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IL GRANDE CARLO BORROMEO E LA RIFORMA CATTOLICA
Lezione tenuta dal Dr. Franco Clementi all'Unitre di Tirano il 15 Dicembre 2009
Il tema dell'Unitre di quest'anno verte sulla “speranza” mentre quello dell'anno
scorso studiava le nostre “radici”. Non sono due temi staccati: difatti una speranza senza
radici non è una speranza ma un' “illusione”. Uno può sperare di vincere alla lotteria, ma
se sperasse senza aver comprato prima almeno un biglietto sarebbe solo un senza-testa;
andare a cercare nella storia del passato può essere considerato come rovistare in
qualche cassetto, per trovarvi un biglietto dimenticato. Per questo ritengo opportuno
parlare di fatti storici, i cui effetti son giunti anche ai tempi presenti, eventi capaci di
portare in qualche modo anche a noi un soffio di speranza.
Alcune osservazioni :
Il nome Carlo o Carla, da solo o unitamente ad altri nomi (come Carlo Maria ,
Carlo Felice, Giancarlo… o in forma di diminutivo, Carluccio, Carlino, Carlotta…, è
presente in Italia 770.000 volte, vale a dire nell’1,12% della popolazione ed è 11° per
rango. In Lombardia poi si accentra ben un terzo delle persone che portano questo nome,
specialmente nella forma declinata al femminile.( Se poi dovessi fermarmi solo a questa
sala, vedo che io sto parlando seduto fra un Carlo e una Carla, e davanti a me vedo
almeno quattro altri Carli.. La percentuale salirebbe oltre il 5% !). Si potrebbe pensare
che la diffusione del nome sia dovuta all’influenza di regnanti, come Carlo Magno, Carlo
V , Carlo Alberto..., ma l’ infittirsi di tale appellativo in Lombardia, fa pensare che il
fenomeno sia piuttosto da collegarsi alla notorietà, alla fama, al culto di un grande
Santo , che pur esseno nato sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, esplicò la sua
attività soprattutto nelle diocesi della nostra regione, San CARLO BORROMEO;
di ciò fa fede il fatto che la diffusione del nome sia accompagnata da una
parallela frequenza dei luoghi di culto; dappertutto edicole sacre, cappelline, chiesette ed
anche templi di maggior mole che sono dedicati a questo grande Santo (vicino a noi la
chiesetta sita nell’omonima via, quella che dà il nome a una frazione di Poschiavo, quella
al bivio per Ponte, quella appena sopra Semogo…). In molte chiese, poi, anche se al
Borromeo non è dedicato alcun altare, egli è raffigurato fra altri santi, e in ispecie tra
San Sebastiano e san Rocco, compatroni protettori dalla peste, riconoscibile per il suo
grosso naso adunco. Certamente la fama di S. Carlo si è diffusa anche fuori della nostra
regione e dell’Italia. Durante i miei viaggi all'estero ho notato la frequente presenza di
templi che fanno riferimento al Borromeo, soprattutto dove hanno regnato gli Asburgo,
che a lungo furono presenti in Lombardia; a Vienna … a Cracovia…( vi faccio notare che
anche Papa Wojtila si chiamava Carlo..), Anche molte personalità lombarde famose
come il poeta dialettale Carlo Porta e il patriota Carlo Cattaneo. confermano la tendenza
a fruire di tale appellativo. Infine, l’ultimissimo Santo lombardo, Don Gnocchi, è un
Carlo.
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Altro spunto di considerazione: nell’ultimo secolo la Chiesa universale ha avuto
ben tre Papi lombardi, Ratti di Desio (MI), Roncalli di Sotto il Monte (BG), Montini di
Concesio (BS), a testimonianza di un cattolicesimo di base forte, ben radicato. Ma a parte
ciò, si può dire che molto attive sono state in Lombardia le iniziative religiose o sociali
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d’ispirazione cattolica: potrei citare fra le altre, così come mi vengono in mente senza
pensarci troppo, l’Università del Sacro Cuore, il movimento di Comunione e Liberazione,
l’Ospedale universitario di S.Raffaele…
Per quanto esposto dunque, possiamo chiederci con forti ragioni se tutto ciò non sia un
lontano lascito dell’attività esplicata dal Borromeo.
