1 francesco de sanctis, un intellettuale militante Le due pagine della

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1 francesco de sanctis, un intellettuale militante Le due pagine della
francesco de sanctis, un intellettuale militante
Le due pagine della sua vita
Francesco De Sanctis nacque a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis) il 28 marzo1817 da
una modesta famiglia. Appresi nel suo paese i primi rudimenti dell'italiano e del latino, si trasferì a
nove anni a Napoli presso uno zio sacerdote, lo zio Carlo, che teneva una scuola privata. Lo zio lo
imbeveva di retorica, ma egli leggeva per conto suo tutto ciò che gli capitasse fra le mani. Non più
confacenti alla sua indole furono i due successivi insegnanti, l'abate Fazzini, mezzo sensista e
mezzo cattolico, e l'abate Garzia, uno scolastico di vecchia cultura, presso il quale iniziò gli studi
legali. Ma finalmente passò alla famosa scuola superiore per l'insegnamento delle lettere italiane
tenuta dal marchese Basilio Puoti. Ivi, scrive il De Sanctis scherzando, “davamo opera a riempire i
nostri quaderni di bei modi di dire, a rotondare i nostri periodi, a studiare con atteso animo
grammatiche e rettoriche, trecentisti e cinquecentisti, pieno il petto di sacro orrore verso il
forestierume, e ben risoluti a non essere mai altro che italiani di lingua, di stile e di pensiero, stando
come torre fermi e lasciando pur dire gli sciocchi che ci davano la baia e ci chiamavano per istrazio
puristi”. Ma, se il Puoti era un purista, era altresì un uomo di ingegno, un gran cuore e, specie nei
primi anni, un fervido maestro, sicché il D. S., pur destinato ad occuparsi di ben altri problemi, ne
trasse per sua stessa confessione giovamento e gli serbò viva gratitudine. Un'apoplessia dello zio lo
obbligò a lasciare gli studi per sostituirlo nell' insegnamento; fu nominato altresì insegnante nel
Collegio Militare della “Nunziatella” e aprì una scuola per conto proprio, scuola che, nata come
appendice a quella del Puoti, dovette poi di gran lunga superarla, non senza malumore del
marchese, come è destino di quelli che vengono sorpassati. Sono questi della prima scuola, come si
usa chiamarla per distinguerla dall'ultimo insegnamento del D. S. in Napoli, l'universitario, anni
fervidi, operosissimi, in cui docente e discenti, in pieno affiatamento, mettevano già in atto
quell'unità inscindibile dei saperi che deve essere nell'azione educativa, e già praticavano una
modalità laboratoriale di scuola.
Siamo al '48, e precisamente al 15 maggio, il giorno del funesto eccidio dei rivoluzionari di
Napoli; ebbene, molti di questi erano della sua scuola: segno del profondo valore umano del suo
insegnamento e dell' intima coerenza tra pensiero e azione. Combatte anzi egli stesso, e poco manca
che non sia ucciso. Poiché era stato intanto chiamato a far parte di una commissione per la riforma
dalla pubblica istruzione, elabora prospetti che accusano fortemente l'influsso del Cuoco, ma essi
non sono nemmeno discussi, per l'avanzare della reazione. Per questa non solo il D. S. viene privato
della cattedra al Collegio Militare, ma è costretto anche a chiudere la scuola privata e a ritirarsi,
ospite del barone Francesco Cuzzolini. in Calabria. Nel dicembre del '50 viene arrestato e condotto
nella prigione di Castel dell'Ovo, per false voci di congiura contro il re. Questi mesi di prigione non
sono per lui senza un profondo significato intellettuale e spirituale, poiché nell'austerità della
solitudine si libera da certo suo romanticismo, per acquistare una visione del mondo più virile e una
più robusta fede nel progresso umano, e insieme l'accettazione del dolore, come momento
necessario del progresso stesso. Tutto ciò gli deriva dallo Hegel, che appunto ora legge nella sua
lingua, studiando il tedesco.
Dopo più di tre anni di carcere, sebbene riconosciuto innocente, è obbligato da un ordine del
re ad andar esule in America; se non che, sbarcato a Malta, può raggiungere il Piemonte. Ivi non
accetta per dignità il soccorso che il governo a lui offre come esule, e vive modestamente,
insegnando nella scuola privata della signora Elliot e collaborando con alcuni giornali. Per questo
acquista subito grande fama.
Nel '56 lo troviamo a Zurigo come insegnante di letteratura italiana nel Politecnico, e gli
anni zurighesi molto gli giovano per il contatto con gli ingegni più chiari di Europa, da Mommsen a
Wagner, da Marx a Mazzini. Legge a una scolaresca entusiasta i poeti della nostra letteratura,
specialmente Dante, Petrarca, Ariosto, Manzoni, e il Saggio sul Petrarca risale appunto a questi
anni.
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Scoppiata la guerra del '59, non può per ragioni di età essere accolto come volontario; nel
giugno del '60 lascia definitivamente Zurigo per Napoli, dove il Borbone aveva concesso e firmato
la costituzione. Dopo l'entrata di Garibaldi è chiamato dal governo della dittatura alla Direzione
della Pubblica Istruzione: vi rimane poco, ma opera, specie nella vita universitaria di Napoli molti
salutari cambiamenti ispirati non già da ragioni di parte, ma da pacati giudizi scientifici.
