DAVE ALLEN - REAL AND IMAGINED

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DAVE ALLEN - REAL AND IMAGINED
Music In Aprile Maggio 2008
DAVE ALLEN Real and DARIO MARIANELLI Espiazione
Imagined Un nuovo cd, nove trac- La colonna sonora che gli ha fatto vince di poesia virtuosa
cere l’Oscar
DAVE ALLEN - REAL AND IMAGINED
Non volevo finirci ma ora vedo il mondo a quadretti, un po’ in trasparenza, comunque sospesa. Perché improvvisamente mi sono trovata imprigionata nella ragnatela di un ragno di Philadelphia, Dave Allen, uno che sa
tessere jazz e incollarti per nove tracce che sono poesia virtuosa. Così ora vedo New
York dagli occhi di uno che a 16 anni era già stato riconosciuto da Guitar Player come
un talento da tenere sotto controllo. Non l’ho fatto ed ora mi ritrovo nella sua tela.
Ma almeno è la tela di un romantico. Ne prendo atto mentre ascolto questo nuovo cd,
Real and Imagined, e mi lascio afferrare da dita incessanti a condurmi sulle sue cinque
corde, una per una, che sono seta da cui lui si cala. Resto cosí tra il reale e l’immaginato, qualcosa che Dave sa domare con lunghe frasi di jazz per tenermi con i piedi per terra
mentre mi manda ad Ottavia, la città ragnatela di Italo
Calvino, con la velocità stilistica del suo arpeggio.
Se lo merita, Allen, un nuovo cd dopo le sue Untold
Stories (ancora Fresh Sound New Talent); si merita città
invisibili da tessere, una Manhattan che fa sfondo al suo
animo agitato e racconti fantastici spiegati a modo suo;
si merita un ascolto diluito e la strada di Pat Metheny
totalmente spianata. Tesse da solista la ragnatela in cui
sono imprigionata e prosegue, mai di troppo, in accompagnamento a un altro talento della nuova generazione
newyorchese di sassofonisti, Seamus Blake, al bassista
Drew Gress che sostituisce Carlo DeRosa nel nuovo
album, e alla batteria di Mark Ferber.
Mi afferra mentre sono distratta e mi porta giù velocemente sulle note di Untold Story, precipito velocemente
sulla City e dal punto di vista della sua chitarra al 55 Bar
di Greenwich ascolto corde alla Wes Montgomery e i collage di Mantra e Always Beginning in cui s’incontrano Blake e Allen; dovrei temere,
perché quando avrà finito sarà pronto a divorarmi. Ma invece lo guardo senza paura
perché c’è sensualità nel suo tormento e stabilità nonostante la voluttuosità del jazz.
C’è un ragno dannato ma un chitarrista saldo e non vedo di che preoccuparmi.
Mi ritrovo così nel limbo di una New York talentuosa, guardo Manhattan dal buco di
una chitarra e immobile, sulla tela di Dave Allen, lo accompagno in caduta libera
lasciandomi divorare. Fatti ammazzare da un boia pratico: e lui è un esperto.
ROMINA CIUFFA
OFFLAGA DISCO PAX - BACHELITE
BEYOND Bachelite, seconda fatica
&further trio emiliano composto
del
da
Enrico Fontanelli (basso, moog), Daniele Carretti
(chitarre) e Max Collini (voce), esce a tre anni di
distanza dall’eccellente disco d’esordio
Socialismo tascabile. La formula di musicare
brani recitati piuttosto che
cantati, carattere distintivo
della band, presenta subito
una sostanziale differenza
rispetto al disco d’esordio: i
toni aspri e gli attacchi politici
lasciano più spazio a meditazioni nostalgiche e ironiche di
piccoli affreschi di provincia.
I testi acquistano un’aurea di
solennità per mezzo di arrangiamenti semplici ma ricercati, basati su intrecci ipnotici di
basso, chitarra e moog supportati dal ritmo tribale e incessante di una
drum-machine rudimentale. Molteplici le influenze musicali: Cccp, Massimo Volume e, soprattutto, Kraftwerk, Cluster, La Dusseldorf e Neu!.
Non a caso i riferimenti di Bachelite si rifanno a
un fenomeno, il krautrock, che aveva rappresentato un preciso anelito di evasione da un contesto sociale: come la gioventù tedesca dei primi
anni Settanta aveva scelto le astrazioni cosmiche per esorcizzare le colpe dei propri padri,
così, in questo disco, il riferimento alla cosmik
music sembra un tentativo di evadere dalla realtà italiana (politica e musicale) come da una
palude giurastica che sopravvive soffocando sul
nascere ogni lucente germoglio. Le nove tracce
impongono un ascolto attento e rigoroso. Nove
racconti minimali narrati con ironica rassegnazione: storie di personaggi,
ricordi di gioventù vissuti a
cavallo tra gli anni Settanta e
i primi anni Ottanta come
cortometraggi in bianco e
nero girati nell’asse ideologico che da Reggio Emilia arriva fino a Berlino. Dalla storia
di Carlotta «figa di legno»
(Superchioma) al racconto
dell’epica impresa sportiva
del compagno Yashenko
(Ventrale) saltatore da record
simbolo della supremazia
socialista; dall’epopea delle feste dell’Unità nella
madre terra emiliana (Lungimiranza) a storie di
macchine, vigilesse e poliziotti (Dove ho messo
la golf). Massima intensità nei momenti conclusivi di Cioccolato I.A.C.P., che racconta un’iniziazione al sesso in una squallida realtà di provincia, e della meravigliosa Venti Minuti, su un difficile rapporto padre-figlio, in assoluto uno dei più
bei pezzi del disco.
Eugenio Vicedomini
RICCARDO MUTI
MISSA SOLEMNIS IN E DI LUIGI CHERUBINI
Attacca lieve e impalpabile,
su un tappeto d’archi vellutato, spazzato a folate dalle voci
del Coro delle Kyrie in apertura. Atmosfera
sospesa su accensioni progressive e provocatorie di un’interpretazione, quella data dal
maestro Riccardo Muti, incredibilmente straordinaria.
La Missa solemnis in E di Luigi Cherubini
(1760-1842), per i tipi Emi Classics, nonostante sia stata composta nel
1818, trattiene ancora tutta
la sua spiritualità e tensione
liturgica, grazie anche al tono
e all’impostazione del quartetto di solisti vocali di spalla a
Muti: Ruth Ziesak, Marianna
Pizzolato, Herbert Lippert e
Ildar Abdrazakov.
Una direzione impeccabile,
per l’esecuzione orchestrale dei complessi
Bayerischen Rundfunk e Symphonieorchester.
