Untitled - Rizzoli Libri

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Hector Malot (La Bouille, 1830 – Fontenay-sous-Bois, 1907), scrittore francese, ha legato la sua fama ai romanzi per l’infanzia. Senza
famiglia è il più celebre. Venne scritto con lo scopo di raccontare e
spiegare la geografia della Francia ai piccolissimi.
Titolo originale: Sans Famille
Traduzione di Rossana Guarnieri
© 1989 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas,
S.p.A., Milano
©2001 RCS Libri S.p.A. Milano
Prima edizione Bur ragazzi gennaio 2014
ISBN 978-88-17-07179-6
PRIMA PARTE
Al villaggio
Sono un trovatello, ma fino agli otto anni ho creduto di
avere anch’io una madre come tutti gli altri bambini perché, quando piangevo, c’era sempre una donna pronta
a stringermi a sé, a cullarmi, fino a quando le lacrime
non finivano di scorrere.
C’era sempre una donna che mi dava il bacio della
buonanotte quando mi coricavo, che nelle lunghe,
fredde sere d’inverno, quando la neve si ammucchia
contro le finestre, mi massaggiava mani e piedi per
scaldarmi e cantava una canzone di cui ricordo ancora vagamente il motivo musicale e le parole.
Se si scatenava un temporale mentre facevo pascolare la vacca nei prati, lei mi correva incontro e mi proteggeva la testa e le spalle con la sua gonna. E se a volte litigavo con qualche compagno, lei mi offriva
sempre comprensione e consolazione, sapeva ascoltarmi e rassicurarmi.
Per tutte queste cose e per altre ancora, per il suo modo di guardarmi e di parlarmi, di trovare sempre le parole giuste se doveva sgridarmi, a volte, per tutte queste
cose io la credevo mia madre.
Poi, un giorno, scoprii che era solo la mia balia. Ecco come accadde.
Il mio villaggio, o, per essere più precisi, il villaggio
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dove sono stato allevato, perché io non ho mai avuto
un villaggio mio, né un luogo di nascita, così come
non ho mai avuto né padre né madre, il villaggio dove ho trascorso la mia infanzia si chiama Chavanon. È
uno dei più poveri della Francia centrale. Questa povertà non è dovuta all’apatia, all’indolenza della gente, ma alla posizione del luogo, arido e poco fertile. La
terra è sottile e per ottenere buoni raccolti occorrerebbero concimi, fertilizzanti, che il paese non può
permettersi. A perdita d’occhio non si vedono, o perlomeno non si vedevano all’epoca della mia infanzia,
che pochi campi coltivati, alternati ad ampie distese
di terreno incolto ricco solo di macchie di erica e ginestre.
Oltre le macchie, si estendono le lande spazzate dal
vento, con pochi alberi dai rami contorti. Per trovare
dei begli alberi bisogna abbandonare le alture e scendere a valle, lungo le sponde dei fiumi o nelle praterie,
dove crescono vigorosi i castagni e le querce.
Ed è proprio in una di queste valli, in riva a un torrente che convoglia le sue acque tumultuose in un affluente della Loira, che sorge la casa dove ho trascorso la mia infanzia.
In quella casa, nei miei primi otto anni di vita, non
vidi mai un uomo. Mia madre, però, non era vedova.
Suo marito, che esercitava la professione di scalpellino, come buona parte della gente del posto, lavorava
a Parigi e non era mai tornato al villaggio da quando io
ero in età di capire e di ricordare. Solo, di tanto in tanto, mandava sue notizie tramite qualche compagno di
lavoro che rientrava al paese natio.
«Comare Barberin, suo marito sta bene. Mi ha incaricato di dirle che il lavoro non gli manca, e di conse-
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gnarle questo denaro: vuole contarlo e controllare, per
favore?»
E questo era tutto.
Mamma Barberin si accontentava delle scarse notizie. L’importante era che il suo uomo fosse in buona
salute e in grado di guadagnarsi da vivere. Il resto non
contava.
Dietro queste lunghe assenze non c’erano affatto
dissapori o incomprensioni tra marito e moglie. Niente di tutto questo. Barberin viveva a Parigi perché là
aveva un buon lavoro. Con l’avvicinarsi della vecchiaia sarebbe tornato accanto alla sua donna e insieme avrebbero vissuto serenamente godendosi i
tanto sudati risparmi.
Un giorno di novembre, al tramonto, uno sconosciuto si fermò davanti al nostro cancello. Io ero sulla
soglia di casa, impegnato a spezzare una fascina. Senza aprire il cancello, fissandomi, l’uomo mi chiese: «È
qui che abita la comare Barberin?»
«Sì» risposi.
Lo sconosciuto spinse il cancello che si aprì, cigolando, e, senza fretta, venne verso casa.
Non avevo mai visto qualcuno più infangato di lui.
Chiazze di fango, alcune ancora umide, altre già
asciutte, lo ricoprivano dalla testa ai piedi. Doveva aver
camminato a lungo su sentieri di terra battuta e campi
aperti per ridursi in quello stato.
Mamma Barberin udì il suono delle nostre voci, accorse, e si trovò faccia a faccia con l’uomo proprio sulla soglia di casa.
«Porto notizie da Parigi» disse l’uomo.
Parole semplici, già udite tante volte. Ma, stavolta, il
tono era diverso.
