A 4.090 metri, Potosí è la più alta città del mondo. Pochi lo sanno ma

Transcript

A 4.090 metri, Potosí è la più alta città del mondo. Pochi lo sanno ma
[FRONTIERE/BOLIVIA]
DI EMANUELA FERRO E PAOLO PICCIOTTO
BENVENUTI IN CIMA AL MONDO
A 4.090 metri, Potosí è la più alta città del mondo.
Pochi lo sanno ma è stata più grande e ricca di Parigi
e Londra. Grazie all’argento e agli schiavi
D
inamite e cocaina. Aguardiente e
tabacco. Non sono la refurtiva di
una banda di contrabbandieri ma
i regali più graditi. A riceverli, coperti di sudore e polvere, i minatori del Cerro Rico, la
Montagna Ricca. La chiamarono così i conquistadores quando si resero conto dei
filoni d’argento nascosti nel suo
ventre: fu un indio inca a svelarne la presenza
agli spagnoli, cambiando la vita di milioni di
altri nativi e le prospettive della Spagna. Diego Huallpa non immaginava la sventura che
avrebbe portato al suo popolo quando, alla ricerca di due lama smarritisi sul monte e sorpreso dalla notte, accese un falò per scaldarsi
nelle ore più gelide e ne vide sgorgare un rivolo di argento fuso. Leggenda e storia a questo
punto si sovrappongono e confondono: forse un’antica tradizione inca vietava ai nativi
Una veduta di Potosí.
Sullo sfondo,
la mole del Cerro Rico
[BOLIVIA]
I CINQUE SECOLI
DEL MONASTERO
“
”
Per muovere i coni della
zecca erano necessari
quattro muli, che
in breve morivano
stremati. Gli spagnoli
li sostituirono con otto
schiavi africani
씮
di toccare la montagna considerata sacra, perché le sue ricchezze erano riservate ad “altri”; forse Diego iniziò a scavare con un socio, ma poiché i due litigarono ingenuamente
si rivolsero agli spagnoli per risolvere la contesa sui profitti; oppure fu Diego stesso a rivelare la scoperta a un funzionario della corona,
sperando di ottenerne comunque dei benefici. Quello che è certo è che il primo aprile
1545 ai piedi del Cerro Rico fu fondata, a oltre 4.000 metri di altitudine, la città più alta
del mondo, la Villa Imperial de Carlos V, l’attuale Potosí.
Migliaia di schiavi indio vennero mandati ad aprire cunicoli nel cuore della montagna per estrarre la plata, l’argento, e poiché
morivano a centinaia, gli spagnoli importarono schiavi africani da destinare alla stessa fine. Nel 1572 una legge del viceré di Toledo,
la Ley de la Mita, stabilì i ritmi di lavoro:
quattro mesi di permanenza ininterrotta nel
sottosuolo con turni di dodici ore. Ai piedi
del monte, Potosí divenne nel frattempo la
città più ricca del mondo e una delle più popolose, una vera metropoli, ben più grande
di capitali europee come Londra o Parigi. Alla fine del Seicento vi abitavano circa
200.000 persone ed erano state costruite 80
chiese, molte per gli europei, alcune per gli indios. Non mente il primo stemma della città
che reca la scritta: “Sono la ricca Potosí, il tesoro del mondo, l’invidia dei re”.
A testimoniare tanta opulenza restano la
ricchezza dei retabli nelle chiese barocche,
gli argenti e le tele portate in dote ai conventi dalle damigelle spagnole, le matrici, i
punzoni, le antiche macine della Casa de la
Moneda, la zecca che coniò per secoli il “contante” da inviare a Madrid e che oggi è un
museo, mentre la Bolivia affida a zecche straniere il conio dei suoi bolivianos. Nella Casa
della Moneta sono conservati i coni originali
della zecca: per muoverli erano necessari
quattro muli che, a causa del freddo, dell’altitudine e del duro lavoro, dopo pochi mesi cadevano stremati e morivano. I conquistadores li sostituirono con schiavi africani, otto alla volta, che a 4.090 metri di altura sopravvivevano ancora meno dei muli. Eppure, fatto
qualche conto costo-durata, gli schiavi risultarono comunque più economici.
Si dice che con l’argento di Potosí gli
spagnoli avrebbero potuto costruire un
ponte tra la madrepatria e le colonie oltre
l’Atlantico. Per trasportare metallo e monete si affidavano invece alle carovane di lama e
ai galeoni, spesso vittime degli assalti dei corsari inglesi: l’argento così tragicamente estratto dalle viscere della terra finiva spesso a riposare in fondo al mare. Oggi è scomparso il
Sono i bambini a preparare le micce per i candelotti
Nelle foto a sinistra: un
ragazzo prepara l’innesco
per i candelotti di dinamite.