Cori flessibili, precisi, morbidi e di una compattezza eccezionale, pieni di cura per le sfumature e i fraseggi.
Un’opera trascendente che Muti ha domato
appieno, con grazia e solennità, lasciando che
il senso del sacro, molto vicino alla cifra di
Mozart, si diffondesse inevitabilmente, ma dolcemente, per tutta l’esecuzione.
Otto tracce registrate in
presa diretta nell’eccezionale
esecuzione live a Monaco di
Baviera, più l’Antifona e il
Mottetto Nemo Gaudeat, in
cui alla Bavarian Radio Chorus
si sono uniti gli organisti
Harald Feller e Max Hanft.
Flavio Fabbri
RADIODERVISH L’immagine
di te La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio
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a cura di ROMINA CIUFFA
DARIO MARIANELLI - ESPIAZIONE (ATONEMENT)
Le parole e le note possono
essere davvero così vicine?
Tasti di un pianoforte che inseguono quelli di una macchina da scrivere. Il
tono amaro che si confonde col sapore dell’inchiostro, una sensazione penetrante, disperante e passionale come la consistenza delle
lettere in bocca nel pronunciare ‘Atonement’.
Poi il suono si eleva dalle lettere battute, si allontana,
quasi per paura di sentirsi
troppo vicino all’altra grande volontà d’espressione
dell’anima: la scrittura.
Dalla semplice e ripetitiva
nota iniziale si passa all’arpeggio su scala minore,
sempre sulla stessa nota
bassa mentre il ritmo fisso
della macchina da scrivere
cerca di inchiodare il volo
delle note rendendo angoscia all’anima.
Così inizia ‘Atonement - Espiazione’, con lo
score Briony, del Premio Oscar alla Miglior
colonna sonora nelle mani del compositore
Dario Marianelli, che incarna e materializza,
con i tasti della macchina da scrivere confusi
al piano soave di Jean-Yves Thibaudet, gran
parte della cruda narrativa di McEwan e della
letteratura britannica da E.M. Forster a
Virginia Woolf. Inchiostro musicale che scorre
anche nelle tracce Cee, You and Tea, With my
own Eyes, che dialoga fluidamente con la sontuosità del pianoforte e degli archi.
Atmosfere dense, che arrestano il respiro, per
terre lontane, troppo lontane, all’origine di ogni
lontananza, di ogni nostalgia.
E proprio per far fronte a tali
pesi evocativi dell’anima che
Marianelli ha dovuto ricercare momenti altissimi, ingegnosi di spirito compositivo,
abbandonando la musica in
affascinanti e penetranti
misteri come nella traccia
Atonement.
Lasciando l’ascoltatore allo
scoperto, tra ombre troppo
lunghe e improvvise luci
troppo forti, come nell’intreccio di violino e pianoforte
di Love Letters. Forti come i
cori che sovrastano Elegy for Dunkirk, sommessi e abbattuti come in Two Figures by
Fountain, i suoni di Marianelli si fondono alle
percezioni individuali per un cd magnifico, sensibile forma di congiunzione tra la musica, la
scrittura e le immagine bellissime del film di
Joe Wright.
Flavio Fabbri
MATRIMIA KLEZMER BAND - MATRIMIA
Il klezmer non nasce per ragioni
estetiche né per motivi commerciali: è musica tradizionale, deve
accompagnare eventi della vita, matrimoni,
funerali, banchetti, o fare da colonna sonora
alle lunghe migrazioni in cui la musica è elemento identitario di un popolo e motivo di
socializzazione. Non è roba da auricolari e lettore Mp3. Il klezmer te lo dice chiaro: non si
gioisce né si soffre, da soli. Per questo i
Matrimia Klezmer band sarebbe meglio ascoltarli dal vivo, in compagnia, magari ad una
festa. Il cd che il gruppo palermitano ha prodotto, però, aiuta a immergersi in quelle atmosfere e dà l’opportunità di apprezzare un
certo virtuosismo strumentale, di soffermarsi
sulle colte citazioni, e cogliere le tensioni
espressive di quest’arte. I Matrimia dimostrano di aver ben compreso lo spirito dei klezmer, che si trasmette per osmosi, e si arricchisce e trasforma in base ai luoghi che
tocca, alle culture su cui si sovrappone. Così
tutte le influenze musicali e le esperienze di
vita dei sette musicisti sono ben raccolte e
amalgamate: jazz, classica, swing manouche,
funky, ritmi balcanici e immagini felliniane.
Musica «povera» e «sporca», eppure così
coinvolgente. Povera e sporca: sporcarsi su
questo disco (www.matrimia.it), che invece
che impoverire arricchisce.
Nicola Cirillo
RADIODERVISH - L’IMMAGINE DI TE
«La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in
frantumi. Ognuno ne raccoglie
un frammento e sostiene che lì è racchiusa tutta
la verità». Con questa frase del mistico persiano
Gialal ad-Din Rumi si
apre il libretto del nuovo
cd dei Radiodervish,
«L’immagine di te».
Così Nabil Salameh e
Michele
Lobaccaro
(Radio-dervish
dal
1997) dichiarano che
anche la musica può
avere un ruolo nella
ricerca della verità.
Raccolgono i pezzettini
dello specchio e li mettono insieme, fornendo un’immagine certamente più globale della
realtà musicale del
nostro Paese e della
sua società. «La nuova
musica italiana», come
la definiscono è una nostalgia musicale che va
dalla disco music degli anni Settanta all’elettro-pop degli anni Ottanta, fino al rap e all’hippop più recente, passando per i ritmi pop-raï e
bhangra. Pezzettini persi nello spazio e nel
tempo e trasportati fino a noi dalle onde del
mediterraneo.
Alcuni li ha recuperati Alessia Tondo (voce
dell’Orchestra Popolare della Notte della
Taranta di Melpignano), un altro frammento è
stato riportato da Caparezza (il rapper barese
compare in Babel), ma i frammenti più importanti li ha riscoperti
Franco Battiato, produttore del disco, e li
ha resi con generosità
ed orgoglio (per averli
trovati lui per prima)
insieme a Pino Pinaxa
Pischetola, che ha
mixato l’album e ne ha
curato la programmazione dei suoni.
Su questa ricca trama
musicale si intessono
testi di spessore, parole di pace, veicolate da
una pluralità di lingue
(dall’arabo al francese,
dall’inglese al «griko»
salentino) amalgamate all’italiano, alternate
tra le strofe o all’interno della stessa frase.
E appare l’immagine di un’Italia multietnica, di un
Uomo libero da ogni razzismo, aperto alla trasformazione individuale e collettiva.