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Mamma Barberin lo notò. Portò le mani al petto ed
esclamò: «Mio Dio… è accaduto qualcosa a Jérome?… Una disgrazia?»
«Be’, sì, ma non bisogna abbandonarsi alla paura.
Suo marito è rimasto ferito, ma non è morto, ecco tutto. Per il momento è all’ospedale. Eravamo vicini di letto e quando ha saputo che tornavo al mio paese mi ha
pregato di fare una deviazione per informarla dell’accaduto. Non posso fermarmi, ho ancora diversi chilometri da percorrere prima di raggiungere la meta e tra
poco sarà notte.»
Mamma Barberin, ansiosa di avere altri particolari,
pregò l’uomo di fermarsi a cena. Le strade erano in
cattive condizioni, si diceva che i lupi fossero scesi a
valle, perché non proseguire il viaggio l’indomani, con
maggiore sicurezza?
L’uomo accettò. Sedette vicino al fuoco e, mentre
mangiava, raccontò com’era accaduta la disgrazia.
Barberin era rimasto schiacciato sotto alcune impalcature crollate d’improvviso e, siccome era stato appurato che non avrebbe dovuto trovarsi nel luogo in
cui l’incidente era accaduto, l’imprenditore si rifiutava
di pagargli qualsiasi indennità.
«Povero Barberin» concluse l’ospite, «è proprio sfortunato. Ci sono dei furboni che, per un incidente del genere, riuscirebbero a spremere tanto da vivere di rendita. Ma lui non avrà niente. Già, niente.»
E ripeté più volte “è proprio sfortunato”, scuotendo la
testa con aria di commiserazione, mentre asciugava al
fuoco le gambe dei pantaloni incrostati di fango. A giudicare dalla sua espressione, si sarebbe storpiato volentieri pur di godere di una buona rendita per il resto dei
suoi giorni.
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«Io, comunque» riprese dopo un po’, «gli ho consigliato di fare causa all’imprenditore.»
«Una causa del genere costerebbe molto.»
«È vero, ma riuscendo a vincerla…»
Mamma Barberin avrebbe voluto partire subito per
Parigi, ma non era cosa da poco fare un viaggio così
lungo e costoso.
L’indomani mattina scendemmo al villaggio per
consultarci con il parroco. E il parroco disse che era
assurdo partire così di fretta; prima bisognava sapere
se la presenza di mamma Barberin accanto al marito
poteva essere utile o no.
Scrisse al cappellano dell’ospedale dove il ferito era
ricoverato e qualche giorno dopo arrivò la risposta.
Invece che mettersi in viaggio, era preferibile che
mamma Barberin inviasse al marito una certa somma
di denaro, indispensabile per intentare causa all’imprenditore al cui servizio si era infortunato.
Trascorsero i giorni, trascorsero le settimane. Di
tanto in tanto arrivavano lettere con nuove richieste di
denaro. L’ultima, più pressante delle altre, suggeriva di
vendere la vacca, se non c’era altro modo di procurarsi del contante.
Solo chi ha vissuto in campagna, fianco a fianco
con i contadini, sa quanta angoscia e quanto dolore si
celino dietro queste tre parole: “vendere la vacca”.
Per un naturalista la vacca è un ruminante, per chi va
a passeggio in campagna è un animale che dà una nota
caratteristica ai campi, quando alza dall’erba il muso
umido di rugiada; per il bambino di città è la sorgente
del latte e del formaggio. Ma per il contadino è molto di
più e molto di meglio; per quanto povera e numerosa
possa essere la sua famiglia, la presenza di una vacca
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nella stalla gli dà la certezza di non soffrire mai la fame.
Con una cavezza o un semplice giunco legato intorno alle corna qualsiasi ragazzo è in grado di portarla a pascolare e, la sera, c’è burro per la minestra di tutta la famiglia e latte per cuocere le patate. Padre, madre, figli, tutti,
grandi e piccoli, vivono della vacca.
Mamma Barberin e io vivevamo così bene della nostra che, fino a quei giorni, non avevo quasi mai mangiato carne. E poi, la vacca non era per noi solo una fonte di nutrimento, era una compagna, un’amica. La vacca
non è affatto una bestia stupida come molti credono; al
contrario, è intelligente e ha molte qualità, se si sa educarla nel modo giusto. Noi accarezzavamo la nostra, le
parlavamo, lei ci capiva e, dal canto suo, solo con l’espressione degli occhi, così dolci, riusciva a farci comprendere quello che voleva o che provava. Insomma,
noi le volevamo bene e lei voleva bene a noi.
E tuttavia dovemmo rinunciare a lei perché solo
vendendola sarebbe stato possibile realizzare la somma necessaria a Barberin.
Un mercante venne a casa nostra e, dopo aver esaminato con cura la Rossina, dopo aver detto e ripetuto
cento volte che valeva ben poco, che era una vacca da
poveri, difficile da rivendere, che non aveva latte e dava burro di cattiva qualità, alla fine concluse che, sì,
l’avrebbe presa, ma solo per bontà d’animo, per aiutare comare Barberin che era una così brava donna.
La povera Rossina, come se avesse capito che cosa stava per accaderle, si impuntò rifiutandosi di uscire dalla stalla, e cominciò a muggire.
«Passale dietro e spingila» mi disse il mercante,
porgendomi la frusta che portava appesa al collo.
«Oh, no, questo mai» si oppose mamma Barberin.