Robert Louis Stevenson: l`immaginazione ad un passo

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Robert Louis Stevenson:
l’immaginazione ad un passo
8 novembre 2010
di Flavio Camilli
Spinto dalla proposta di un editore di scrivere un romanzo sulle isole del Pacifico meridionale, Robert Louis Stevenson soggiornò ed esplorò numerose
terre, tra cui Honolulu, per poi stabilirsi a Upolu, la più grande delle isole Samoa, dove morirà nel 1894.
Gli indigeni usavano chiamarlo “Tusitala”, narratore di storie. E come dargli torto?
Lo scrittore Filippo Tuena decide di affidare a questo appellativo e al suo portatore nome e primo titolo della nuova collana di Nutrimenti da lui diretta. Il
giardino dei versi di Stevenson è presentato in un’edizione tradotta da Raul Montanari in modo semplice ma molto efficace, fedele al tono e alla musicalità
dell’originale (riportato in appendice) nonostante la diversità delle lingue di partenza e di arrivo; arricchito dai contributi del traduttore stesso, di Tuena e di
Paolo Mauri, il volume è impreziosito dalle numerosissime illustrazioni di Charles Robinson (e qui si potrebbe dire qualcosa a proposito di viaggi, nomi e
coincidenze…) che esordì venticinquenne proprio con questi pregevoli inchiostri.
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Robert Louis Stevenson: l’immaginazione ad un passo | Fuori le Mura http://www.fuorilemura.com/2010/11/08/robert-louis-stevenson-...
Le poesie della silloge furono scritte da Stevenson in un periodo di grave debilitazione fisica (prima a Nizza nel 1883 e poi in costa azzurra nell’anno
successivo). Dall’elaborazione complessa (come vuole l’ardua ricerca della semplicità comunicativa), i versi sono rivolti al bambino inteso non solo
come essere senziente tra gli zero e i dieci anni, quanto piuttosto a quell’indefinibile spirito libero, giocoso, fantasioso e quindi dedito alla creazione che
non vuole saperne di evaporare con il sopraggiungere dell’età adulta. Piuttosto si nasconde, a volte magistralmente, scappa, si assopisce. È nelle
profondità dei suoi rifugi che l’autore lo va a stanare e lo obbliga a giocare come fanno i ragazzini con il compagno più timido.
Il riferimento alle normali abitudini del fanciullino (non per scomodare Pascoli, anche se…) è solo superficiale: l’attività, a cui fanno capo tutte le altre, è una
sola: immaginare.
Immaginazione è la parola chiave: la capacità di chiudere mondi interi tra le pieghe di un cuscino.
Un’attenzione particolare è riserva al sogno (“C’è tutto pieno di cose strane e rare / sia da vedere, sia da mangiare / e anche visioni un poco spaventose
/in questo regno, però mai noiose” da Il regno dei sogni) e al suo rapporto con la veglia, rivelata dal bel trittico Passaggio a nord-ovest.
In questo componimento l’atavica paura del buio la fa da padrone: il bambino che deve andare a letto sale le scale circospetto, intimorito dalle ombre e
dalla solitudine; “finalmente, alla cameretta / terrorizzato il mio passo si affretta / fuori da questo buio e dal tremore / nel regno dei sorrisi e del calore”.
Stevenson e la famiglia a Vailima by J. Davis, 1891
Varcate le porte oniriche, che si dischiudono non appena le palpebre si serrano, ogni bimbo è al sicuro: da “vittima” della realtà diviene forza creatrice
primigenia e quindi “senza più bisogni” se non quello di vivere nuove ed imprevedibili avventure.
Molto dell’immaginario de L’isola del tesoro è qui riprodotto in versi: le metafore nautiche (il sonno come porto franco, la luce-faro, il letto-nave), i pirati e il
mare e, più genericamente, l’identificazione dell’infanzia con un viaggio meraviglioso affrontabile solo con il più indispensabile degli strumenti, arma e
scudo al contempo: la fantasia.
Non si tratta di considerazioni banali che vogliono associabili ai primi anni dell’esistenza le immagini positive di un universo fatato e senza ostacoli da
superare: i versi prendono invece avvio sempre da un’interrogazione sul mondo. L’immaginazione viene utilizzata come strumento per rispondere al
desiderio di esperienza e consapevolezza. Poi, che riesca a rendere la realtà più ricca e stimolante non è certo una colpa: così il vento può essere “una
bestia che nei libri non c’è /o solo un bimbo più forte di me” (Il vento), l’ombra una “pigrona” che rimane a letto se ci si alza prima dell’alba (La mia ombra) e
il fruscio de La gonna della zia può tramutarsi in una “canzoncina” severa.
Stevenson cerca di avvicinare il bambino con contenuti fiabeschi e picareschi, ma parla anche all’adulto descrivendo in rima (sacrosanta!) un vero e
proprio percorso conoscitivo volto a definire il mondo ma anche a superarlo, avvertirlo già nei presupposti come “non abbastanza”.
Perché, si chiede il bambino, la mia esperienza dovrebbe avere confini? Se, grazie al modo particolarissimo in cui percepisco i piaceri e i pericoli, per
me le meraviglie del sogno concorrono o equivalgono a quelle della veglia, perché dovrei considerare solo ciò che gli altri, i barbosi adulti di cui non si
sente la mancanza, ammettono come “vero”?
Non appare perciò necessario localizzare questo cosmo in un’isola tra le stelle (anche se il Peter Pan di J.M. Barrie arriverà qualche anno dopo) o
renderlo raggiungibile solo tramite un tortuoso percorso che prende il via nella tana di un coniglio (come insegnò l’Alice di L. Carroll, venti anni prima). È
la delizia della porta accanto, distante un passo dai piedi che hanno da poco iniziato a camminare: un giardino appena fuori dalla finestra della cameretta,
un Paese in miniatura dove “i trifogli sono alberi / e i mari diventan le pozzanghere / e verdi foglie, come navicella, / fanno crociere piccole ma belle”;
oppure un materasso (“sorgono dal letto le città / case e alberi dissemino qua e là”) su cui organizzare con coscienza quasi urbanistica tutti i propri
giocattoli (Il bel paese del gran copriletto).
Molti ma molti anni dopo la pubblicazione di A child’s garden of verses Daniel pennac scriverà nel suo Signori Bambini: “Immaginazione non significa
menzogna!”.
Stevenson sarebbe stato sicuramente d’accordo.
Il giardino dei versi
A child’s garden of verses
Autore: Robert Louis Stevenson
Traduzione: Raul Montanari
Casa editrice: Nutrimenti, 2010
Pagine: 208
Prezzo: 18 €
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