Nicola Cirillo
Music In ¢ Febbraio Marzo 2008
HERBIE HANCOCK River: SOULWAX Most of the FABRIZIO CARDOSA Cronopios,
J O V A N O T T I The Joni Letters Discende un Remixes... Remixano tutto Famas e Speranze Praticamente una
Safari Sa di giungla fiume partendo da una sorgente quello che vedono
favola in jazz
a acura
curadidiROMINA
FLAVIO FABBRI
CIUFFA
SOULWAX Most Of The Remixes...
LORENZO CHERUBINI Safari
Sono in mezzo alla giungla mentre Lorenzo Cherubini mi racconta una
storia dopo l’altra ed io non riesco ad interromperlo perché sono una
più bella dell’altra, e tutte musicate, e tutte le canta con quella sua «s»
che fa «f» (la chiamano «lisca»), insomma, con la dolcezza del difetto e la forza di uno
che è cresciuto impegnandosi su molti fronti. Usare la musica per descrivere, narrare, questo fa il ragazzone che era partito in moto quando noi eravamo a scuola e
indossavamo Moncler, che è diventato non un poeta ma un gran cantastorie.
L’odore qui è quello dell’Africa nera e il Safari è tutto dentro la mia testa, ma se strizzo gli occhi ci sta Ben Harper (chitarra in Fango) che ha la faccia di uno scimmione ed
è appeso a un albero. C’è Giuliano Sangiorgi dei Negramaro che in Safari urla come un
avvoltoio con un paio di ali al vento, il fisarmonicista del Padrino, Frank Marocco, ha
tutte macchie nere sulla pelliccia e Sergio Mendes (chitarra in Punto) e il duo jamaicano Sly&Robbie (in Temporale) corrono senza farsi prendere da un elefante pop.
Un fucile lo abbiamo portato. Con questa
gip si arriva fino alla tenda di una santona che
cura il mal d’amore, mio, e il dolore di chi ha
perso un fratello da poco, precipitato con un
ultraleggero. Certo che allora serve un fucile,
perché tutto questo fa paura e dentro la testa
non si sa che beste si sveglieranno stanotte.
La santona dice, «facile, dovete solo mettere un pezzetto di carta bruciata di un petardo
di capodanno, tre gocce di sudore di un maratoneta a inizio carriera, un pò di acqua dove
una mamma ha lavato i piatti ieri sera, un
frammento della tua prima pagella di prima
elementare, l’orario degli aerei dell’anno che
sta per cominciare, il biglietto del concerto
dove hai capito che la vita è bella, schiuma di
birra, olio di fegato di caimano, quello che
resta dopo una lotta sotto le unghie della tua
mano». È un antidolorifico magnifico, dice,
«tritare mescolare sbattere».
Con la stessa gip ce ne andiamo a cercare
gli ingredienti e questo ci costa molto, perché mentre cerchiamo pensiamo e mentre
pensiamo fa male come le sue canzonette, che alla fine sono canzoni d’amore nude e
crude, in cui l’esotismo e i ritmi scivolano nel pop e forse ripetono cose che lui ha già
detto prima. Ma è sempre bello guardarlo agitarsi, ballare, ridere mentre fa finta di
dimenticare. Tritiamo, mescoliamo e sbattiamo tutto. Mando giù prima io, poi lui.
Devo ancora chiedergli se a lui ha fatto effetto, se non sente più il dolore della
scomparsa di un fratello.
Romina Ciuffa
HERBIE HANCOCK River: The Joni Letters
In contemporanea all’uscita dell’ultimo Shine di Joni Mitchell, lo
stesso 25 settembre, la Verve ha
distribuito River: The Joni Letters di Herbie
Hancock. Una sincronizzata e benpensata operazione commerciale che, a giudicare dalle vendite nel mercato statunitense, ha funzionato
perfettamente.
Ora, prima di parlare delle lettere di Joni,
vanno ricordate due o tre cose. In primo luogo,
Hancock è tra i più grandi pianisti jazz viventi,
uno di quelli che ha saputo cambiare il modo di
pensare e suonare il piano jazz; in più, senza
rinnegare il suo profondo legame con la tradizione musicale afroamericana, ha curiosato
(vuoi con autentico spirito di ricerca artistica,
vuoi con una certa furbesca «attrazione da
mercato») con intelligenza nel linguaggio
pop e nella musica elettronica più o meno
d’avanguardia.
Negli ultimi anni, si è
alternato nelle vesti di
produttore e arrangiatore facendo un po’
rimpiangere il suo
tocco di incredibile
musicista. River, per
fortuna, soccorre il
ricordo con un pianismo equilibratissimo,
delicato e denso di lirica espressività. Quanto
alla scelta di rivisitare
alcune composizioni di Joni Mitchell va subito
detto che l’artista canadese ha instaurato
sempre un rapporto osmotico e di interdipendenza tra jazz e folk cantautorale, rivelando le
immense potenzialità espressive di quest’ultimo, sia con il suo celeberrimo (splendido) cd
dedicato a un Mingus a poche settimane dalla
morte, sia con un album come Shadows And
Lights dove Erskine, Metheny, Pastorious e
Brecker hanno illuminato canzoni bellissime
con sonorità schiettamente jazzistiche.
In più, bisogna aggiungere, per non partire
FEback
ED
con un passo falso nel dare un giudizio di questo cd, che Hancock non ha inteso fare un tributo in senso classico, tributo che peraltro era
già arrivato nell’aprile dello scorso anno con un
album più «filologico» e interventi di Prince,
Elvis Costello, Annie Lennox e molti altri.
Hancock qui cerca qualcosa di diverso, qualcosa che partendo da una sorgente ideale, e il
titolo River la dice lunga, discenda lentamente
il proprio corso portando con sé le identità, i
suoni e i colori di ogni artista chiamato a collaborare al progetto.
Non ci si deve quindi sorprendere se Norah
Jones canta Court and Spark con il suo, piaccia
o non piaccia, stile più autentico infischiandosene dell’originale, se Tina Turner sfoggia una
voce soul che avevamo
dimenticato avesse in
Edith and the Kingpin,
se Corinne Bailey
canta River con il suo
accento londinese attirandosi inorridite critiche da ogni lato.
In ballo in questo cd
c’è molto più che un tributo, c’è invece la passione autentica di voler
suonare bella musica,
rotonda si potrebbe
dire, dove la forza di
musicisti del calibro di
Wayne Shorter, Dave
Holland
e
Vinnie
Colaiuta, oltreché naturalmente di Hancock,
fa brillare temi e testi di grande qualità. Non va
quindi, credo, giudicato in fretta e distrattamente questo River, che merita molti e molti
ascolti e del quale vanno apprezzate le atmosfere di lentezza e di vulnerabile delicatezza,
quasi che Hancock avesse in mente più che la
musicista, l’altrettanto famosa pittrice Joni
Mitchell con i suoi ritratti colorati, naif e sempre malinconicamente sospesi in uno spazio
lontanissimo senza coordinate.
