'ecologia ed ignora i limiti segnalati dalla scienza. E non è certo
questa la strada per coniugare le ragioni dell'ambiente con quelle del lavoro.
Le proposte portate dalla società civile e dalla scienza per una seria
riconversione energetica ed industriale dell'apparato produttivo, in grado di
rispondere concretamente a queste due grandi urgenze, sono rimaste
inascoltate. Nemmeno sui meccanismi di mitigazione ed adattamento si sono
fatti passi avanti concreti per sostenere i paesi più poveri o più vulnerabili,
come le isole nel Pacifico in pericolo per l'innalzamento dei mari. Gli Usa che
avevano garantito cento miliardi di dollari ogni anno per il Fondo Verde hanno
fatto marcia indietro e non si capisce chi metterà i soldi, come saranno
ripartiti e come avverrà il trasferimento di tecnologie pulite.
Siamo in balia delle onde. Per evitare di scoprirci naufraghi sul nostro stesso
pianeta dobbiamo fare prestissimo e costruire un campo nuovo che esprima
una cultura ed una pratica egemone che ripensi lo sviluppo a partire dai limiti
del pianeta. Non è impossibile. La società civile, i movimenti, i lavoratori, i
contadini e la scienza sono pronti. Speriamo che la politica questa volta
scelga di stare dalla parte giusta. È l'ultima occasione.
* portavoce A Sud
Il Manifesto del 02 nov 2011
Guido Viale
L'ITALIA E L'UE
Un fronte comune, insieme ai Pigs
Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte, ovviamente, lo è Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non
solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga
parte dell'establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il
sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio).
E Confindustria che lo ha sostenuto fino all'altro ieri anche; e allora, di
che si lamenta?). Ma gli uomini e le donne al governo dell'Europa sono
anch'essi promotori e prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che
è però quello che hanno costruito e vellicato) di un virus altrettanto
grave, di cui Berlusconi non è che la manifestazione più grottesca,
infame e repellente. Quel virus è il pensiero unico: la convinzione,
contro ogni evidenza, che il mercato, e solo il mercato, può tirarci fuori
dai guai in cui ci ha cacciati. E che per tirarci fuori dai guai, per uscire
dalla crisi, occorre rilanciare la crescita: cioè sperare - e che altro, se
no? - in un aumento del Pil tale da generare entrate fiscali sufficienti a
pagare gli interessi e a rimborsare, un po' per volta, una parte
consistente del debito pubblico. Per loro l'economia è come un'auto a
cui si è imballato il motore. Basta dargli una spinta e tornerà a correre cioè a crescere - di nuovo. Ma le cose non sono così facili; e non lo
saranno mai più. E intanto, in attesa di questo miracolo, la soluzione
vincente è il taglio della spesa pubblica: pensioni, sanità, scuola,
trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico impiego, salari e
stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di ricavarne le risorse
necessarie a tacitare gli appetiti dei mercati, cioè di tutti coloro
impegnati a produrre denaro per mezzo di denaro: banche,
assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con
la liquidità necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è in svendita:
a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre vie le unghie alla
speculazione non si parla; perché quello che chiamano mercato è
speculazione: senza l'una non c'è l'altro, e viceversa; simul stabunt,
simul cadent. Così, invece di crescere l'economia si avvita su se stessa
in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle
finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema
produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente.
La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno - ma pochi lo
dicono - che non si riprenderà più per decenni. Ma altri paesi, Italia in
testa, sono già sullo stesso cammino e nessun paese dell'eurozona è
più al sicuro. Per statuto la Banca centrale europea (Bce) non può
fornire liquidità alle banche messe in crisi dai debiti sovrani (cioè degli
Stati) che detengono: ufficialmente per non generare inflazione; in
realtà per perpetuare quel blocco dei salari da cui ha avuto origine la
cavalcata dei profitti degli ultimi decenni. Così, per garantire quei debiti
si ricorre alla creazione di nuovi debiti in una catena senza fine
(andando a chiedere l'elemosina persino in Cina) e l'Europa consegna
alla finanza internazionale e alla speculazione le chiavi dell'economia:
la creazione di liquidità, cioè la moneta.
Siamo alla vigilia della Cop 17, il vertice dell'Onu che a Durban
(Sudafrica) dovrebbe rinnovare, estendere e approfondire gli accordi di
Kyoto per ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra, causa
dell'imminente catastrofe climatica. Scienziati di tutto il mondo
ribadiscono l'urgenza di un cambio di rotta, pena la sopravvivenza
stessa dell'umanità. Ma nessuno si occupa più della questione e niente
evidenzia meglio l'inconsistenza e vacuità della governance europea (e
di quelle del resto del mondo: tutte fautrici e insieme prigioniere del
pensiero unico). Già si sa che a Durban non si concluderà niente, come
niente si è concluso a Copenhagen (Cop 15) e a Cancùn (Cop 16). Se
tre anni fa erano Berlusconi e la pseudo-ministra Prestigiacomo a
girare l'Europa per spiegare agli altri capi di governo che certi impegni
erano irrealizzabili e dannosi per l'economia, ora il loro obiettivo è
raggiunto: anche se in alcuni paesi qualche passo in avanti, comunque
insufficiente, è stato fatto, su questo punto, in nome della crescita,
l'allineamento dell'Europa al berlusconismo è ormai completo.
C'è un'alternativa a questa spirale? Certo che c'è. E' la conversione
ecologica del sistema produttivo e dei consumi: la promozione di una
democrazia economica fondata sull'autogoverno e un sistema
produttivo decentrato, diffuso, diversificato, esperto, riterritorializzato (a
chilometri zero, ovviamente dove è possibile), replicabile in tutto il
mondo: tanto nei paesi di consolidata industrializzazione che in quelli
emergenti e in quelli devastati da sfruttamento e globalizzazione. Una
conversione che coinvolga i settori portanti della generazione e
dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'alimentazione,
dell'edilizia e della cura del territorio, della mobilità e della sanità; e
promuova l'autogoverno dei saperi, dei servizi pubblici e dei territori,
restituiti alla loro vocazione di beni comuni; e adotti consumi più sobri e
meno aggressivi verso l'ambiente: non la rinuncia ascetica né la miseria
a cui la finanza sta condannando il 99% della popolazione mondiale;
bensì un graduale passaggio dai consumi individuali, in cui le scelte
sono imposte dalla moda, dalla pubblicità, dal marketing, dagli sprechi,
a un consumo condiviso, in cui gli acquisti vengono effettuati, nel
rispetto degli orientamenti di ciascuno, attraverso processi partecipati
come quelli dei gruppi di acquisto solidale (Gas). E con dei veri tagli
alle spese viziose: che non sono la pensione dopo quarant'anni di
lavoro in fonderia, e nemmeno il prepensionamento di uomini e donne
nel pieno del loro vigore cacciati dalle aziende e senza alternative; ma
le spese militari, l'evasione fiscale, le grandi opere inutili e dannose, la
corruzione, i costi dei politici (dei politici, non della politica: quella vera
non costa quasi niente). Solo nella prospettiva di una conversione
ecologica le risorse che si ricavano da tagli del genere non verranno
sprecate; evitando soprattutto di pagare un servizio del debito (in Italia
oltre 100 miliardi di euro all'anno) che non può che affondare il paese.
Non è il vagheggiamento di una società ideale, ma un programma che
risponde a un elementare senso di giustizia in un processo fatto di
conflitti, di partecipazione e di organizzazione delle forze necessarie
per imporre soluzioni innovative e condivise: a partire dalle situazioni di
crisi occupazionale che non hanno prospettive se non nella
riconversione produttiva; e dal condizionamento dei governi locali, per
risalire di lì ai governi nazionali e alle governance europee e mondiali.
Ma dove sono mai le forze per imboccare una strada del genere?
Quelle forze hanno fatto una comparsa a livello globale nella giornata
del 15 ottobre, trascinate dall'indignazione nei confronti del modo in cui
vengono governate, dalla volontà di valorizzare l'energia e l'intelligenza
di una generazione messa ai margini dai poteri della finanza, dalla
determinazione a non pagare i costi della crisi e i debiti contratti dagli
establishment politici e finanziari al potere. Il segnale è partito dalla
Spagna e le parole più chiare sono state dette a New York; ma la
manifestazione più numerosa e dalla composizione più variegata di
questo movimento in marcia è stata quella di Roma, dove si sono
ritrovati, per la prima volta insieme, associazioni, movimenti, comitati,
sindacati e persone (dai No Tav agli occupanti del Teatro Valle, dalla
Fiom ai Cobas, dal Forum per l'acqua al movimento degli studenti) che
da anni lavorano con tenacia a promuovere progetti e rivendicazioni tra
loro diversi ma convergenti; e non è valsa a offuscarne il significato la
messa in scena di una aggressività vacua e violenta.
Una cosa emerge ormai con chiarezza: entro i vincoli di bilancio imposti
dalla Bce a Grecia, Italia (quelli esplicitati dalla lettera con cui Draghi e
Trichet hanno definito il programma di questo come di ogni prossimo
governo) e in tutta l'Europa non c'è posto né per la politica, né per la
proposta, né per l'alternativa. C'è posto solo per l'obbedienza, la
rinuncia, il servilismo mascherato da buon senso di tanti columnist, e
una spirale che porta direttamente al default; dopo aver però devastato
occupazione, redditi, convivenza civile, tessuto produttivo e ambiente.
La strada stretta della conversione ecologica passa allora attraverso lo
scardinamento di questo diktat ed è a senso unico. La crisi in corso,
con il salvataggio delle banche too big to fail (troppo grandi per fallire)
ci fa capire quanta forza hanno in realtà i debitori. E' la condizione in cui
si trova oggi il nostro paese: la sua insolvenza trascinerebbe nello
stesso gorgo, insieme all'euro, tutta la costruzione dell'Unione europea
e le economie sia deboli che "forti" di tutti gli altri paesi. Ci sono dunque
le condizioni per imporre una ristrutturazione radicale e selettiva del
debito pubblico italiano attraverso un negoziato condotto insieme ai
paesi cosiddetti Pigs, tutti esposti alla stessa deriva. Cominciando così
a sgonfiare la bolla del debito che dai mutui subprime alle banche e agli
hedge fund, e da quelle agli Stati che le hanno salvate, e dagli Stati di
nuovo alle banche e poi di nuovo agli Stati, continua e continuerà ad
aleggiare sul continente, sconvolgendone tutto il sistema produttivo; e
buttando a terra uno a uno come tanti birilli tutti gli Stati dell'Unione.
Non sarà l'attuale governo - né il prossimo - ad avviare un negoziato
del genere; ma questo è il discrimine intorno a cui raccogliere e
ricostruire un'autentica forza di opposizione. Anche per salvare l'euro; e
l'Europa che vogliamo.
Riconversione ecologica della produzione e dei consumi, democrazia
economica fondata sull'autogoverno. La possibilità c'è, a patto di
scardinare i diktat dei vincoli di bilancio
Il Manifesto del 3 nov 2011
Daniele Balicco Massimiliano Tomba
PRIMA E DOPO LA GELMINI
ll grigio declino dell'Università
La logica aziendale è diventata dominante perché lo Spirito critico
aveva già abbandonato da tempo gli atenei
C'è una crisi dell'Università. Essa si manifesta, all'interno, come
scontento generalizzato in ogni grado della sua struttura. All'esterno,
con critiche più o meno pertinenti sulla sua inefficienza. I governi che si
sono succeduti negli ultimi anni hanno cercato di porre rimedio a
questa crisi attraverso una razionalizzazione di matrice aziendale.
Inevitabile che così fosse, se l'istituzione più alta della ricerca e della
formazione non è stata in grado di autoriforma, ma solo di amministrare
risorse sempre più scarse. Durante le recenti proteste dei ricercatori, si
è talvolta sentito l'appello alla metafora della nave comune da tenere a
galla. Ma la nave dell'accademia, ancora decorata con alcuni orpelli
feudali, è ormai in mano al cuoco di bordo. Il megafono non trasmette
più la rotta, ma ciò che si mangerà la sera.
Dallo stato attuale di crisi non si esce incolpando qualcun altro, sia
esso il ministro, il rettore di turno, qualche barone, talvolta addirittura gli
studenti «ignoranti»; questa strategia serve solo a proiettare verso
l'esterno la propria responsabilità, o irresponsabilità, per ciò che sta
accadendo. Poiché il dovere dell'Università è la formazione innestata
sulla ricerca, la reazione degli studenti e il loro scontento rispetto alla
cosiddetta «offerta formativa» vanno presi sul serio. Gli studenti non
sono indifferenti, come farebbe comodo credere, ma reagiscono con
una «intenzionale ottusità», con una sorta di autodistrazione difensiva
alla riduzione della conoscenza in moduli indifferenti di informazioni usa
e getta. Oggi lo studente deve immagazzinare un pacchetto di
informazioni così come si leggono le istruzioni per montare un mobile. Il
libretto di istruzioni può essere gettato via appena il mobile è montato.
Questo è il risultato delle riforme che si sono succedute negli ultimi
anni. Lo scopo comune è stato quelli di sincronizzare lo sfasamento fra
ricerca, mercato del lavoro e istituti formavi. Poiché il problema non sta
nelle diverse soluzioni da dare alla combinazione di questi elementi, ma
negli elementi stessi, il disastro era fatale. Se la casa va a fuoco ha
poco senso spolverare i tappeti.
Oggi il valore della ricerca universitaria viene misurato
quantitativamente in base alla produzione di articoli e brevetti, cioè
secondo i criteri di una razionalità economica e amministrativa. Si
sbaglierebbe a criticare l'estensione dei criteri di valutazione delle
scienze naturali alle scienze umanistiche in nome di una romantica
autonomia di queste ultime. Piuttosto si tratta di indagare come e
perché i due campi confluiscono verso un'unità di nuovo genere.
Compito di chi ha cura dello «Spirito» è cogliere questa possibilità in
termini di mutamento e non con l'atteggiamento reazionario di chi
intravede ovunque solo grandi orizzonti di decadenza o solo problemi di
budget.
Lo «Spirito» non è stato cacciato dai processi di razionalizzazione,
come si vorrebbe facilmente credere, ma al contrario quei processi
hanno operato perché lo «Spirito» aveva già abbandonato l'Università.
