DAVE ALLEN - REAL AND IMAGINED
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DAVE ALLEN - REAL AND IMAGINED
Music In Aprile Maggio 2008 DAVE ALLEN Real and DARIO MARIANELLI Espiazione Imagined Un nuovo cd, nove trac- La colonna sonora che gli ha fatto vince di poesia virtuosa cere l’Oscar DAVE ALLEN - REAL AND IMAGINED Non volevo finirci ma ora vedo il mondo a quadretti, un po’ in trasparenza, comunque sospesa. Perché improvvisamente mi sono trovata imprigionata nella ragnatela di un ragno di Philadelphia, Dave Allen, uno che sa tessere jazz e incollarti per nove tracce che sono poesia virtuosa. Così ora vedo New York dagli occhi di uno che a 16 anni era già stato riconosciuto da Guitar Player come un talento da tenere sotto controllo. Non l’ho fatto ed ora mi ritrovo nella sua tela. Ma almeno è la tela di un romantico. Ne prendo atto mentre ascolto questo nuovo cd, Real and Imagined, e mi lascio afferrare da dita incessanti a condurmi sulle sue cinque corde, una per una, che sono seta da cui lui si cala. Resto cosí tra il reale e l’immaginato, qualcosa che Dave sa domare con lunghe frasi di jazz per tenermi con i piedi per terra mentre mi manda ad Ottavia, la città ragnatela di Italo Calvino, con la velocità stilistica del suo arpeggio. Se lo merita, Allen, un nuovo cd dopo le sue Untold Stories (ancora Fresh Sound New Talent); si merita città invisibili da tessere, una Manhattan che fa sfondo al suo animo agitato e racconti fantastici spiegati a modo suo; si merita un ascolto diluito e la strada di Pat Metheny totalmente spianata. Tesse da solista la ragnatela in cui sono imprigionata e prosegue, mai di troppo, in accompagnamento a un altro talento della nuova generazione newyorchese di sassofonisti, Seamus Blake, al bassista Drew Gress che sostituisce Carlo DeRosa nel nuovo album, e alla batteria di Mark Ferber. Mi afferra mentre sono distratta e mi porta giù velocemente sulle note di Untold Story, precipito velocemente sulla City e dal punto di vista della sua chitarra al 55 Bar di Greenwich ascolto corde alla Wes Montgomery e i collage di Mantra e Always Beginning in cui s’incontrano Blake e Allen; dovrei temere, perché quando avrà finito sarà pronto a divorarmi. Ma invece lo guardo senza paura perché c’è sensualità nel suo tormento e stabilità nonostante la voluttuosità del jazz. C’è un ragno dannato ma un chitarrista saldo e non vedo di che preoccuparmi. Mi ritrovo così nel limbo di una New York talentuosa, guardo Manhattan dal buco di una chitarra e immobile, sulla tela di Dave Allen, lo accompagno in caduta libera lasciandomi divorare. Fatti ammazzare da un boia pratico: e lui è un esperto. ROMINA CIUFFA OFFLAGA DISCO PAX - BACHELITE BEYOND Bachelite, seconda fatica &further trio emiliano composto del da Enrico Fontanelli (basso, moog), Daniele Carretti (chitarre) e Max Collini (voce), esce a tre anni di distanza dall’eccellente disco d’esordio Socialismo tascabile. La formula di musicare brani recitati piuttosto che cantati, carattere distintivo della band, presenta subito una sostanziale differenza rispetto al disco d’esordio: i toni aspri e gli attacchi politici lasciano più spazio a meditazioni nostalgiche e ironiche di piccoli affreschi di provincia. I testi acquistano un’aurea di solennità per mezzo di arrangiamenti semplici ma ricercati, basati su intrecci ipnotici di basso, chitarra e moog supportati dal ritmo tribale e incessante di una drum-machine rudimentale. Molteplici le influenze musicali: Cccp, Massimo Volume e, soprattutto, Kraftwerk, Cluster, La Dusseldorf e Neu!. Non a caso i riferimenti di Bachelite si rifanno a un fenomeno, il krautrock, che aveva rappresentato un preciso anelito di evasione da un contesto sociale: come la gioventù tedesca dei primi anni Settanta aveva scelto le astrazioni cosmiche per esorcizzare le colpe dei propri padri, così, in questo disco, il riferimento alla cosmik music sembra un tentativo di evadere dalla realtà italiana (politica e musicale) come da una palude giurastica che sopravvive soffocando sul nascere ogni lucente germoglio. Le nove tracce impongono un ascolto attento e rigoroso. Nove racconti minimali narrati con ironica rassegnazione: storie di personaggi, ricordi di gioventù vissuti a cavallo tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta come cortometraggi in bianco e nero girati nell’asse ideologico che da Reggio Emilia arriva fino a Berlino. Dalla storia di Carlotta «figa di legno» (Superchioma) al racconto dell’epica impresa sportiva del compagno Yashenko (Ventrale) saltatore da record simbolo della supremazia socialista; dall’epopea delle feste dell’Unità nella madre terra emiliana (Lungimiranza) a storie di macchine, vigilesse e poliziotti (Dove ho messo la golf). Massima intensità nei momenti conclusivi di Cioccolato I.A.C.P., che racconta un’iniziazione al sesso in una squallida realtà di provincia, e della meravigliosa Venti Minuti, su un difficile rapporto padre-figlio, in assoluto uno dei più bei pezzi del disco. Eugenio Vicedomini RICCARDO MUTI MISSA SOLEMNIS IN E DI LUIGI CHERUBINI Attacca lieve e impalpabile, su un tappeto d’archi vellutato, spazzato a folate dalle voci del Coro delle Kyrie in apertura. Atmosfera sospesa su accensioni progressive e provocatorie di un’interpretazione, quella data dal maestro Riccardo Muti, incredibilmente straordinaria. La Missa solemnis in E di Luigi Cherubini (1760-1842), per i tipi Emi Classics, nonostante sia stata composta nel 1818, trattiene ancora tutta la sua spiritualità e tensione liturgica, grazie anche al tono e all’impostazione del quartetto di solisti vocali di spalla a Muti: Ruth Ziesak, Marianna Pizzolato, Herbert Lippert e Ildar Abdrazakov. Una direzione impeccabile, per l’esecuzione orchestrale dei complessi Bayerischen Rundfunk e Symphonieorchester. Cori flessibili, precisi, morbidi e di una compattezza eccezionale, pieni di cura per le sfumature e i