Nel '61 è eletto deputato del Regno d'Italia, e poi chiamato dal Cavour come ministro della
Pubblica Istruzione. Egli ha scritto una volta: « La mia vita ha due pagine: una letteraria, l'altra
politica .... Sono due doveri della mia storia, che continuerò sino all'ultimo». Ebbene, in questi anni
prevale la pagina politica; il fine a cui tende è la costituzione di un partito progressista di contro al
partito conservatore, e così lentamente prepara quella che sarà poi la «rivoluzione parlamentare» del
'76. Dopo il '65, senza tuttavia abbandonare la politica, ritorna progressivamente agli studi: pubblica
nel '66 i Saggi critici, raccolta di articoli che già aveva sparsamente dato in luce, e li ristampa nel
'69 insieme col riveduto Saggio sul Petrarca; diviene anche collaboratore assiduo della “Nuova
Antologia”. Ma la sua principale e più gloriosa fatica è la Storia della Letteratura Italiana, che, nata
quale compendio per i licei, gli si trasformò, man mano che la scriveva, in opera scientifica, come
era naturale, data la tempra dello scrittore. Vi pose mano nel '68 e la terminò alla fine del '71,
sebbene anche il secondo volume, cioè l'ultimo, rechi la data del '70, come già il primo.
Quest'opera, sebbene sembri avere un'origine occasionale, è preparata da più che un ventennio di
studi scientifici e di esperienze didattiche. Per ragioni editoriali in quest'opera monumentale vi
sono, ma dovute a motivi esterni, alcune aporie: la parca trattazione del Petrarca e del Guicciardini,
dei quali si era occupato in saggi appositi; scarsissimo poi è lo sviluppo dato al secolo XIX, di cui
però tratta ampiamente nelle lezioni che tenne come professore dell' Università di Napoli, dal ‘71,
anno della nomina, al '76, anno del ritiro da lui stesso chiesto; per non dire dei due articoli sul Parini
e sul Foscolo, pubblicati nella “Nuova Antologia” del '71. Scrive ancora altri articoli, raccolti nei
Nuovi saggi critici (1872), e tiene conferenze al Circolo Filologico di Napoli; negli ultimi anni si
accinge, attraverso un corso universitario tenuto nel '75-76, ad un'opera sul poeta della sua
giovinezza, il Leopardi, che la diligenza di uno scolaro ci ha trasmesso; opera vasta, riposata e di
carattere analitico, a differenza di molti altri saggi, in cui la veduta sintetica predomina. Ma resta
purtroppo interrotta; come interrotte restano anche le sue memorie (La giovinezza), per le quali egli,
già vecchio e in mal ferma salute, si valeva dell'opera di una nipotina. Intanto, anche la politica
aveva continuato a sollecitarlo: la questione romana, la formazione del partito di sinistra lo ebbero
tra i più fervidi sostenitori. Nel '78 e dal '79 all' 82 fu di nuovo Ministro dell'Istruzione sotto due
successivi gabinetti Cairoli. Morì a Napoli il 29 dicembre 1883.
Un pensiero conquistato con enorme impegno intellettuale
Il D. S. è il più grande critico del sec. XIX e uno dei maggiori critici di tutti i tempi e di tutti
i luoghi. Il suo nome è oggi pronunciato con quel rispetto che basta a dare anche agli inesperti un'
idea di ciò che rappresenta. Egli non divenne grande rapidamente, non raggiunse la fama subito, e
anche questa è una conferma importante, perché la grandezza presuppone sempre un lungo e
faticoso percorso. Da quando, giovane ancora, non tardò a scoprire quanto di formalistico
permaneva nell' insegnamento del Puoti, a quando nel positivismo nascente vide, già vecchio, un
qualche correttivo alle languidezze romantiche, la sua vita fu una continua ricerca, un continuo
superamento. Un singolare bisogno di concretezza era in lui. Ciò gli giovò durante gli studi
grammaticali della sua prima scuola a fargli scoprire (né già subito, né senza parentesi logicistiche
di ispirazione leibniziana) il carattere intuitivo e individuale della parola, e a fargli dare più
importanza allo stile che alla lingua, con l'occhio già rivolto all' interno, al modo di concepire; e ciò
valse altresì a fargli combattere il concettualismo e l'allegorismo sociologico allora in voga, quando
dai problemi dello stile passò a quelli della critica letteraria vera e propria.
Ma un passo anche più risoluto fece infine ribellandosi alla teoria hegeliana di cui per un momento
aveva creduto di potersi appagare. Perché lo Hegel sosteneva sì l' identità di forma e contenuto, se
non che l'arte era per lui in definitiva « fase storica e transitoria della vita del genere umano» e
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sarebbe morta col trionfo della filosofia e l'apoteosi dell' idea. « Solo un certo grado della verità è
capace di essere esposto in opere d'arte: una verità cioè che possa esser trasfusa nel sensibile e
apparire in esso adeguatamente, quali sono gli dei ellenici.. .. Lo spirito del mondo moderno sembra
avere oltrepassato il punto nel quale l'arte è la via maestra per apprendere l'assoluto ». Il D. S. si
ribella a questo decreto di morte, affermando l'autonomia delle singole forme spirituali, che si
svolgono dialetticamente senza che l'una assorba l'altra: « Nell'uomo tutto l'essere apparisce ora
come riflessione, ora come immaginazione, ora come sentimento, ora come figura, ora come azione,
e ciascun momento attrae a sé tutti gli altri, dando ad essi il suo colore». Così sostituisce all'estetica
dell' idea la sua estetica della forma: 1'idea nell'opera d'arte indubbiamente c'è, ma «ha già
oltrepassato se stessa, non esiste più; ciò che esiste è la forma», dando a questa parola non già il
significato estrinseco degli accademici e dei retori, ma quello di organismo vivente, di
rappresentazione fantastica. Come si vede, già siamo a un passo dalla concezione odierna della
letteratura e dell’arte in genere.
