APRI PDF - Processo Penale e Giustizia

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APRI PDF - Processo Penale e Giustizia
Processo penale e giustizia n. 6 | 2016
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CRISTIANA VALENTINI
Professore Associato di Diritto Processuale Penale – Università di Ferrara
La presunzione d’innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE:
per aspera ad astra
The presumption of innocence in the Directive no. 216/343/EU: per
aspera ad astra
La Direttiva 9 marzo 2016, 216/343/UE corrisponde ad un importante progetto dell’Unione, vocato ad accrescere
la fiducia reciproca tra gli Stati membri tramite una cultura giudiziaria comune. Poche le novità addotte dallo strumento europeo sul piano delle garanzie, con una eccezione: la Direttiva è in grado di portare significativi mutamenti sul piano dei rapporti tra media e processo penale e forse anche sulla disciplina dei poteri officiosi del giudice in
materia di prova.
The Directive no. 216/343/EU of 9 March 2016 corresponds to an important EU project, suited to increase mutual
trust between Member States through a common judicial culture. Almost non-existent what’s new adduced by
the European Instrument on the level of guarantees, with one exception: the Directive is able to bring significant
changes in terms of the relationship between the media and the criminal trial and perhaps also on the regulation
of officious judge’s powers of evidence.
PREMESSA
Entro l’1 aprile 2018, gli Stati dell’Unione sono chiamati a conformare il proprio diritto interno alla Direttiva 9 marzo 2016, 2016/343/UE.
Testualmente intitolata al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, la Direttiva evoca argomenti di massimo rilievo per i sistemi processuali interni ed anche a livello subliminale una simile nomenclatura sottintende
aspetti dirompenti; la conformazione concreta del prodotto legislativo è però schiettamente inadeguata,
composta com’è di canoni che volano basso, arrivando solo in certi punti a sfiorare la sostanza dell’intitolazione eroica 1.
Di più: la Direttiva risulta, in verità, inappagante anche rispetto al suo moto d’origine, ovvero quel Libro
Verde sulla presunzione d’innocenza del 4 aprile 2006, che la Commissione delle Comunità europee aveva
distribuito attraverso gli Stati membri, con richiesta di risposta entro il 9 giugno del medesimo anno.
Ma si proceda con ordine. Nei considerando 4 e 5 della Direttiva, è leggibile una confessione: il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie «presuppone che gli Stati membri ripongano fiducia reciproca nei rispettivi sistemi di giustizia penale», ma di fatto accade che «sebbene gli Stati membri siano firmatari della CEDU e dell’ICCPR, l’esperienza ha dimostrato che questa circostanza
in sé non sempre assicura che vi sia un grado sufficiente di fiducia nei sistemi di giustizia penale di altri
Stati membri» (considerando 4 e 5).
1
I commenti a prima lettura non riportano tutti questa percezione; intitola perfino così le proprie riflessioni O. Mazza, Una
deludente proposta in tema di presunzione d’innocenza, in Arch. pen., 2014, n. 3, p. 1 ss.; più ottimista invece il commento di A. De
Caro, La recente direttiva europea sulla presunzione di innocenza e sul diritto alla partecipazione al processo, in www.quotidianogiuri
dico.it; non sottolinea note negative neppure L. Camaldo, Presunzione di innocenza e diritto di partecipare al giudizio: due garanzie
fondamentali del giusto processo in un’unica Direttiva dell’Unione europea, in www.penalecontemporaneo.it.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA PRESUNZIONE D’INNOCENZA NELLA DIRETTIVA N. 216/343/UE
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In termini più espliciti, in effetti, la Raccomandazione del Parlamento europeo del 7 maggio 2009 2,
sullo sviluppo di uno spazio di giustizia nell’Unione, tratteggiava la seguente congiuntura: «il livello di
realizzazione nel campo della cooperazione giudiziaria penale è stato piuttosto modesto … mentre si
riscontrano sviluppi soddisfacenti in altri campi, quali la cooperazione in materia civile», sicché «l’attuazione del principio del riconoscimento reciproco … è ancora lungi dall’essere soddisfacente e deve
essere accompagnata da un insieme uniforme di garanzie e tutele procedurali» (considerando D e I).