fraseggi. Un’opera trascendente che Muti ha domato appieno, con grazia e solennità, lasciando che il senso del sacro, molto vicino alla cifra di Mozart, si diffondesse inevitabilmente, ma dolcemente, per tutta l’esecuzione. Otto tracce registrate in presa diretta nell’eccezionale esecuzione live a Monaco di Baviera, più l’Antifona e il Mottetto Nemo Gaudeat, in cui alla Bavarian Radio Chorus si sono uniti gli organisti Harald Feller e Max Hanft. Flavio Fabbri RADIODERVISH L’immagine di te La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio FEED back a cura di ROMINA CIUFFA DARIO MARIANELLI - ESPIAZIONE (ATONEMENT) Le parole e le note possono essere davvero così vicine? Tasti di un pianoforte che inseguono quelli di una macchina da scrivere. Il tono amaro che si confonde col sapore dell’inchiostro, una sensazione penetrante, disperante e passionale come la consistenza delle lettere in bocca nel pronunciare ‘Atonement’. Poi il suono si eleva dalle lettere battute, si allontana, quasi per paura di sentirsi troppo vicino all’altra grande volontà d’espressione dell’anima: la scrittura. Dalla semplice e ripetitiva nota iniziale si passa all’arpeggio su scala minore, sempre sulla stessa nota bassa mentre il ritmo fisso della macchina da scrivere cerca di inchiodare il volo delle note rendendo angoscia all’anima. Così inizia ‘Atonement - Espiazione’, con lo score Briony, del Premio Oscar alla Miglior colonna sonora nelle mani del compositore Dario Marianelli, che incarna e materializza, con i tasti della macchina da scrivere confusi al piano soave di Jean-Yves Thibaudet, gran parte della cruda narrativa di McEwan e della letteratura britannica da E.M. Forster a Virginia Woolf. Inchiostro musicale che scorre anche nelle tracce Cee, You and Tea, With my own Eyes, che dialoga fluidamente con la sontuosità del pianoforte e degli archi. Atmosfere dense, che arrestano il respiro, per terre lontane, troppo lontane, all’origine di ogni lontananza, di ogni nostalgia. E proprio per far fronte a tali pesi evocativi dell’anima che Marianelli ha dovuto ricercare momenti altissimi, ingegnosi di spirito compositivo, abbandonando la musica in affascinanti e penetranti misteri come nella traccia Atonement. Lasciando l’ascoltatore allo scoperto, tra ombre troppo lunghe e improvvise luci troppo forti, come nell’intreccio di violino e pianoforte di Love Letters. Forti come i cori che sovrastano Elegy for Dunkirk, sommessi e abbattuti come in Two Figures by Fountain, i suoni di Marianelli si fondono alle percezioni individuali per un cd magnifico, sensibile forma di congiunzione tra la musica, la scrittura e le immagine bellissime del film di Joe Wright. Flavio Fabbri MATRIMIA KLEZMER BAND - MATRIMIA Il klezmer non nasce per ragioni estetiche né per motivi commerciali: è musica tradizionale, deve accompagnare eventi della vita, matrimoni, funerali, banchetti, o fare da colonna sonora alle lunghe migrazioni in cui la musica è elemento identitario di un popolo e motivo di socializzazione. Non è roba da auricolari e lettore Mp3. Il klezmer te lo dice chiaro: non si gioisce né si soffre, da soli. Per questo i Matrimia Klezmer band sarebbe meglio ascoltarli dal vivo, in compagnia, magari ad una festa. Il cd che il gruppo palermitano ha prodotto, però, aiuta a immergersi in quelle atmosfere e dà l’opportunità di apprezzare un certo virtuosismo strumentale, di soffermarsi sulle colte citazioni, e cogliere le tensioni espressive di quest’arte. I Matrimia dimostrano di aver ben compreso lo spirito dei klezmer, che si trasmette per osmosi, e si arricchisce e trasforma in base ai luoghi che tocca, alle culture su cui si sovrappone. Così tutte le influenze musicali e le esperienze di vita dei sette musicisti sono ben raccolte e amalgamate: jazz, classica, swing manouche, funky, ritmi balcanici e immagini felliniane. Musica «povera» e «sporca», eppure così coinvolgente. Povera e sporca: sporcarsi su questo disco (www.matrimia.it), che invece che impoverire arricchisce. Nicola Cirillo RADIODERVISH - L’IMMAGINE DI TE «La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi. Ognuno ne raccoglie un frammento e sostiene che lì è racchiusa tutta la verità». Con questa frase del mistico persiano Gialal ad-Din Rumi si apre il libretto del nuovo cd dei Radiodervish, «L’immagine di te». Così Nabil Salameh e Michele Lobaccaro (Radio-dervish dal 1997) dichiarano che anche la musica può avere un ruolo nella ricerca della verità. Raccolgono i pezzettini dello specchio e li mettono insieme, fornendo un’immagine certamente più globale della realtà musicale del nostro Paese e della sua società. «La nuova musica italiana», come la definiscono è una nostalgia musicale che va dalla disco music degli anni Settanta all’elettro-pop degli anni Ottanta, fino al rap e all’hippop più recente, passando per i ritmi pop-raï e bhangra. Pezzettini persi nello spazio e nel tempo e trasportati fino a noi dalle onde del mediterraneo. Alcuni li ha recuperati Alessia Tondo (voce dell’Orchestra Popolare della Notte della Taranta di Melpignano), un altro frammento è stato riportato da Caparezza (il rapper barese compare in Babel), ma i frammenti più importanti li ha riscoperti Franco Battiato, produttore del disco, e li ha resi con generosità ed orgoglio (per averli trovati lui per prima) insieme a Pino Pinaxa Pischetola, che ha mixato l’album e ne ha curato la programmazione dei suoni. Su questa ricca trama musicale si intessono testi di spessore, parole di pace, veicolate da una pluralità di lingue (dall’arabo al francese, dall’inglese al «griko» salentino) amalgamate all’italiano, alternate tra le strofe o all’interno della stessa frase. E appare l’immagine di un’Italia multietnica, di un Uomo libero da ogni razzismo, aperto alla trasformazione individuale e collettiva. Nicola Cirillo Music In ¢ Febbraio Marzo 2008 HERBIE HANCOCK River: SOULWAX Most of the FABRIZIO CARDOSA Cronopios, J