Questi accenni all'attività teoretica del D. S. sono quanto mai scarsi, ma non per questo
dobbiamo tenerne poco conto, perché, anche in tale misura, sono opportuni a dissipare un mito
abbastanza radicato, quello di un D. S. che si sarebbe lasciato guidare da un istinto e da un fiuto
miracoloso, quasi posseduto dall'estro o invasato dal nume, come in antico si favoleggiava dei poeti.
Una tale veduta con i relativi corollari dominava una volta la critica, ma bisogna affrettarsi a
espellerla definitivamente anche dalla scuola, dove forse in qualche misura permane ancora. Il D. S.
poté pervenire ai risultati a cui pervenne perché tutto un travaglio speculativo era alla base della sua
critica; meglio ancora: prassi e teoria in lui si arricchivano e s'integravano a vicenda. E allorché
diciamo che egli sarà vero in ogni tempo, come sarà indubbiamente, tale proposizione non ha per
noi altro senso che storico. Sarà vero in ogni tempo, perché fu vero al suo tempo, come accade di
Heidegger, Sartre, Marx, Hegel, Kant, Vico, Bruno e di tutti gli altri pensatori, i quali risolsero i
problemi lasciati a loro dalle precedenti generazioni, e largamente promossero il progresso
culturale, sicché ad essi è indispensabile tornare per intendere ciò che in seguito è avvenuto.
L’arte e la vita
Il D. S. è la più superba conclusione di quell'epoca che denominiamo romantica. Quanto
essa aveva prodotto nel campo della critica e del pensiero egli accolse e insieme superò. La sua
soluzione dei problemi, se non coincide con la nostra, come in verità non potrebbe, le è tuttavia
prossima assai. Ho detto in sintesi quali risultati conseguì con la sua concezione dell' estetica della
forma: la battaglia per l'autonomia dell'arte, così lunga, così faticosa, con lui poteva dirsi vinta o
prossima almeno alla vittoria, mentre con gli scritti egli stesso si faceva il più felice applicatore
della sua dottrina. Se più tardi nell'epoca positivistica si tornò ai vecchi equivoci e alle vecchie
denominazioni, parlandosi ancora di un'arte sociologica, ciò accadde perché la parola del grande
maestro fu dimenticata e boicottata. Non solo, ma risolvendo problemi dell'arte, egli cercò di
risolvere problemi più generalmente umani. Perché all'arte non servono i puri estetisti, «i cicaloni
dai punti ammirativi», come egli stesso ebbe a chiamarli una volta. Costoro anzi le tolgono
l'ossigeno, il quale non può esserle somministrato se non dalla vita. «Sento dire l'arte per l'arte;
massima vera o falsa, secondo che la s'intende. Che a fare opera d'arte si richieda l'artista; vero.
L'uccello canta per cantare, ottimamente. Ma l'uccello cantando esprime tutto sé, i suoi istinti, i suoi
bisogni, la sua natura. Anche l'uomo cantando esprime tutto sé. Non gli basta essere artista, dee
essere uomo. Cosa esprime se il suo mondo interiore è povero o artefatto o meccanico, se non ci ha
fede, se non ne ha il sentimento, se non ha niente da realizzare al di fuori? » Dopo di che siamo in
grado di capire certe note della sua biografia spirituale; come mai egli, critico, tanto si appassionò
alla politica e al problema educativo. Ciò avvenne appunto perché aborriva da un'umanità
umbratile, mutilata, dimezzata. Aristocraticamente alieno da ogni contaminazione e intrusione
(l'arte doveva essere arte, la critica critica e via dicendo, e in ciò è dato scorgere la sua superiorità su
altri rappresentanti del romanticismo, Mazzini, Gioberti e simili, tutt'altro che esenti da preconcetti
e pregiudizi), egli voleva che nel poeta, nel politico, nel critico fosse alla base una grande ricchezza
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umana: questa era per lui la condizione necessaria. Tale ricchezza si ammira in tutti i suoi scritti, ma
principalmente nella Storia letteraria che fu detta “l'esame di coscienza” di tutta la vita italiana.
Permane ancora in essa un certo schema artificioso: gli autori vi sono un po' atteggiati come i
personaggi di un dramma, di cui uno progredisce rispetto all'altro o rispetto all'altro regredisce. Non
solo, ma non tutte le caratteristiche dei singoli scrittori o delle epoche sono oggi accettabili: questo
è ovvio, e il lettore poteva agevolmente dedurlo dal modo tutto storico e niente affatto mistico con
cui ho tentato di disegnarne la figura. Ma che importa? è un'opera monumentale, a cui giova sempre
ritornare, perché ricca di germi che possono largamente fruttificare; né si sa se più ammirarvi
l'acutezza del critico o il fervore dell'uomo. È una di quelle opere, poche sempre di numero, in cui si
può dire che un ingegno ha bruciato tutto se stesso senza residui. E pensare che nacque come una
cosetta da nulla, come un manuale scolastico. Uno dei secoli più succintamente trattati è
l'Ottocento, e ne spiegato la ragione; pure proprio da queste pagine viene forse il fascino maggiore.