Nella stessa prospettiva, risalendo a ritroso nel tempo, il Libro verde sottolineava come il principio
del reciproco riconoscimento fosse destinato a funzionare efficacemente «solo se esiste fiducia negli altri sistemi giudiziari e se ogni individuo nei cui confronti sia stata emessa una sentenza giudiziaria
straniera ha la certezza che essa è stata adottata secondo giustizia» (punto 1.1).
In buona sostanza, ecco il punto: secondo le stesse istituzioni europee, il sacro Graal del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie si è di fatto arenato contro un ostacolo di non poco momento,
rappresentato dal reciproco dubbio degli Stati in merito all’effettivo rispetto delle garanzie dell’equo
processo da parte delle giurisdizioni interne; un ostacolo che l’Unione ha finto di non vedere al fine di
perseguire obiettivi più semplici e molto graditi all’esprit poliziesco della cooperazione giudiziaria in
materia penale.
Il punto di partenza doveva essere un altro. In questo senso risulta più che condivisibile l’opinione di chi
sottolinea come la legislazione europea faccia palese mostra di «una visione angusta (e distorta) del processo
penale inteso quale strumento di difesa sociale, una barriera da ergere a fronte della minaccia rappresentata
da gravi forme di criminalità organizzata e transnazionale, compreso il terrorismo. Non è mai stata seriamente coltivata l’idea, forse utopica, di un giusto processo penale comune e anche il meno ambizioso proposito dell’armonizzazione delle legislazioni processuali interne ha segnato per lungo tempo il passo, soffocato
dallo straordinario successo che ha riscosso il principio del mutuo riconoscimento» 3.
In realtà si trattava di un successo apparente, come si diceva, sulla scorta delle esplicite ammissioni
delle istituzioni europee sopra segnalate; ed ecco che l’Europa è stata letteralmente costretta a tornare
sul tema dell’armonizzazione. Verrebbe da dire che, come tutti i problemi effettivi, il grave problema
rappresentato delle differenze nei sistemi processuali degli Stati membri si è lasciato spingere solo momentaneamente di lato dalla dominante cultura poliziesca; poi, come il nemico dell’omonimo film, si è
presentato alle porte, all’interno di un’esperienza empirica che delinea l’inefficienza della cooperazione
mediante mutuo riconoscimento.
In questo senso, il punto di partenza della Direttiva in esame è interessante e proficuo: poco importa
che l’Unione sia tornata ob torto collo al tema dell’armonizzazione; è importante piuttosto notare e apprezzare che lo abbia fatto; ciò posto – come si diceva – il contenuto dispositivo della Direttiva tradisce
lo scopo, nei termini in cui sin qui prospettato, perché i principi espressi son timidi e talora del tutto irrilevanti 4,con l’eccezione di alcune parti, destinate a porre non pochi problemi al legislatore italiano
chiamato all’adeguamento.
La Direttiva è dedicata alla presunzione d’innocenza e al diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali; qui si sceglie di trattare il primo tema, oggi più che mai meritevole di attenzione
all’interno del sistema processuale italiano.
LA PRESUNZIONE D’INNOCENZA: OBBLIGO DI RICONOSCIMENTO
La presunzione d’innocenza consta anzitutto di un obbligo di assicurarne il riconoscimento, a mente
dell’art. 3: «gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di
innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza».
2
In eur-lex.europa.eu
3
Così O. Mazza, Una deludente proposta, cit., p. 1.