O V A N O T T I The Joni Letters Discende un Remixes... Remixano tutto Famas e Speranze Praticamente una Safari Sa di giungla fiume partendo da una sorgente quello che vedono favola in jazz a acura curadidiROMINA FLAVIO FABBRI CIUFFA SOULWAX Most Of The Remixes... LORENZO CHERUBINI Safari Sono in mezzo alla giungla mentre Lorenzo Cherubini mi racconta una storia dopo l’altra ed io non riesco ad interromperlo perché sono una più bella dell’altra, e tutte musicate, e tutte le canta con quella sua «s» che fa «f» (la chiamano «lisca»), insomma, con la dolcezza del difetto e la forza di uno che è cresciuto impegnandosi su molti fronti. Usare la musica per descrivere, narrare, questo fa il ragazzone che era partito in moto quando noi eravamo a scuola e indossavamo Moncler, che è diventato non un poeta ma un gran cantastorie. L’odore qui è quello dell’Africa nera e il Safari è tutto dentro la mia testa, ma se strizzo gli occhi ci sta Ben Harper (chitarra in Fango) che ha la faccia di uno scimmione ed è appeso a un albero. C’è Giuliano Sangiorgi dei Negramaro che in Safari urla come un avvoltoio con un paio di ali al vento, il fisarmonicista del Padrino, Frank Marocco, ha tutte macchie nere sulla pelliccia e Sergio Mendes (chitarra in Punto) e il duo jamaicano Sly&Robbie (in Temporale) corrono senza farsi prendere da un elefante pop. Un fucile lo abbiamo portato. Con questa gip si arriva fino alla tenda di una santona che cura il mal d’amore, mio, e il dolore di chi ha perso un fratello da poco, precipitato con un ultraleggero. Certo che allora serve un fucile, perché tutto questo fa paura e dentro la testa non si sa che beste si sveglieranno stanotte. La santona dice, «facile, dovete solo mettere un pezzetto di carta bruciata di un petardo di capodanno, tre gocce di sudore di un maratoneta a inizio carriera, un pò di acqua dove una mamma ha lavato i piatti ieri sera, un frammento della tua prima pagella di prima elementare, l’orario degli aerei dell’anno che sta per cominciare, il biglietto del concerto dove hai capito che la vita è bella, schiuma di birra, olio di fegato di caimano, quello che resta dopo una lotta sotto le unghie della tua mano». È un antidolorifico magnifico, dice, «tritare mescolare sbattere». Con la stessa gip ce ne andiamo a cercare gli ingredienti e questo ci costa molto, perché mentre cerchiamo pensiamo e mentre pensiamo fa male come le sue canzonette, che alla fine sono canzoni d’amore nude e crude, in cui l’esotismo e i ritmi scivolano nel pop e forse ripetono cose che lui ha già detto prima. Ma è sempre bello guardarlo agitarsi, ballare, ridere mentre fa finta di dimenticare. Tritiamo, mescoliamo e sbattiamo tutto. Mando giù prima io, poi lui. Devo ancora chiedergli se a lui ha fatto effetto, se non sente più il dolore della scomparsa di un fratello. Romina Ciuffa HERBIE HANCOCK River: The Joni Letters In contemporanea all’uscita dell’ultimo Shine di Joni Mitchell, lo stesso 25 settembre, la Verve ha distribuito River: The Joni Letters di Herbie Hancock. Una sincronizzata e benpensata operazione commerciale che, a giudicare dalle vendite nel mercato statunitense, ha funzionato perfettamente. Ora, prima di parlare delle lettere di Joni, vanno ricordate due o tre cose. In primo luogo, Hancock è tra i più grandi pianisti jazz viventi, uno di quelli che ha saputo cambiare il modo di pensare e suonare il piano jazz; in più, senza rinnegare il suo profondo legame con la tradizione musicale afroamericana, ha curiosato (vuoi con autentico spirito di ricerca artistica, vuoi con una certa furbesca «attrazione da mercato») con intelligenza nel linguaggio pop e nella musica elettronica più o meno d’avanguardia. Negli ultimi anni, si è alternato nelle vesti di produttore e arrangiatore facendo un po’ rimpiangere il suo tocco di incredibile musicista. River, per fortuna, soccorre il ricordo con un pianismo equilibratissimo, delicato e denso di lirica espressività. Quanto alla scelta di rivisitare alcune composizioni di Joni Mitchell va subito detto che l’artista canadese ha instaurato sempre un rapporto osmotico e di interdipendenza tra jazz e folk cantautorale, rivelando le immense potenzialità espressive di quest’ultimo, sia con il suo celeberrimo (splendido) cd dedicato a un Mingus a poche settimane dalla morte, sia con un album come Shadows And Lights dove Erskine, Metheny, Pastorious e Brecker hanno illuminato canzoni bellissime con sonorità schiettamente jazzistiche. In più, bisogna aggiungere, per non partire FEback ED con un passo falso nel dare un giudizio di questo cd, che Hancock non ha inteso fare un tributo in senso classico, tributo che peraltro era già arrivato nell’aprile dello scorso anno con un album più «filologico» e interventi di Prince, Elvis Costello, Annie Lennox e molti altri. Hancock qui cerca qualcosa di diverso, qualcosa che partendo da una sorgente ideale, e il titolo River la dice lunga, discenda lentamente il proprio corso portando con sé le identità, i suoni e i colori di ogni artista chiamato a collaborare al progetto. Non ci si deve quindi sorprendere se Norah Jones canta Court and Spark con il suo, piaccia o non piaccia, stile più autentico infischiandosene dell’originale, se Tina Turner sfoggia una voce soul che avevamo dimenticato avesse in Edith and the Kingpin, se Corinne Bailey canta River con il suo accento londinese attirandosi inorridite critiche da ogni lato. In ballo in questo cd c’è molto più che un tributo, c’è invece la passione autentica di voler suonare bella musica, rotonda si potrebbe dire, dove la forza di musicisti del calibro di Wayne Shorter, Dave Holland e Vinnie Colaiuta, oltreché naturalmente di Hancock, fa brillare temi e testi di grande qualità. Non va quindi, credo, giudicato in fretta e distrattamente questo River, che merita molti e molti ascolti e del quale vanno apprezzate le atmosfere di lentezza e di vulnerabile delicatezza, quasi