Aveva dunque ben ragione il venerato Cardinale Schuster ad affermare che la Chiesa
lombarda oltre che “ambrosiana” doveva chiamarsi “carolina”.
Era nato CARLO ad Arona nel 1538 quartogenito (dopo due sorelle e un fratello) del
conte Gisberto e di Margherita Medici sorella di Gian Giacomo detto il Medeghino,
nonché di Giovan Angelo, futuro Papa Pio IV.
La sua vita viene generalmente descritta come divisa in quattro fasi, corrispondenti alle
diverse sedi in cui visse.
La prima presso la casa paterna nella Rocca nobiliare di Arona, presso Stresa, la seconda
a Pavia per svolgervi gli studi universitari, la terza a Roma dove ricoprì importanti
incarichi in Vaticano, l’ultima a Milano come Arcivescovo fino alla morte: ma come
vedremo, ai fini della sua parabola spirituale, potremo dire che la esistenza di Carlo sia
divisa in due soli periodi: quello che precede e quello che segue il momento della sua
cosiddetta “conversione”.Conversione intesa non come il drammatico passaggio ad una
vita di fede da uno stato di incredulità o di indifferenza religiosa o da una condotta
libertina, perché mai egli avrebbe affermato di non essere un buon cattolico, bensì da
descriversi come un “salto di qualità”: insomma il passaggio da una normale, ordinaria
pratica religiosa alla passione ardente, radicale per la santità.
Ma andiamo con ordine:
- ARONA.:Dei giorni trascorsi nel suo luogo natale, non si hanno molte notizie. Ciò è in
parte dovuto alla scarsa attenzione che un tempo si poneva sui bambini e sui giovinetti,
che vivevano in un mondo a parte, specie nelle case dei “signori”. Ma se ci pensiamo la
cosa è comune a gran parte dei Santi e anche dei non Santi, a meno che, come le due
Sante Terese non ci abbiano scritto un’autobiografia, ove accennino ad episodi della
prima età. Chi sa qualcosa sull’infanzia di Santa Caterina o di San Francesco? E dello
stesso Gesù Cristo bambino, a parte l’episodio del ritrovamento nel Tempio, cosa
sappiamo? Di Carlo veniamo informati della sua destinazione da parte della famiglia ad
una carriera ecclesiastica, quando a 7 anni subisce la tonsura e veste l’abito talare, per
poter godere dodicenne dei proventi annessi al titolo dell’Abbazia di S.Gratiniano e
Felino di Arona. Era infatti costume nei casati nobili del tempo, che al primogenito
maschio si destinassero tutti gli averi degli antenati, mentre ai restanti figli maschi
restasse solo o diventar preti, o arruolarsi per una carriera militare, o darsi alle arti
diplomatiche. Per le figlie poi le possibilità erano: o trovar un marito adeguato ad
arricchire il patrimonio, o farsi monache. La scelta della via ecclesiastica per Carlo fu poi
certamente resa più interessante dal fatto di avere uno zio Cardinale, che avrebbe potuto
aiutarlo a far carriera. Altra notizia, la perdita della madre all’età di dieci anni: non
sappiamo quale sia stata la conseguenza di questa grave perdita, sulla psicologia del
ragazzo. Margherita aveva fama di essere una donna bellissima, ma aveva passato tale
dote al figlio maggiore, Federico, mentre Carlo aveva preso piuttosto dal padre, alto,
scarno, ossuto, con il gran naso tipico dei Borromeo.