4
È doveroso notare, in questa prospettiva, come l’iter della Direttiva abbia visto prese di posizione piuttosto chiare e apprezzabili, come quella assunta dalla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, del 21 aprile 2015, nella cui
parte motivazionale si legge: «Tale proposta di direttiva appare ancora più importante alla luce del fatto che attualmente è dato
constatare in numerosi Stati membri dell’Unione europea una riduzione dei diritti degli indagati e imputati nonché un indebolimento del principio di presunzione di innocenza. Il relatore è tuttavia del parere che la Commissione abbia adottato un approccio troppo minimo e si interroga sulla mancanza di ambizione di questa proposta iniziale che rischia di armonizzare le disposizioni nazionali “verso il basso”».
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Ora, un simile incipit depone molto male per una ragione assai semplice, identificabile nel fatto che
l’ampiezza del sintagma “colpevolezza legalmente provata” sembra legittimare gli stati a scegliere moduli processuali che, in vario modo, anticipano la soglia di cessazione della presunzione d’innocenza al
momento della pronunzia della sentenza di condanna di primo grado e questa esegesi risulta avvalorata dai quesiti a suo tempo posti agli Stati membri dal Libro Verde; alla lett. h), in effetti, si chiedeva se
«nel vostro Paese la presunzione di non colpevolezza può terminare dopo un processo di primo grado
o solo quando sono stati esauriti tutti i mezzi d’impugnazione?».
Del resto, si tratta di una formula assolutamente identica a quella dell’art. 6, par. 2, Cedu, in relazione alla quale la giurisprudenza della Corte alsaziana non esclude la compatibilità di forme di esecutività della sentenza di primo grado, anche in pendenza del giudizio d’impugnazione 5.
Sul punto un altro particolare merita di essere notato. Commentando la Proposta di Direttiva, si era
detto come esistesse una contraddizione abbastanza palese tra l’estensione temporale della presunzione
d’innocenza tratteggiata dall’art. 3 con il riferimento ad una «colpevolezza legalmente accertata», e
quella derivante dal successivo art. 4, in cui l’estensione era correlata al «prima della condanna definitiva», con un chiaro riferimento all’esito delle impugnazioni previste dalla legge 6; ora la versione finale
della Direttiva fa mostra di un emenda sul punto, sicché anche l’art. 4 si riferisce alla dizione CEDU di
«colpevolezza legalmente accertata».
Si noti, ancora, che la Relazione della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni
del 21 aprile 2015, aveva ideato un emendamento all’art. 3, proponendone il seguente testo: «Gli Stati
membri assicurano che all’indagato o imputato sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a
quando non ne sia accertata la colpevolezza con sentenza definitiva, pronunciata conformemente alla legge in un processo nel quale egli abbia avuto tutte le salvaguardie necessarie per la sua difesa».
Alla fine l’emendamento dell’art. 3 non è passato ed il testo attuale non mostra più tracce di contraddizioni tra la formula dell’art. 3 e quella dell’art. 4, denotando con ineludibile chiarezza il fatto che
l’Unione europea interpreta la presunzione d’innocenza come garanzia sacrificabile dopo il giudizio di
primo grado.
Quando si pensa che, secondo la Relazione della Commissione, «gli obiettivi generali delle misure
già adottate nel settore dei diritti procedurali nei procedimenti penali ... necessitano ancora che sia garantito in tutti gli Stati membri dell’Unione europea un livello minimo di tutela del principio di presunzione di innocenza» (punto 8), viene da pensare a quanto basso possa essere, di fatto, il livello di vita
reale delle garanzie individuali all’interno di molti Stati membri.
LA PRESUNZIONE D’INNOCENZA E I MEDIA: L’IMPOSTAZIONE DELLA DIRETTIVA
Qui sta l’unica parte della Direttiva capace d’introdurre un mutamento effettivo per l’ordinamento
giudico italiano, in termini di crescita delle garanzie individuali e, diremmo anche, del livello di civiltà.
L’art. 4 della Direttiva testualmente dispone:
«1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza
di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità.
2. Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell’obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati
come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l’articolo 10.
3. L’obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impe-
5
Sul punto v. P.P. Paulesu, La presunzione d’innocenza tra realtà processuale e dinamiche extraprocessuali, in Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, p. 125 ss.; e anche A. Confalonieri, Europa e giusto processo. Istruzione per l’uso, Torino,
2010, p. 186, la quale condivisibilmente nota come il più garantistico principio della nostra Costituzione finisca col vivere di vita
grama, nel contrasto tra la proclamazione teorica e un universo empirico che lo smentisce quotidianamente, soprattutto tramite
l’(ir)ragionevole durata dei processi penali.
6
Mazza, op. cit., p. 5, parlava di «mancanza di coordinamento frutto di una scadente tecnica normativa».
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disce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico».
Le coordinate specifiche di questo aspetto della presunzione d’innocenza, sostanzialmente dedicato alla
pubblicizzazione del processo penale determinata dai media, sono illuminate dalla Relazione, la quale
spiega sub punto 30 come la Corte EDU abbia definito lo standard di tutela al fine di evitare il rischio «di
incoraggiare l’opinione pubblica a credere alla colpevolezza dell’interessato» come pure il rischio «di
pregiudicare la valutazione dei fatti dell’autorità giudiziaria».
Molti echi della giurisprudenza di Strasburgo sono effettivamente percettibili nella disposizione.
La memoria corre anzitutto al caso Allenet de Ribemont c. Francia 7, in cui la Corte ha rammentato che
la presunzione di innocenza risulta violata ogni volta che una dichiarazione di colpevolezza derivi
dall’opinione di un autorità statale, senza tuttavia che la stessa sia stata legalmente accertata. Questa è
la ragione per cui in quella nota decisione i giudici di Strasburgo avevano ritenuto infondate le argomentazioni sollevate dal Governo francese, secondo le quali la presunzione di innocenza può essere
violata solo da un’autorità giudiziaria, ritenendo di contro che la lesione della garanzia possa provenire
non solo dal giudice ma anche da altre autorità pubbliche.
Del pari respinto risulta, poi, l’altro argomento del governo francese, secondo cui le affermazioni rese
dalle pubbliche autorità nei confronti del ricorrente non sarebbero state in grado di forzare il convincimento dei giudici e avrebbero comunque potuto essere smentite grazie ad indagini successive.
In conclusione, la Corte EDU, pur riconoscendo in capo alle autorità il diritto d’informare il pubblico
rispetto ai procedimenti penali in corso, ha precisato che tale attività di informazione dev’essere svolta
con la discrezione e la riservatezza imposte dalla presunzione d’innocenza, di tal ché, nel caso Allenet
De Ribemont la dichiarazione di colpevolezza del ricorrente quale mandante dell’omicidio, fatta pubblicamente dal Ministro degli Interni e dai più alti ufficiali della polizia francese, aveva «incoraggiato
da una lato l’opinione pubblica a ritenere il medesimo colpevole e, dall’altro, pregiudicato la valutazione dei fatti da parte dell’autorità giudiziaria competente» 8.
L’influenza della decisione Allenet de Ribemont è evidente nella Relazione, come pure nel medesimo
fraseggio dell’art. 4, che appare rivolto a fornire tutela ad un importante aspetto della presunzione d’innocenza, in cui essa determina anche i limiti in cui la divulgazione di notizie sulle indagini diventa ragione diretta della formazione di un’immagine distorta nel pubblico e in cui, per conseguenza, rischia di essere compromessa anche la capacità dell’autorità giudiziaria procedente di valutare criticamente i fatti 9.
Il comma 2 prevede che alla violazione dell’obbligo descritto dal comma precedente corrisponda
una misura appropriata, conformemente al diritto ad un ricorso effettivo predisposto nell’interesse di
chi abbia subito la violazione nella propria sfera giuridica.