che Hancock avesse in mente più che la musicista, l’altrettanto famosa pittrice Joni Mitchell con i suoi ritratti colorati, naif e sempre malinconicamente sospesi in uno spazio lontanissimo senza coordinate. Paolo Romano Sin dalla copertina del cd e dal sito web si capisce subito che i due fratelli di Ghent in Belgio non badano a restrizioni di spazio o tempo con una naturale attitudine a riempire, esibendo subito l’impronta di una musica che nasce e si trasforma sotto le loro mani e durante gli anni. I Soulwax nascono come gruppo rock dai due fratelli David e Stephen Dewaele, figli del noto personaggio televisivo e radiofonico belga Zaki, dal bassista Stefaan Van Leuven e dal batterista Piet Dierickx; pubblicano un primo disco nel 1996 (Leave The Story Untold) per poi passare, attraverso altri tre album (l’ultimo Any Minute Now del 2004), a sonorità legate alla dance e all’elettronica. Così facendo mostrano subito di volersi imporre con uno stile ben definito che segue l’istinto di chi vuol farsi sentire sul serio. Remixano praticamente di tutto con stile da djs prima dei djs: infatti i due fratelli, sotto il nome di 2 Many Djs, si divertono ai piatti unendo tra loro e in tempo reale gli artisti più diversi, da Madonna agli LCD Soundsystem, Nirvana e Beyoncé, anticipando una tendenza oggi diffusa tra i djs di tutto il mondo. Abituati a mescolare l’inusuale, anche come produttori remixano gli artisti piú diversi. E questa compilation costituisce una delle loro produzioni migliori con i remix di Kylie Minogue, Daft Punk, Gossip, Robbie Williams e Gorillaz. Brani che evidenziano l’impronta dura e unidirezionale che trasforma le sonoritá piú dolci in un sound digitale e sporco a ricordare origini analogiche. Il pacchetto, diviso in due sezioni, offre un secondo cd mixato, 33 tracce in tutto per chi ama il sound potente, senza mezze misure. Subito da accendere la 8, per il remix dei Gorillaz, e la 9 per Lovelight di Robbie Williams. Matteo Zini FABRIZIO CARDOSA Cronopios, Famas e Speranze Li definiva Italo Calvino la creazione più felice e assoluta di Julio Cortázar: i cronopios l’intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme, che se si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa; e i famas l’ordine, la razionalità, che imbalsamano ed etichettano i ricordi e se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. «E le speranze? Le speranze no! Loro sono un pò stupide... Filano giù per l’aria e non salutano mai». Il primo cd della nuova etichetta indipendente Crisalide, di Emilio Merone e Daniele Giovannoni, è tratto dallo spettacolo musicale per voce recitante, strumenti e vocalisti di Fabrizio Cardosa, compositore, direttore e arrangiatore, e anche parte dello storico Kammerton ensemble con Elisabetta Antonini, Susanna Stivali, Manuela Tassani e Alessandro Contini. Dallo stile jazzistico a quello contemporaneo e popolaresco, Cardosa trascina gli spettatori in una favola in cui siamo già, quella della razionalità e della follia, ma anche quella del teatro e della musica come esercizio di alienazione dal normale. Canticchiando. Romina Ciuffa VARIOUS ARTISTS Paranoid Park Ancora un nuovo e straordinario affresco della gioventù borderline americana, stavolta nel Paranoid Park di Portland, grazie a un geniale Gus Van Sant che ritorna a raccontare uno spaccato generazionale sempre più difficile, fatto di sperimentazioni visuali e immagini straordinarie. Anche la musica rientra in questa ricerca con una colonna sonora ricchissi- ma. Diciannove brani completamente disomogenei per tipologia e per riferimenti temporali, posti tra loro in giustapposizioni creative e stranianti. L’effetto è dei migliori, passando dall’elettronica al punk, dall’hip hop alla classica di Beethoven. Sicuramente i brani che più colpiscono per effetto e per coinvolgimento sono quelli di Nino Rota e Ethan Rose. Il primo presente con ben 5 tracce e nel film ripetuto più volte, con brani da Amarcord e Giulietta e gli spiriti, quali: Il Giarino delle Fate, Rugiada sui Ranocchi, La Gradisca e il Principe. Per Ethan Rose invece, atmosfere elettro minimal molto evocative che ci permettono di centrare il lato più introspettivo del film con Song One, Two e Three. Stessa linea di Rose è quella tenuta nelle tracks La Chambre Blanche e Walk Through Resonant Landscape #2, pezzi elettroacustici rispettivamente di Robert Normandeau e Francis White. Di quest’ultimo il commento sonoro sotto la scena della doccia, davvero estatico e ipnotico, lo stesso che poi Van Sant ha già utilizzato per l’altro suo film culto Elephant. Più tradizionali le note, tra punk e hip hop, come We Will Revolt dei Revolts e I Heard That dei Cool Nuts, o più pop e indie-rock, che negli iPod degli skaters non mancano mai, come la musica di Billy Swan, Cast King, Henry Davies e i Menomena a chiudere. Flavio Fabbri Music In ¢ Dicembre Gennaio 2008 PIZZICA Nico JAZZ John Scofield Giù POP Roberto Vecchioni ELETTRONICA The Dreamers Morelli La taranto- la maschera: con lui non Non c’è più spazio per le & Jerry Bouthier Al Boombox la che jazza a Parigi si può essere obiettivi. di Londra noi ci entriamo così puttanate NICO N(FOLK)ETTABLE ( FOLK ) ETTABLE NICOMORELLI MORELLI- UUN di Romina Ciuffa Questo è un disco che ascolto in una macchina vecchia andando a Brugge dalla Francia. Mi è stato dato proprio a Parigi perché, pur essendo italiano Nico Morelli, anzi, tarantino, mischia i due popoli intorno ai fuochi e alle ballate pizzicate, e su Un(folk)ettable lancia delle mani accanite, affamate, sul pianoforte, le sbriglia e queste attaccano tutte le note che vedono, izzate. Nel viaggio verso il Belgio passo da 7 Show 7 a Contropizzica e la mente non può non andare a Eugenio Bennato e a tutti coloro che rischiano di non vendere mai pur di fare tradizione, e velocemente il piano di Nico Morelli segue gli urletti di quelli che, nella mia macchina vecchia, sembrano tutti