L'ipertrofico conflitto per preservare e accrescere insignificanti fette di
potere e briciole di finanziamenti, è lo spettacolo che sempre
accompagna la decadenza delle istituzioni quando, spesa ogni energia
per non-mutare, resta solo la lotta per accedere a posizioni vantaggiose
all'interno di un ordine che si presume o si vuole mantenere immobile.
Se l'ordine non viene messo in questione, resta la lotta nella gerarchia,
una lotta per le posizioni di potere che prima o poi degenera in aperta
corruzione. L'ordine, non messo in questione, diventa qualcosa di
morto, e lo «Spirito« lo abbandona.
La situazione è disperata, ma proprio perciò ci può essere salvezza.
Bisogna però capire cosa è successo e che cosa sta succedendo.
Formazione e ricerca, assieme. L'attuale oggettivazione dei saperi
presenta sia elementi di novità sia di continuità con i processi di
trasformazione del lavoro avvenuti durante le rivoluzione industriali. La
continuità sta nell'atto della separazione. La grande industria espropriò,
incorporandolo nella razionalità delle macchine, il sapere del lavoro
artigianale. Oggi l'intellettuale vede il proprio sapere espropriato in
quella infinita somma di informazioni che la memoria delle macchine
informatiche incorpora. Grazie al computer, che sostituisce e
incrementa la produttività del lavoro, nuovi ambiti di conoscenza
vengono immagazzinati in pacchetti di informazioni pronti per l'uso. Un
nuovo mutamento antropologico accompagna questa oggettivazione di
sapere. Questo processo può rappresentare non la linea di decadenza
del sapere classico, ma il campo di possibilità di nuove forme di ricerca,
di formazione, di sperimentazione.
Oggi le informazioni non sono più racchiuse nel cranio individuale del
singolo intellettuale o docente, ma sono ovunque disponibili come bene
comune da accrescere. Quello che è però certo è che la somma delle
informazioni non produce, né produrrà mai, di per sé, conoscenza. La
conoscenza non è una semplice raccolta di dati, ma è una forma, un
processo che si apprende per imitazione. Per questa ragione, compito
dell'università oggi è anzitutto quello di formare persone capaci di
decodificare, di selezionare e di sostare di fronte al sapere comune
depositato nella memoria alfanumerica delle macchine; e, nello stesso
tempo, di saper farne a meno. Tutto il tempo, non solo la punta del
presente che si autorappresenta come più avanzata, deve poter
orientare un ricercatore, in qualsiasi disciplina. Si può progredire, infatti,
anche, con balzi vertiginosi, nel ritorno a possibilità perdute, verso
quella convergenza tra scienze, arti ed etica che non abbisognava di
proclami ministeriali, esternazioni papali o noiose causuistiche di
bioetica per porre limiti alla ricerca scientifica.
Per poter fare questo serve lo stupore e il desiderio della ricerca, che è
viaggio comune di esplorazione, nello spazio e nel tempo. L'Università
non si salverà se non inizierà a trasformare radicalmente le forme di
trasmissione del sapere ripensando e investendo quanto più possibile
in quella comune esperienza che è il rapporto docente/allievo.
Quell'esperienza ha bisogno di tempi adeguati, di spazi adeguati, di
coraggio, di radicalità e di buon senso. Una formazione superiore che,
in ogni suo grado, non si ponga questi compiti, è fatale che si perda.
L’organizzazione dei Saperi e la riforma Gelmini
Piero Bevilacqua
( Il Manifesto del 23 gennaio 2011)
La riforma Gelmini, definita «epocale» dalla ministra - che evidentemente ha
idee confuse su ciò che sono le epoche - divenuta legge, investirà la vita
delle Università italiane nei prossimi mesi. Un diluvio di norme e regolamenti
da applicare pioverà sugli atenei, proseguendo ed esacerbando le tendenze
dell'ultimo decennio, durante il quale « l'innovazione continua»» delle
cosiddette riforme ha tormentato docenti e studenti, perennemente alle prese
con problemi organizzativi e novità procedurali da interpretare. Una pratica
che ha assorbito non poco tempo ed energia alle loro ricerche e ai loro studi.
Nulla di nuovo, dunque, se non il peggio che prosegue nella sua china,
perché la riforma aggiunge un'ulteriore limitazione di risorse e di personale ai
vecchi problemi. Ciò che tuttavia iscrive la nuova legge nel quadro delle
ristrutturazioni universitarie della Ue è un dato di cui pochi, in verità, si sono
occupati. Tutte le riforme dell'ultimo decennio non si sono neppure
interrogate sulla qualità degli insegnamenti che si impartiscono
nell'Università. L'unica preoccupazione che ha tenuto desta l'attenzione dei
riformatori è stata quella di far corrispondere discipline e insegnamenti alle
tendenze del mercato del lavoro. I solerti pedagogisti del capitale non hanno
rovelli che per questo. E perciò anche un grande scrupolo nell'emarginare le
discipline umanistiche, poco utili a produrre saperi strumentali,
immediatamente spendibili nel mercato. Per il resto, nessuno sguardo sugli
scenari attuali delle scienze, nessuna messa in discussione dell'esistente,
nessun accenno a una possibile «riforma dei saperi» che allarghi gli orizzonti
della ricerca e della formazione universitaria.La diffusione dell'ecologia Qui si
può osservare nitidamente la miopia sistemica della cultura capitalistica
dell'ultimo trentennio. È infatti il caso di ricordare che, mentre le nostre
Università si reggono sugli insegnamenti delle vecchie discipline, sulle loro
nette separazioni istituzionali - aggiornate nei contenuti da qualche solitario
ed eterodosso docente - all'esterno il mondo dei saperi scientifici è stato
investito da trasformazioni profonde, in questo caso davvero «epocali». Si
pensi alla diffusione, negli ultimi decenni, dell'ecologia, «la scienza delle
relazioni - come scriveva il suo fondatore, Ernst Haeckel - fra le cose viventi e
il loro ambiente». Questo nuovo ramo del sapere non è una qualche
disciplina specialistica che si viene ad aggiungere a quelle già esistenti. Esso
ha letteralmente capovolto uno dei principi costitutivi su cui si è fondata e
sviluppata l'intera scienza moderna: vale a dire la separazione e l'isolamento
dell'oggetto dal suo ambiente, per essere studiato nella sua separata e
solitaria struttura. L'ecologia ha mostrato, al contrario, che i fenomeni si
indagano dentro il loro contesto ed ambiente, perché le connessioni, non
sono accidenti, ma costituiscono la realtà intima e indisgiungibile degli stessi
fenomeni. Possiamo studiare il seme del grano o l'ape in laboratorio, ma la
loro vita reale si comprende nell'universo complesso del suolo, oppure tra le
piante, i fiori e le altre famiglie degli insetti. La «prima scienza nuova», come
Edgar Morin ha definito l'ecologia - con esplicito riferimento al nostro
Giambattista Vico - per la prima volta mostra il mondo vivente in cui tutti
siamo immersi come una complessa rete di connessioni i cui multiformi
equilibri e relazioni costituiscono ciò che noi definiamo natura. Essa disvela,
dunque, l'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni che la scienza moderna
aveva frantumato in una moltitudine di specialismi. Il successo dirompente
dell'ecologia che - salvo rari casi - stenta ancora a trovare spazi adeguati
nelle aule delle Università, non è solo dovuto alla sua straordinaria fertilità
metodologica. Basti pensare alla sua propagazione tra tante discipline
tradizionali, dalla biologia alla chimica, dalla fisica alla botanica, o alla
"esplosione" di un campo prima ignoto della biologia, come quello della
biodiversità. Il suo vero e proprio trionfo è stato decretato da due clamorosi e
drammatici fallimenti che la tecnoscienza ha subito nella seconda metà del
'900. Il primo di questi, come tutti sanno, è il «buco dell'ozono». L'intera
vicenda ha mostrato che nessuno dei chimici che avevano creato i gas
clorofluorocarburi aveva idea degli equilibri gassosi degli strati alti
dell'atmosfera. E di come questi potessero essere gravemente alterati dai
gas costruiti in laboratorio. Come apprendisti stregoni che avevano destato
potenze infernali, essi hanno dovuto prendere drammaticamente atto
dell'esistenza di relazioni invisibili che regolano l'atmosfera in cui dimorano i
viventi sul pianeta Terra. L'altro caso, ben noto, è il riscaldamento globale.
Uno degli studiosi più impegnati sul campo, Nicholas Stern, l'ha definito «il
più grave ed esteso caso di fallimento del mercato che si sia mai verificato».
Giudizio certo calzante, ma tutto interno all'economicismo imperante. In
realtà, la tardiva scoperta che le attività umane condizionano il clima della
Terra costituisce il più grave scacco subito dalla scienza contemporanea.
L'incapacità delle discipline dominanti di pensare la Terra come una biosfera,
vale a dire come un universo di relazioni il cui equilibrio rende possibile la
vita, mostra nitidamente come queste discipline hanno smembrato la natura
per dominarla nelle sue singole parti, dimenticando che essa è un tutto.
Scoprire, come oggi facciamo, che ciò che immaginavamo come
infinitamente lontano e indipendente dalle attività umane, il clima, risente
invece dell'azione dei nostri scarichi e dei nostri fumi, disvela l'urgente
necessità di una «scienza nuova», di un sapere olistico di cui l'ecologia è
portatrice. Dobbiamo, infatti, prendere atto che il cielo, immaginato come
infinitamente lontano e distante da noi, è invece il tetto della nostra casa, e
corriamo il rischio di renderlo rovente. Ora, questi nuovi saperi si stanno
facendo strada. Com'è noto, è proprio per lo studio dei mutamenti climatici
che si è formato l'Ipcc, voluto dall'Onu: il più grande consesso di studiosi mai
messo insieme per studiare, con diverse conoscenze disciplinari, quella
speciale totalità che è il clima terrestre. Anche all'interno di qualche
Università di avanguardia l'ecologia va producendo un rimescolamento dei
vecchi assetti disciplinari, e comunque un nuovo dialogo tra le scienze e tra
queste e i saperi umanistici. È il caso, ad esempio, dell'Environmental
Science, Policy and Management dell'Università di California, a Berkeley,
dove filosofi e chimici, storici e botanici cooperano o dialogano su ricerche
comuni. Ma si tratta di qualche stella in un firmamento spento. Riflessione
analoga meritano i saperi umanistici, oggi letteralmente perseguitati come
veicoli di parassitismi antieconomici, di contagiosi virus del pensiero libero e
disinteressato. Eppure il rimescolamento senza precedenti di razze e culture
che investe oggi il globo, reclama come non mai il concorso dei saperi
umanistici per comprenderlo e interpretarlo. La necessità di una cultura
cosmpolita, che faccia i conti con un eurocentrismo ormai angusto, capace di
abbracciare le storie e le antropologie, le fedi e le lingue di moltitudini di genti
ormai presenti nella nostra vita e nel nostro immaginario, reclama più
conoscenze dagli storici, dagli antropologi, dai sociologi, dai geografi, dagli
economisti,
dai
letterati.
Mondo
globale,
università
provinciali
E come rispondono i riformatori a questa sfida, anche questa, realmente
«epocale»? Con quali saperi si affronta la complessità del mondo che diventa
globale? Conosco un solo sforzo serio in questa direzione, avviato in Francia
dalle Maisons des Sciences de l'Homme : fortilizi dei saperi umanistici di cui
avremmo così bisogno in Italia. Qui, al pedagogismo straccione del centro
destra italiano, che rivendicava (ricordate?) la politica delle "tre i" - internet,
inglese, impresa - le Maison hanno fatto corrispondere ben diversi significati
alle stesse vocali: internazionalità, interdisciplinarietà e interistituzionalità. Ma
anche in questo caso si tratta di una piccola cometa nei cieli spenti d'Europa.
In realtà, mentre si costruisce l'Ue, mentre siamo inondati di retorica
sull'avanzare del mondo globale, nelle Università non si fa nulla per costruire
la nuova cultura cosmopolita del cittadino europeo e globale. Anzi, in tutti
questi anni abbiamo assistito a un fenomeno culturale rilevantissimo di cui le
Università portano una responsabilità primaria. Alludiamo al fatto che
l'economia, uno dei più antichi saperi del mondo occidentale, diventata una
scienza sociale dominante in età contemporanea, si è ormai ridotta, tanto nel
suo operare sociale che nelle aule dell'Università, a una tecnologia della
crescita economica. Oggi dominano nei curricula delle Facoltà di economia
discipline come marketing, matematica finanziaria, economia aziendale,
banche e mercati finanziari, ecc, tutto ciò che serve a fare di un giovane un
dirigente o un dipendente di impresa. La sua formazione culturale
strettamente al servizio delle necessità presenti del capitale. E nessuno - a
quanto mi risulta - mena scandalo del fatto che in queste Facoltà non sia
presente una materia come storia del lavoro, o come sociologia del lavoro.
Non ha nulla a che fare il lavoro con l'economia, con la formazione della
ricchezza? Da dove viene, chi ha costruito la società industriale del nostro
tempo, in cui i neolaureati sono chiamati a operare? È evidente, in questo
caso, che già nelle Università si cancella il lavoro - e le persone viventi che lo
realizzano - dall'orizzonte formativo dei giovani economisti. Ma questa
disciplina mostra oggi altre, ormai insostenibili, inadeguatezze. Com'è
possibile che chi studia economia non possa accedere a un corso
fondamentale di storia del colonialismo? Quale può essere la formazione di
un giovane economista che ignora un tratto fondativo della storia economica
europea: vale a dire il fatto che essa si fonda su cinque secoli di saccheggio
delle risorse del Sud del mondo? Ma oggi il capitalismo, con la sua immane
macchina divoratrice di energia e risorse, reclamerebbe una ben altra
consapevolezza scientifica da parte delle discipline che lo promuovono e
l'indirizzano. Non è l'attività economica una gigantesca e insonne
manipolazione di risorse naturali destinate alla vita di esseri naturali? Non è
l'economia una ecologia inconsapevole? Eppure, a tutt'oggi, i saperi ecologici
dentro queste facoltà non hanno diritto di cittadinanza. Ecco dunque che di
fronte all'ampiezza di questi problemi e di queste contraddizioni - il mondo dei
saperi che sopravanza in ampiezza e profondità quello strumentale con cui il
capitale vuol restringere gli orizzonti formativi delle nuove generazioni mostra quale portata strategica assuma l'Università nel nostro tempo. Quale
luogo di affermazione di un sapere non piegato ai comandi del profitto, che
guardi alla natura come a un bene comune da tutelare e non da saccheggiare
e che operi al tempo stesso per un progetto di società solidale e
multiculturale su scala planetaria. Si comprende bene, quindi, che la lotta dei
ricercatori, degli studenti e dei docenti italiani è destinata a trovare motivi di
continuità non solo nelle soffocanti imposizioni della legge Gelmini, ma anche
in un più vasto orizzonte di ragioni e di prospettive. www.amigi.org
Come cambia il….clima
Il cambiamento della
questione ambientale dal
1962 ad oggi 2011
1962, il libro di Rachel Carson, Silent Spring,
La questione ambientale è cosa di pochi intellettuali e scienziati accusati di essere i
nemici del progresso. Siamo in piena crescita economica, è l’era dello sviluppo
illimitato
The Silent Spring
C'era una volta una città nel cuore dell'America dove tutta la vita sembrava scorrere
in armonia con il paesaggio circostante. La città si stendeva al centro di una
scacchiera di operose fattorie, tra campi di grano e colline coltivate a frutteto, dove, di
primavera, le bianche nuvole dei rami in fiore spiccavano sul verde dei prati [...].