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PAVIA: a 16 anni Carlo, dopo i primi studi fatti privatamente ad Arona, va all’Università,
per studiarvi diritto “pontificio e cesareo” (noi diremmo oggi “civile ed ecclesiatico”).
Studia con profitto e del periodo rimangono le numerose lettere scritte al padre (morto
quando Carlo aveva 20 anni) e poi allo zio. In esse oltre alle assicurazioni sull’osservanza
della lettura dell’Ufficio divino, impostagli dal suo stato, ci sono frequenti richieste di
soldi per mantenere uno “status” degno della famiglia Borromeo, che peraltro non è
particolarmente ricca. Sono lettere che assomigliano molto a quelle di tutti gli studenti
fuori casa o dei militari di leva imperniate sulle famose 7 “S” . “Sono Sempre Senza Soldi
Speditemeli Subito Saluti …”. Niente bagordi, ma almeno due servitori, abiti congrui,
pranzi ecc.. Nel Novembre del 1559 a 21 anni il nostro Carlo si laurea a pieni voti in
“utroque jure” come si diceva allora.
ROMA : Ed ecco, l’imprevisto colpo di scena. Non passano più di tre settimane e a Roma
viene eletto Papa lo zio Angelo Medici, col nome di Pio IV. Questi , seguendo un’usanza
che tarderà ad essere superata, fra i primi provvedimenti chiama presso di sé oltre ad
altri parenti i suoi due nipoti prediletti, i due fratelli Borromeo. Federico che nomina
subito Capitano generale dell’esercito pontificio e Prefetto della flotta di Spagna, mentre
Carlo diventa non solo Cardinale ma anche Amministratore della Diocesi di Milano,
Segretario di Stato, Protettore del Portogallo, delle Fiandre e dei sette Cantoni cattolici
svizzeri, Referendario di Segnatura, Protonotaro apostolico, Protettore dei Carmelitani,
Francescani, Umiliati, Canonici regolari, Gerosolimitani e così via, vi risparmio una
dozzina di altri incarichi, quasi tutti arricchiti da ricche prebende, che cambiano
radicalmente la condizione economica e sociale di Carlo. Come vedete, per un
ventiduenne appena laureato, una carriera rapida e brillante, che gli consente, tra l'altro,
di maritare anche tutte le sorelle con eccellenti partiti principeschi. Questo accasamento
di parenti da parte dei Papi del ‘500 viene chiamato “nepotismo”. (Meno male che io
non sia diventato Papa in quell’epoca, altrimenti avrei avuto il mio bel daffare a
sistemarne 16 di nipoti!!).
Carlo può ora fare la bella vita tra feste, carnevali, eleganti carrozze, accademie
letterarie, come quella chiamata “Notti vaticane”, anche se su di lui nessuno mormora di
dissolutezze : sfarzo sì, dunque, ma per il resto una vita innocentissima, irreprensibile,
stimata per la serietà di applicazione nel lavoro.
Ma all’improvviso,nel novembre del 1562, avviene un fatto determinante e doloroso: il
fratello maggiore, Federico, il bello della famiglia, intelligente, brillante, che prometteva
di dare ulteriore gloria e discendenza al casato come recente sposo dell’erede di un
illustre famiglia ducale, una Della Rovere di Urbino, dopo otto giorni di malattia viene
improvvisamente a morire. Carlo rimane molto scosso. Gli si propone, come maschio
superstite della famiglia, di lasciare lo stato ecclesiastico, cosa facilmente possibile
perché era ancora appena un suddiacono, rinunciando ai benefici ecclesiastici e di
sposarsi con qualche ricco partito aristocratico per dar una discendenza al suo ramo dei
Borromeo. Ma egli rifiuta, e per mettere un sigillo su questo rifiuto , pochi mesi dopo si fa
ordinare sacerdote. La sua crisi spirituale è profonda: interpreta la scomparsa dell’amato
fratello come un monito del Cielo perché egli lasci le cose caduche e dedichi tutto ciò che
prima faceva per onorare il suo casato, per dare invece gloria alla Madre Chiesa,
impegnandosi nella sua urgente riforma e per servire il Signore suo Dio. Cancella tutti gli
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appuntamenti mondani, si sprofonda nel lavoro, che in quel periodo comprende un
grande sforzo organizzativo per la terza fase del Concilio di Trento, che su suo ispirato
suggerimento allo zio Papa Pio IV, si era riaperto per l’ultima sessione proprio nel
Gennaio del 1562. La sua vita si ispira ad un’austerità severissima, la sua attività diventa
frenetica, chiede ripetutamente di potersi trasferire a Milano dove aveva il titolo di
Amministratore, ma il Papa, che lo chiama “il mio occhio destro” non vuol privarsi di lui.