Pulcinella come le coccinelle di quella pubblicità, anche se poi, in realtà, sono pugliesi e non suonano mandolini ma tamburi. Per questo se la rischia, perché ignoranti siamo molti e non tutti apprezziamo i vicoli popolari in cui si infilano questi pezzi, nostalgici come Auralba e Meriggi, ma anche pericolosi come Tarantelle e Mena Mena Mo', e non è detto che vogliamo entrarvi e rischiare la pelle: di solito il jazz ci dà sicurezza perché ci avvicina alla nostra solitudine, mentre la pizzica è un ballo schietto, di gruppo, guaritore, sudato, sessuale - non tutti siamo pronti a questo tipo di lealtà frontale. Mentre la macchina corre ancora e, in effetti, sembra dirigersi verso il Salento e il Barese, per un sole che batte stranamente, o il Materano, e non più verso il freddo di un artista che dall'Italia è razionalmente fuggito, Nico Morelli fa il bruto a Parigi. Con lui ancora non supero la frontiera e suona una cantilena che sembra di essere tra due set in un locale jazz che è universale, dove lui ha un whisky in mano e i suoi musicisti accordano. Abbasci' A è il secondo set ed è quando passo la dogana, e i salentini urlano per scongiurare la morte al punto tale che la macchina sfreccia e i belga non mi fermano nemmeno, nonostante abbia una tarantola nel cofano. Parte l'inseguimento e le mani di Morelli li superano su Lesson 45, sfrecciano e Tonino Cavallo sfotte con proverbi nonsense in Pizzica Strana e Yes O' Sol. Arrivo a Brugge, lascio le coccinelle in macchina con la radio che dimostra che l'America dell'Unforgettable Nat King Cole e le ballate salentine convivono nella pazzia e nel pianoforte morelliano, tutti comunque schiavi di qualcuno. Negri e meridionali. E non ci sono miracoli per il morso di certe tarantole, se non godersene il veleno in terra straniera. Apro il cofano e la tarantola scappa oltre frontiera: abbiamo fregato i controlli. Romina Ciuffa JOHN SCOFIELD THIS MEETS THAT Ho in mano l'ultimo lavoro di John Scofield, il titolo è accattivante e, com'è nel suo stile, attento all'uso giocoso delle parole (c'è ancora qualcuno che si diverte a pensare titoli e a credere che sia una scelta importante): This meets That. Ho tutta l'emozione e la paura del fan che lo segue da anni e teme una caduta, una delusione da questo eccezionale chitarrista dell'Ohio. Quindi, giù la maschera... questa è una recensione di parte. Lo ascolto un po' di volte, ma da subito mi cattura e mi affascina il senso della novità, l'impressione che i vari filoni portati avanti negli ultimi lustri da Scofield abbiano preso una strada di sintesi, un mood unico capace di racchiudere l'anima jazz, quella funk, quella ryhtm & blues e quella più squisitamente folk tradizionale. E così Scofield inizia a far divertire con un uso frequente e ben dosato di citazioni, ma anche di ironiche autocitazioni (come l'intro della lirica Down D, probabilmente il brano più convincente di questo cd, dove riprende la frase ricorrente in ogni brano di Up all night di quale anno fa). Dal poco conosciuto, ma importante, Scorchead per la Deutsche Grammophon porta l'impianto compositivo classico ed orchestrale, da That's What I Say-acclamato tributo alla musica di Ray Charles-porta i ritmi soul e il gusto per l'arrangiamento dei fiati, da Uberjam e dai lavori con il Medeski, Martin e Wood trio la grinta timbrica del funk, il tutto tenuto insieme dal suo tipico fraseggio jazzistico stralunato e altalenante nel gioco dentrofuori tonalità, che ne ha disegnato il tratto inconfondibile nel panorama jazzistico e chitarristico contemporaneo. Una cosa però va sottolineata: Scofield è un musicista straordinario che ha sempre rifiutato di sottomettersi alla logica, abusata per ragioni di utili privati e di mercato discografico, degli "istant cd", album sfornati a bella posta per accompagnare tour e (se pure suonati meravigliosamente) completamente algidi e senza un briciolo di idee e di personalità. Ogni suo lavoro è il frutto di una personalissima ricerca, di uno stile che-proprio come il suo fraseggio-lo fa stare continuamente in bilico tra il dentro e il fuori da un contesto musicalmente definito. Lo accompagnano in questa avventura due suoi vecchi amici, con i quali già nel 2004 registrò per la Verve il cd live Enroute: alla batteria Bill Steward e al basso Steve Swallow, sul cui talento non occorre spendere parole. In più, la forza di questo album va ricercata nel potere dell'insieme, cioè non un trio ben rodato con una sezione ritmica grossolanamente arrangiata, ma una vera macchina da guerra in grado di giocare sugli scambi, sui controtempi e su interventi ritmici pensati in modo da creare il massimo del groove in ogni traccia. E così il trio diventa coi fiati "settetto" in senso proprio, in una continua osmosi tra musicisti in grado di fare dell'interplay la base ideale per l'improvvisazione chitarristica, particolarmente feconda di idee in questo album. Scofield resta un insuperabile creatore di riff che invitano a ballare i tempi anche più difficili e a muoversi nel contesto modale con assoluta scioltezza. Per chi, invece, volesse scoprire nuove potenzialità di superclassici come The House of the Rising Sun o di (I Can't Get no) Satisfaction consigliamo di seguire con attenzione i sentieri melodici che qui inaugura con il suono graffiante, ironico, aggressivo e anche dispettoso della sua fida seicorde Ibanez. Paolo Romano FE ED back a acura curadidiROMINA FLAVIO FABBRI CIUFFA ROBERTO VECCHIONI DI RABBIA E DI STELLE «A sessant'anni non c'è più spazio per le puttanate», dice Roberto Vecchioni. E inevitabilmente pensi se lui ce ne abbia mai propinato attraverso i suoi dischi. Oggi però ho nelle mani questo nuovo CD, struggente e sincero, intitolato «Di rabbia e di stelle»: il genitivo indica chiaramente un'impostazione classica che non vuole concedere nulla alla comunicazione «moderna». Poi due vocaboli così diversi, rabbia e stelle: un sentimento, e