D'improvviso un influsso maligno colpì l'intera zona, ed ogni cosa cominciò a
cambiare. La popolazione cadde sotto il potere di una diabolica magia; il pollame fu
decimato da misteriose malattie; i bovini e le pecore si ammalarono e perirono [...].
Ogni giorno i contadini parlavano di malanni che colpivano le loro famiglie [...]. Si
trattava di una singolare epidemia. Gli uccelli, per esempio, : dov'erano andati a
finire? [...]. Nessuna magia, nessuna azione nemica aveva arrestato il risorgere di
una nuova vita: gli abitanti stessi ne erano colpevoli (Carson, 1962).
1972 Il Club di Roma commissiona all’M.I.T il famoso rapporto sulle sorti future
del pianeta
Per la prima volta viene usato il calcolatore elettronico e simulato l’andamento di
variabili utilizzando modelli matematici. Il collasso del pianeta è fissato al 2010. Inizia
l’era della esauribilità delle risorse.
Lo shoc petrolifero

La Guerra del Golfo.

Per la prima volta nella storia dell’umanità, ci si trova a fronteggiare il rischio di
esauribilità delle risorse.

I primi provvedimenti di austerità: la giornata senza auto e la circolazione a
targhe alterne
1986. L’ONU commissiona un Rapporto sul cambiamento dell’ecosistema
terrestre. La Commissione è presieduta dal Primo Ministro norvegese Gro
Brutland.
Nasce il concetto di SVILUPPO SOSTENIBILE. Il problema non è più l’esauribilità
delle risorse ma l’equilibrio della biosfera. 1987, Il Rapporto Brutland, il concetto di
sviluppo sostenibile. Forse le risorse sono sostituibili, non è questo il problema. Il
problema è la stabilità dell’ecosistema planetario aggredito dagli esiti delle attività
antropiche. Moderare l’uso delle risorse rinnovabili, contenere l’uso delle risorse non
rinnovabili
1992, Protocollo di Kyoto, accordi sul clima, l’effetto serra, il riscaldamento
climatico
Gli scienziati sono ancora divisi sul riscaldamento climatico. L’effetto serra è dovuto o
no all’attività antropica? Gli accordi prevedono una modesta riduzione dei gas serra
tra i paesi occidentali. I Grandi della Terra si riuniscono a KYOTO, primo allarme
planetario sul CAMBIAMENTO CLIMATICO. Gli effetti del cambiamento sono dovuti
all’effetto serra causato dall’aumento di CO2 per effetto del consumo eccessivo di
fossili. Gli Stati Uniti non sottoscriveranno mai questo accordo che prevedeva la
riduzione dei gas serra del 20%. Dalla geopolitica alla politica della biosfera
“Seguirò la scienza non la moda”.
Così si è espresso il 25 aprile 2001 il Presidente degli Stati Uniti a proposito della sua
politica sull’ambiente. “Riteniamo, ha detto – che la tecnologia sia avanzata al
punto tale da poter far andare di pari passo crescita economica e politica
ambientale”., un pensiero – questo – che poggerebbe su “solide basi scientifiche”
2009, Conferenza di Copenaghen, il riscaldamento ambientale, il clima
Entrano sulla scena Cina, India, Brasile, per gli stati Uniti Obama. Ora gli scienziati
sono d’accordo. Le regole della partita viene fissata dagli scienziati (aumento max
della temp. 2 gradi), ma la gara del clima è tutta politica.
FINALMENTE IL PROBLEMA…….ESISTE
1962-2009, 47 anni per decidere se la questione ambientale….. ESISTE
Si fa spazio la posizione della green economy
E’ colpa dell’uomo, oppure no?
Kunh diceva:
Dove un paradigma vede conigli, un altro vede anatre
A questo punto della storia umana è quasi inutile stabilire se la colpa è dell’uomo
oppure no
Noi possiamo solo cercare di ridurre quanto più possibile l’emissione di gas serra.
Nelle scienza, in condizioni di incertezza, vale il PRINCIPIO DI PRECAUZIONE. E’ in
atto un cambiamento del clima. Nell’ultimo secolo la temperatura media alla
superficie del pianeta è aumentata di 0,7C°. Il livello dei mari aumentato di 17 cm. La
massa di ghiaccio in Groenlandia e in Antartide si è ridotta. L’estensione dei ghiacciai
al Polo Nord si è ridotta. Si registra un forte aumento di gas serra in atmosfera. C’è
correlazione tra aumento di gas serra e aumento di temperatura? Temperatura alla
superficie e gas serra in atmosfera aumentano e diminuiscono insieme.Non
sappiamo quale sia la causa e quale l’effetto. Il clima del pianeta è un sistema molto
complesso… ci sono molte retroazioni (feed back)
E’ l’aumento della temperatura che causa più gas serra in atmosfera o viceversa? O
gli aumenti sono sinergici e si rafforzano a vicenda. I fattori che influenzano il clima
sono molti a partire dal suo grande motore: il Sole. Ma nessuno sarebbe in grado di
spiegare i cambiamenti climatici in atto senza tener conto dei fattori antropici..
Ovvero l’aumento dei gas serra prodotti dall’attività umana. E’ l’aumento della
temperatura che causa più gas serra in atmosfera o viceversa? O gli aumenti sono
sinergici e si rafforzano a vicenda. I fattori che influenzano il clima sono molti a
partire dal suo grande motore: il Sole. Ma nessuno sarebbe in grado di spiegare i
cambiamenti climatici in atto senza tener conto dei fattori antropici.. Ovvero
l’aumento dei gas serra prodotti dall’attività umana. E’ l’aumento della temperatura
che causa più gas serra in atmosfera o viceversa?
SE INVECE….
Tutto procederà come adesso, entro il 2100 la temperatura potrebbe aumentare di
6C° (o 4C°).. Il livello dei mari crescerebbe di oltre 1mt!!!
Quanto inquinano le guerre? La guerra in Iraq ha prodotto 141 milioni di tonnellate di
CO dal marzo 2003 al dicembre 2007. La produzione di gas serra equivale a quella
prodotta da 139 paesi in un anno
Quando è stato annunciato che i paesi ricchi spenderanno 10 miliardi di dollari per
aiutare i paesi poveri a sopportare le conseguenze dei cambiamenti climatici, il
sudanese Lumumba Di-Aping, presidente del G77 che riunisce un gruppo di paesi in
via di sviluppo, ha dichiarato:
L’appello di Obama del 2009 e la svolta del Papa del 2009
Stili di vita più sobri e più rispettosi dell’ambiente e di tutto il Creato;
maggiore attenzione ai poveri e ai paesi vittime di fame, siccità, guerre, malattie;
sviluppo solidale con al centro la dignità della persona umana
Bene, non è neanche abbastanza per pagarci le bare
Vi propongo due riflessioni:
Il dio ecologico non può essere beffato (Bateson)
Nell’ecologia non esistono scorciatoie (la poesia del vecchio marinaio di Coldridge)
La soluzione non è nelle emissioni di gas serra ma nei tagli seri alla fonte: Lasciare il
petrolio nella terra, Lasciare il carbone nelle miniere
Dichiarazione finale della Conferenza dei Popolisul Cambiamento Climatico e i
Diritti della Madre Terra22 aprile 2009, Cochabamba, Bolivia

Oggi, la nostra Madre Terra è ferita ed il futuro dell’umanità è in pericolo.
Se il riscaldamento globale incrementasse di 2° C, eventualità a cui ci
condurrebbe la cosiddetta “Intesa di Copenaghen”, esiste il 50% di probabilità
che i danni provocati alla nostra Madre Terra siano totalmente irreversibili. Un
numero compreso tra il 20 e il 30% delle specie sarebbe a rischio d’estinzione.
Grandi estensioni di foreste sarebbero danneggiate, le siccità e le inondazioni
colpirebbero differenti regioni del pianeta, si amplierebbero i deserti e si
aggraverebbe lo scioglimento dei poli e dei ghiacciai nelle Ande e in Himalaya.
Molti stati insulari sparirebbero e l’Africa soffrirebbe di un incremento della
temperatura di più di 3º C. Si ridurrebbe, allo stesso modo, la produzione di
cibo nel mondo con effetti catastrofici per la sopravvivenza degli abitanti di
vaste regioni del pianeta e aumenterebbe in maniera drammatica il numero
degli affamati nel mondo, che già ha superato la cifra di 1020 milioni di
persone.

Infine, siamo d’accordo a realizzare la 2ª Conferenza Mondiale dei Popoli sul
Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra nel 2011 come parte di
questo processo di costruzione del Movimento Mondiale dei Popoli per la
Madre Terra e per reagire ai risultati della Conferenza sul Cambio Climatico
che si realizzerà alla fine di questo anno a Cancun in Messico.
Cancun, Vertice Mondiale sul clima, dicembre 2010

E' questo l'accordo che i delegati a Cancun hanno accolto con applausi - e
che la presidente dell'assemblea, la ministra degli esteri messicana Patricia
Espinosa, ha quindi dichiarato approvato, nonostante la contrarietà della
Bolivia, che infatti protesta («sono state violate le regole multilaterali del
consensoo»). I delegati applaudono «perché pensano da politici», ha detto
Pablo Solon, l'ambasciatore boliviano all'Onu che guidava la delegazione del
suo paese a Cancun. «Ma questo accordo è insufficente, non impedirà alla
temperatura globale di continuare a salire di 4 gradi centigradi, e sappiamo
tutti che questo è insostenibile»

Dal punto di vista del negoziato, un progresso è innegabile: la 16esima
conferenza degli oltre 190 paesi firmatari della Convenzione dell'Onu sul clima
ha «ripristinato la fiducia in un processo negoziale verso un futuro a basse
emissioni di carbonio»,

Quelli che l'Onu definisce con eccesso di solennità gli «Accordi di Cancun»
restano un documento debole. Circa le emissioni di gas di serra, il documento
registra gli impegni assunti volontariamente dai vari paesi per il periodo fino al
2020: sia quelli quelli industrializzati che quelli in via di sviluppo, per i quali
sarà istituito un registro. Si tratta di impegni volontari, non vincolanti, e i
meccanismi di verifica restano da precisare: la novità politica è che anche
grandi nazioni «emergenti» come Cina e India hanno accettato che prima o
poi dovranno assumersi impegni verificabili - e gli Stati uniti anche.

Non è più preciso il punto che riguarda i soldi. Il vertice di Cancun ribadisce
l'impegno dei paesi industrializzati (già preso a Copenhagen) a mettere 30
miliardi di dollari da subito fino al 2012, e in seguito 100 miliardi all'anno fino al
2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo ad adattarsi al cambiamento del
clima: ma non è chiaro se si tratta di aiuti o prestiti, né come saranno gestiti i
fondi
e
da
chi
Il documento parla di un futuro «Fondo verde per il clima. E di «rafforzare» i
clean development mechanism, «meccanismi di sviluppo pulito», già istituiti
dal trattato di Kyoto (è il meccanismo per cui un paese industrializzato investe
in imprese «sostenibili» in paesi in via di sviluppo e poi scala dal suo conto le
emissioni così tagliate o risparmiate). Sarà istituito un Comitato esecutivo per
il trasferimento di tecnologie.

Non è più preciso il punto che riguarda i soldi. Il vertice di Cancun ribadisce
l'impegno dei paesi industrializzati (già preso a Copenhagen) a mettere 30
miliardi di dollari da subito fino al 2012, e in seguito 100 miliardi all'anno fino al
2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo ad adattarsi al cambiamento del
clima: ma non è chiaro se si tratta di aiuti o prestiti, né come saranno gestiti i
fondi
e
da
chi
Il documento parla di un futuro «Fondo verde per il clima. E di «rafforzare» i
clean development mechanism, «meccanismi di sviluppo pulito», già istituiti
dal trattato di Kyoto (è il meccanismo per cui un paese industrializzato investe
in imprese «sostenibili» in paesi in via di sviluppo e poi scala dal suo conto le
emissioni così tagliate o risparmiate). Sarà istituito un Comitato esecutivo per
il trasferimento di tecnologie.
Vedremo come continuerà la nostra storia!
Il Manifesto dell’11.01.2011
LAVORO E TERRITORIO
L'UNIVERSITÀ DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE
Enzo Scandurra
L'immagine del Palazzo blindato - il 23 dicembre - che discute del futuro dell'università
mentre tutt'attorno gli studenti manifestano il furto del proprio futuro, resterà nella
memoria del Paese accanto ad altre sciagurate disgrazie nazionali. La Gelmini chiude un
ciclo, d'ora in avanti «nulla sarà più come prima». Il ciclo è quello, iniziato con Berlinguer
e poi proseguito senza soluzioni di continuità, della normalizzazione aziendalista, della
trasformazione di una università intesa come libera comunità scientifica, in organismo
burocratico transnazionale. La fine del modello humboldtiano: il modello europeo di
università, organizzata per costruire la coscienza civica, rafforzare l'identità nazionale,
produrre la nuova classe dirigente.
Tuttavia - è doloroso ammetterlo - dopo l'università di élite durata fino al '68, nessuna
proposta organica è mai stata fatta per riformare veramente l'università da parte della
sinistra. Il leitmotiv della modernizzazione passava attraverso la smobilitazione del
vecchio modello elitario per costruire qualcosa di più adatto al modello neoliberista e al
mondo anglosassone: l'università come investimento individuale delle famiglie e non più
come luogo del sapere critico. I segnali d'incendio c'erano tutti, già da subito dopo il '68.