Finalmente il 4 Dicembre del 1563 il Concilio si chiude e tre giorni dopo, festa di
Sant’Ambrogio, Carlo viene consacrato vescovo e nel Maggio successivo Arcivescovo del
capoluogo lombardo. Ma non può recarsi subito nella sua sede, perché rimangono
ancora delle incombenze per l’autenticazione e la corretta interpretazione delle norme
sancite dal Concilio.
MILANO. Poté arrivare alfine a Milano, solo il 1° Settembre del 1565, ma dovette quasi
subito ripartire per diverse ambascerie e per la malattia e la morte dello zio Papa, e del
successivo Conclave che grazie alla influenza e la mediazione di Carlo portò all’elezione
di un Ghisleri, che ripetè nel nome assunto, PIO V, la volontà di Riforma della
Chiesa,espressa dal predecessore. Poichè il nuovo eletto desiderava che Carlo restasse
ancora accanto a lui, Carlo stesso gli fece presente il primo editto del nuovo Pontefice,
che in applicazione del Concilio intimava a tutti i Vescovi di risiedere nella loro Diocesi
pena la scomunica e la radiazione. Questo severo provvedimento era stato adottato per
troncare un'abitudine che era tra le cause di decadenza della Chiesa: vescovi, abati,
parroci , per sete di ricchezza, ambizione di potere, sfoggio d mondanità si curavano solo
di accumulare benefici e prebende e spesso non vedevano mai nella loro vita le sedi di
cui erano titolari, di cui peraltro godevano i redditi, trascurando la. missione per cui
erano stati consacrati. Il Papa dovette dunque obbedire a sé stesso e permise a Carlo di
tornare a Milano, nominandolo anche suo “legato personale” per aumentarne l'autorità
decisionale.
Come si presentava la diocesi più grande d’Italia? Dal punto di vista politico in
Lombardia, dopo lungo battagliare con gli Sforza e coi Francesi, comandavano gli
Spagnoli. Da quello ecclesiastico da quasi ottant’anni non comandava nessuno, perché i
precedenti pastori non vi avevano avuto residenza. Il clero, lasciato a sé stesso, era allo
sbando: quello diocesano ignorante (alcuni preti non sapevano nemmeno leggere il
messale…), impreparato ( colpa quanto mai grave in un’epoca in cui si dovevano
combattere le eresie protestanti), moralmente discutibile. Persino i membri di gloriosi
ordini religiosi lasciavano molto a desiderare. In certi conventi si faceva una vita da
gaudenti ; superiori che imitavano i gran signori, badesse, provenienti per lo più da ceti
aristocratici, con pose salottiere che tenevano ricevimenti mondani. Persino nelle
clausure si notavano degli andirivieni sconvenienti. Feliciano Ninguarda, futuro Vescovo
di Como, pressoché coetaneo di Carlo, racconta di avere trovato, durante un' ispezione
dei frati intenti a spiare dalla serratura i gabinetti delle monache... E poi litigi e tensioni
senza fine fra un convento e l’altro o all’interno dello stesso Ordine, canonicati e benefizi
affidati ai ragazzi, ai giovani delle più potenti famiglie perché fonte di ricche rendite. Lo
stesso Carlo, come abbiamo visto, ne aveva goduto.