una metafora di sentimenti, una parola cangiante (per citare De André) che allude alle speranze, ai sogni, all'ideale. Singolare e plurale: vorrà pur dire qualcosa? Per un poeta come Vecchioni sì: vuol dire che a dominare è sempre il volto sorridente della vita, nonostante la volgarità dei tempi, l'aridità del cuore (ammessa senza paura nella splendida «Non amo più»), le preoccupazioni per il tempo che passa e lascia troppi vuoti («lontano adesso è un tempo/spaventosamente breve»). Ma le stelle coperte da queste nubi, in un linguaggio ermetico e sofferto, si lasciano scorgere anche grazie alle ampie melodie classicheggianti e alla vivezza degli arrangiamenti, dai rimandi jazz di Fariselli fino alle meravigliose trovate di Lucio Fabbri (tra tutte la popular song «Il violinista sul tetto», cantata in duetto con Teresa De Sio, spontanea ed energica). E poi la sua voce, sempre emozionata, a ricordarti che «i poeti non saranno anche nessuno/ma hanno il potere di sputtanarvi». Nicola Cirillo THE DREAMERS & JERRY BOUTHIER BOOMBOX PARTY La serata più cool del nigthlife londinese in Hoxton Square diventa una compilation autentica, che scappa dalla trappola dell'elettro che annoia e regala un sound "french touch" puro alla Thomas Banglader-Para One e mixaggio graffiante degno dei Daft Punk. La label francese Kitsuné presenta, mixato da Jerry Bouthier, il BoomBox Party, manifesto del progetto The Dreamers che vede come protagonisti i giovani talenti inglesi, i creativi, i visionari: sognatori, appunto, gli eccentrici animatori del club culto frequentato da Kate Moss e dai nomi grossi. È unico nel suo genere: dal dj set di fotografi, attrici o modelle alla stregua della top Agyness Deyn, a un'esperienza a sorpresa (lesbiche che ballano in topless si stringono a ragazzi dalle tensioni greche), remix di Madonna insieme all'ultimo elettro-sound dei Digitalism o dei Gossip. Quando si apre, la scatola dei paradossi si mostra mentre i dj più famosi del mondo (Glimmers,Gildas&Masaya, Justice, Bang Gang, Boys Noize, Alexander Robotnick) vi suonano a costo zero e senza preavviso, scaricando la stampa all'ingresso con le sue telecamere. È il BoomBox lo scrigno dei nuovi reali, dei gioielli del fashion e del circuito delle celebrities. Ne siamo esclusi e aspettiamo gli upload del sito dal fotografo Alistair Allan (www.dirtydirtydancing.com), ma ne ascoltiamo ora i pezzi imperdibili: la traccia n. 8 dei Daft Punk e la n. 13 dei The Young Punx. Matteo Zini LANG LANG BEETHOVEN , CONCERTI PER PIANOFORTE E ORCHESTRA NN. Probabilmente in molti lo conoscono per la prima esibizione virtuale mai eseguita in assoluto nella storia della musica classica. Infatti, grazie alla piattaforma virtuale di Universal Music Classics & Jazz, il pianista Lang Lang ha presentato l’uscita del suo nuovo cd «Beethoven-Concerti per pianoforte e Orchestra nn. 1 e 4» nello strabiliante mondo virtuale di Second Life. Altri ancora lo avranno conosciuto in occasione del concerto di apertura della II Festa del Cinema di Roma, quando Lang Lang ha accompagnato al pianoforte la voce di Andrea Bocelli. 1E4 Eppure, tralasciando le bizzarre scelte di mercato e le cerimonie internazionali, il giovane e bizzarro artista cinese Lang Lang (in concerto a Roma il 25 gennaio 2008 all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) è ormai acclamato in tutte le capitali musicali del mondo, con uno straordinario livello di musicalità e un repertorio molto vasto. La sua arte e la capacità ed abilità di rapportarsi con i pubblici più diversi lo hanno reso uno degli artisti più interessanti e carismatici dei nostri giorni. Nato nel 1982 in Cina, a Shenyang, ha iniziato a studiare il pianoforte a 3 anni per arrivare al successo nel 1999 a soli 17 anni, sostituendo all’ultimo minuto, su segnalazione di Isaac Stern, l’indisposto André Watts al Ravinia Festival, per il concerto di Ciaikovskij. Tale fu il successo di questa esibizione che nel giro di pochissimi mesi tutte le principali orchestre americane chiesero di Lang Lang, sino al debutto alla Carnegie Hall con Temirkanov nel 2001. In questo nuovo lavoro è evidente un’interpretazione di Beethoven lucida e forte, maliziosamente resa giovane da un calore espressivo e passionale, da un fraseggio estremamente curato, variegato nelle sfumature e nelle nuances. Sbalordisce di questo giovane la semplicità esecutoria quanto il rigore tecnico di base. Un artista possiamo dire che del talento ha fatto uno stile inimitabile. Flavio Fabbri Music In Fback EED Ottobre Novembre 2007 THE SILENCE BEFO- NORDGARTEN Un lumi- RAMIN BAHRAMI Che MARCELLO ROSA RE BACH A Venezia, il noso blu dove si trovano ha fatto della fuga (di Bach) L’incosciente. Il bambino. DAVID SYLVIAN Un unico nuovo film di Portabella un’arte brano di 80 minuti. In Giappone Un preludio a un bacio. Buckley e De André A BRIGHTER KIND OF BLUE RICCDIAR O FONSECA ND ORDGARTEN l a musica dello scandinavo Nordgarden, contaminata da influenze inglesi e americane (rock e jazz), si sviluppa soprattutto come energia personale, intima, sul solco della tradizione dei cantautori a cui attinge (da Cohen a Jeff Buckley, da Bruce Springsteen a Fabrizio De André). Per il suo secondo disco, A Brighter Kind Of Blue, si è avvalso della collaborazione di Peder Øiseth (tromba, violino, banjo, organo), di E. Hareide (basso) e C. Skaugen (batteria); un cd acustico, quindi, che mette in risalto sua voce potente e limpida. La title track, che è anche il brano di apertura, risulta particolarmente efficace: ha una melodia ampia, illuminata da un arrangiamento arioso ed essenziale; il suo titolo può suggerire riferimenti alla celebre Kind Of Blue di Miles Davis, ma questi sono presenti di più in altri brani del disco (To The River, Good Things Die). La leggerezza e la serenità che sembrano sostenere tutto l’album sono venati dalla malinconia di Blessed, quasi una ballata barocca, a cui Nordgarden