Mancava solo un governo autoritario e una sinistra allo sbando ammaliata dal mito
ambiguo del modernismo.
Come ha sostenuto Piero Bevilacqua, «nelle innovazioni che hanno investito l'Università e che ancora la agitano e la tormentano con un flusso interminabile di cambiamenti
normativi e procedurali - non è dato rintracciare nessuna interrogazione profonda sullo
stato dei saperi nel nostro tempo, nessuna seria preoccupazione sui caratteri e i bisogni
delle scienze contemporanee. Né tanto meno sulle questioni relative al loro studio,
apprendimento, trasmissione, se non dal lato puramente tecnico e organizzativo. Eppure,
proprio questo è oggi il cuore più profondo della questione: quali saperi si impartiscono
nelle nostre Università? Qual è il grado della loro presa e rappresentazione del mondo
reale? Come si è trasformata e ristretta, sotto le pressioni della macchina economica, la
natura della loro utilità sociale? Quale spazio conservano i saperi disinteressati, le
conoscenze finalizzate alla formazione umana e spirituale delle nuove generazioni?»
A queste domande non c'è mai stata risposta. I saperi ingessati delle discipline diventano
sempre più incomunicanti rispetto alla domanda che viene dal mondo reale di
interconnessione. I saperi attuali trasformano il nostro mondo sferico in un mondo piatto
unidimensionale, il mondo del pensiero unico. Tre grandi questioni oggi appaiono
indissolubilmente legate: la questione ambientale, quella economica e del lavoro, quella
sociale.
È a partire da queste tre crisi, fortemente interconnesse, che potrebbero nascere nuovi
saperi con i quali sostituire le vecchie discipline ottocentesche e riduzioniste fondate sulla
separazione e sulla frammentazione dei sistemi allo studio. Per esempio il passaggio dalle
"grandi opere" di ingegneria civile alla salvaguardia del territorio e alla sua
ristrutturazione, l'agricoltura, la produzione di auto che non usano combustibili fossili, le
energie rinnovabili, l'organizzazione urbana fino alla costruzione di edifici non energivori,
lo smaltimento dei rifiuti e così via, per non parlare dei contributi provenienti dai saperi
umanistici rinnovati che possono contribuire ad affrontare il tema di un nuovo sviluppo in
armonia con l'ambiente.
Il territorio, in questa prospettiva, da suolo inerte, produttore di rendita fondiaria
parassitaria, diventa luogo vivente delle comunità insediate, laboratorio di pratiche
virtuose che vanno nella direzione di uno sviluppo equilibrato e autosostenibile. E così
anche i nuovi saperi dovrebbero ritrovare una loro connessione con le pratiche che si
sviluppano su questi territori sottratti allo sfruttamento della rendita. Questo
significherebbe aprire alla modernità: fondare saperi e pratiche in grado di arrestare e
invertire le tendenze catastrofiche del nostro tempo. Non è una dolce utopia; le
condizioni di oggettiva drammaticità del pianeta e dei suoi abitanti producono la
necessità di grandi cambiamenti. Questi, e non altri, avrebbero dovuto essere i temi alla
base di una vera riforma universitaria.
(Modernità1) uscito su l’Altro il 18 giugno 2009, p.7
Siamo antichi o moderni?
Cosa significa oggi essere moderni? Di primo acchitto la domanda appare fin
troppo ingenua, quasi ovvia, scontata. Ciascuno di noi sa cosa significa, ma poi a
voler spiegare la cosa ad altri riesce assai più difficile. Eppure si tratta di una
espressione comune che utilizziamo frequentemente nella conversazione. Diciamo
ad esempio: “ma tu non sei moderno..” e l’altro difficilmente ci domanderà cosa
intendiamo dire. Ovvio, si capisce. Ma se quel nostro interlocutore ci rispondesse a
sua volta con una domanda del tipo: “cosa intendi dire?”, allora ci troveremmo in un
certo imbarazzo. Come diceva sant’Agostino: Io so cos’è il tempo, ma se dovessi
spiegarlo non saprei farlo.
Domanda: cosa significa essere moderni?
Fù Bernard de Fontenelle che nel 1688 pose la questione della modernità.
Scrisse un piccolo testo:”Disgression sur les anciens et les modernes” che
affrontava il nesso tra le nozioni di modernità, progresso e futuro. Detto in altri
termini, per de Fontenelle la superiorità dei moderni sugli antichi risiede/va nel fatto
che il tempo lineare dei moderni implica una successione storico-temporale che
procede dal peggio verso il meglio rispetto all’idea di circolarità del tempo storico
sostenuto dagli antichi. Bene, questa è ancora oggi l’idea diffusa sul concetto di
progresso: una retta che va dal basso verso l’alto, dal peggio verso il meglio;
progresso è una parola-concetto che sta ad indicare qualcosa di assolutamente
positivo ed evolutivo.
Domanda: è
affermazione?
così?
La
vostra
esperienza
quotidiana
conferma
questa
A distanza di 150 anni da de Fontenelle, Leopardi stroncherà questa idea (che pure
sopravvive nel pensiero contemporaneo) con quella famosa e ironica frase de La
Ginestra: “le magnifiche sorti e progressive”.
Dopo di lui, verso la metà dell’Ottocento sarà Darwin a sostenere (scientificamente)
che l’evoluzione è cieca e casuale e non procede dal basso verso l’alto.
Marx e Darwin diedero alla stampa quasi contemporaneamente i loro lavori che
avrebbero cambiato il mondo. Tuttavia se a Marx era molto simpatico Darwin, non
altrettanto era il sentimento che provava quest’ultimo nei confronti di Marx. Il
filosofo di Treviri - possiamo dirlo - era determinista e un po’ meccanicista e
pensava davvero che la storia procedesse dal peggio verso il meglio: la rivoluzione
sarebbe stata inevitabile!
Poi fu ancora, nel Novecento, Benjamin che si incaricò, nelle sue tesi sulla filosofia
della storia, di demolire questa idea persistente attraverso quella straordinaria
immagine-metafora dell’angelo della storia di Klee.
L’angelo è sospinto irresistibilmente in avanti da una bufera (il progresso) ed ha il
viso girato all’indietro (la storia). Ciò che vede ai suoi piedi sono rovine e macerie,
ma non può fermarsi, il vento del progresso lo sospinge inevitabilmente in avanti.
Questi personaggi, Leopardi, Benjamin, erano veri e propri profeti che avrebbero
anticipato la catastrofe del moderno. Ma non era questo il modo di pensare della
maggior parte degli uomini che invece aderivano (ed aderiscono ancor oggi) alle
idee di de Fontenelle.
Dunque moderno, almeno rispetto alle brevi e precedenti considerazioni fatte,
significa fiducia nel progresso, nella scienza e nella tecnica ipotizzate come
elementi che ci libereranno per sempre dalla tirannia dei nostri bisogni materiali,
dalle forme di superstizione, dalla dipendenza dagli oracoli, dalla natura intesa
come madre maligna e indifferente alle sofferenze dell’uomo, dalle vecchie visioni
cosmologiche. Questa fiducia implica, come sosteneva de Fontanelle, un futuro
luminoso, prevedibile, manipolabile: il Sol dell’avvenire.
Il mutamento del significato di tempo (dal kairos dei Greci al tempus dei romani)
definito da Fontenelle apriva nuovi orizzonti e nuove prospettive, aveva un
significato liberatorio (l’uomo non più schiavo delle superstizioni e libero di
autodeterminarsi).
Domanda: cos’è Kairos
Ma…quel concetto aveva un lato oscuro i cui nefasti effetti si sarebbero rivelati solo
molto più tardi. Esso apriva a una nuova visione universalistica (poi
pericolosamente avviata verso il fondamentalismo) che vedeva l’Occidente come il
luogo della Verità, della scienza moderna (unica) e le altre culture come forme
ancora non sviluppate e barbare, diciamo pure inferiori; antichi anziché moderni,
appunto.
Questa visione, rafforzatasi nel tempo, avrebbe portato al fondamentalismo
dell’Occidente, alla reductio ad unum del mondo, coincidente, appunto, con
l’Occidente. Il delirio di onnipotenza nato col furto del fuoco avrebbe contagiato gli
uomini e aggredito la natura considerata uno sfondo inerme al servizio dei voleri
dell’uomo.
Diceva de Fontenelle: “Noi siamo in debito con gli antichi perché essi hanno
esaurito la maggior parte delle idee false che si potevano produrre”. Niente si
sarebbe successivamente dimostrato più ingenuo e falso e se avete dei dubbi
guardatevi intorno.
Domanda: quali erano le idee false degli Antichi?
Oggi sarebbe assai difficile sostenere che lo sviluppo ci ha reso più liberi e più
felici, che esso ci ha liberati da antiche tirannie e retaggi, che esso ha debellato
fame e sofferenze del mondo, che viviamo in armonia con la natura, che il tempo
liberato dalla necessità della produzione (così ci avevano promesso) sarebbe stato
a totale e illimitata nostra disposizione.
Molti, compreso il grande Marx, sono caduti nella trappola di attribuire alla teoria di
Darwin e in particolare a quella sua espressione sopravvivenza del più adatto il
senso del progresso (Marx vedeva nella teoria di Darwin, a torto, una conferma
della inevitabilità dell’affermazione della classe operaia ritenuta la più adatta a
prendere il potere). Se a sopravvivere è il più adatto allora, costoro affermavano, è
ovvio che la specie successiva è migliore di quella precedente in un processo
lineare e senza fine. Peccato che lo stesso Darwin sostenne più volte che più
adatto non significa migliore (almeno nel senso che noi umani diamo a questo
aggettivo). Stephen J. Gould, grande scienziato e grande divulgatore dell’opera di
Darwin, in proposito disse:
sapete qual è la specie più diffusa oggi sul pianeta? I batteri! Peccato che essi non
sono né intelligenti, ne migliori e nemmeno simpatici. Ma sono i più adatti a
sopravvivere ai cambiamenti. (segue nei prossimi articoli)
Modernita2
Il delirio di onnipotenza della Scienza
Su “l’Altro” del 25 giugno 2009, p.10
Nel precedente articolo abbiamo parlato della querelle tra antichi e moderni a
proposito dello scritto di de Fontenelle del 1688, Disgression sur les ancien set le
modernes. Secondo de Fontenelle, essere moderni significa confidare nella
positività del progresso e della scienza. Così modernità e progresso si combinano
tra loro per dare forma a una nuova idea di futuro.
La modernità, dunque, e secondo de Fontenelle, rompe con la metafisica, con le
narrazioni cosmologiche e le profezie degli oracoli: l’uomo è ora capace di
autodeterminarsi e creare il proprio futuro.
Ma quand’è che si afferma questa nuova ideologia? Quand’è che si afferma questo
delirio di onnipotenza di pensare che la natura e lo stesso futuro sono governabili e
manipolabili. Quand’è, insomma, che nasce il moderno?
Alcuni fanno risalire tale evento ai Greci che inventarono la democrazia moderna;
altri alla rivoluzione industriale e all’avvento della tecnica. Non è, ovviamente,
importante stabilire, in questo caso, la data. La scelta del fatto o dell’epoca cui far
risalire la modernità sottende significati diversi attribuibili alla stessa nozione di
modernità.
A noi piace condividere la visione di Hannah Arendt secondo la quale tre grandi
eventi si collocano alla soglia dell’età moderna (Arendt, Vita Activa):
domanda: chi è Hannah Arendt?
la scoperta dell’America, la Riforma e l’invenzione del telescopio.
Parlerò molto rapidamente dei primi due aspetti per concentrami sul terzo che poi
significa collocare la nascita del moderno nella Rivoluzione Scientifica del Seicento.
Con la scoperta dell’America tutti (o quasi) gli ecosistemi entrano in contatto tra
loro. Possiamo parlare della prima e vera globalizzazione. Gli uomini, dice Arendt,
vivono ora in una continuità globale che ha le stesse dimensioni della terra: ogni
uomo è tanto un abitante della terra quanto lo è del suo paese.
Domanda: cos’è la globalizzazione?
La nascita della modernità è inoltre segnata dalla Riforma, ovvero con il processo
di eclissi della trascendenza e della fede nell’aldilà. Questo processo è stato
chiamato secolarizzazione e sta ad indicare la separazione (impossibile nei
premoderni) tra Stato e Chiesa. Alcuni sostengono che non siamo mai stati, o
ancora non siamo, moderni (Bruno Latour) perché tale processo di
secolarizzazione non è stato mai risolto compiutamente (Habermas).
Ma è la scoperta del telescopio a stabilire la nuova visione del mondo diversa da
quella dell’antichità o del medioevo: “Da quando un bimbo nacque in una
mangiatoia, c’è da dubitare che sia accaduto qualcosa di così grande con così
poco clamore” (Whitehead).
Domanda: perché è così importante la scoperta (o invenzione?) del telescopio
Perché? Con la scoperta del telescopio si affermerà il principio che ciò che è vero
non è più solo ciò che è legato ai sensi. Una potentissima protesi meccanica (il
telescopio) potrà rivelare nuove verità prima sconosciute: “In altre parole, l’uomo si
era ingannato nel confidare che la realtà e la verità si rivelano ai suoi sensi e alla
sua ragione se solo egli rimaneva fedele a ciò che vedeva con gli occhi del corpo e
della mente”.
Aristotele: la metafisica aristotelica poneva al centro dell’osservazione l’esperienza,
ovvero l’indicazione dei sensi, che erano fonte di autorità nelle discussioni sul
mondo e qualora si fossero creati conflitti tra l’esperienza e la ragione, quest’ultima
avrebbe dovuto cedere il posto alla prima.
Il motto di Galilei, diventato il metodo universale di ricerca, sarà: “sensate
esperienze e certe dimostrazioni” a stabilire che è vero solo ciò che può essere
dimostrato attraverso l’esperimento scientifico. Da qui il passo breve di reductio
scientiae ad mathematicam; è attraverso la mente che Galilei produsse la
ricostruzione razionale del mondo della modernità: il Gran Libro della Natura è
scritto ormai nei simboli della matematica e della geometria.