Vi senti lo scrittore che giudica liberamente, cioè scientificamente, ma anche che s'interessa a quella
vita, perché fu la sua stessa vita. L'effetto che ne nasce è stupendo: avverti distacco e commozione
insieme. Forse questo amore latente è il segreto della sua maggiore preparazione per questo secolo,
e dell'averlo più frequentemente trattato in tutta la sua prassi critica e didattica.
De Sanctis scrittore e la sua fortuna
Ma non si direbbe tutto, se non si aggiungesse qualcosa circa lo stile. La leggenda di un D.
S. cattivo scrittore (perché si è detto anche questo) può far compagnia a quella di un D. S. uomo con
doti quasi da taumaturgo, se pure non sia anche maggiormente insulsa e banale. Sciatterie,
negligenze, frettolosità, nessuno vorrà negare, ma attenti a non confondere con queste quelli che
sono reali pregi e non difetti: le sue reazioni antiaccademiche e antiletterarie. Uno scrittore, che alla
pienezza della vita guardava a quel modo, non poteva non riflettere tale atteggiamento spirituale
nella sua prosa, la quale è agile e versatile, fatta per assecondare tutti i moti del pensiero e del
sentimento, dai più seri e commossi ai più lievi e scherzevoli, gli uni senza sussiego e
declamazione, gli altri senza banalità. Lo stile del D. S. è rapido, dinamico; scorre e non ristagna, ti
dà l'impressione di un continuo farsi: sente il caldo della vita. Pensatore di razza, egli non è tuttavia
un puro filosofo, che solo si appaghi nella elaborazione concettuale; per questo il suo pensiero si
riveste di forme sanguigne e balena rapido nell'immagine, più fermo nel complesso che nelle
singole parti, in cui avverti oscillazioni ed esitazioni. Questo basta già a differenziare il nostro
pensatore da altri, come per esempio dal Croce (il raffronto si porge spontaneo perché ciascuno
impronta di sé l'epoca a cui appartenne) antiaccademico e antiletterario egli pure, ma in cui la
sostenutezza e finezza stilistica, cresciuta con gli anni, attesta un'indole più strettamente speculativa
e rigorosamente sistematica, e temperamento più umanistico.
La fama del D. S. già grande al tempo della sua massima attività di scrittore, andò
diminuendo fin quasi a oscurarsi nell'età successiva, detta positivistica. In tale periodo, al grande
maestro si guardava con aria di compiatimento e di ironia; si esageravano certe sue sviste materiali,
e tutto il suo lavoro era considerato come effetto non d'altro che di immaginazione e di
improvvisazione. Nessuno allora avrebbe previsto quello che pur doveva accadere di lì a poco,
quando negli estremi anni del secolo, risorgendo l'amore per i problemi del pensiero, le sue opere
vennero di nuovo ristampate e cercate. Da allora ad oggi la fortuna del D. S. è stata in continua
ascesa, cosicché in mezzo a tanti tentativi di amorosa comprensione non è mancato nemmeno
l'entusiasmo retorico e parolaio.
Le principali tappe della sua vita
1817 - Nasce a Morra Irpina il 28 marzo.
1826 - Entra nella Scuola privata dello zio Carlo, a Napoli.
1831 - Passa nel Liceo dell'abate Fazzini, poi nello ”Studio” del Garzia.
1834 - Nella scuola superiore di Basilio Puoti.
1839 - Fonda la scuola privata superiore al Vico Bisi, mentre sostituisce lo zio Carlo nella sua.
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1841 - È nominato insegnante nel Collegio militare della Nunziatella.
1848 - Il 15 maggio combatte sulle barricate. Con la reazione è sospeso dal Collegio Militare.
1849 - Si ritira in Calabria.
1850 - È arrestato il 3 dicembre e rinchiuso in Castel dell' Ovo.
1853 - È liberato, ma deve andare in esilio: in Piemonte.
1856 - È a Zurigo, insegnante di Letteratura Italiana al Politecnico.
1860 - Il 6 agosto torna a Napoli. Nel settembre è nominato da Garibaldi Direttore dell' istruzione
pubblica. Assume importanti provvedimenti per rinnovare l'Università.
1861 – E’ deputato del Regno d' Italia e dal 20 marzo Ministro dell' Istruzione.
1865-76 - Torna agli studi: è il periodo della sua più intensa attività letteraria.
1871-76 – E’ professore all' Università di Napoli.
1878 e 1879-82 - Viene di nuovo nominato Ministro dell' Istruzione.
1883 - Muore a Napoli il 29 dicembre.