A destra: una piccola bottega
mondo che ruotava intorno a tanta ricchezza: nobili e artisti, alti prelati e decoratori,
missionari e avventurieri. Rimangono i minatori, legati alla loro miseria, ieri come oggi.
I gestori delle cave non badavano certo alla
salute dei minatori, così la ricchezza della miniera, di Potosí e della Spagna poggiò per secoli su milioni di morti senza nome. Non solo
frane e crolli, ma anche sfinimento da lavoro
e da fame, ecco le cause della mortalità nei
cunicoli a centinaia di metri di profondità.
Allora la cosa più semplice e facile da fare era
lasciare (o meglio gettare) i corpi in gallerie ormai abbandonate. Incidente dopo incidente,
crollo dopo crollo, anno dopo anno, si è creata così un’immensa tomba dimenticata. Si calcola che l’argento estratto dal monte sia costato la vita a circa otto milioni di essere umani.
Quando, nell’Ottocento, i popoli dell’America latina cercarono di costruirsi una
propria dignità come nazioni indipendenti, e
gli eserciti repubblicani dei generali Sucre e
Bolivar mossero guerra agli eserciti reali, Potosí divenne terreno di aspre battaglie. Nel
1825, dopo essere stata più volte conquistata
e persa da entrambi gli eserciti, Potosí era il
fantasma di se stessa: solo 9.000 abitanti e i
tesori d’arte saccheggiati e dispersi per tutto
il mondo. Anche i filoni argentiferi iniziarono a dare segni di stanchezza e l’estrazione di-
씰 Casa de la Moneda. L’imponente
palazzo fu edificato nel 1573 e ospitava
la zecca. In seguito fu utilizzato come
prigione e fortezza. Nel cortile si incontra
un grottesco mascherone la cui origine
è sconosciuta. Oltre alle antiche
testimonianze della zecca, ospita collezioni
d’arte che ne fanno uno dei primi musei
dell’America latina.
씰 Convento de San Francisco. Fondato
nel 1547, è il più antico monastero di
Bolivia (foto a destra). Dai suoi tetti, cui
si accede da una stretta torre, una delle
migliori viste sulla città.
씰 Convento de Santa Teresa. Con un
vivo color arancione mostra subito le sue
influenze meticce. Il museo contiene
un’eccezionale raccolta di opere d’arte, la
dote portata dalle novizie al convento.
venne meno redditizia. Inoltre le leggi repubblicane abolirono la Ley de la Mita, ponendo
fine alla disponibilità di mano d’opera gratuita. Dopo pochi anni, nel 1850, ci si orientò
verso l’estrazione di minerali prima scartati, soprattutto lo stagno. I metodi però non
cambiarono, lo sfruttamento della miniera e
dei minatori proseguì e gli indios non si riscattarono dalla schiavitù: avevano solo cambia씮
di dinamite che sono poi usati per forare la montagna
[BOLIVIA]
TUTTI I NUMERI DI POTOSÍ
“
”
Oggi il turista può
scendere nei cunicoli
e incontrare i minatori.
Può anche portare
piccoli regali per
el Tio, la divinità
della miniera
4.090 metri di altitudine: Potosí è la città
più alta del mondo.
4.824 l’altezza massima del Cerro Rico.
Ley de la Mita del 1572: 4 mesi consecutivi
in miniera e 12 ore di turno
per gli schiavi indio e africani.
8 milioni di morti.
Nel 1672 ci sono 80 chiese e 200.000
abitanti, più di quelli di Parigi e Londra.
1825 l’anno dell’indipendenza.
5.500 il numero massimo di gallerie aperte
nei fianchi della montagna.
500 i metri di profondità dei tunnel.
45˚ la temperatura all’interno dei cunicoli.
24 lagune artificiali furono costruite
per fornire acqua alle officine
di lavorazione dell’argento.
Dal 1987 l’Unesco ha dichiarato
Potosí “patrimonio dell’umanità”.
씮
to padrone, dalla corona di Spagna all’industria privata. Bisogna attendere il Novecento
perché nell’America latina scossa da fermenti sociali e politici anche per i minatori boliviani si affacci la possibilità di un cambiamento: nasce il Sindicato de los Obreros Mineros,
crescono le rivendicazioni per un miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro,
gli impianti vengono ammodernati, viene finalmente approvata una legge che vieta il
lavoro dei bambini. Nel 1925, infine, le miniere sono nazionalizzate.