Miserevoli le condizioni del popolo , stremato dalle conseguenze delle guerre e del
dominio straniero.
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Carlo Borromeo davanti a questo situazione per prima volle riformare sé stesso e la Curia
Arcivescovile. Vendette tutte le ricchezze, suppellettili, quadri, tappeti, argenterie, vasi,
arazzi, pellicce che aveva portato da Roma in settanta carri, dandone il ricavato ai poveri,
cui devolse anche il reddito di quasi tutte le prebende e commende di cui era
intestatario, rimettendone la maggior parte nelle mani della Santa Sede.
Volle un appartamento essenziale, poche cavalcature, le strettamente necessarie, pochi
servi disciplinati, pasti frugali. Aumentò per sé le penitenze, tolse dallo stemma tutti i
segni della nobiltà, lasciando solo il motto “Humilitas”. Poi si dedicò a riorganizzare la
chiesa che il Signore gli aveva affidato, seguendo i precetti del Concilio da poco concluso.
Le Archidiocesi, dette metropolite oltre al territorio loro proprio hanno il compito di
consigliare, coordinare e aiutare anche diocesi minori dette suffraganee, che tutte
insieme costituiscono una provincia ecclesiastica ; altre diocesi invece dipendono
direttamente da Roma e sono dette “di immediata soggezione”. Alla sede metropolita di
Milano facevano capo le seguenti diocesi suffraganee: Acqui, Alba, Albenga, Alessandria,
Asti, Bergamo, Brescia, Casale Monferrato, Cremona, Lodi, Tortona, Ventimiglia, Vercelli,
Vigevano. In pratica l’arcivescovo ambrosiano, sovrintendeva a mezzo Piemonte con una
lingua di terra fino all’attuale Canton Ticino, a mezza Liguria e a 2/3 della Lombardia.
Carlo dunque è appena arrivato che convoca in un Sinodo Provinciale tutti i vescovi delle
sedi indicate per discutere ed applicare i decreti del Concilio. Nelle riunioni che di primo
mattino durano talora fino alle 2 di notte, tutti prendono atto dello zelo e della volontà
di lavoro dell’arcivescovo “sopporta la fatica –dice un osservatore- come se fosse senza
corpo; quaranta ore senza prender cibo se stava trattando importanti negozi, né attende
intanto ad alcuna necessità del corpo suo”. ( quest'ultima frase mi fa venir in mente
l'on.Capalozza di Fano, che nel 1953, per fare ostruzionismo all' adesione dell'Italia al
Patto Atlantico, batté il record del discorso più lungo in Parlamento , 14 ore di fila, e per
questo fu soprannominato “ Vescica di ferro”...). Qualche collaboratore , non uso a tali
ritmi brontolava fra i denti, tanto che un anziano amico e protettore di Carlo, il Card.
Gallio, gli scrisse da Roma temendo per la salute dei padri sinodali e supplicandolo di
temperarsi. Carlo, saputo che a Roma nel frattempo erano morti vari cardinali, gli
risponde “Con la grazia di Dio son salvo, né è morto alcuno dei prelati nostri, mentre nel
vostro ozio romano avete lassato morire tanti cardinali…”. Insomma viene da credere
che a molti dei suoi sottoposti venisse la voglia di anticipare Don Abbondio, a cui ne “I
Promessi sposi”, difronte alla sublime zelo del Cardinal Federigo, scappa di esclamare
:”Oh, che sant’uomo… ma che tormento…!”. Un identico clima si produrrà quando dopo il
Sinodo provinciale viene convocato il Sinodo diocesano con la presenza di tutti i parroci
della grande diocesi. Tali raduni si prenderà l’abitudine di ripeterli con regolarità almeno
ogni tre anni. Ma non dovevano bastare queste attività d’indottrinamento sul clero già
consacrato; occorreva intervenire anche sulla preparazione di nuovi sacerdoti: ed ecco
Carlo si dedica alla costruzione di più moderni seminari, meglio dotati e forniti dei
migliori insegnanti. Ne deve sortire una classe di preti più istruiti e convinti della loro
missione. Non è però sufficiente vedere ogni tanto vescovi e parroci. Carlo vuole andare
a visitarli di persona in casa loro, nelle loro sedi, dove l’obbligo di residenza è vincolante.
