Ambasciatore Annette Schavan nella Comunità Evangelica
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Ambasciatore Annette Schavan nella Comunità Evangelica
Comunità Evangelica Luterana di Roma XXII Domennica dopo Trinitatis, 1° novembre 2015 Annette Schavan Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania presso la S. Sede La legge della fede: chiamata alla libertà I testi del giorno ci conducono, oggi, al centro dell’insegnamento di Gesù. Trattano della legge della fede. Paolo scrive ai Romani che soltanto “per mezzo della fede” l’essere umano diventa giusto. Osservare i Comandamenti, compiere opere giuste e vantarsene: non è questo che s’intende. S’intende, invece, ciò cui ci sentiamo legati e da cui ci lasciamo provocare. La predica del monte è uno di questi testi che ci provocano. Vale come legge fondamentale della nostra fede. Le Beatitudini sono, allo stesso modo, l’ouverture della predica del monte. Karl Barth ha detto, su di esse: “Il paradosso che si contrappone a 180 gradi alle valutazioni correnti di benessere e felicità.” Beati i poveri in spirito, perché loro è il regno dei cieli. Così comincia il testo delle Beatitudini. Nell’Antico Testamento, i poveri furono, inizialmente, poco considerati. Possesso e ricchezza erano considerati segni della benedizione divina. Questo modo di vedere cambia con la Cattività Babilonese e con la promessa di inviarlo “per recare ai poveri la lieta novella”. Che cosa s’intende? Il povero non si vanta della propria povertà; tanto meno la interpreta come conseguenza di un atto di trascuratezza da parte di Dio. Non è povero perché Dio non si cura di lui. Interpreta la propria vita come libertà dal benessere, inteso correntemente e in primo luogo, come attuato dal possesso terreno. È la speranza il suo maggior possesso. Sa che non è forte, davanti a Dio, quello che non ha bisogno di lui e che prende la questione del rapporto con Dio nelle proprie mani. Il “lato spirituale” della sua povertà è la sua posizione sociale minima, che traspone nel rapporto con Dio. Come Martin Lutero, che, sul letto di morte, dice: “Siamo mendicanti!”. Che vuol dire, anche: resistiamo all’arroganza che deriva dai successi e dai bilanci terreni. Il successo terreno non interessa soltanto il possesso materiale. Ed è perciò che il testo parla della povertà in spirito. Non intende la carenza di capacità intellettuali. Concerne il nostro atteggiamento, l’idea che abbiamo di noi stessi e, appunto, la questione di ciò cui siamo legati e di cui ci preoccupiamo. Oltre alla ricchezza materiale, vengono detti beati coloro che assumono un atteggiamento interiore di serenità e di indipendenza dalle prestazioni e dai successi terreni. Da ciò nasce la libertà per quel rapporto che Dio ci apre. È lui a venire da noi. È lui a donarci vita nuova, se ci affranchiamo dalla vita vecchia e dalle categorie di felicità terrena. Dietrich Bonhoeffer dice, riguardo ai poveri in spirito: “Hanno solo lui. Sì, e con lui, essi non hanno nulla nel mondo, assolutamente nulla, ma tutto, tutto, presso Dio.” Un tale atteggiamento si pone di traverso a un’idea di se stessi che crede di poter raggiungere, o addirittura di poter creare, con forze umane, il regno dei cieli. Non si sono date catastrofi maggiori di quelle di quanto gli esseri umani hanno creduto di poter creare il regno dei cieli in terra. Le Beatitudini, dunque, sono un monito. Martin Lutero così formula tale concetto, nel Piccolo Catechismo: “Dobbiamo essere umani e non dobbiamo essere Dio. Questa è la summa.” All’inizio della predica del monte, come legge fondamentale della nostra fede, c’è la sollecitazione a sganciarci dai nostri successi e dall’arroganza che nasce dal benessere terreno. La legge della fede costituisce