È il momento in cui si realizzano i maggiori
investimenti per la qualità della vita e per la sicurezza dei minatori: purtroppo i primi e gli
unici. La crisi è in agguato: i filoni s’impoveriscono mentre il prezzo dei minerali sui mercati internazionali scende inesorabilmente. La
Le mogli dei minatori non possono scendere in
miniera non è più produttiva, mantenerla
comporta costi eccessivi e lo Stato ne decreta
la chiusura. Negli anni Settanta i circa 30.000
minatori di Potosí vengono licenziati, i pozzi
chiusi: il risultato è la rivolta. Il Governo deve
tornare sui propri passi, ma riesce comunque
a liberarsi delle miniere. Nascono le cooperative di minatori: i lavoratori diventano imprenditori di se stessi in un affare poco redditizio
ma che per loro è l’unico possibile. Il solo capitale di cui dispongono è la propria forza: orari
e turni scompaiono, l’unica legge è il cottimo, perché più si lavora più aumentano le
possibilità di trovare il poco minerale rimasto, argento o stagno. I cunicoli si spingono sempre più avanti e in basso, sempre
più angusti e precari. Si lavora piegati in due o sulle ginocchia, scavando a martellate i buchi per la dinamite. E sono i più giovani, quasi bambini, a
preparare le cariche, a innescare il detonare, a collegare la miccia. Gli incidenti sono all’ordine del giorno, anche se, viste le poche migliaia di minatori, non
ci sono più, come in epoca coloniale, numeri da sterminio. Soprattutto, la vita media di un minatore
non supera i 45 anni e la principale causa di mortalità è
la silicosi, che nella maggior parte dei casi colpisce un minatore dopo quindici anni di lavoro. Un’altra causa di decesso è l’esposizione
agli agenti chimici necessari per trattare i minerali. Alcune cooperative riconoscono ai soci
una pensione mensile, pari a circa 12 euro,
quando hanno raggiunto un’invalidità polmonare del 50%.
La guancia sempre gonfia dei minatori mostra il bolo di foglie di coca che appallottolate
in bocca reagiscono con la leíga, un impasto
di calce minerale, patata e cenere, assicurando un effetto blandamente stimolante che
permette di vincere la fatica e la fame.
Oggi il turista, se vuole, può scendere nei
cunicoli e incontrare i minatori, grazie ad
agenzie locali. Non deve dimenticare, però,
che ogni visita è un’intrusione nella vita e nella fatica di questi uomini. Soprattutto ricordi
che chi lavora in miniera non lo fa per disperazione ma per orgoglio e tradizione, perché si
tratta di un lavoro che richiede abilità, competenza e coraggio e che viene tramandato di padre in figlio, per generazioni. La visita può essere anche un’occasione per portare piccoli
doni, sempre graditissimi. I più apprezzati
sono proprio le foglie di coca e la dinamite,
ma godono di buona reputazione anche sigarette, semplici bottiglie d’acqua, biscotti per i
più piccoli e aguardiente per Tata Kaj’chu, fa-
miniera: è donna anche lei, quindi gelosa delle altre
miliarmente el Tio.
El Tio, lo zio (nessuno osi chiamarlo diablo), è la divinità della miniera: a lui viene presentato il ragazzo che vi scende per la prima
volta, a lui il minatore anziano si rivolge ogni
mattina invocandone la benevolenza. È una
divinità ancestrale, che appartiene alle viscere della terra. I minatori, come la maggioranza dei boliviani, sono ferventi cristiani,
cattolici o evangelici, ma solo quando sono
a cielo aperto: sotto terra, invece, el Tio domina la loro vita, perché se il cielo appartiene
a Dio, in questo luogo così simile all’inferno
può regnare solo una divinità dall’aspetto diabolico. È a lui che bisogna offrire l’aguardiente, o meglio offrirne un po’ prima di berla, così come la coca e le sigarette, perché la divinità è imprevedibile e non sempre clemente:
ciò che resta delle offerte viene masticato, bevuto e fumato dai minatori fino a raggiungere uno stordimento simile alla trance.
Una cosa che el Tio sa bene è che le donne
non possono scendere in miniera, che è di
sesso femminile, gelosa e irascibile, quindi
poco disposta ad accettare intrusioni “rivali”:
permettere a un’altra donna di entrare nei cunicoli porterebbe disgrazie. Oggi questa tradizione va perdendosi, perché possono entrare
le turiste, considerate del tutto estranee e
quindi non soggette alla gelosia di Pacha-
mama, la madre terra. Anche alcune donne locali hanno iniziato a lavorarvi, ma resta il divieto assoluto per le mogli dei minatori, che spesso lavorano in superficie, occupandosi della
cernita del materiale. Dal 1987 l’Unesco ha
dichiarato Potosí “patrimonio dell’umanità”, non solo per i suoi stupendi monumenti,
palazzi, chiese e conventi, ma anche per la sua
왎
favolosa storia, così ricca, così tragica.
Qui sopra: la Piazza de la
Mercede a Potosí. Nelle altre
foto: il duro lavoro dei minatori.
Si calcola che in questi cunicoli
siano morte, nei secoli, più di 8
milioni di persone