aggiunge le vibrazioni di una voce ben timbrata, e Metronome, brano strumentale, in cui un violino classico, dolente scandisce il fluire del tempo. Dieci tracce partorite da un'ispirazione pura, rielaborate in maniera raffinata, in cui pop, jazz e folk convivono in maniera armonica e convincente. Crepuscolare. NICOLA CIRILLO t r a c k i n g SOUND P T THE HE S SILENCE ILENCE B BEFORE EFORE B BACH ACH resentato alla 64^ Mostra del Cinema di Venezia nella Sezione Orizzonti, Die stille vor Bach (The Silence Before Bach), l’ultima opera del cineasta spagnolo Pere Portabella è un intenso lavoro emotivo legato all’estetica pura delle melodie eterne del compositore tedesco. Johann Sebastian Bach però non è il soggetto di questo film, né il film è un suo biopic, ma ne è l’oggetto. La sua musica attraversa la pellicola anche con l’esecuzione in presa diretta eseguita dall’attore ed esecutore Christian Brembeck. Portabella, da ‘regista Punk’ (da una nota definizione che ne diede un critico), ha cominciato a sforbiciare la storia del compositore, mantenendo ferma la sua musica. Per poi ricomporla, a prima vista casualmente, in un patchwork spazio-temporale, in cui si alternano personaggi e situazioni non collegate ma piene dell’universalità derivante dalla musica stessa. Per una volta quindi, non sarà la musica a commentare le immagini, ma viceversa. Ecco perché non importa se queste ultime non seguono un piano temporale omogeneo. Perché non sono da seguire le immagini, ma la musica. Quando Bach arriva con la sua famiglia a Lipsia per lavorare era ancora un kantor senza un soldo. La sua era una vita poco agevole ma dignitosa, grazie alla sua musica e al suo amore per questa. Poi arrivano i riconoscimenti e il benessere materiali, prima che la storia decide di inghiottire nell’oblio tutto la sua sterminata produzione. Ma la musica non si ferma alla storia e le immagini cominciano a seguire le note di un rondeau ubriaco passando per la bellissima scena dalle cromature eccitanti del macellaio che incarta la carne con lo spartito insanguinato della Passione secondo Matteo (la preferita dallo stesso Bach), finita fortunosamente nelle mani di un giovane Felix Mendelssohn Bartholdy, che ebbe il merito, eseguendola di nuovo nel 1829, di riportare alla luce il genio di Bach. Per poi passare nella camera scura dell’accordatore cieco e ritrovarci con due camionisti che nei loro bisonti d’autostrada ascoltano le melodie di Bach, fino ad arrivare sotto la metro e trovare violoncellisti che suonando sempre le sue melodie chiedono l’elemosina. Infine, bellissimo, il parallelo tra i ragazzi del XXI secolo che ascoltano le sue composizioni e il Johann Sebastian padre che insegna a suonare questa musica ai suoi ragazzi (da notare che i suoi figli furono tutti dei talentuosi musicisti, tant’è che Bach divenne termine per indicare chi suonava a corte). Un gioioso ponte immaginario che solo la musica può creare tra generazioni altrimenti perdute nella Storia, cercando di unire tempi e vite diverse come fosse un inno all’Europa di tutti i tempi, all’unione dei popoli (nel film si parla italiano, tedesco e spagnolo), come volontà finale di una composizione ipotetica, fatta finalmente di persone e nello stesso tempo di note musicali. Anche la musica, non solo la politica, è in grado di portare le idee lontano nel tempo. Flavio Fabbri L’ARTE DELLA FUGA DI BACH INTERPRETATA DA RAMIN BAHRAMI a ffrontare un’opera come la BWV 1080, meglio conosciuta come Die Kunst der Fuge-L’Arte Della Fuga, composta da un Johann Sebastian Bach malato e prossimo alla morte, non è cosa da poco. Eppure il giovane e talentuoso pianista iraniano Rahmin Bahrami non ha esitato. Il suo Arte della Fuga (Decca, 2007) presenta la caratteristica di un’interpretazione coraggiosa e forte, piena di una malinconia avvolgente e di una sicurezza nell’esecuzione che non tradisce fino all’ultimo brano. Coraggio e sicurezza, perché questa BWV 1080 è proprio l’ultima opera del grande Bach, portata avanti sotto dettatura dal maestro di Lipsia, ormai cieco e malato, e nella quale non ne erano neanche stati specificati gli strumenti per l’esecuzione. La consuetudine prevalente nel tempo ha indicato nel pianoforte e nel cembalo quelli più idonei, ma è fuori di dubbio che questa partitura rimanga nei secoli un oggetto misterioso e quindi di difficile esecuzione. Bach morì senza terminare la Die Kunst der Fuge nel 1750, lasciandoci nel dubbio e nell’insicurezza espressiva, nonché tecnica. La Fuga rimane ancora oggi una delle forme del pensiero musicale occidentale tra le più importanti e Bach ne fece nelle sue note una summa di arte combinatoria senza precedenti ne seguiti. Ecco quindi le platee intuire questo passo difficoltoso e rispondere con entusiasmo. Rahmin Bahrami ha dato all’opera immortale un’aura trascendentale e sognante, una chiave alternativa all’universo bachiano basata sulle trascrizioni del nobile maestro del piano Carl Czerny (1791-1857), allievo viennese di Beethoven e a sua volta maestro di Liszt. Secondo molti la stella iraniana ha dato a questi brani il significato di un omaggio personale al J. S. Bach suo idolo assoluto. Probabilmente è vero perché questo è un lavoro intenso, tecnicamente impeccabile, con un’interpretazione estremamente emotiva che forse ha lasciato un fianco dell’autore scoperto alla critica più intransigente. Una nota negativa, se c’è, è da evidenziare nella scelta della Decca di presentare un’opera di tale importanza con una lunghezza complessiva di 78 minuti, contro i 90 di media degli altri solisti. Una scelta di mercato si dice, meglio un cd solo che uno doppio, forse remunerativa economicamente, ma sconsigliabile in rapporto alla qualità delle esecuzioni, in alcuni casi simili a una galoppata sui tasti. FLAVIO FABBRI A CHILD IS BORN DI MARCELLO ROSA g iunto, come la chiama lui, all’età dell’«incoscienza» il decano dei trombonisti jazz