un’idea di sé dei cristiani tale, che essi non intendono se stessi in base alle proprie prestazioni, ma in base al loro rapporto e legame con Dio e, a partire da qui, conoscono i propri limiti. In vita mia, per cinque volte ho prestato giuramento per assumere una carica, dicendo: “... così è vero, Dio mi aiuti”. Ogni volta, questo mi ha messo davanti agli occhi che non lo faccio con forze mie. Mi ha reso chiaro che sono rimessa al suo aiuto. Anche in politica, molte cose si decidono sulla questione riguardo ciò di cui vivo, ciò cui mi lego e di cosa mi curo. Quest’esperienza non si pone di traverso alla vita. È un’esperienza di vita, anche e proprio della vita pubblica. Questa legge della fede, che Gesù insegnò agli esseri umani e che oggi ci interpella, è una chiamata alla libertà. È, al tempo stesso, un impulso tipico della Riforma. Non mette in disparte la legge. Come è chiaro in un passo successivo della predica del monte. Si tratta dello spirito della legge. Nell’ebraismo, la profezia poté diventare tanto potente perché si trattò di continuo di ascoltare lo Spirito. Cosa che impronta anche impulsi spirituali, verificatisi nei duemila anni di storia del cristianesimo. Le nostre azioni non sono nostre, ma sono il risultato di quella cura che Dio mostra verso l’umanità. Ci ha vincolati agli esseri umani. Senza di lui, tendiamo a occuparci, di continuo, di noi stessi e dei nostri successi. Senza di lui, lavoriamo solo al nostro bilancio delle prestazioni. Senza di lui, crediamo, ad un certo punto, che il bilancio delle nostre opere conti. Ma Paolo scrive che a contare è solo la fede. Conta la nostra risposta alla domanda circa ciò cui ci sentiamo legati e in cui confidiamo. La povertà spirituale dona la libertà e fa nascere nuove forze. Questo è costitutivo dell’immagine dell’essere umano secondo gli ebrei e secondo i cristiani. La questione del legame interessa un agire di cui possiamo rispondere, oltre la questione se, così, siamo persone di successo secondo la concezione del mondo. Il teologo Johann Baptist Metz formulò quest’affermazione: “Per amore del Vangelo e del mondo, non potremo permetterci più a lungo i nostri cristianesimi con l’emiparesi.” Se vogliamo davvero curarci della mancanza di salvezza nel nostro mondo, della sventura e della povertà, della persecuzione e della fuga di milioni di persone, e se siamo convinti che nessuno si cura del mondo così come fa Dio, allora è la nostra cura, quella che nasce dal nostro fondamento comune di cristiani. Allora, percepiamo quanto la solidarietà dei cristiani, oggi, possa essere anch’essa impulso che deriva dalla Riforma, in favore della solidarietà dell’umanità. Papa Giovanni XXIII ha detto: “Quel che ci unisce è più forte di quel che ci divide.” Se, nella fede e nella cura, ciò che ci unisce è più di quel che ci divide, allora dobbiamo anche poter derivare da questa fonte quanto è comune per la comunione. Ciò rafforza la nostra credibilità e la forza di convincimento della cristianità. Questo fa diventare più nitida la voce dei cristiani, nella nostra epoca, e, magari, la rende anche più decisa, quando parliamo di Dio, che ci ha vincolati agli esseri umani e a condividere le loro preoccupazioni e sventure, la loro tristezza e la loro povertà. Noi siamo uniti dalla legge della fede che Gesù ha insegnato nella predica del monte. È una fonte forte. Può aiutarci a imparare a concepire ciò che ci contraddistingue non come separazione, ma come espressione di molteplicità nell’unità; comprenderla, affinché la voce del cristianesimo riceve forza e irradiazione nuova. Papa Francesco, in occasione della sua visita a Caserta, ha parlato di “diversità riconciliata”, incoraggiandoci, quindi, a vivere la molteplicità nell’unità.