Ma prima, per dare un esempio chiede al Papa di mandare da Roma a Milano un
visitatore a controllare la sua stessa attività nella sede vescovile ambrosiana. Poi
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comincia un continuo peregrinare in visite apostoliche e visite pastorali, di vescovado in
vescovado di parrocchia in parrocchia, anche in quelle più sperdute, raggiungibili solo a
piedi, quasi dimenticate sui monti, con ogni condizione atmosferica. E una volta
raggiunte il Cardinale non vuol andare a dormire nelle case dei più abbienti, ma solo
nella canonica, anche la più malmessa e miserevole e s’accontenta di pasti rabberciati
alla meglio, e dei pagliericci per letto. Molti gli aneddoti sulle disavventure corse durante
i suoi trasferimenti; notti passate in locande malfamate, torrenti superati a guado,
piogge che lo inzuppano fino all’osso.. La sua visita non si limita a fare una predichina e a
dare una benedizione; il cardinale si ferma e vuole essere informato di tutto: quante
anime ci sono, qual è la condizione degli edifici sacri, la situazione spirituale della
popolazione, quali sono i problemi e le necessità, la disciplina (o l’indisciplina) del clero
e vuol sapere di casi particolari di miseria e d’indigenza, che s’industria ad aiutare di
tasca propria. Il popolo lo segue ammirato e commosso perché capisce che è una persona
che in quello che dice ci crede davvero (penso che questa era, è e sarà sempre la vera
forza di ogni apostolato…): c’è gente che in vita sua non ha mai visto un vescovo ed ora
ha davanti agli occhi un uomo che viene da fuori, non già come altri a chiedere, a
prendere, a rubare, bensì a dare, a consigliare, a confortare. Capite ora ,voi, perché in
Lombardia ci sono tanti Carli ? E lì, in quegli umani contatti e in quelle espressioni
dell’amore cristiano che il popolo maturò l’affetto per il suo Arcivescovo. Il quale durante
questi viaggi ebbe modo di fare delle digressioni per accendere maggiormente il suo
spirito di pietà mariana: devotissimo della Madonna egli ebbe così modo durante un
viaggio a Roma di visitare Loreto, durante un viaggio nei Cantoni cattolici svizzeri di
recarsi alla Madonna del Sasso sopra Locarno ed ad Einsiedeln: nell’Agosto del 1580
ebbe modo di venire in Valtellina solo per visitare il nostro Santuario di Tirano ove passò
una notte in preghiera, passaggio che subito mise in allarme gli intolleranti Grigioni. Del
resto San Carlo fu sempre preoccupato delle sorti dei cattolici Valtellinesi, come
testimoniano gli otto posti riservati per la Valtellina e i due per la Valchiavenna, nel
Collegio Elvetico , un seminario da lui fondato a Milano per preparare buoni sacerdoti
nelle zone prossime alla terre protestanti.