Paolo Romano
Sin dalla copertina del cd e dal
sito web si capisce subito che i
due fratelli di Ghent in Belgio
non badano a restrizioni di spazio o tempo con
una naturale attitudine a riempire, esibendo
subito l’impronta di una musica che nasce e si
trasforma sotto le loro mani e durante gli anni.
I Soulwax nascono come gruppo rock dai
due fratelli David e Stephen Dewaele, figli del
noto personaggio televisivo e radiofonico
belga Zaki, dal bassista Stefaan Van Leuven e
dal batterista Piet Dierickx; pubblicano un
primo disco nel 1996 (Leave The Story
Untold) per poi passare, attraverso altri tre
album (l’ultimo Any Minute Now del 2004), a
sonorità legate alla dance e all’elettronica.
Così facendo mostrano subito di volersi imporre con uno stile ben definito che segue l’istinto
di chi vuol farsi sentire sul serio.
Remixano praticamente di tutto con stile da
djs prima dei djs: infatti i due fratelli, sotto il
nome di 2 Many Djs, si divertono ai piatti unendo tra loro e in tempo reale gli artisti più diversi, da Madonna agli LCD Soundsystem,
Nirvana e Beyoncé, anticipando una tendenza
oggi diffusa tra i djs di tutto il mondo.
Abituati a mescolare l’inusuale, anche come
produttori remixano gli artisti piú diversi. E
questa compilation costituisce una delle loro
produzioni migliori con i remix di Kylie
Minogue, Daft Punk, Gossip, Robbie Williams e
Gorillaz. Brani che evidenziano l’impronta dura
e unidirezionale che trasforma le sonoritá piú
dolci in un sound digitale e sporco a ricordare
origini analogiche.
Il pacchetto, diviso in due sezioni, offre un
secondo cd mixato, 33 tracce in tutto per chi
ama il sound potente, senza mezze misure.
Subito da accendere la 8, per il remix dei
Gorillaz, e la 9 per Lovelight di Robbie
Williams.
Matteo Zini
FABRIZIO CARDOSA Cronopios, Famas e Speranze
Li definiva Italo Calvino la creazione più felice e assoluta di Julio
Cortázar: i cronopios l’intuizione,
la poesia, il capovolgimento delle norme, che se
si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il
tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; e i famas l’ordine, la razionalità,
che imbalsamano ed etichettano i ricordi e se
hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di
comprare le pasticche Valda. «E le speranze?
Le speranze no! Loro sono un pò stupide...
Filano giù per l’aria e non salutano mai».
Il primo cd della nuova etichetta indipendente
Crisalide, di Emilio Merone e Daniele
Giovannoni, è tratto dallo spettacolo musicale
per voce recitante, strumenti e vocalisti di
Fabrizio Cardosa, compositore, direttore e
arrangiatore, e anche parte dello storico
Kammerton ensemble con Elisabetta Antonini,
Susanna Stivali, Manuela Tassani e Alessandro
Contini. Dallo stile jazzistico a quello contemporaneo e popolaresco, Cardosa trascina gli
spettatori in una favola in cui siamo già, quella
della razionalità e della follia, ma anche quella
del teatro e della musica come esercizio di alienazione dal normale. Canticchiando.
Romina Ciuffa
VARIOUS ARTISTS Paranoid Park
Ancora un nuovo e straordinario affresco della gioventù borderline americana, stavolta nel
Paranoid Park di Portland, grazie a un geniale
Gus Van Sant che ritorna a raccontare uno
spaccato generazionale sempre più difficile,
fatto di sperimentazioni visuali e immagini
straordinarie. Anche la musica rientra in questa ricerca con una colonna sonora ricchissi-
ma. Diciannove brani completamente disomogenei per tipologia e per riferimenti temporali,
posti tra loro in giustapposizioni creative e
stranianti.
L’effetto è dei migliori, passando dall’elettronica al punk, dall’hip hop alla classica di
Beethoven. Sicuramente i brani che più colpiscono per effetto e per coinvolgimento sono
quelli di Nino Rota e Ethan Rose. Il primo presente con ben 5 tracce e nel film ripetuto più
volte, con brani da Amarcord e Giulietta e gli
spiriti, quali: Il Giarino delle Fate, Rugiada sui
Ranocchi, La Gradisca e il Principe.
Per Ethan Rose invece, atmosfere elettro
minimal molto evocative che ci permettono di
centrare il lato più introspettivo del film con
Song One, Two e Three. Stessa linea di Rose è
quella tenuta nelle tracks La Chambre
Blanche e Walk Through Resonant Landscape
#2, pezzi elettroacustici rispettivamente di
Robert Normandeau e Francis White.
Di quest’ultimo il commento sonoro sotto la
scena della doccia, davvero estatico e ipnotico,
lo stesso che poi Van Sant ha già utilizzato per
l’altro suo film culto Elephant. Più tradizionali le
note, tra punk e hip hop, come We Will Revolt
dei Revolts e I Heard That dei Cool Nuts, o più
pop e indie-rock, che negli iPod degli skaters
non mancano mai, come la musica di Billy
Swan, Cast King, Henry Davies e i Menomena
a chiudere.
Flavio Fabbri
Music In ¢ Dicembre Gennaio 2008
PIZZICA
Nico JAZZ John Scofield Giù POP Roberto Vecchioni ELETTRONICA The Dreamers
Morelli La taranto- la maschera: con lui non Non c’è più spazio per le & Jerry Bouthier Al Boombox
la che jazza a Parigi si può essere obiettivi.
di Londra noi ci entriamo così
puttanate
NICO
N(FOLK)ETTABLE
( FOLK ) ETTABLE
NICOMORELLI
MORELLI- UUN
di Romina Ciuffa
Questo è un disco che ascolto in una macchina vecchia andando a
Brugge dalla Francia. Mi è stato dato proprio a Parigi perché, pur essendo italiano Nico Morelli, anzi, tarantino, mischia i due popoli intorno ai
fuochi e alle ballate pizzicate, e su Un(folk)ettable lancia delle mani accanite, affamate, sul pianoforte, le sbriglia e queste attaccano tutte le note che vedono, izzate.