De Sanctis oggi
“Per ragioni ideologiche e strutturali, oltre che per le interpretazioni magistrali di molti autori e
testi, la Storia della letteratura italiana e tutta l’opera di D.S., dopo l’insuccesso che ebbero nel
clima culturale del tardo Ottocento, sono apparse, per gran parte del nostro secolo, come serbatoi di
verità critiche, di giudizi esemplari su scrittori, opere, momenti storici; il nome del D.S. è stato
identificato con quello del “critico” per eccellenza, dell’interprete privilegiato della nostra storia
letteraria. Oggi siamo abbastanza distanti da lui per vedere nella sua opera qualcosa di diverso da
questo, benché sia ancora utile richiamarsi a molte sue intuizioni. Ma possiamo riconoscere in lui
un grande modello, ancora “classico”, di rapporto organico tra esperienza umana, politica, storica,
letteraria, educativa; vi possiamo scorgere la sintesi più avanzata delle tensioni e delle scommesse
della letteratura risorgimentale e un ultimo atto di fiducia nella letteratura come esperienza umana
integrale, come organismo interamente immerso nel corso della storia, segno di salda coscienza
morale, creazione di realtà in divenire. Da D.S. la letteratura viene vissuta, e per l’ultima volta a un
livello così alto, in una chiave positiva e insieme problematica, come forza in cui si riassumono i
segni sparsi della civiltà, proiezione fiduciosa verso il futuro. Le esperienze successive dovranno
invece fare i conti, in un modo o nell’altro, con fratture e contraddizioni, con una separazione
ineluttabile tra i diversi ambiti del sapere e dell’esperienza.” (Giulio Ferroni)
Romualdo Marandino
Il “ritorno al De Sanctis” di Antonio Gramsci
« La mia vita ha due pagine, una letteraria, l'altra politica, né penso
a lacerare nessuna delle due: sono due doveri della mia storia, che
continuerò sino all'ultimo ».
F. De Sanctis
ESEMPLARITA'
L'idea di inserire il mio articolo in questo volume, dedicato alle celebrazioni desanctisiane, è
venuta dalla necessità di documentare, attraverso la cultura contemporanea, la riscoperta del grande
critico e l'attualità del suo pensiero.
Non è mia intenzione, però, limitare il discorso al campo specifico della critica letteraria e
svolgere così un lungo esame dei vari saggi pubblicati sull'argomento negli ultimi decenni; mi
preme, invece, evidenziare il ritorno al De Sanctis su di un piano sinteticamente culturale, il che
credo opportuno e quasi inevitabile fare attraverso il pensiero di Antonio Gramsci, attraverso cioè
una delle esperienze culturali più organiche del nostro '900.
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Questo, peraltro, non significa affatto forzare o alterare, per vaghezza di modernità, il
messaggio di pensiero e di azione che il nostro conterraneo ci affidò, bensì coglierne la
«esemplarità» come momento imperituro e dialettico, sempre comunque legata alle circostanze
storiche, che le diedero ragione e ne provarono l'efficacia.
« Cosa significa e cosa può e dovrebbe significare - afferma il Gramsci (Quaderni dal
carcere, VI) - la parola d'ordine di Giovanni Gentile «Torniamo al De Sanctis »? Significa
«tornare » meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all'arte e alla letteratura, o
significa assumere verso l'arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai
suoi tempi? Posto questo atteggiamento come « esemplare», è da vedere: 1) in che sia consistita
tale esemplarità; 2) quale atteggiamento sia oggi corrispondente, cioè quali interessi intellettuali e
morali corrispondano oggi a quelli che dominarono l'attività del De Sanctis e le impressero una
determinata direzione ».
E' chiaro che l'essenza della «esemplarità» del critico irpino non può né deve consistere in
un modello di coerenza ideologica né nell'elencazione retorica di pregi e virtù; insomma non può né
deve consistere in una forma di astrazione etica prodotta ai danni di una personalità fermamente legata ai problemi della sua epoca, né in un processo di distinzione, come fa il Croce, dei vari aspetti,
con conseguente diversa valutazione per ognuno di essi.
Francesco De Sanctis va giudicato integralmente e dialetticamente: integralmente, come unità di interessi culturali, politici, morali, sociali ecc.; dialetticamente, come realtà umana soggetta a
continua evoluzione intellettuale. In tal senso sono anche motivi di «esemplarità» il suo avvicinamento al positivismo (cfr. il discorso La scienza e la vita ) e il suo passaggio alla Sinistra
parlamentare, scelte che a certa critica potrebbero apparire errori di senescenza.
Dobbiamo, pertanto, individuare- la «esemplarità» del De Sanctis nella sua presenza culturale
organica e perciò stesso aperta a tutti i problemi, nella sua persistente capacità di concepire il suo
tempo, nella sua forte volontà di lotta contro ogni forma di reazione e di antidemocrazia.
« Il segreto dell'efficacia di De Sanctis - scrive Luigi Russo (il passo, tratto dal saggio Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, 1860-1885, è riportato dallo stesso Gramsci in Q.d.c., VI)
è tutto da cercare nella sua spiritualità democratica, la quale lo fa sospettoso e nemico di ogni
movimento o pensiero che assuma carattere assolutistico e privilegiato; e nella tendenza e nel
bisogno di concepire lo studio come momento di un'attività più vasta, sia spirituale che pratica,
racchiusa nella formula di un suo famoso discorso: La scienza e la vita ».
Ecco, dunque, conquistato per noi il senso della «esemplarità» del De Sanctis: efficacia di azione culturale e politica, originata da una forte sensibilità democratica.
EFFICACIA DI AZIONE CULTURALE
Per comprendere bene il senso e la portata dell'efficacia dell'azione culturale del De Sanctis,
occorre innanzitutto precisare, sempre col Gramsci, che cosa il critico irpino intese per «cultura ».