Ma le prove supreme della carità Carlo le darà in occasione di due grandi calamità che
colpiranno la Lombardia durante il suo vescovato. Prima una grande carestia, dovuta a
una pessima stagione meteorologica, con Milano invasa dalla povera gente delle
campagne, priva di cibo, che scendeva per trovar qualcosa da mangiare: e Carlo a
prodigarsi, ad allestire mense (sotto i portici della curia vescovile si servivano tremila
pasti al giorno…),a vendere tutto quello che poteva, finanche i suoi vestiti migliori… E poi
la peste, con le strade percorse dai carri dei monatti , mentre dei cadaveri si scorgevano
abbandonati qua e là. Molti, in grado di scappare, abbandonavano la città lontano dal
contagio per luoghi più salubri. Il Cardinale invece, quanto più gli altri disertavano, tanto
più sentiva di farsi “prossimo” ai malati, recando loro i conforti religiosi ed esponendo
loro le reliquie più venerate (come quella del Santo Chiodo), intrepido in mezzo ai miasmi
della pestilenza ed al lezzo della morte. Dice commosso il Manzoni: “ Fu chiamata la
peste di S.Carlo, tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un
infortunio generale, essa (la carità)può far primeggiare il ricordo di un uomo, perché a
quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili dei mali; stamparlo nelle
menti, come un sunto di tutti quei guai, perché in tutto lo ha spinto e intromesso, guida,
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soccorso, esempio, vittima volontaria...”.
E poi le opere stabili di carità per i poveri, di assistenza ospedaliera, di cura per gli orfani,
le vedove, le ragazze traviate…tutte le sfaccettature della carità cristiana; e poi i rapporti
con le autorità civili, in primis i Governatori del Ducato di Milano, per una riaffermazione
dei diritti della Chiesa, andati persi dopo decenni d’incuria. Basti citare le discussione su
chi dovesse stabilire quali erano i giorni di festa, durante i quali erano proibiti i balli
(anche dei nobili) per non trascurare le cerimonie religiose… E poi la cura per la liturgia
durante le funzioni religiose, in cui Carlo ottenne che fosse al massimo rivalorizzato
l’antico rito ambrosiano… E la cura per la disciplina dei conventi, della cui decadenza si è
accennato. Tra le altre cose, a S.Carlo dobbiamo anche l'aver collaborato all'invenzione,
applicazione e diffusione del confessionale, nella forma che era conosciuta da noi fino a
pochi anni fa. Era richiesto che esistesse una grata fra il sacerdote e il penitente e che
entrambi fossero immersi nella penombra, sì da spersonalizzare entrambi, in modo da
confrontare fra loro solo la figura di Cristo e quella del peccatore, chiunque li
rappresentasse. Dopo l'ultimo Concilio pur lasciando in funzione questo tipo di
confessionale, si è pensato di non trascurare anche una funzione di intercomunicazione umana fra confessore e penitente. Il confessionale viene poi addirittura
parodiato in certe trasmissioni televisive, dove taluni personaggi si industriano a render
pubblici i propri vizi, quando avremmo tanto bisogno che fossero pubbliche le virtù.
Altra curiosità: a Carlo Borromeo dobbiamo il nuovo modello architettonico di chiesa,
che egli vuole priva di navate, ad “aula unica. Lo scopo è rendere meglio visibile la sede
dell'Eucarestia, che viene posta su un alto Ciborio in fondo al presbiterio, quasi sotto
l'abside, per farla divenire il centro prospettico non solo dell'edificio , ma anche e
soprattutto dell'attenzione dei fedeli, non più nascosti o distratti dai pilastri o dalle
cappelle laterali. E perché i fedeli che sono in fondo alla chiesa, lontani dall'altare, si
rendano conto di che cosa succede nel momento culminante del sacrificio, introdusse il
campanello che scandisce la preghiera eucaristica.
Tutte queste attività, se pure a Carlo attirarono l’amore del suo gregge, non mancarono di
procurargli anche antipatie e rancori: da molti di coloro che erano privati di qualche
illegittimo beneficio, per vie traverse si cercò di farlo rimuovere ed allontanare da
Milano. L’episodio più grave fu l’attentato avvenuto il 26 Ottobre 1569, quando un frate
dell’0rdine degli Umiliati, Gerolamo Farina, mentre Carlo era in preghiera nella sua
cappella, gli sparò un colpo d’archibugio alla schiena: il manto vescovile rimase
bruciacchiato, ma l’arcivescovo rimase miracolosamente illeso, benché fra le due scapole
presentasse una grossa ammaccatura, che gli lasciò in seguito solo una piccola cicatrice.