Nel viaggio verso il Belgio passo da 7 Show 7 a Contropizzica e la mente non può
non andare a Eugenio Bennato e a tutti coloro che rischiano di non vendere mai pur di
fare tradizione, e velocemente il piano di Nico Morelli segue gli urletti di quelli che,
nella mia macchina vecchia, sembrano tutti Pulcinella come le coccinelle di quella pubblicità, anche se poi, in realtà, sono pugliesi e non suonano mandolini ma tamburi.
Per questo se la rischia, perché ignoranti siamo molti e non tutti apprezziamo i vicoli popolari in cui si infilano questi pezzi, nostalgici come Auralba e Meriggi, ma anche
pericolosi come Tarantelle e Mena Mena Mo', e non è detto che vogliamo entrarvi e
rischiare la pelle: di solito il jazz ci dà sicurezza
perché ci avvicina alla nostra solitudine, mentre la pizzica è un ballo schietto, di gruppo, guaritore, sudato, sessuale - non tutti siamo pronti a questo tipo di lealtà frontale.
Mentre la macchina corre ancora e, in effetti, sembra dirigersi verso il Salento e il
Barese, per un sole che batte stranamente, o
il Materano, e non più verso il freddo di un
artista che dall'Italia è razionalmente fuggito,
Nico Morelli fa il bruto a Parigi.
Con lui ancora non supero la frontiera e
suona una cantilena che sembra di essere tra
due set in un locale jazz che è universale, dove
lui ha un whisky in mano e i suoi musicisti accordano. Abbasci' A è il secondo set ed è quando
passo la dogana, e i salentini urlano per scongiurare la morte al punto tale che la macchina
sfreccia e i belga non mi fermano nemmeno,
nonostante abbia una tarantola nel cofano.
Parte l'inseguimento e le mani di Morelli li
superano su Lesson 45, sfrecciano e Tonino
Cavallo sfotte con proverbi nonsense in Pizzica Strana e Yes O' Sol. Arrivo a Brugge,
lascio le coccinelle in macchina con la radio che dimostra che l'America
dell'Unforgettable Nat King Cole e le ballate salentine convivono nella pazzia e nel pianoforte morelliano, tutti comunque schiavi di qualcuno. Negri e meridionali.
E non ci sono miracoli per il morso di certe tarantole, se non godersene il veleno in
terra straniera. Apro il cofano e la tarantola scappa oltre frontiera: abbiamo fregato i controlli.
Romina Ciuffa
JOHN SCOFIELD THIS MEETS THAT
Ho in mano l'ultimo lavoro di John
Scofield, il titolo è accattivante e,
com'è nel suo stile, attento all'uso
giocoso delle parole (c'è ancora qualcuno che si
diverte a pensare titoli e a credere che sia una
scelta importante): This meets That. Ho tutta
l'emozione e la paura del fan che lo segue da
anni e teme una caduta, una delusione da questo eccezionale chitarrista dell'Ohio.
Quindi, giù la maschera... questa è una
recensione di parte. Lo ascolto un po' di volte,
ma da subito mi cattura e mi affascina il senso
della novità, l'impressione che i vari filoni portati avanti negli ultimi lustri da Scofield abbiano
preso una strada di sintesi, un mood unico
capace di racchiudere l'anima jazz, quella funk,
quella ryhtm & blues e
quella più squisitamente
folk tradizionale. E così
Scofield inizia a far divertire con un uso frequente
e ben dosato di citazioni,
ma anche di ironiche
autocitazioni (come l'intro della lirica Down D,
probabilmente il brano
più convincente di questo
cd, dove riprende la frase
ricorrente in ogni brano
di Up all night di quale
anno fa). Dal poco conosciuto, ma importante,
Scorchead
per
la
Deutsche Grammophon
porta l'impianto compositivo classico ed
orchestrale, da That's What I Say-acclamato
tributo alla musica di Ray Charles-porta i ritmi
soul e il gusto per l'arrangiamento dei fiati, da
Uberjam e dai lavori con il Medeski, Martin e
Wood trio la grinta timbrica del funk, il tutto
tenuto insieme dal suo tipico fraseggio jazzistico stralunato e altalenante nel gioco dentrofuori tonalità, che ne ha disegnato il tratto
inconfondibile nel panorama jazzistico e chitarristico contemporaneo.
Una cosa però va sottolineata: Scofield è un
musicista straordinario che ha sempre rifiutato di sottomettersi alla logica, abusata per
ragioni di utili privati e di mercato discografico,
degli "istant cd", album sfornati a bella posta
per accompagnare tour e (se pure suonati
meravigliosamente) completamente algidi e
senza un briciolo di idee e di personalità.
Ogni suo lavoro è il frutto di una personalissima ricerca, di uno stile che-proprio come il
suo fraseggio-lo fa stare continuamente in bilico tra il dentro e il fuori da un contesto musicalmente definito. Lo accompagnano in questa avventura due suoi vecchi amici, con i quali
già nel 2004 registrò per la Verve il cd live
Enroute: alla batteria Bill Steward e al basso
Steve Swallow, sul cui talento non occorre
spendere parole. In più, la forza di questo
album va ricercata nel potere dell'insieme,
cioè non un trio ben
rodato con una sezione
ritmica grossolanamente arrangiata, ma una
vera macchina da guerra in grado di giocare
sugli scambi, sui controtempi e su interventi ritmici pensati in modo da
creare il massimo del
groove in ogni traccia.
E così il trio diventa coi
fiati "settetto" in senso
proprio, in una continua
osmosi tra musicisti in
grado di fare dell'interplay la base ideale per
l'improvvisazione chitarristica, particolarmente feconda di idee in questo album. Scofield resta un insuperabile creatore di riff che invitano a ballare i tempi anche
più difficili e a muoversi nel contesto modale
con assoluta scioltezza.
Per chi, invece, volesse scoprire nuove
potenzialità di superclassici come The House
of the Rising Sun o di (I Can't Get no)
Satisfaction consigliamo di seguire con attenzione i sentieri melodici che qui inaugura con il
suono graffiante, ironico, aggressivo e anche
dispettoso della sua fida seicorde Ibanez.
Paolo Romano
FE
ED
back
a acura
curadidiROMINA
FLAVIO FABBRI
CIUFFA
ROBERTO VECCHIONI DI RABBIA E DI STELLE
«A sessant'anni non
c'è più spazio per le
puttanate»,
dice Roberto Vecchioni. E inevitabilmente
pensi se lui
ce ne abbia
mai propinato attraverso i suoi dischi. Oggi
però ho nelle mani questo nuovo CD, struggente e sincero, intitolato «Di rabbia e di stelle»: il genitivo indica chiaramente un'impostazione classica che non vuole concedere nulla
alla comunicazione «moderna».