«Un giudizio del De Sanctis: “Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede,
perché manca la cultura”. Ma cosa significa ‘cultura’ in questo caso? Significa indubbiamente una
coerente, unitaria e di diffusione nazionale ‘concezione della vita e dell'uomo’, una ‘religione
laica’, una filosofia che sia diventata appunto ‘cultura’, cioè abbia generato un'etica, un modo di
vivere, una condotta civile ed individuale. Ciò domandava innanzitutto l'unificazione della ‘classe
colta’ e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del Circolo filologico, che avrebbe
dovuto determinare ‘ l'unione di tutti gli uomini colti ed intelligenti’ di Napoli, ma domandava
specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è ‘
nazionale , diverso da quello della Destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno poliziesco
per così dire. E' questo lato dell'attività del De Sanctis che occorrerebbe lumeggiare, questo
elemento della sua attività che d'altronde non era nuovo, ma rappresentava lo sviluppo di germi già
esistenti in tutta la sua carriera di letterato e di uomo politico ». (Q.d.c., VI).
La cultura, quindi, è prassi, condotta civile ed individuale, dimensione e misura di ogni
momento storico. Di qui l'efficace superamento, in chiave critica, del vuoto accademismo ancora
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dilagante. nell'800 (si leggano al riguardo le pagine de La giovinezza sulla scuola di Basilio Puoti),
dei ‘vecchiumi tradizionali’, de ‘la retorica’ e de ‘il gesuitismo’; di qui l'attivistica interpretazione
della lezione romantica; di qui la riaffermazione del carattere fondamentalmente evolutivo della
letteratura con la conseguente adesione al realismo. L'acquisizione più efficace del De Sanctis resta,
comunque, quella del ‘nuovo concetto di ciò che è nazionale, diverso da quello della Destra storica,
più ampio, meno esclusivista, meno poliziesco per così dire.
In una lettera del 1856, indirizzata ad Angelo De Meis, il Nostro, a proposito della scuola
siciliana sorta intorno a Federico II, osservava: « ... cominciò fin da allora quella scissione tra la
plebe e le classi colte che dura anche oggi, talché sembrano due società accampate nello stesso
luogo senza mescolarsi». Era la diagnosi più acuta mai fatta della nostra storia letteraria, era
l'individuazione di un male non solo artistico, ma innanzitutto sociale, politico e più generalmente
culturale. Non era però sufficiente la sola presa di coscienza, s'imponeva urgentemente una seria
soluzione: la nostra cultura doveva finalmente cominciare ad essere ‘nazionale’, cioè a dire
popolare e non di classe, doveva interpretare ed esprimere la civiltà italiana non nelle sue
distinzioni, ma nella sua unità.
Purtroppo la lezione del De Sanctis fu trascurata o fraintesa, sicché essa oggi rimane ancora
valida ed attuale. Al riguardo il Gramsci così polemizza col critico Giuseppe Antonio Borgese
(autore de Il senso della letteratura italiana – “Nuova Antologia”, gennaio 1930): «E' interessante
poco prima un brano sul De Sanctis ed il rimprovero buffo:“Vedeva vivere la letteratura italiana
da più di sei secoli e le chiedeva di nascere realtà”, De Sanctis voleva che la ‘letteratura’ si
rinnovasse, perché si erano rinnovati gli italiani, perché era sparito il distacco fra letteratura e
vita. E’ interessante osservare che il De Sanctis è progressista anche oggi nei confronti dei tanti
Borgese della critica attuale ». (Q. d. c., VIII).
E' questo un primo e basilare motivo, per il Gramsci, di un ritorno al De Sanctis. Ma non è il
solo. Per la realizzazione del suo programma culturale il De Sanctis individuò nella «unione di tutti
gli uomini colti e intelligenti» il momento propulsore ed indispensabile. Il concetto, in verità, potrebbe sembrare a primo esame un po' illuministico. Esso, però, va interpretato con maggiore attenzione. Non si tratta di un vago unanimismo, bensì di una convergenza di impegno intellettuale
intorno ad una concreta esigenza della civiltà italiana del tempo; né, peraltro, è da vedersi un paternalistico « abbassare lo sguardo » della classe dominante verso quella dominata, anzi in quella unione della «classe colta» manca decisamente ogni idea di classe, almeno in senso strettamente economico. Del resto il De Sanctis chiedeva un impegno per una «cultura nazionale e popolare»,
proprio al fine che essa cessasse di essere patrimonio di alcuni ceti e cominciasse ad essere patrimonio indiscriminante di tutti; cessasse di interpretare interessi ad aspirazioni particolari e «privilegiati», e si determinasse come rappresentazione reale di problemi «nazionali» e di sentimenti «popolari»; fosse, insomma, espressione dell'Italia e non di pochi italiani. Questo richiedeva un notevole
impegno, un fervore appassionato di lotta in un contesto socio-politico-economico notevolmente
difficile ed incerto.
Ecco perché, dice Gramsci: «La critica del De Sanctis è militante, non frigidamente
estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni di vita
antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della ‘struttura’ delle opere, cioè della coerenza
logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa
lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo del De Sanctis che
rendono tanto simpatico anche oggi il critico. Piace sentire di lui il fervore appassionato dell'uomo
di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di
nasconderli. Il Croce riesce a distinguere questi aspetti diversi del critico, che nel De Sanctis erano
organicamente uniti e fusi ». (Q. d. c., VI).