Galilei: “Eminenza ricordo che quand’ero alto così, trovandomi su una nave, mi
misi a gridare eh, come si allontana la riva! Ora so che la riva stava ferma e che la
nave si allontanava!”
Cardinale Barberini: “Furbo, furbo, eh! Quello che si vede, cioè che il firmamento
gira attorno a noi, può darsi che non sia vero, come dimostra l’esempio della riva e
della nave! Mentre quello che è vero, cioè che la terra gira, non lo si può vedere
materialmente”.
D’ora in avanti sarà la scienza a rivelare la verità oggettiva (le leggi universali,
valide in ogni parte del cosmo) e non più l’ingannevole testimonianza dei sensi
legati alla conoscenza pratica come affermava Aristotele. E’ una rivoluzione di una
portata senza precedenti soprattutto se si valutano i successivi passaggi ad opera
di Bacone, Cartesio, Newton, Leibnitz, Laplace.
Possiamo trarre alcune brevi ma rilevanti conclusioni già da quanto detto. L’epoca
moderna inaugura il nuovo potere umano enormemente accresciuto in seguito alla
scienza e alla tecnologia. Potere capace di distruggere qualsiasi forma di vita
organica sul pianeta e lo stesso intero pianeta (non siamo così lontani da questa
prospettiva). Al tempo stesso, però, dobbiamo anche ammettere che l’epoca
moderna inaugura un nuovo potere creativo, produrre, dirà Arendt, nuovi elementi
mai trovati in natura, produrre dispositivi che riducono il dolore, alleviano le vite
umane sofferenti, debellano il male.
C’è già in questo un’ambivalenza della modernità, un lato oscuro che rischia, ad
ogni istante, di rovesciare in distruzione ciò che è creazione, ma questa è una
considerazione che varrà la pena di riprendere più attentamente. Al tempo stesso
Cartesio (il Grande Moderno) sposta l’attenzione della filosofia (che con lui diventa
moderna) dall’anima, o dall’uomo in generale, all’Io in quanto distinto da questi. Da
allora “la verità scientifica e quella filosofica si sono separate”, la vita activa
sostituirà la vita contemplativa, il centro dell’universo (il punto archimedeo) si
sposterà dalla terra nella mente dell’uomo ormai diventato come Dio, così come la
filosofia, da allora, sembrò condannata “a star sempre un gradino al di sotto della
scienza e delle sempre più straordinarie scoperte scientifiche”.
Da allora ogni progresso è stato connesso allo sviluppo di dispositivi e strumenti
sempre più perfezionati. Bacone (che valeva poco come scienziato ma era un
grande divulgatore delle altrui scoperte) dirà che scientia est potentia.
L’aggressione alla natura parte da là: la natura doveva essere osservata nelle sue
leggi per essere successivamente dominata “come una prostituta” (grande
femminista Bacone!).
Ne derivava una visione meccanicistica e deterministica del mondo: una volta note
le leggi dell’universo, sarebbe stato facile, diceva Laplace, prevedere il corso del
futuro. Da allora si pose il problema della Grande Legge Universale, quella che
avrebbe potuto spiegarci ogni perché; sarebbe bastato un solo colpo di manovella
per far girare il mondo dalla parte giusta. Il sacro venne relegato a premoderno,
venne abolito l’ignoto e con esso la regione della fede. L’uomo poteva diventare
onnipotente (e c’è ancora chi lo pensa!), la mente, considerata nobile, venne
disincarnata dal corpo considerato ingombrante e deteriorabile (Cartesio)
provocando la grande scissione e separazione della modernità. Il dualismo, con
Cartesio, sarà alla base della scomposizione del mondo in parti semplici e tra loro
sconnesse e, forse, alla base di quel dominio sul corpo (soprattutto se femminile)
considerato incestuoso, peccaminoso, fatto di liquidi, straordinariamente inferiore al
cospetto della nobiltà della mente (segue in altri articoli).
Enzo Scandurra
Modernita3
L’impero della tecnica che desacralizza e lascia il vuoto. E allora si torna a
Dio….
Su “l’Altro” del 7 luglio, p.11
Abbiamo, nei precedenti articoli, brevemente tratteggiato il significato e la nascita
della modernità. Abbiamo dimostrato, per così dire, come essa abbia un carattere
ambivalente. Da una parte procede verso la emancipazione dell’individuo, la sua
autoderminazione, la presa di coscienza di essere al mondo; dalla’altra procede,
aumentando il suo delirio di onnipotenza e tuttavia rendendolo sempre più
dipendente dai dispositivi meccanici, informatici e mediatici. La tecnica, che della
modernità ne rappresenta l’essenza, ci insegna Severino, ha come fine assoluto
solo la propria sopravvivenza e la propria riproduzione. Una prima
raccomandazione, dunque, sarebbe quella di maneggiare la modernità con molta
cautela come fosse un oggetto di cristallo, affascinante, certo, ma assai fragile.
Oggi rischiamo di prendere dalla modernità solo gli aspetti più rozzi e volgari. Ad
esempio il riduzionismo. Non solo il riduzionismo scientifico, quello, per intenderci,
che considera il mondo al pari di un orologio meccanico, ma anche il riduzionismo
delle idee, del pensiero e, per quel che ci riguarda in questa sede, il riduzionismo
della politica (di cui il sistema bipartitico ne è esempio paradigmatico). Noi viviamo
in una epoca dove il pensiero ultrasemplificato prevale sempre rispetto al pensiero
complesso: Berlusconi docet!. Spiegare, ad esempio, perché Adriano Sofri è
ancora in carcere richiede l’adozione di una argomentazione complessa. Dire, al
contrario, che se Sofri è in carcere ci sarà pure una ragione e dunque affermare
implicitamente che esso è colpevole in quanto ancora in carcere è una spiegazione
ultra semplificata (e falsa) ma risulta “più convincente”. E’ per questo che le
persone di sinistra dovrebbero disertare certe trasmissioni televisive dove non c’è
spazio per alcuna argomentazione che non adotti il metodo della semplificazione.
Il riduzionismo e il meccanicismo, così come il casualismo sono i dispositivi alla
base della nascita della scienza moderna, ma essi oggi sono superati ampiamente
anche dalle stesse e nuove teorie scientifiche.
La legge di Newton, ad esempio, spiega solo una piccolissima porzione di
fenomeni naturali ed è sbagliato portarla ad esempio di modello generale di
interpretazione del mondo. Se do un calcio ad una palla potrei, possedendo le
giuste e necessarie informazioni sulla forza impressa, peso della palla, velocità e
direzione del vento, ecc., prevedere la sua traiettoria applicando le leggi della
meccanica classica, ma se do un calcio a un cane.. beh, difficilmente quello si
comporterà secondo queste leggi.
Il mondo vivente non funziona secondo le leggi della meccanica classica e questo è
bene averlo sempre presente. E infatti da alcuni anni il paradigma della fisica
(paradigma che pretendeva di spiegare ogni fenomeno dell’universo) è stato
soppiantato da quello della biologia. Il problema è che noi siamo abituati a disorganizzare un mondo naturale che invece è altamente organizzato.
Il riduzionismo e il meccanicismo, il determinismo funzionano ma solo in particolari
(e limitati) domini di pertinenza, ovvero solo (e neppure sempre) dove abbiamo a
che fare con oggetti inanimati. Ma essi ci danno versioni contraffatte della realtà e
rischiamo sempre di confondere il modello con la realtà che attraverso di esso
vogliamo rappresentare.
Un pilastro portante della modernità è stato il lungo processo di emancipazione
dell’individuo condotto attraverso la secolarizzazione. In un certo senso possiamo
affermare con Sergio Quinzio che tutta la civiltà moderna è il prodotto
dell’emancipazione dei legami della rigida società medievale. Ma quale eredità ci
ha lasciato questa secolarizzazione che alcuni ritengono (Habermas, per esempio)
incompiuta? Essa ha sdoganato l’individuo dai partiti e dalle chiese ma ha poi
continuato autonomamente a svolgersi fino a procedere nel senso opposto
risucchiando l’individuo all’interno di una nuova e inedita dipendenza più sottile e
pervasiva: il neocapitalismo liberista. Franco Cassano, diceva che “l’astuto
giocatore è stato giocato”.
L’ossessione di desacralizzare e sconsacrare è diventata una furia per abbattere il
vecchio potere che nel frattempo assumeva nuove forme: il Nuovo Potere evocato
da Pasolini. Nuovo Potere che non solo non teme più la richiesta di libertà, ma anzi
la sollecita come sostegno alla propria espansione. L’epoca attuale vede convivere
modelli ibridi: prospettive laiche e religiose insieme, culto dei santi,
spettacolarizzazioni secolarizzate, oroscopi, maghi, filosofie new age importate
dall’Oriente e quella piaga tutta moderna che ha nome di nuovismo secondo la
quale tutto ciò che è nuovo è migliore del vecchio (l’ideologia veltroniana) Ora,
quest’epoca sconsacrata, priva di speranza e senza nemmeno una visione laica
compiuta, celebra ogni giorno i nuovi riti moderni: folle di cittadini che alla domenica
si recano in massa al santuario dell’Ikea (quasi un supermercato religioso) per fare
sempre nuovi acquisti dei quali si avverte sempre più bisogno; eserciti armati che si
spostano sul pianeta per “esportare” la nostra democrazia, beni comuni che
vengono continuamente erosi e sottratti alle comunità di origine. La modernità
impazzita dispiega tutto il suo potenziale: la cancellazione della storia e della
memoria, la potenza della tecnica che si colloca al di fuori di ogni principio etico
mettendo sempre più a nudo non la potenza ma la solitudine dell’uomo onnipotente
sempre più consumatore di beni effimeri prodotti da quella stessa tecnica.
Nella scuola e nelle università è prevalso nettamente lo spirito moderno:
tecnicizzare ogni momento della conoscenza; gli studenti sono diventati clienti, la
conoscenza si misura in crediti, l’efficienza si misura dal numero di persone che
passano gli esami; nella sanità anche i malati sono clienti da assistere a distanza
prescrivendo loro medicinali e cure senza la compassione e la pietà che un tempo
caratterizzava l’atteggiamento del medico di famiglia e, spesso, senza averli mai
conosciuti. C’è un tasso di desacralizzazione e tecnicizzazione che invade ogni
aspetto della nostra vita ormai minuziosamente controllata e regolata da dispositivi
che ci travalicano. E ora, dopo che la sbornia consumata dell’onnipotenza della
tecnica ci ha fatto fare l’esperienza del nulla e ci ha messo di fronte alla difficoltà di
dare un senso umano alla storia e all’esistenza, ora si torna “a parlare di Dio”
perché la favola bella dello Sviluppo e del Progresso non si è mostrata in grado di
sostituire il bisogno spirituale e quello della speranza.(segue in altri articoli)
Enzo Scandurra
Modernita4
L’epoca postmoderna non ha bisogno di valori?
Su “l’Altro del 17 luglio, p.11
(6668 battute)
Nei precedenti articoli abbiamo affrontato il controverso tema della modernità. A
partire dalla querelle di de Fontenelle del 1688 tra antichi e moderni, attraverso la
nascita della scienza nuova nel Seicento fino ai nostri giorni. Molti sostengono che
questa fase lunga della modernità sia in via di esaurimento o che, quanto meno,
questa stessa nozione non sia più adeguata a rappresentare l’epoca che stiamo
vivendo. Cito, in proposito, un grande studioso italiano di questi aspetti, Remo
Ceserani: . “ […] è capitato a me e ad altri studiosi dei più vari aspetti della storia
sociale e culturale di distinguere fra postmodernismo (come fatto di ideologie,
movimenti culturali e artistici, correnti di pensiero) e postmodernità (come epoca
storica) e di considerare il passaggio tra modernità e postmodernità come un salto
epocale”. Ora c’è da chiedersi, in che consiste questo storico passaggio epocale?
E si può veramente attribuire ad esso l’aggettivo epocale?. Questa è la risposta che
si dà Ceserani: “L'unico modo che abbiamo per interpretare un cambiamento e
ritenerlo così ampio e profondo da considerarlo "di sistema" dopo aver ribadito che
di "interpretazione" nostra si tratta e non di qualcosa di misurabile e riscontrabile
materialmente nelle cose, è di notarne la contemporanea e simultanea comparsa in
molti paesi e l'ampiezza della sua diffusione geografica, la concomitanza con cui si
è manifestato in tante aree diverse della vita, dell'esperienza, della nostra
coscienza e del nostro immaginario, la intensità con cui esso ci si è presentato, ci
ha sorpreso, sconvolto, disorientato”. Effettivamente non possiamo negare che il
cambiamento avvenuto negli ultimi trenta anni non sia di portata planetaria e, al
tempo stesso, investa la vita dei singoli individui. Questi fenomeni (ai quali
accennerò tra poco) attraversano territori e paesi diversi; hanno tratti in comune e
spingono verso una omogeneizzazione che tende ad annullare differenze e
tradizioni locali. Tra questi fenomeni inserirei per primo quel modo di produrre merci
e beni intangibili cui abbiamo dato il nome di globalizzazione. Ma ne aggiungerei
diversi altri: l’indebolimento degli stati-nazione ad opera della stessa
globalizzazione e di Autority internazionali non elettive (Wto, Banca Mondiale, G8,
ecc.), il processo di de-territorializzazione dell’attività produttiva cui consegue
quello di sradicamento delle persone e cose dai loro territori di origine, il collasso
del mondo ex comunista, la caduta del muro di Berlino, la scomparsa della Grande
Fabbrica fordista, la perdita di centralità del lavoro, il disorientamento dovuto alla
caduta di credibilità di parole simbolo come: patria, nazione, Classe, appartenenza,
famiglia, ma poi ancora altri che agiscono nel profondo delle coscienze dei singoli.