Poi due vocaboli così diversi, rabbia e stelle:
un sentimento, e una metafora di sentimenti,
una parola cangiante (per citare De André)
che allude alle speranze, ai sogni, all'ideale.
Singolare e plurale: vorrà pur dire qualcosa?
Per un poeta come Vecchioni sì: vuol dire
che a dominare è sempre il volto sorridente
della vita, nonostante la volgarità dei tempi,
l'aridità del cuore (ammessa senza paura nella
splendida «Non amo più»), le preoccupazioni
per il tempo che passa e lascia troppi vuoti
(«lontano adesso è un tempo/spaventosamente breve»).
Ma le stelle coperte da queste nubi, in un linguaggio ermetico e sofferto, si lasciano scorgere anche grazie alle ampie melodie classicheggianti e alla vivezza degli arrangiamenti,
dai rimandi jazz di Fariselli fino alle meravigliose trovate di Lucio Fabbri (tra tutte la popular
song «Il violinista sul tetto», cantata in duetto
con Teresa De Sio, spontanea ed energica).
E poi la sua voce, sempre emozionata, a
ricordarti che «i poeti non saranno anche nessuno/ma hanno il potere di sputtanarvi».
Nicola Cirillo
THE DREAMERS & JERRY BOUTHIER BOOMBOX PARTY
La serata più cool del nigthlife londinese in Hoxton Square diventa una
compilation autentica, che scappa
dalla trappola dell'elettro che annoia e regala un
sound "french touch" puro alla Thomas
Banglader-Para One e mixaggio graffiante
degno dei Daft Punk.
La label francese Kitsuné presenta, mixato da
Jerry Bouthier, il BoomBox Party, manifesto del
progetto The Dreamers che vede come protagonisti i giovani talenti inglesi, i creativi, i visionari: sognatori, appunto, gli eccentrici animatori
del club culto frequentato da Kate Moss e dai
nomi grossi. È unico nel suo genere: dal dj set di
fotografi, attrici o modelle alla stregua della top
Agyness Deyn, a un'esperienza a sorpresa
(lesbiche che ballano in topless si stringono a
ragazzi dalle tensioni greche), remix di Madonna
insieme all'ultimo elettro-sound dei Digitalism o
dei Gossip. Quando si apre, la scatola dei paradossi si mostra mentre i dj più famosi del
mondo (Glimmers,Gildas&Masaya, Justice,
Bang Gang, Boys Noize, Alexander Robotnick) vi
suonano a costo zero e senza preavviso, scaricando la stampa all'ingresso con le sue telecamere. È il BoomBox lo scrigno dei nuovi reali, dei
gioielli del fashion e del circuito delle celebrities.
Ne siamo esclusi e aspettiamo gli upload del
sito dal fotografo Alistair Allan (www.dirtydirtydancing.com), ma ne ascoltiamo ora i pezzi
imperdibili: la traccia n. 8 dei Daft Punk e la n.
13 dei The Young Punx.
Matteo Zini
LANG LANG
BEETHOVEN , CONCERTI PER PIANOFORTE E ORCHESTRA NN.
Probabilmente in molti lo
conoscono per la prima esibizione virtuale mai eseguita in
assoluto nella storia della musica classica.
Infatti, grazie alla piattaforma virtuale di
Universal Music Classics & Jazz, il pianista
Lang Lang ha presentato l’uscita del suo
nuovo cd «Beethoven-Concerti per pianoforte
e Orchestra nn. 1 e 4» nello strabiliante
mondo virtuale di Second Life. Altri ancora lo
avranno conosciuto in occasione del concerto
di apertura della II Festa del Cinema di Roma,
quando Lang Lang ha accompagnato al pianoforte la voce di Andrea Bocelli.
1E4
Eppure, tralasciando le bizzarre scelte di
mercato e le cerimonie internazionali, il giovane e bizzarro artista cinese Lang Lang (in concerto a Roma il 25 gennaio 2008
all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) è
ormai acclamato in tutte le capitali musicali
del mondo, con uno straordinario livello di
musicalità e un repertorio molto vasto.
La sua arte e la capacità ed abilità di rapportarsi con i pubblici più diversi lo hanno reso
uno degli artisti più interessanti e carismatici
dei nostri giorni.
Nato nel 1982 in Cina, a Shenyang, ha iniziato a studiare il pianoforte a 3 anni per arrivare al successo nel 1999 a soli 17 anni, sostituendo all’ultimo minuto, su segnalazione di
Isaac Stern, l’indisposto André Watts al
Ravinia Festival, per il concerto di Ciaikovskij.
Tale fu il successo di questa esibizione che nel
giro di pochissimi mesi tutte le principali
orchestre americane chiesero di Lang Lang,
sino al debutto alla Carnegie Hall con
Temirkanov nel 2001.
In questo nuovo lavoro è evidente un’interpretazione di Beethoven lucida e forte, maliziosamente resa giovane da un calore espressivo e passionale, da un fraseggio estremamente curato, variegato nelle sfumature e nelle
nuances. Sbalordisce di questo giovane la
semplicità esecutoria quanto il rigore tecnico
di base. Un artista possiamo dire che del
talento ha fatto uno stile inimitabile.
Flavio Fabbri
Music In
Fback
EED
Ottobre Novembre 2007
THE SILENCE BEFO- NORDGARTEN Un lumi- RAMIN BAHRAMI Che MARCELLO
ROSA
RE BACH A Venezia, il noso blu dove si trovano ha fatto della fuga (di Bach) L’incosciente. Il bambino. DAVID SYLVIAN Un unico
nuovo film di Portabella
un’arte
brano di 80 minuti. In Giappone
Un preludio a un bacio.
Buckley e De André
A BRIGHTER KIND OF BLUE
RICCDIAR
O FONSECA
ND
ORDGARTEN
l
a musica dello
scandinavo
Nordgarden,
contaminata
da
influenze inglesi e
americane (rock e
jazz), si sviluppa
soprattutto come
energia personale,
intima, sul solco
della tradizione dei
cantautori a cui
attinge (da Cohen a
Jeff Buckley, da Bruce Springsteen a Fabrizio De André).
Per il suo secondo disco, A Brighter Kind Of Blue, si è
avvalso della collaborazione di Peder Øiseth (tromba, violino, banjo, organo), di E. Hareide (basso) e C. Skaugen
(batteria); un cd acustico, quindi, che mette in risalto sua
voce potente e limpida. La title track, che è anche il brano
di apertura, risulta particolarmente efficace: ha una melodia ampia, illuminata da un arrangiamento arioso ed essenziale; il suo titolo può suggerire riferimenti alla celebre
Kind Of Blue di Miles Davis, ma questi sono presenti di
più in altri brani del disco (To The River, Good Things
Die). La leggerezza e la serenità che sembrano sostenere
tutto l’album sono venati dalla malinconia di Blessed,
quasi una ballata barocca, a cui Nordgarden aggiunge le
vibrazioni di una voce ben timbrata, e Metronome, brano
strumentale, in cui un violino classico, dolente scandisce il
fluire del tempo. Dieci tracce partorite da un'ispirazione
pura, rielaborate in maniera raffinata, in cui pop, jazz e
folk convivono in maniera armonica e convincente.