Così, nel concetto che solo una comune lotta può rinnovare la cultura, l' «unione di tutti gli
uomini colti e intelligenti» perde ogni sua etichetta aprioristica, in quanto strettamente connessa con
la lotta culturale ed essa stessa momento di questa, e quindi impossibilitata a sussistere altrimenti
nel pensiero del De Sanctis.
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Nell'ultima parte del passo in precedenza riportato il Gramsci pone una forte riserva sulla interpretazione crociana del pensiero di Francesco De Sanctis: il filosofo liberale distingue i diversi
ma organici aspetti del De Sanctis, crocianizzandolo nel privarlo dell'efficace impostazione
storicistica. Non è qui il caso di esaminare i profondi motivi di tensione e dissidio intellettuale fra il
Croce ed il Gramsci, questi, comunque, pur non rinnegando l'opportunità di una valutazione estetica
dell'opera d'arte, la ritiene insufficiente se non integrata dalla ricerca delle componenti storiche, sociali, economiche e morali. Un giudizio limitato soltanto a verificare «l'intuizione lirica» dell'artista
di necessità conduce, pur senza la volontà di mortificare il «contenuto storico », alla trionfalistica
celebrazione dell'«individualismo artistico espressivo» antistorico ed antirappresentativo. Il metodo
critico del De Sanctis, invece, mirava alla comprensione integrale dell'opera d'arte, intesa come contributo, artisticamente positivo, del singolo autore alla problematica della società e dell'epoca nelle
quali egli si fosse formato ed avesse culturalmente operato, e pertanto era ben lontano dall'ibrida casistica pregiudiziale di «poesia e non poesia». «Insomma, il tipo di critica letteraria - scrive il
Gramsci - propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque
altro (meno che mai dal Carducci): essa deve fondere la lotta per una nuova cultura, cioè per un
nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica
estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo ». (Q. d.
c., VI).
Sono qui racchiusi, in forma sintetica, i motivi salienti del ritorno gramsciano al De Sanctis,
che assume un rilievo chiaramente normalizzatore e rivoluzionario insieme: normalizzatore, in
quanto ripristina la vera dimensione critica del De Sanctis contro l'unilaterale interpretazione
crociana; rivoluzionario, perché rivela, nel denunziare i limiti dell'egemonia intellettuale del Croce,
i veri termini per un radicale rinnovamento culturale, per un « nuovo umanesimo ».
EFFICACIA DI AZIONE POLITICA
Un giudizio preciso sull'efficacia dell'azione politica del De Sanctis non è stato mai dato dal
Gramsci, anche se qualche accenno è evidente dai passi esaminati nel precedente capitolo. D'altra
parte, se è possibile per il Gramsci un ritorno all'impostazione critica del De Sanctis per un
rinnovamento radicale della cultura italiana, sarebbe assurdo pensare ad un equivalente ritorno
politico sia per le diverse condizioni socio-economiche, sia per il carattere delle soluzioni nei due
casi proposte. Ciò, però, non esclude la possibilità di sottolineare l'efficacia della presenza politica
del De Sanctis alla luce del pensiero gramsciano. A me sembra che, in tal caso, sarebbe opportuno
trascurare la parte ufficiale della politica desanctisiana, che pur ebbe un forte impulso progressista
pur nei limiti di un serio riformismo, e rivolgere l'attenzione soltanto al suo impegno di
meridionalista, anzi alla specificità di questo impegno. Tale ricerca si connette organicamente alla
lezione meridionalista del Gramsci.
Tra gli altri temi de La questione meridionale risulta particolarmente lucida l'analisi sugli
intellettuali del Sud, analisi che evidentemente si riferisce alla situazione contemporanea, ma che
per logica storica trova le sue cause nella organizzazione socio-economica dei primi decenni
dell'unità d'Italia. «Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i
contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna
coesione fra loro. La società meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre stadi sociali:
la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia
rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo
fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro
aspirazioni ed ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le
impulsioni per la sua attività politica ed ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i
grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo
complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la centralizzazione si
verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano
perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure
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della reazione italiana ».
E' stabilito così un altro serio e concreto motivo di confronto con il Croce, nonché, di
riflesso, una valutazione positiva del De Sanctis politico-intellettuale del Mezzogiorno. Giustino
Fortunato, ma soprattutto Benedetto Croce si collocano quindi, nel pensiero del Gramsci, come
conservatori intellettuali del reazionario blocco del Sud, sulla cui totale disgregazione sociale
incidono ulteriormente, inserendo la cultura meridionale nel giro di quella europea e capitalistica,
alienandola dalla sua critica realtà di base. La loro opera culturale, perciò, non rispecchia l'ambiente
dal quale nasce, non è documentazione della vera questione meridionale, non è testimonianza
sofferta della miseria e di quel confuso senso di ribellione che dalla miseria inevitabilmente
sortisce. E', invece, essa «pars magna» di «un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora
ad impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero
una frana». (A. Gramsci - La questione meridionale). Ma ecco meglio delineata, sempre ne La
questione meridionale, la loro straordinaria funzionalità culturale al sistema. «In una cerchia più
ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto che la impostazione dei
problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. Uomini di
grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla
cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni
intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del Mezzogiorno, per consolarne le
irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea media
di serenità classica del pensiero e dell'azione... In questo senso Benedetto Croce ha compiuto una
altissima funzione nazionale ed europea; ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno
dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa
cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario ».