italiani, Marcello Rosa, ci sorprende con l’uscita del cd nuovo di zecca A Child Is Born (Nelson Records) che comprende, insieme a riletture di celebri standard, molte sue composizioni originali e ben quattro perle «bonus» rimasterizzate e riportate in gran spolvero per i veri appassionati di questa musica, «brani vecchi ma non invecchiati», come tiene a sottolineare Rosa, infaticabile artigiano e divulgatore del jazz (ha ideato e condotto per ben 30 anni trasmissioni radiofoniche musicali in Rai). E il bambino che compare tanto nel titolo quanto nella copertina è forse la cifra per comprendere l’anima di questo piccolo gioiello, come da tempo agli appassionati di jazz non capita di ascoltare. Un’energia, una vitalità ed una spontaneità che, se non si sapesse chi ne è responsabile e che fior fiore di musicisti lo stanno accompagnando (qualche nome? Andy Gravish, Fabrizio Bosso, Paolo Tombolesi, Gianluca Renzi e tanti altri ancora), sembrerebbe avere la grinta di un’opera prima, solo perfezionata da 55 anni di professionismo e da collaborazioni con veri monumenti del calibro di Lionel Hampton, Earl Hines, Slide Hamtpton, Kay Winding. La voce del suo trombone è quella di sempre, quando ombrosa e malinconica, quando soprendentemente spumeggiante ed ironica, con quel fraseggio fluido, perfetto ritmicamente ed essenziale al tempo stesso, nessuna concessione a «note» fuori posto e con un’idea melodica di cantabilità sempre scolpita in ogni battuta d’improvvisazione. Due aspetti convincono maggiormente di questo album: gli arrangiamenti articolati ed intriganti che danno corpo e solidità ad ogni brano (ascoltate bene Lover Man, sia nella versione di oggi sia in quella del 1974 con Enrico Pieranunzi al piano e Gegè Munari alla batteria, entrambe presenti nel cd) e, finalmente, la sensazione di compattezza del «gruppo» musicale jazz, in cui al protagonismo del solista è sostituito il meccanismo di insieme e dove ogni strumento è al servizio dell’altro per la migliore riuscita dell’ensamble; il cuore prende il posto del virtuosismo e ricama, traccia dopo traccia, il disegno unitario di una sensibilità musicale fuori dal comune. L’atmosfera in cui ci sembra muoversi meglio Marcello Rosa è quella degli umori della New Orleans perduta nel primo decennio dello scorso secolo, simbolo e culla della musica jazz (The Sinner), come anche nello swing più autentico che in brani come Senorita, dopo il tema spagnoleggiante, prende d’improvviso per mano ed invita a ballare, mentre la versione della ballad The Very Tought Of You arrangiata per quattro tromboni e tromba (suona tutto su diverse piste lo stesso Rosa) emoziona per l’intensità e la forza interpretativa. E quando si parla di swing, non può mancare un omaggio al suo nume tutelare, Duke Ellington, in una splendida versione della celebre Prelude To A Kiss, ingentilita dalla bella interpretazione della giovane Angelica Caronia. PAOLO ROMANO WHEN LOUD WEATHER BUFFETED NAOSHIMA DI DAVID SYLVIAN i n concomitanza con il tour che lo vede impegnato in questo periodo tra Europa e Giappone, David Sylvian da alle stampe il suo nuovo lavoro dal titolo When Loud Weather Buffeted Naoshima, che–è bene che il pubblico sia avvertito–non ha nulla a che vedere con il raffinato e ricercato pop d’autore che ci ha regalato con il recente progetto firmato Nine Horses e nelle ultimissime apparizioni live in Italia. Siamo di fronte ad un unico brano di 70 minuti commissionato dalla Naoshima Fukutake Art Museum Foundation in Giappone come parte della mostra Naoshima-Standard 2 che si è svolta nell’omonima isola giapponese da ottobre 2006 ad aprile 2007. Il pensiero, al primo ascolto, corre subito a quella produzione strumentale di Sylvian che, partita con Alchemy–An Index Of Possibilities (contenente l’inarrivabile suite Words With The Shaman e la splendida Steel Cathedrals) e la seconda parte del doppio Gone To Earth, si è sviluppata nelle collaborazioni con l’ex-Can Holger Czukay (Plight&Premonition e Flux+Mutability) e nelle istallazioni con Russell Mills (Ember Glace–The Permanence Of Memory) e con Robert Fripp (Redemption–Approaching Silence). Nella sua ultima produzione il nostro fa un passo in avanti. Si sposta dall’ambient «classico» alle sonorità più elitarie del field recording con inserti e collage sonori. Come al solito Sylvian si rivela sapiente nella scelta dei collaboratori, questa volta tutti o quasi paladini della più significativa scena sperimentale ed elettronica del momento. Bastano i nomi: il francese Akira Rabelais, l’austriaco Christian Fennesz, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il maestro di shakuhachi Clive Bell. La lunga composizione si presenta come un assem- blaggio di voci filtrate dal sapore arcano, suoni di foreste, vento, strumenti a fiato, altre vocalità dal fascino angelico, qualche drone più tagliente e qua e là rumori di passi, porte che si aprono e cigolano. Tutto apparentemente senza un filo conduttore. Poco importa. Qui Sylvian è più vicino alle concezioni di John Cage e alla musica concreta di Pierre Henry che alla musica per aeroporti di Brian Eno o i soundscapes di Robert Fripp. Nata com’è per una istallazione artistica che deve essere fruita in presenza dei forti rumori ambientali del luogo per il quale è stata scritta, la composizione è stata volutamente mixata per la produzione in cd con i suoni della città di Honmura, in modo tale da avvicinare l’ascoltatore all’esperienza reale dell’istallazione stessa. L’ultima particolarità di questo disco–che si presenta in una raffinata e semplice confezione da dvd con la cover art di Sachiyo Tsurumi–è data dal fatto che esso è in edizione limitata e non sarà mai ristampato. Per volere dell’artista e della Fondazione committente, infatti, la composizione entrerà a fare parte delle istallazioni permanenti del museo e solo lì potrà essere ascoltata una volta esaurita l’edizione originale. GABRIELE BRUZZOLO