In breve a tutto questo squadernamento del mondo avvenuto così rapidamente e
contemporaneamente in ogni suo angolo, noi abbiamo dato il nome di
postmodernità ad indicare comunque l’uscita da un’epoca che poteva essere
ancora rappresentata da alcune parole-chiave ed alcuni simboli. Ora viviamo, per
usare un’espressione di Bauman ma ancor prima di Gramsci (ovviamente riferito a
ben altre e diverse condizioni), in una sorta di interregno: “La crisi consiste
precisamente nel fatto che il vecchio sta morendo e il nuovo non può ancora
nascere; in questo interregno appaiono molti simboli morbosi”. Chiamare
postmodernità questo interregno è, ovviamente, operazione puramente
“soggettiva”. Con questa espressione si riesce, al più, solo a indicarla come
successiva e posteriore alla modernità, con ciò stesso stabilendone rispetto ad
essa la diversità e la continuità. Sarebbe un po’, scusate l’esempio rozzo, se
chiamassimo i figli con l’espressione di postpadri non riuscendo a trovare per essi
un nome appropriato. Questa nuova epoca provoca a livello individuale sgomento,
sorpresa, disorientamento come se ciascuno di noi fosse caricato del compito
(assolutamente improbo) di ri-definire concetti, valori, simboli e addirittura vocaboli
e parole essendo, quelli precedenti ed utilizzati fino ad oggi, svuotati di significato.
Senza parlare poi dei problemi etici messi in campo dallo sviluppo della tecnologia
(vita artificiale, clonazione, accanimento terapeutico, ecc.). Lo abbiamo visto nel
recente caso di Eluana Englaro quanto fosse difficile riuscire, per ognuno di noi, a
formulare un giudizio, comunque una propria visione del problema. Bisogna ormai
rassegnarsi (e questo è un tratto rilevante dell’epoca postmoderna) al fatto che non
esistono più “contenitori” politici, ideologici, morali cui possiamo attingere o soltanto
riferirci per farci una propria idea del mondo?. Siamo lasciati allo sbaraglio di noi
stessi e di quella cosa, un po’ indefinibile per la verità, che abbiamo chiamato
“libertà”?. Ma si tratta veramente di libertà? L’epoca postmoderna non ha più
veramente alcun bisogno di ideologia, di etica, di morale, di valori? E’ questa la sua
libertà? In nessuna altra epoca precedente l’uomo ha sperimentato una “libertà”
così ampia e c’è da dubitare che si possa ancora chiamare con questo nome una
“libertà” che non ha limiti, che non si pone il problema di relazionarsi e confrontarsi
con quella dell’altro, svincolata da ogni codice collettivo. Oggi due giovani possono
decidere di vivere insieme senza più essere condizionati dal ceto di provenienza,
dal reddito, dal livello culturale di ciascuno, da differenze di etnia, di credo religioso
e così via. Non basta, ciascuno può ancora liberamente decidere se condurre
un’esistenza da single oppure da compagno/a, accoppiarsi con una persona di
genere diverso oppure dello stesso sesso. Rilevo, senza formulare alcun giudizio,
che questo non era mai successo in epoche precedenti e forse proprio per questo
la nuova libertà richiede l’assunzione di nuove responsabilità che in passato erano
delegate a chiese, partiti, famiglie. Qualcuno dirà che proprio questo è il bello
dell’epoca postmoderna, la fine di gabbie, pastoie, retoriche, autoritarismi, valori e
perfino dogmi. Non voglio arrischiarmi a dare giudizi, ma se ci guardiamo un po’
intorno possiamo condividere il sentimento che questa è comunque un’epoca di
passioni tristi e di un accentuato individualismo. Mi limito a dire questo. Resta il
fatto che anche la politica procede incerta, stenta a definire – come invece
dovrebbe – una propria visione del mondo. Iin passato si chiamava ideologia, ma a
pronunciarla oggi, questa parola, si rischia assai. (fine)
Enzo Scandurra
Il lato oscuro del progresso
Tra "magnifiche sorti e progressive" e la mai sopita tentazione della barbarie. Il
percorso del Progresso non è così lineare come si auspicava all'epoca dei lumi. E
sono sempre più evidenti i rischi dello sviluppo, che a volte sopraffanno i vantaggi
provenienti dalla crescita di saperi e di scienza. Che, troppo spesso, si coniugano
con ingiustizia e barbarie. Obbligandoci a combattere gli arretramenti e le intollerabili
ricadute
JEAN CHESNEAUX
(01.02.2001)
Il progresso, scrive Victor Hugo nei Miserabili, è "lo stato dell'uomo... il passo
collettivo
del
genere
umano",
poiché
"il
progresso
avanza".
Da più di due secoli, il Progresso - che veniva volentieri scritto con la P maiuscola - si
è affermato contemporaneamente come visione storica, causa politica, miglioramenti
tecnici. Per gli Enciclopedisti e i Philosophes del XVIII secolo, rappresentava
l'avvenire di Ragione verso il quale stava dirigendosi l'umanità. E' stato al progresso
che hanno fatto riferimento la rivoluzione francese e, sulla sua scia, i movimenti del
1830 e 1848, nella lotta contro il dispotismo, le ingiustizie e l'arbitrarietà. Per Marx, il
progresso, in una concatenazione non meno ineluttabile, ha preso la forma di una
successione dei "modi sociali di produzione", come la schiavitù, il feudalesimo, il
capitalismo; successione che ha fondato la legittimità storica del socialismo futuro. La
borghesia, sosteneva il Manifesto comunista del 1848, non aveva già "coinvolto nella
corrente della civiltà persino le nazioni più barbare?".
Questi slanci politici e visioni teoriche facevano riferimento a passi avanti tecnici:
ferrovie, elettricità, vaccini, e più vicino a noi, energia nucleare, voli spaziali, genetica,
informatica - cioè altrettante prove del fatto che l'umanità avanza. Il progresso, così
concepito, alleggerisce la fatica umana, libera lo spirito, avvicina le società umane.
Sotto tutte queste sfaccettature, il Progresso era contemporaneamente una
constatazione fattuale, un progresso indefinitamente aperto a nuovi passi avanti, e
un ideale, un progetto collettivo visionario. Era la forma stessa del divenire umano,
lungo l'asse del tempo. In questa prospettiva lineare, continuista e anche ottimista, la
"grande ruota della storia" procede verso l'avvenire malgrado inevitabili sobbalzi
occasionali, è l'avvenire stesso.
Ma poi c'è stato Auschwitz, che ha dato al principio di progresso un colpo reso
ancora più severo dal fatto che sono seguiti altri ritorni di barbarie. Odi nazionalisti e
massacri di massa nei Balcani, in Africa o nel Caucaso. Ricadute di società intere nel
fanatismo religioso oscurantista, islamico, brahmanita o ebraico. L'insicurezza
riappare e blocca rotte marittime o terrestri a lungo "sicure", sia in Asia del sud-est o
nell'America andina. I "guasti del progresso" sconvolgono l'industria alimentare e
l'alta atmosfera.
La città, che dal XIX secolo era il simbolo stesso del progresso, il luogo per
antonomasia dei progressi politici, tecnici e culturali, sembra trasformarsi in un
magma regressivo, sotto il peso della propria crescita sovradimensionata e
incontrollabile. "Questa città - dice di Mexico la poetessa Isabel Freire - l'ho vista
cadere a pezzi/ disfarsi sotto i miei occhi / non era più una città / era un incubo...".
Da ogni parte, la sinistra e la sua cultura si scontrano brutalmente con i problemi
della regressione e visibilmente non sono preparate a farlo. Un pensatore come il
marxista indipendente Walter Benjamin, molto preoccupato dalla prima guerra
mondiale, in particolare dai gas usati in combattimento, aveva già preso in
considerazione il fatto che il progresso potesse rinviare alla barbarie. "Impossibile diceva - conservare l'ideologia del Progresso di fronte alla realtà irriducibile della
sofferenza umana". Seguendo il suo esempio, non dobbiamo esitare ad abbattere il
tabù di un Progresso evidente a se stesso, che si autolegittima.
Un dibattito difficile deve aprirsi, dove sopratutto non si dovrà cercare di opporre
meccanicamente il Progresso in sé e la Regressione in sé. Poiché entrambe queste
posizioni riportano a una stessa visione continuista della temporalità, soltanto
rovesciata. Esaminando i casi - così flagranti attorno a noi - di ricadute e di tendenze
regressive, è possibile constatare che c'è innovazione e non solo rimando al passato.
I genocidi dell'Africa centrale - ritorno manifesto alla barbarie - sono stati possibili
solo nel contesto di un mercato degli armamenti molto "avanzato" finanziariamente e
tecnicamente, grazie a una stretta cooperazione tra loschi trafficanti e grandi potenze
"moderne". Il fatto che si incrocino in questo modo progresso e regressione non è per
nulla compatibile con i vecchi schemi lineari e positivisti del movimento della storia.
Possiamo piuttosto fare appello qui a una visione "alla Benjamin" della temporalità
storica, come processo intermittente, a scossoni, segnato da rotture e lacerazioni.
"L'immagine familiare del letto del fiume - diceva Benjamin - deve sfumare di fronte a
quella del vortice".
Il Progresso, nella sua configurazione tradizionale, si sviluppava verso un orizzonte
indefinitamente aperto. In questi tempi di crisi urbana, di crisi ecologica, di crisi del
civismo e della cittadinanza, dobbiamo piuttosto riflettere sui limiti che deve
lucidamente osservare il divenire umano. Limiti della crescita urbana e della
demografia. Limiti dello sfruttamento delle risorse della natura: la mucca si nutre
d'erba, non di resti animali usciti da industrie equivoche. Limiti nell'uso di un
rimpinzamento mediatico che distoglie dalla praxis. Lungi dal restringere il nostro
campo di iniziativa, la "cultura dei limiti" porta a nuove ingiunzioni...
Così, messi a confronto con le dure realtà del nostro tempo, obbligati a rinunciare
alle illusioni di un Progresso considerato orizzonte assoluto, garanzia fideista di un
avvenire a priori migliore, non siamo tuttavia rimandati a un caos shakespeariano, a
una "narrazione di rumore e di furore, raccontata da dei folli e vuota di ogni
significato". Il nichilismo storico, di cui si compiacciono i "post moderni", congeda con
lo stesso disdegno il dogmatismo del Progresso in sé e la convizione che il genere
umano possa lottare in nome di un ideale, resistere all'ingiustizia e all'aberrazione,
realizzare dei passi avanti grazie alla volontà politica e alle conoscenze. Idee che
sono al centro dei valori della sinistra e che non sono, almeno queste, andate in crisi
per demerito.
Semplicemente, questi passi avanti - di cui possiamo essere ancora fieri - sono lungi
dall'assemblarsi armoniosamente, in un processo univoco e "globalmente positivo"
chiamato Progresso. Questi passi avanti nel passato si sono alternati a dei passi
indietro, sono stati controbilanciati da ricadute, da arretramenti che bisognerà
continuare ad affrontare, all'orizzonte dell'avvenire.
Il progresso - questa volta senza maiuscola - non è forse altro che la successione di
queste lotte, di queste ricadute, di questi passi avanti. Pensiamo alla riattivazione e
all'estensione del "diritto di Norimberga" a mezzo secolo di distanza, come
"imperativo universale" in risposta alle nuove barbarie. Il nostro divenire
"progredisce" soltanto a spirale - vecchia immagine cinese...
PROGRESSO LA FINE DEL PROGRESSO
17 settembre 2011 — pagina 47-48-49 sezione: R2 (Z.Bauman)
Il concetto di "Natura" è entrato nel nostro vocabolario con un' aura di santità:
indicava la Creazione divina e, come tutto ciò che è divino, evocava l'
esperienza del «numinoso», ossia quel peculiare intreccio di terrore, paura e
adorazione che, come nella celebre proposta di Rudolf Otto, costituì l' avvio
dell' idea di Dio e tutt' ora ne rimane la vera essenza. Per questa ragione la
"Natura" significava anche un qualcosa che torreggia al di sopra della
comprensione e del potere d' agire degli uomini, e con cui pertanto essi non
potevano trafficare: la Natura, proprio come il Dio che l' aveva concepita e
fatta venire all' essere, doveva essere riverita e adorata. La semplice idea di
interferire o di immischiarsi con la Natura era ritenuta al contempo inane,
implausibile e sacrilega. In verità, come ha mostrato il grande filosofo russo
Mikhail Bakhtin, le elevate catene montuose e gli sconfinati mari hanno
indotto fin da tempi immemorabili un «timore cosmico», che nella prospettiva
di Bakhtin costituiva l' origine nonché la perpetua e prolifica fonte di ogni fede
religiosa. L' idea di ri-produrre la Natura allo scopo di costringerla a servire
meglio le comodità degli uomini (idea audace, insolente, presuntuosa e per
molti blasfema) è nata assieme alla modernità. La svolta moderna nella storia
umana è stata equivalente, nella sua essenza, a un progetto di ricambio
manageriale, ossia l' intenzione di assumere la Natura, creata da Dio benché
lasciata dopo la Creazione alle sue proprie vicende, sotto la gestione degli
uomini, per assoggettarne l' attività al controllo, alla progettazione e alla
programmazione da parte degli uomini. C(segue dalla copertina) ome ha
sinteticamente affermato Francesco Bacone, uno degli araldi di maggiore
spicco dello spirito moderno, per comandare alla Natura occorre obbedirle. Il
presupposto implicito che rendeva questa ingiunzione tanto convincente
quanto attraente era che, una volta che gli uomini di sapere, ossia i praticanti
della scienza emergente, avessero stilato un inventario delle ferree regole
che guidavano i processi naturali, gli uomini avrebbero imparato a volgere tali
regole a proprio vantaggio: cioè a ottenere, in modo regolare e invariabile,
effetti positivi per il loro benessere, impedendo e prevenendo quelli dannosi e
indesiderabili. Gli uomini comanderanno alla Natura obbedendo alle sue
leggi: era questo in realtà ciò che voleva dire Bacone. Voltaire portò l'
ingiunzione baconiana alla sua conclusione logica dichiarando che il segreto
delle arti è di correggere la Natura. Per la mentalità moderna tutto ciò che sta
nel mondo è lungi dall' essere perfetto e quindi può essere reso migliore.
Niente è tanto buono da non poter beneficiare di un' ulteriore correzione:
cosa ancor più importante, tutto agogna a venire corretto. Del resto non
esiste niente che, in linea di principio, gli uomini non possano correggere,
prima o poi, se si armano della conoscenza appropriata, degli strumenti giusti
e di sufficiente determinazione. Alla fine del Settecento a questo incessante
sforzo di correzione è stato dato il nome di "cultura". Esso rivendicava in
questo modo come proprio archetipo le antichissime pratiche dei coltivatorie
degli allevatori, sebbene esse potessero apparire limitate nelle loro ambizioni,
quando le si accostava alla grandiosità mozzafiato del progetto moderno.