Sorge, a questo punto, spontanea la domanda in che posizione il Gramsci avrebbe collocato il
De Sanctis. A me sembra che l'attività culturale e politica dell'Irpino, per quanto vissuto in tempi diversi, fu totalmente opposta a quella del Croce e del Fortunato, anche se non rientrante nell'ipotesi
gramsciana dell'intellettuale ‘organico’ meridionale. Abbiamo già visto come il De Sanctis non
collaborò con nessun « blocco intellettuale », anzi rivolse tutta la sua energia a frantumare ogni
sorta di cultura di classe, nella speranza di favorire una «letteratura nazionale e popolare», nella
quale non ci fossero posizioni di preminenza e sudditanza. Del resto la sua intelligente adesione al
positivismo non solo come critico, ma anche come narratore (Un viaggio elettorale, La giovinezza)
fu dettata dalla necessità di dare anche alla letteratura italiana una funzione di documentazione
sociale. Era logico che in questa evoluzione di tendenza assumesse grande importanza la gravissima
situazione socio-economica del Sud. Il De Sanctis, però, rifiutò ogni processo che portasse
l'intellettuale ad alienarsi dalla realtà attraverso una cultura astratta e cerebrale. Che altro, infatti,
vorrebbe dire, quando afferma: « ...l'esule viene a chiedervi la patria, date la patria all' esule'» (Un
viaggio elettorale , Discorso di Lacedonia).
Riconquistare la patria, significava evidentemente continuare a lottare per la sua
emancipazione, significava operare nelle sue vetuste strutture per rinnovarle alla luce dei concetti di
democrazia e di libertà, significava portare la depressione del Mezzogiorno sul piano della
problematica nazionale. Chiara e conseguente fu l'azione: prima la cruenta lotta sulle barricate e il
doloroso esilio per riscattare il Regno delle due Sicilie dall'assurda tirannia borbonica, poi l'assiduo
e laborioso impegno di deputato e ministro. Certo, il De Sanctis non pose mai in termini
rivoluzionari la questione meridionale; tale soluzione era lontana dai suoi ideali, ma soprattutto
estranea e inadatta alle contingenze storiche.
Qualche decennio prima, è vero, c'era stato il nobile tentativo di suscitare la « guerriglia» da
parte di Carlo Pisacane, ma il fatto che esso si fosse spento per incomprensione ed immaturità delle
popolazioni meridionali aveva sancito l'astrattezza e l'impossibilità di un tale indirizzo. D'altra
parte, il diffuso banditismo, chiara espressione di insoddisfazione verso i primi governi unitari, nel
volgersi alla speranza di una restaurazione borbonica, era inconfutabile testimonianza di
insufficiente maturità politica e di prospettive socio-economiche involutive e confusionarie.
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Sarebbe stato, quindi, assurdo pensare ad una rivoluzione del Sud, che in ogni caso avrebbe assunto
un fine autonomistico nel momento in cui la reazione in Italia era ancora fortissima e gestiva più o
meno completamente il potere. Il De Sanctis, invece, pensava giustamente che la questione
meridionale avrebbe avuto ottime probabilità di soluzione, se prima fosse stata sconfitta, a tutti i
livelli, la reazione, distrutto il suo blocco socio-economico-culturale; questo imponeva come
condizione preliminare una dura battaglia politica per l'attuazione di riforme progressiste e democratiche, prima fra tutte quella della scuola.
Certo siamo molto lontani dalle ipotesi del Gramsci, ma a me interessa sottolineare come nel
De Sanctis la questione del Sud non fu mai tacitata nella concezione di una sua perfetta funzionalità
al sistema; interessa ricordare che essa apparve al grande Irpino la riforma delle riforme, il nodo
centrale della vita economica, sociale e politica della nuova Italia. Questi principi nessun serio e
onesto meridionalista, come il Gramsci, avrebbe potuto o potrebbe respingere.
Fu quello del De Sanctis, pertanto, un meridionalismo appassionato e libero; realistico e
scientifico proporzionatamente al momento storico. Appassionato, perché nacque dall'amore
incontaminato per la propria terra; libero, perché non si asservì mai al blocco economico e culturale
imperante; realistico, perché non si abbandonò a teorie comodamente vaghe ed astratte; scientifico,
infine, perché operò nel sistema per cambiarne l'essenza e per strumentalizzarlo all'ideale di
un'Italia libera e democratica, nella quale fossero sanati i gravi disquilibri di varia natura allora
esistenti.
Grazie a questo giudizio sostanzialmente positivo del Gramsci la fortuna critica del De Sanctis
registrò un momento particolarmente positivo durante l’esperienza letteraria, artistica e
cinematografica del Neorealismo, l’ultima grande stagione culturale italiana. Dal maestro della
critica e grande intellettuale gli esponenti più rivelanti trassero i concetti fondanti della loro
produzione: natura storicistica dell’arte e sua funzione di guida morale e civile della nazione,
quindi “nazional-popolare; il messaggio non soltanto come libertà, ma anche giustizia,
democrazia, giuridica e nello stesso tempo effettiva. E, per quanto attiene alla posizione etica, per
dirla proprio con il De Sanctis, contro ogni mancanza di “fibra” che corrisponde a una mancanza
di "fede", e contro ogni difetto di "fede” che è difetto di "cultura". Ed è superfluo aggiungere che
cultura va qui intesa in senso umano e umanistico insieme, come nuova concezione della vita e
dell’uomo.
Romualdo Marandino
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