Crepuscolare.
NICOLA CIRILLO
t r a c k i n g SOUND
P
T
THE
HE S
SILENCE
ILENCE B
BEFORE
EFORE B
BACH
ACH
resentato alla 64^ Mostra del Cinema di Venezia
nella Sezione Orizzonti, Die stille vor Bach (The
Silence Before Bach), l’ultima opera del cineasta
spagnolo Pere Portabella è un intenso lavoro emotivo legato all’estetica pura delle melodie eterne del compositore tedesco.
Johann Sebastian Bach però non è il soggetto di questo
film, né il film è un suo biopic, ma ne è l’oggetto. La sua
musica attraversa la pellicola anche con l’esecuzione in
presa diretta eseguita dall’attore ed esecutore Christian
Brembeck. Portabella, da ‘regista Punk’ (da una nota definizione che ne diede un critico), ha cominciato a sforbiciare la storia del compositore, mantenendo ferma la sua
musica. Per poi ricomporla, a prima vista casualmente, in
un patchwork spazio-temporale, in cui si alternano personaggi e situazioni non collegate ma piene dell’universalità
derivante dalla musica stessa.
Per una volta quindi, non sarà la musica a commentare le immagini, ma viceversa. Ecco perché non importa
se queste ultime non seguono un piano temporale omogeneo. Perché non sono da seguire le immagini, ma la
musica. Quando Bach arriva con la sua famiglia a Lipsia
per lavorare era ancora un kantor senza un soldo. La
sua era una vita poco agevole ma dignitosa, grazie alla
sua musica e al suo amore per questa. Poi arrivano i
riconoscimenti e il benessere materiali, prima che la
storia decide di inghiottire nell’oblio tutto la sua sterminata produzione. Ma la musica non si ferma alla storia
e le immagini cominciano a seguire le note di un rondeau ubriaco passando per la bellissima scena dalle cromature eccitanti del macellaio che incarta la carne con
lo spartito insanguinato della Passione secondo Matteo
(la preferita dallo stesso Bach), finita fortunosamente
nelle mani di un giovane Felix Mendelssohn Bartholdy,
che ebbe il merito, eseguendola di nuovo nel 1829, di
riportare alla luce il genio di Bach.
Per poi passare nella camera scura dell’accordatore
cieco e ritrovarci con due camionisti che nei loro bisonti d’autostrada ascoltano le melodie di Bach, fino ad
arrivare sotto la metro e trovare violoncellisti che suonando sempre le sue melodie chiedono l’elemosina.
Infine, bellissimo, il parallelo tra i ragazzi del XXI secolo
che ascoltano le sue composizioni e il Johann
Sebastian padre che insegna a suonare questa musica
ai suoi ragazzi (da notare che i suoi figli furono tutti dei
talentuosi musicisti, tant’è che Bach divenne termine
per indicare chi suonava a corte).
Un gioioso ponte immaginario che solo la musica può
creare tra generazioni altrimenti perdute nella Storia,
cercando di unire tempi e vite diverse come fosse un inno
all’Europa di tutti i tempi, all’unione dei popoli (nel film si
parla italiano, tedesco e spagnolo), come volontà finale di
una composizione ipotetica, fatta finalmente di persone e
nello stesso tempo di note musicali. Anche la musica, non
solo la politica, è in grado di portare le idee lontano nel
tempo.
Flavio Fabbri
L’ARTE DELLA FUGA DI BACH INTERPRETATA DA RAMIN BAHRAMI
a
ffrontare un’opera come la BWV 1080,
meglio conosciuta come Die Kunst der
Fuge-L’Arte Della Fuga, composta da un
Johann Sebastian Bach malato e prossimo
alla morte, non è cosa da poco. Eppure il
giovane e talentuoso pianista iraniano
Rahmin Bahrami non ha esitato. Il suo Arte
della Fuga (Decca, 2007) presenta la caratteristica di un’interpretazione coraggiosa e
forte, piena di una malinconia avvolgente e
di una sicurezza nell’esecuzione che non
tradisce fino all’ultimo brano. Coraggio e
sicurezza, perché questa BWV 1080 è proprio l’ultima opera del grande Bach, portata avanti sotto dettatura dal maestro di
Lipsia, ormai cieco e malato, e nella quale
non ne erano neanche stati specificati gli
strumenti per l’esecuzione. La consuetudine prevalente nel tempo ha indicato nel pianoforte e nel cembalo quelli più idonei, ma
è fuori di dubbio che questa partitura
rimanga nei secoli un oggetto misterioso e
quindi di difficile esecuzione. Bach morì
senza terminare la Die Kunst der Fuge nel
1750, lasciandoci nel dubbio e nell’insicurezza espressiva, nonché tecnica. La Fuga
rimane ancora oggi una delle forme del pensiero musicale occidentale tra le più importanti e Bach ne fece nelle sue note una
summa di arte combinatoria senza precedenti ne seguiti. Ecco quindi le platee intuire
questo passo difficoltoso e rispondere con
entusiasmo. Rahmin Bahrami ha dato
all’opera immortale un’aura trascendentale e sognante, una chiave alternativa
all’universo bachiano basata sulle trascrizioni del nobile maestro del piano Carl
Czerny (1791-1857), allievo viennese di
Beethoven e a sua volta maestro di Liszt.
Secondo molti la stella iraniana ha dato a
questi brani il significato di un omaggio
personale al J. S. Bach suo idolo assoluto.
Probabilmente è vero perché questo è un
lavoro intenso, tecnicamente impeccabile,
con un’interpretazione estremamente emotiva che forse ha lasciato un fianco dell’autore scoperto alla critica più intransigente.
Una nota negativa, se c’è, è da evidenziare
nella scelta della Decca di presentare
un’opera di tale importanza con una lunghezza complessiva di 78 minuti, contro i
90 di media degli altri solisti. Una scelta di
mercato si dice, meglio un cd solo che uno
doppio, forse remunerativa economicamente, ma sconsigliabile in rapporto alla qualità
delle esecuzioni, in alcuni casi simili a una
galoppata sui tasti.