"Natura" (cioè la condizione che nonè frutto di scelta umana) e "cultura" (cioè
tutto ciò che gli esseri umani erano capaci di fare per adeguarsi meglio ai
propri bisogni e desideri) erano l' una contrapposta all' altra. Tuttavia la loro
linea di separazione veniva considerata eminentemente flessibile e soggetta
a spostarsi: si riteneva infatti che il progresso della scienza e del know-how
umano fosse destinato ad ampliare il dominio della cultura, riducendo al
contempo con regolarità il volume delle cose e degli eventi che opponevano
resistenza all' intelligenza, all' astuzia e all' inventiva degli uomini. Oggi,
diversi secoli dopo,i tempi sono maturi per arrischiare quanto meno una
valutazione provvisoria, un "bilancio di carriera" di quest' ambizione moderna
di dominio della Natura. Le sensazioni che un tale bilancio susciterà saranno
a dir poco contraddittorie. Da una parte è lusinghiero per l' intelligenza, l'
acume e la laboriosità degli uomini, dato che la nostra capacità di sfruttare le
ricchezze della Natura e volgerle a nostro vantaggio (si legga: di utilizzarle
per aumentare la nostra opulenza e comodità) è cresciuta enormemente,
superando di gran lunga i sogni di Bacone. Dall' altra, tuttavia, siamo ormai
giunti pericolosamente vicini alla linea d' arrivo dei progressi sostenibili e
plausibili. Quanto più ci avviciniamo a tale linea, tanto più diveniamo
consapevoli della sua differenza radicale rispetto allo "stato ultimo" di
perfezione che Bacone e Voltaire avevano immaginato. La presunta serie
infinita di battaglie vinte contro la resistenza della Natura ci ha portati davanti
alla prospettiva (alcuni dicono: l' imminenza) di perdere la guerra. Anzi forse,
intossicati per aver vinto questa lunga striscia di battaglie, abbiamo già
raggiunto il punto di non ritorno, che in questo caso significa che la sconfitta
definitiva è ormai divenuta una conclusione inevitabile e irrevocabile. <...&
Più o meno una dozzina di anni fa due chimici di spicco dell' atmosfera, Paul
Crutzen e Eugene Stoermer, si sono resi conto che l' epoca geologica nella
quale si presumeva che vivessimo, quella nota con il nome di "Olocene", era
in ogni caso passata e che siamo entrati viceversa in un' epoca diversa della
storia, nella quale le condizioni planetarie sono plasmate dalle attività di
origine culturale della specie umana più che da qualsiasi forza naturale (per
esempio, in fattorie e altri luoghi selezionati da esseri umani si piantano molti
più alberi di quanti crescano nelle "foreste naturali". Negli ultimi due secoli gli
uomini hanno "sciolto" e rilasciato nell' atmosfera un volume di carbon fossile
che la Natura aveva impiegato centinaia di milioni di anni per legare e
ammassare). Crutzen e Stoermer hanno suggerito che questa nuova epoca
meriti il nome di «Antropocene», ossia «la recente epoca dell' uomo». Ci
sono voluti alcuni anni perché il resto dell' establishment scientifico prestasse
dapprima riluttante attenzione, e in seguito ammettesse con crescente
adesione la verità dell' intuizione di Crutzen-Stoermer... «Attribuire una data
precisa all' inizio dell' Antropocene», dicono Crutzen e Stoermer, «pare assai
arbitrario, tuttavia proponiamo l' ultima parte del diciottesimo secolo (...).
Scegliamo questa data perché, nel corso degli ultimi due secoli, gli effetti
globali delle attività umane sono divenuti chiaramente notevoli. Questo è il
periodo nel quale i dati recuperati dai nuclei dei ghiacciai mostrano l' inizio di
una crescita nella concentrazione atmosferica di diversi "gas serra" (...). Una
tale data d' inizio coincide anche con l' invenzione del motore a scoppio da
parte di James Watt, nel 1784...». Il messaggio trasmesso dagli studi di
Crutzen e dei suoi collaboratori e seguaci dice che è molto tardi, ma non
ancora troppo tardi, per cambiare la direzione di tendenza dell' Antropocene
e del culturale-che-si-fa-naturale. La distruzione del pianeta non è (quanto
meno finora) assolutamente una conclusione inevitabile. I nostri nuovi saperi
e il nostro impressionante potere tecnico possono ancora venire reimpiegati
per rendere il pianeta meno, non più, vulnerabile, e per inn a l z a r e , i n v e
c e c h e p e r diminuire, la qualità della vita. Quel messaggio va inteso come
un segnale d' allarme e una chiamata alle armi. Il punto è, tuttavia, che non si
deve oltrepassare il punto in cui la chiamata alle armi si trasforma in una
campana a morto...Come suggerisce il termine stesso "Antropocene", l' agire
umano è divenuto una forza critica nel determinare il destino di un sempre più
ampio spettro di sistemi biofisici. Una conseguenza di questo spartiacque è
che qualsiasi tentativo di spiegare la condotta o di prevenire il futuro delle
condizioni di vita sul pianeta deve partire rivolgendosi all' agire umano
culturalmente connotato. Come sempre, quanto più grande è la vittoria (in
questo caso, della cultura sulla natura), tanto più grandi sono le
responsabilità che ne conseguono. Il nostro futuro è ancora in bilico, così
come le opzioni aperte a tutti noi che lo abbiamo a cuore. La giuria, come si
suol dire, è ancora riunita. Ma ormai è ora di rientrare con il verdetto. Quanto
più a lungo la giuria resta riunita, tanto più grande sarà la probabilità che sia
costretta a scappare dalla camera di consiglio perché sono finite le bibite
fresche... Traduzione di Daniele Francesconi © Consorzio per il
festivalfilosofia - ZYGMUNT BAUMAN
La grande lezione di Leopardi dominare la
natura è un' illusione
17 settembre 2011 — pagina 49 sezione: CULTURA (R. Esposito)
Dalla metà del secolo scorso si può dire che la riflessione filosofica oscilli tra
due poli opposti, senza riuscire a trovare un baricentro unitario. Il primo è
quello che Ernst Bloch definì ' principio-speranza' . Pur lontano e critico verso
le filosofie del progresso, egli teneva vivo il riferimento alla freccia del futuro.
La verità più profonda dell' uomoè incapsulata nel momento del ' non-ancora'
, in quella dimensione a venire destinata a proiettare il presente sempre al di
là di se stesso. Benché piantato nel mondo della natura, l' essere umanoè
capace di trascenderlo, balzando sul carro in corsa della storia. La speranza
che dà senso alla nostra vita, strappandola ai suoi limiti costitutivi, non è un'
esperienza soltanto soggettiva, ma una potenza reale che piega l' essere in
direzione del divenire. Il polo contrario che, ad ondate successive, torna ad
attrarre il pensiero contemporaneo è il ' principio-disperazione' - spinto all'
estremo da Günther Anders nel suo libro sull' uomo ' antiquato' , perché
sorpassato dalla sua medesima potenza distruttiva. Preda di un ' dislivello
prometeico' tra la misura finita della sua immaginazione e la capacità illimitata
del suo potere produttivo, l' uomo si scopre esposto alla possibilità senza
ritorno della propria autodistruzione. Scritto negli anni della guerra fredda, il
libro di Anders si riferisce principalmente al rischio della bomba atomica, ma
la sua diagnosi coinvolge l' intera esperienza dell' homo technologicus.
Portando al culmine la critica del progresso elaborata dai vari Mann e
Spengler, Nietzsche e Heidegger, egli individua la nostra malattia nell'
inarrestabile sconfinamento della tecnica nell' orizzonte, sempre più
devastato, della natura. Come sostiene nella sua relazione Bauman, la natura
non soltanto ha perso la propria aurea magica, l' antico statuto di creazione
divina che ne assicurava l' intangibilità da parte dell' uomo, ma è interamente
affidata al suo controllo e al suo sfruttamento intensivo. Ormai siamo al di là
anche delle pretese prometeiche dell' homo faber- teorizzate da Baconeo
Voltaire. Oggi la tecnica non si limita ad occupare lo spazio della natura, ma
arriva al punto di volerla sostituire riproducendo in modo artificialei suoi
prodotti- compresa la stessa natura umana. Questo progetto, tuttavia, non ha
fatto tutti conti con la resistenza del proprio oggetto di dominio. Non è anzi
escluso che finisca per rimbalzare su di esso rovesciandosi rovinosamente su
colui che l' ha messo in opera. Rispetto a tale analisi, tutt' altro che infondata,
va tuttavia osservato che la natura non è poi così fragile e indifesa. A questo
proposito già James Lovelock aveva sostenuto, in quella che si è chiamata '
ipotesi Gaia' (dal nome della divinità greca), che la terra costituisce un
sistema vivente autoregolato capace di mantenere le sue caratteristiche
chimico-fisiche proprio grazie ai comportamenti degli organismi viventi che lo
abitano. Ciò accadrebbe per una sorta di effetto retroattivo che ristabilisce di
continuo l' equilibrio tra ciò che vive e le condizioni entro cui si sviluppa la
vita. Così si spiega il fatto che il livello di ossidazione o il grado di salinità del
nostro ambiente naturale restino più o meno costanti anche in presenza di
mutamenti strutturali. E' perciò che, dopo l' era glaciale, la temperatura della
terra non ha subito grandi variazioni benché, nel corso del tempo, il calore del
sole sia notevolmente aumentato. E' vero che, secondo la stessa teoria, l'
attività umana ha prodotto danni considerevoli a Gaia - già a partire dallo
sviluppo dell' agricoltura che, sostituendo gli ecosistemi naturali delle foreste
con i campi di coltivazione e l' allevamento di animali, ha modificato il
metabolismo terrestre. Ma non è detto che l' equilibrio del sistema non possa
essere salvato dagli stessi errori degli uomini. Al punto da ipotizzare che una
successiva glaciazione potrebbe essere in qualche modo compensata dall'
effetto serra che abbiamo noi stessi determinato. Naturalmente ci muoviamo
in un campo di ipotesi tutt' altro che certe - e anzi contestate da altri studiosi.
Resta il fatto che la partita tra uomo e natura appare tutt' altro che chiusa.
Una linea di pensiero, che ha in Giacomo Leopardi la propria punta più acuta,
ha ottimi motivi per credere che il rapporto di forza tra noi e la natura rimanga
largamente sbilanciato a suo vantaggio. Come ci ricordano anche recenti
terremoti e tsunami, nonostante tutti i sogni faustiani, di fronte alla potenza
dirompente della natura, i nostri sforzi di dominarla appaiono a volte persino
patetici. E non è la morte stessa un fenomeno naturale che segna la nostra
esistenza in una forma che siamo ben lontani dal poter padroneggiare? Ciò
che possiamo fare - sospesi come siamo tra il ' principio-speranza' e il '
principiodisperazione' -è attivare quell' atteggiamento che Hans Jonas ha
chiamato ' principioresponsabilità' , sforzandoci di passare da un' etica
antropocentrica ad un' etica globale che associ la cura dell' uomo a quella
degli altri organismi viventi e dello stesso mondo naturale. Tra la fede
visionaria nella tecnica e la sua demonizzazione passa la sobria
consapevolezza che la scienza può essere insieme causa e risoluzione dei
nostri problemi. - ROBERTO ESPOSITO
Riflessi di esistenze in transito
REMO CESERANI
Leggendo in questi giorni vari articoli di commento ai risultati di un'indagine del
Censis sulle "paure" degli italiani, fra cui due pubblicati su Repubblica e scritti
rispettivamente da Umberto Galimberti ed Eugenio Scalfari e anche un editoriale
di Valentino Parlato su questo giornale intitolato appunto "Paura" e dedicato alla
micro-criminalità, sono spinto a tornare sui temi del post-moderno e della
globalizzazione.
Mi è parso interessante, soprattutto nell'articolo di Galimberti, il collegamento che
vi è istituito fra un sentimento collettivo, un atteggiamento psicologico a quanto
pare diffuso in larghi strati della nostra società (e che si può facilmente cogliere
anche in molti temi presenti nell'immaginario) e le forme che ha preso, sul più
ampio sfondo mondiale, l'organizzazione economica.
La tesi di Galimberti è che quello diffuso tra gli italiani e i cittadini di molti altri
paesi come il nostro (immersi nelle meraviglie del tardo capitalismo) non è un
sentimento di paura causato da fatti specifici e concreti ma "un'angoscia più
imprecisa che [quei cittadini] non riescono a individuare e a cui non sono capaci
di dare un nome". Quell'angoscia, secondo Galimberti, è l'effetto della
"globalizzazione economica" e della "deterritorializzazione" delle nostre comunità
umane. L'economia della globalizzazione, secondo Galimberti e Scalfari, è
fondata sul "denaro che produce denaro". "Merci e denaro percorrono le vie del
mondo più liberi dell'uomo, e rispetto a loro l'uomo trova il proprio riconoscimento
solo come funzionario del denaro". L'effetto sulle comunità umane è distruttivo,
poiché cancella ogni "riferimento al tessuto storico, morale, produttivo che per
secoli ha rappresentato la ricchezza del territorio radicando gli individui, i loro
interessi, la loro identità ai luoghi, alle patrie, alla nazione".
Il fenomeno della globalizzazione sembra al centro dell'attenzione: gli vengono
dedicati libri e saggi in abbondanza; il termine compare in modo sempre più
ossessivo in tanti articoli di giornale e di recente è affiorato anche in un articolo di
argomento letterario, dedicato a Hugo Loetscher da Massimo Raffaeli su Alias il
22 luglio; qualche settimana addietro, inoltre, proprio al rapporto fra
globalizzazione e letteratura è stato dedicato un seminario all'università di Leida,
a cui ho partecipato anch'io accanto al sinologo americano Arif Dirlik, al
comparatista danese Svend Larsen, agli specialisti di studi post-coloniali Theo
D'Haen e Reinier Salverda.
La questione mi sembra di notevole importanza. Quando è capitato a me e ad
altri studiosi dei più vari aspetti della storia sociale e culturale (Harvey, Jameson,
Bertens, Welsch, Huyssen, Featherstone) di distinguere fra postmodernismo
(come fatto di ideologie, movimenti culturali e artistici, correnti di pensiero) e
postmodernità (come epoca storica) e di considerare il passaggio tra modernità e
postmodernità come un salto epocale, presumibilmente avvenuto nei paesi a
tardo capitalismo negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, credo che
quasi tutti fossimo consapevoli di alcuni aspetti problematici di tale proposta e che
noi stessi avessimo dovuto più volte rivolgerci alcune delle obiezioni che ci
vennero mosse. (Non sto a ricordare, poi, gli inutili attacchi di chi ha voluto
considerare dei tentativi di descrivere oggettivamente un fenomeno storico come
esaltazione incontrollata del postmodernismo).