L’Ordine degli Umiliati , in seguito a ciò, fu definitivamente sciolto dal Papa.
San Carlo morì a 46 anni, nel 1584. Come già accennato, aveva l’abitudine di fare visita
ai più noti santuari durante i suoi viaggi. Così nell’Ottobre di quell’anno dopo aver
pregato davanti alla Sindone a Torino si recò a Varallo, sul Sacro Monte, per compiervi gli
esercizi spirituali; lì fu colto da alta febbre. Riportato a Milano vi morì la sera del 3
Novembre, dopo l’Avemaria: per questo si festeggia il 4, perché allora il nuovo giorno
cominciava dopo l’Avemaria.
La descrizione dei funerali fa passare i brividi: la salma dell’Arcivescovo, vestita di tutti i
paramenti sacerdotali uscita dal palazzo arcivescovile, come arrivò nella Piazza del Foro
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dell’Ortolano, detta allora “El Verzé”, trovò una moltitudine immensa: tutta la città era
accorsa a salutare Carlo. Come il feretro cominciò a scorrere davanti alla folla, tutti
cominciarono a piangere, in ginocchio, levando le braccia al cielo e gridando
“Misericordia…misericordia…”, e più oltre, ancora ad ogni crocicchio:
“Misericordia…misericordia..” finché la salma entrò in Duomo per esservi tumulata,
provvisoriamente ai piedi della scalinata che porta al coro senatorio; più tardi le sarà
allestita una cappella detta “scurolo”.
Prima conclusione: Il corso della vita del nostro personaggio potrebbe essere preso ad
esempio per dimostrare come le vie di Dio siano diverse da quelle degli uomini e come i
disegni di questi possano essere completamente vanificati e ribaltati dai piani del
Padreterno. Difatti il matrimonio dei genitori di Carlo era stato architettato dal
Medeghino stesso per certe sue ambizioni territoriali e politiche, desiderando egli
estendere la sua influenza e possibilmente il suo dominio dal Lago di Como al Lago
Maggiore: ma quando gli Spagnoli riuscirono a mettere un po’ d’ ordine nella conquistata
Lombardia, la costruzione dei sogni del Medeghino svanì.
E quando qualche decennio dopo lo zio Pontefice chiamò a Roma il nipote Borromeo
per farne uno svagato monsignore della gaudente corte vaticana, dovette cambiare i suoi
programmi e procurargli ben più alti compiti. Nessuno dei due aveva previsto che il
Padreterno avrebbe loro mandato un Santo.
Una seconda conclusione viene a portarci quello spiraglio di luce di cui si parlava
all'inizio. I nostri tempi ci dànno ansietà e preoccupazioni; talvolta guardandoci attorno,
ci viene da pensare che il Signore, che volle punire gli Ebrei deportandoli a Babilonia, ora
per punirci dei nostri peccati, con moto inverso,abbia portato la Babilonia in mezzo a
noi. Ma i tempi di San Carlo non erano certamente migliori dei nostri per le condizioni
della moralità pubblica e privata, eppure una volontà ben determinata è stata capace di
rianimare, spronare, riformare un'intera società, ridarle un'anima, indicarle un cammino.
A noi che oggi ci lamentiamo della decadenza dei costumi, dal suo esempio viene offerta
una via di uscita e una concreta speranza.
Oggi ad Arona si eleva la grande Statua di San Carlo, alta più di 20 metri. Mentre il corpo
è fatto in lamiera di rame, la testa e le mani sono in bronzo, quasi a dirci quanto il
pensiero e le opere del Santo meritino di essere sottolineate con un materiale più
resistente. Se fosse possibile a me piacerebbe immaginare di aggiungere un cuore
d'oro.
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