FLAVIO FABBRI
A CHILD IS BORN DI MARCELLO ROSA
g
iunto, come la chiama lui, all’età
dell’«incoscienza» il decano dei
trombonisti jazz italiani, Marcello
Rosa, ci sorprende con l’uscita del cd
nuovo di zecca A Child Is Born (Nelson
Records) che comprende, insieme a riletture di celebri standard, molte sue composizioni originali e ben quattro perle
«bonus» rimasterizzate e riportate in gran
spolvero per i veri appassionati di questa
musica, «brani vecchi ma non invecchiati», come tiene a sottolineare Rosa, infaticabile artigiano e divulgatore del jazz (ha
ideato e condotto per ben 30 anni trasmissioni radiofoniche musicali in Rai).
E il bambino che compare tanto nel titolo
quanto nella copertina è forse la cifra per
comprendere l’anima di questo piccolo gioiello, come da tempo agli appassionati di
jazz non capita di ascoltare. Un’energia,
una vitalità ed una spontaneità che, se non
si sapesse chi ne è responsabile e che fior
fiore di musicisti lo stanno accompagnando
(qualche nome? Andy Gravish, Fabrizio
Bosso, Paolo Tombolesi, Gianluca Renzi e
tanti altri ancora), sembrerebbe avere la
grinta di un’opera prima, solo perfezionata
da 55 anni di professionismo e da collaborazioni con veri monumenti del calibro di
Lionel Hampton, Earl Hines, Slide
Hamtpton, Kay Winding.
La voce del suo trombone è quella di sempre, quando ombrosa e malinconica, quando soprendentemente spumeggiante ed
ironica, con quel fraseggio fluido, perfetto
ritmicamente ed essenziale al tempo stesso, nessuna concessione a «note» fuori
posto e con un’idea melodica di cantabilità sempre scolpita in ogni battuta d’improvvisazione.
Due aspetti convincono maggiormente di
questo album: gli arrangiamenti articolati
ed intriganti che danno corpo e solidità ad
ogni brano (ascoltate bene Lover Man, sia
nella versione di oggi sia in quella del 1974
con Enrico Pieranunzi al piano e Gegè
Munari alla batteria, entrambe presenti nel
cd) e, finalmente, la sensazione di compattezza del «gruppo» musicale jazz, in cui al
protagonismo del solista è sostituito il meccanismo di insieme e dove ogni strumento
è al servizio dell’altro per la migliore riuscita dell’ensamble; il cuore prende il posto
del virtuosismo e ricama, traccia dopo traccia, il disegno unitario di una sensibilità
musicale fuori dal comune.
L’atmosfera in cui ci sembra muoversi
meglio Marcello Rosa è quella degli
umori della New Orleans perduta nel
primo decennio dello scorso secolo, simbolo e culla della musica jazz (The
Sinner), come anche nello swing più
autentico che in brani come Senorita, dopo
il tema spagnoleggiante, prende d’improvviso per mano ed invita a ballare, mentre
la versione della ballad The Very Tought
Of You arrangiata per quattro tromboni e
tromba (suona tutto su diverse piste lo
stesso Rosa) emoziona per l’intensità e la
forza interpretativa.
E quando si parla di swing, non può mancare un omaggio al suo nume tutelare,
Duke Ellington, in una splendida versione
della celebre Prelude To A Kiss, ingentilita dalla bella interpretazione della giovane
Angelica Caronia. PAOLO ROMANO
WHEN LOUD WEATHER BUFFETED NAOSHIMA DI DAVID SYLVIAN
i
n concomitanza con il tour che lo
vede impegnato in questo periodo
tra Europa e Giappone, David
Sylvian da alle stampe il suo nuovo
lavoro dal titolo When Loud Weather
Buffeted Naoshima, che–è bene che il
pubblico sia avvertito–non ha nulla a
che vedere con il raffinato e ricercato
pop d’autore che ci ha regalato con il
recente progetto firmato Nine Horses e
nelle ultimissime apparizioni live in
Italia. Siamo di fronte ad un unico
brano di 70 minuti commissionato
dalla Naoshima Fukutake Art Museum
Foundation in Giappone come parte
della mostra Naoshima-Standard 2 che
si è svolta nell’omonima isola giapponese da ottobre 2006 ad aprile 2007.
Il pensiero, al primo ascolto, corre subito a
quella produzione strumentale di Sylvian
che, partita con Alchemy–An Index Of
Possibilities (contenente l’inarrivabile suite
Words With The Shaman e la splendida
Steel Cathedrals) e la seconda parte del doppio Gone To Earth, si è sviluppata nelle collaborazioni con l’ex-Can Holger Czukay
(Plight&Premonition e Flux+Mutability) e
nelle istallazioni con Russell Mills (Ember
Glace–The Permanence Of Memory) e con
Robert Fripp (Redemption–Approaching
Silence).
Nella sua ultima produzione il nostro fa un
passo in avanti. Si sposta dall’ambient
«classico» alle sonorità più elitarie del field
recording con inserti e collage sonori.
Come al solito Sylvian si rivela sapiente
nella scelta dei collaboratori, questa volta
tutti o quasi paladini della più significativa
scena sperimentale ed elettronica del
momento. Bastano i nomi: il francese Akira
Rabelais, l’austriaco Christian Fennesz, il
trombettista norvegese Arve Henriksen e il
maestro di shakuhachi Clive Bell. La lunga
composizione si presenta come un assem-
blaggio di voci filtrate dal sapore
arcano, suoni di foreste, vento, strumenti a fiato, altre vocalità dal fascino angelico, qualche drone più
tagliente e qua e là rumori di passi,
porte che si aprono e cigolano. Tutto
apparentemente senza un filo conduttore. Poco importa. Qui Sylvian è più
vicino alle concezioni di John Cage e
alla musica concreta di Pierre Henry
che alla musica per aeroporti di Brian
Eno o i soundscapes di Robert Fripp.
Nata com’è per una istallazione artistica che deve essere fruita in presenza
dei forti rumori ambientali del luogo
per il quale è stata scritta, la composizione è stata volutamente mixata per la
produzione in cd con i suoni della città
di Honmura, in modo tale da avvicinare
l’ascoltatore all’esperienza reale dell’istallazione stessa. L’ultima particolarità di questo
disco–che si presenta in una raffinata e semplice confezione da dvd con la cover art di
Sachiyo Tsurumi–è data dal fatto che esso è
in edizione limitata e non sarà mai ristampato. Per volere dell’artista e della Fondazione
committente, infatti, la composizione entrerà a fare parte delle istallazioni permanenti
del museo e solo lì potrà essere ascoltata una
volta esaurita l’edizione originale.
GABRIELE BRUZZOLO