Siete sicuri, ci dicevano i nostri critici e dicevamo a noi stessi, che il mondo sia
davvero passato a un tipo di capitalismo diverso da quello affermatosi nell'epoca
della modernità? Non date troppa importanza a fatti sovrastrutturali, di tipo
culturale, o a fatti di puro accompagnamento e sostegno dello sviluppo
economico, come le rivoluzioni tecnologiche (i mezzi di comunicazione, il digitale,
la grande rete), che magari avranno anche accelerato tale sviluppo ma non ne
hanno cambiato la struttura? Non vi accorgete che alcuni dei temi, delle novità
psicologiche ed epistemologiche, dei tratti culturali e stilistici che considerate
come tipici e caratteristici del postmoderno hanno delle chiarissime anticipazioni
nell'epoca precedente? Ed elencano, via via, la complessità, la simultaneità, la
leggerezza, la perdita della profondità storica e dello slancio utopico,
l'indebolimento dei soggetti individuali e sociali, e cioè delle tradizioni culturali, dei
partiti politici, delle identità nazionali, il gusto della superficie priva di densità
esistenziale, la rivisitazione dei miti e il pastiche degli stili tutti quei tratti che Italo
Calvino ha posto al centro delle sue Lezioni americane e Fredric Jameson ha
analizzato
in
un
libro
ancora
non
tradotto
in
italiano.
E come mai, aggiungevano i nostri critici e noi stessi ci chiedevamo, voi che
pensate che siamo entrati in un'epoca nuova, completamente diversa dalla
precedente, non riuscite a darle un nome, come invece hanno fatto, a più riprese,
gli uomini che si sono trovati dentro l'epoca nuova della modernità e hanno
accettato di divenirne tormentosamente e coraggiosamente i protagonisti
(dichiarando il faut être moderne), o al massimo siete riusciti a indicarla come
successiva e posteriore alla modernità, con ciò stesso stabilendone rispetto ad
essa la diversità e la continuità? Non vi trovate, storici miopi e disorientati, nella
stessa situazione di quei nostri concittadini che provano un sentimento di paura
ma
non
sanno
nominarlo
e
indicarne
la
causa?
A questo punto può affiorare, e per esempio è affiorata più volte a Leida, l'ipotesi
che quel termine così diffuso e fortunato di "globalizzazione", preso dagli studi
sulla base economico-sociale delle società attuali, possa offrire finalmente il
termine che si cercava e l'appoggio strutturale a cui collegare tutti i fenomeni
tecnologici, mediatici, culturali, appartenenti all'immaginario, di cui abbiamo
bisogno per far quadrare i conti.
Certo, sembra abbastanza convincente pensare che la globalizzazione, o
mondializzazione, o altro termine meno ingombrante per indicare il fenomeno
descritto da Galimberti e da Scalfari (e da tanti altri, fino alle belle microanalisi
sociali di Andrea Bonomi) designi probabilmente un carattere specifico e
individuante dei rapporti economici contemporanei e che non valga, neppure in
questo caso, l'obiezione che una tendenza all'allargamento dei mercati, degli
scambi, e anche dei conflitti, era già presente e forte nella modernità (non a caso
abbiamo chiamato "mondiali" due delle grandi guerre del Novecento).
Ci sono una serie di fenomeni macroscopici che rendono l'odierna
globalizzazione qualcosa di decisamente nuovo e diverso da qualsiasi fenomeno
precedente: non solo la netta prevalenza, nella vita economica, della sfera
finanziaria (con tutti i caratteri di velocità, volatilità, flessibilità conferitile dalla
rivoluzione informatica), ma anche le trasformazioni profonde dei modi della
produzione, la composizione diversa della produzione in termini di lavoro
intellettuale e progettuale, di lavoro manuale o di macchina, la relazione diversa
fra produzione, distribuzione e consumo (diversa, certamente, in termini di
quantità, ma forse anche diversa, a lungo andare, in termini di qualità, con netta
prevalenza del consumo ed effetti imponenti sul paesaggio, sia esteriore che
interiore all'uomo), la dislocazione diversa dei luoghi della produzione rispetto a
quelli della distribuzione e del consumo, il ribaltamento del rapporto fra industrie
pesanti e industrie leggere, la totale mercificazione della produzione culturale e il
suo chiaro asservimento alle leggi del mercato.
E tuttavia ho alcune obiezioni da proporre a chi intenda indicare il termine di
globalizzazione per caratterizzare complessivamente la fase storica che stiamo
attraversando. Anzitutto il fenomeno riguarda i paesi a capitalismo avanzato, che
sono soltanto una parte del globo attuale, lascia fuori molti dei paesi appartenenti
a quello che un tempo (prima della caduta del secondo mondo e della sua
assimilazione forzata e angosciata al primo mondo) si chiamava il terzo mondo;
sembra anzi che il divario fra paesi ricchi e paesi poveri vada ulteriormente
crescendo.
In secondo luogo il vecchio e scolastico rapporto fra struttura e sovrastruttura non
funziona più nelle società caratterizzate da complessità. I segnali di un
cambiamento epocale, ammesso che esso sia ancora possibile oggi, non vanno
cercati in un aspetto soltanto della vita sociale, quello di base dei rapporti
economici (in particolare i modi della produzione) e da lì fatti diffondere
gradualmente agli altri aspetti, sovrastrutturali, della vita. L'unico modo che
abbiamo per interpretare un cambiamento e ritenerlo così ampio e profondo da
considerarlo "di sistema" dopo aver ribadito che di "interpretazione" nostra si
tratta e non di qualcosa di misurabile e riscontrabile materialmente nelle cose è di
notarne la contemporanea e simultanea comparsa in molti paesi e l'ampiezza
della sua diffusione geografica, la concomitanza con cui si è manifestato in tante
aree diverse della vita, dell'esperienza, della nostra coscienza e del nostro
immaginario, la intensità con cui esso ci si è presentato, ci ha sorpreso,
sconvolto, disorientato.
Tutto sommato, in mancanza di meglio, e pur apprezzando le analisi che delle
nuove relazioni economiche hanno dato gli studiosi della globalizzazione,
continuo a pensare inevitabile l'uso, per definire la nostra situazione culturale ed
esistenziale, del termine, anche se approssimativo e infelice, di post-modernità.
Il Manifesto del 17 marzo 2011
L'APOCALISSE È GIÀ QUI
Guido Viale
Apocalisse significa rivelazione. Che cosa ci rivela l'apocalisse scatenata
dal maremoto che ha colpito la costa nordorientale del Giappone?
Non o non solo - come sostengono più o meno tutti i media ufficiali - che
la sicurezza (totale) non è mai raggiungibile e che anche la tecnologia,
l'infrastruttura e l'organizzazione di un paese moderno ed efficiente non
bastano a contenere i danni provocati dall'infinita potenza di una natura
che si risveglia. Il fatto è, invece, che tecnologia, infrastrutture e
organizzazione a volte - e per lo più - moltiplicano quei danni, com'è
successo in Giappone, dove la cattiva gestione di una, o molte, centrali
nucleari si è andata ad aggiungere ai danni dello tsunami.
Non è stato lo tsunami a frustrare anche le migliori intenzioni di
governanti, manager, amministratori e comunicatori: l'apocalisse li ha
trovati intenti a mentire spudoratamente su tutto, di ora in ora; cercando
di nascondere a pezzi e bocconi un disastro che di ora in ora la realtà si
incarica di svelare. È un'intera classe dirigente, non solo del nostro
paese, ma dell'Europa, del Giappone, del mondo, che l'apocalisse coglie
in flagrante mendacio, insegnandoci a non fidarci mai di nessuno di loro.
Solo per fare un esempio, e il più "leggero": Angela Merkel corre ai ripari
fermando tre, poi sette, poi forse nove centrali nucleari che solo fino a tre
giorni fa aveva imposto di mantenere in funzione per altri vent'anni. Ma
non erano nelle stesse condizioni di oggi anche tre giorni fa? E dunque:
c'era da fidarsi allora? E c'è da fidarsi adesso?
Per chi non ha la possibilità o la voglia di sviluppare un pensiero critico e
si lascia educare dai media, sono gli scienziati e i tecnici a poterci e
doverci guidare lungo la frontiera dello sviluppo. I risultati di quella guida
sono ora lì davanti ai nostri occhi. L'apocalisse ci rivela invece che sono
gli artisti, con la loro sensibilità e il loro disinteresse, a instradarci verso
la scoperta del futuro. Leggete Terra bruciata di James Ballard o, meglio
ancora, La strada di Cormac McCarthy; o andate a vedere il film tratto da
questo romanzo. Vi ritroverete immediatamente immersi in panorami che
oggi le riprese televisive della costa nordorientale del Giappone ci
mettono davanti agli occhi. E con McCarthy potrete rivivere anche il
senso di abbandono, di terrore, di sconforto, di inanità che solo una
irriducibile voglia di sopravvivere a qualunque costo e il fuoco di un
legame affettivo indissolubile riesce a sconfiggere.
L'apocalisse ci rivela che la normalità - quella che ha contraddistinto la
vita di molti di noi per molti degli anni passati, ma che non è stata certo
vissuta dai miliardi di esseri umani che hanno fatto le spese del nostro
"sviluppo" e del nostro finto "benessere" - è finita o sta per finire per
sempre. È finita per il Giappone - e non solo per le popolazioni
sommerse dallo tsunami - che ora deve fermare le sue fabbriche,
sospendere le sue esportazioni, far viaggiare a singhiozzo i suoi treni,
chiudere le pompe di benzina, spegnere le luci, bloccare tutti o quasi i
suoi reattori nucleari; senza sapere con che cosa sostituirli e senza
sapere se e quando potrà riprendersi da un colpo del genere (un destino
simile a quello che potrebbe far piombare di colpo la Francia nelle
condizioni di un paese "sottosviluppato" se solo le accadesse un
incidente analogo). I tanti programmi di «rinascita del nucleare» varati
negli ultimi anni - che sono la risposta più irresponsabile e criminale alla
crisi economica mondiale - si rivelano una truffa: il tentativo di far credere
che con l'atomo consumi, sviluppo ed "emersione" di paesi che
annoverano miliardi di abitanti possano riprendere e continuare a
crescere come prima. Tant'è che quei programmi stavano andando
avanti - e forse verranno mantenuti ancora per un po' - soltanto nei paesi
senza nemmeno la parvenza della democrazia (tra cui l'Italia). Ma
adesso tutti, o quasi, si dovranno fermare.
Ma non saranno rose e fiori neanche per i paesi che viaggiano a petrolio,
metano e carbone, come il nostro. Il Medio Oriente è in fiamme e se - o
meglio, quando - crollerà il regno saudita, anche il petrolio arriverà con il
contagocce. Soprattutto in Italia; ma anche in Europa. E allora addio
sogni di gloria per l'industria automobilistica: non solo quelli di
Marchionne (che sono un mero imbroglio), ma anche per quelli di tutta
l'Europa. Per non parlare degli Stati Uniti: a giugno dovranno rinnovare
una parte del loro debito, che è ben più serio e in bilico di quelli di tutti i
paesi dell'Unione europea messi insieme; ma forse nessuno lo vorrà più
comprare. Il che significa che un nuovo crack planetario è alle porte.
Insomma, niente sarà più come prima. Era già stato detto all'indomani
dell'11 settembre; ma poi ciascuno ha continuato a fare quello che
faceva prima. Comprese le guerre; compresa le speculazioni finanziarie
e la reiterazione della crisi che essa si porta dietro; e che è stata invece
trattata come «un incidente di percorso», da cui riprendere al più presto
la strada di prima, discettando sui decimali di Pil che da un momento
all'altro potrebbero invece precipitare di un quinto o di un terzo.
Quello che l'apocalisse dello tsunami in Giappone ci rivela è la
"normalità" di domani. L'apocalisse è già tra noi, in quello che facciamo
tutti i giorni e soprattutto in quello che non facciamo. Dobbiamo imparare
ad attraversare e a vivere dentro un panorama devastato, dove niente o
quasi funziona più: non solo per il crollo o il degrado delle sue strutture
fisiche; o per l'intasamento della loro "capacità di carico"; ma anche e
soprattutto per la manomissione delle linee di comando, per la paralisi
delle strutture organizzate, per la dissoluzione dello spirito pubblico
calpestato dalle menzogne e dall'ipocrisia di chi comanda.
Volenti o nolenti saremo obbligati a cambiare il nostro modo di pensare e
dovremo studiare come riorganizzare le nostre vite in termini di una
maggiore sobrietà; e in modo che non dipendano più dai grandi impianti,
dalle grandi strutture, dalle grandi reti, dai grandi capitali, dalle grandi
corporation che li controllano e dalle organizzazioni statali e sovrastatali
che ne sono controllate: tutte cose che possono venir meno, o cambiare
improvvisamente aspetto dall'oggi al domani.
Dobbiamo adoperarci per mettere a punto strumenti di autogoverno a
livello territoriale, in un raggio di azione che sia alla portata di ciascuno,
in modo da avvicinare le risorse fisiche alle sedi della loro trasformazione
e queste ai mercati del loro consumo e alle vie del loro recupero: perché
solo di lì si può partire per costruire delle reti sufficientemente ampie e
flessibili che siano in grado di far fronte a una improvvisa crisi
energetica, alle molte facce della crisi ambientale, a una nuova crisi
finanziaria che è alle porte, al disfacimento del tessuto economico e alla
crisi occupazionale che si aggrava di giorno in giorno; e persino a una
crisi alimentare che potrebbe farsi improvvisamente sentire anche in un
paese del "prospero" Occidente. Le fonti rinnovabili, l'efficienza e il
risparmio energetici, il riciclo totale dei nostri scarti, un'agricoltura a
chilometri zero, la salvaguardia e il riassetto del nostro territorio, ma
soprattutto uno stile di vita più sobrio e restituito alla socievolezza sono i
cardini e la base materiale di una svolta del genere. Va bene tutto ciò
che va in questa direzione; anche le piccole cose. Va male tutto ciò che
vi si oppone: soprattutto la rinuncia a un pensiero radicale.