Il comma 3 dell’articolo detta un’eccezione alla regola, precisando che non è impedita alle pubbliche
7
Corte e.d.u., 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia.
8
Ai punti 39-41 della sentenza Allenet de Ribemont si legge esattamente: «Like the applicant, the Commissionconsideredthat the
remarks made by the Minister of the Interior and, in hispresence and under his authority, by the policesuperintendent in charge of the inquiry and the Director of the CriminalInvestigationDepartment, wereincompatible with the presumption of innocence. Itnotedthat in themMr
Allenet de Ribemontwasheld up asone of the instigators of Mr de Broglie’s murder.
The Governmentmaintainedthatsuchremarkscame under the head of information aboutcriminalproceedings in progress and werenotsuchas to infringe the presumption of innocence, sincetheydidnotbind the courts and could be proved false by subsequentinvestigations.
The facts of the case bore this out, as the applicanthadnotbeenformallychargeduntiltwo weeks after the press conference and the investigatingjudgehadeventuallydecidedthattherewas no case to answer.
The Court notes that in the instant case some of the highest-ranking officers in the French policereferred to Mr Allenet de Ribemont,
withoutanyqualification or reservation, asone of the instigators of a murder and thus an accomplice in that murder (seeparagraph 11 above).
Thiswasclearly a declaration of the applicant’sguiltwhich, firstly, encouraged the public to believehimguilty and, secondly, prejudged the assessment of the facts by the competentjudicial authority. Therehasthereforebeen a breach of Article 6 para. 2 (art. 6-2)».
9
Nuovamente deprecabile, peraltro, il fatto che non sia stato adottato l’emendamento proposto dalla Commissione per le libertà civili, che avrebbe conferito all’art. 4 il seguente tenore: «1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie per assicurare
che, prima della condanna definitiva, le persone che ricoprono una carica pubblica, sia essa giudiziaria, amministrativa o politica, si astengano da atti, riferimenti o dichiarazioni suscettibili di presentare l’indagato o imputato come se fosse già condannato
o giudicato colpevole. 2. Gli Stati membri provvedono affinché siano previste e adottate le misure necessarie, quali sanzioni e
concessione di indennizzi, in caso di violazione dell’obbligo di cui al presente articolo e assicurano che l’indagato o imputato il
cui diritto alla presunzione di innocenza è stato violato possa avere accesso a un ricorso effettivo, quale, ove del caso, un nuovo
processo. 3. Gli Stati membri provvedono affinché la presunzione di innocenza non sia violata dagli organi di stampa qualora
questi presentino l’indagato o imputato come se fosse già stato condannato».
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autorità la divulgazione di informazioni sui procedimenti penali quando ciò si riveli «strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico». Si tratta di un’eccezione di
non poco momento, nuovamente sorprendente per la vaghezza del testo, tale da consentire interpretazioni spregiudicate, ma a ben vedere anche questa disposizione, come quella del precedente comma 2,
costituisce parte della trama intessuta dalla Corte di Strasburgo attraverso gli anni.
Si percepiscono qui le note di una delle due decisioni rese dalla Corte, a poca distanza di tempo
l’una dall’altra, nel caso Craxi. Il caso è ben conosciuto: invocando l’art. 6 della Convenzione, il ricorrente aveva denunciato il carattere non equo del processo, allegando che la campagna di stampa condotta nei suoi confronti aveva influenzato i giudici chiamati a pronunciarsi sulle accuse rivoltegli; la
Corte e.d.u. aveva respinto la specifica doglianza, osservando come l’interesse dei media e dell’opinione pubblica per il caso fosse derivato dalla posizione illustre rivestita dall’uomo, dal momento politico, così come dalla natura e gravità dei fatti addebitati; in un contesto concreto siffatto sarebbe stato
inevitabile per una società democratica che la stampa esprimesse dei commenti a volte severi su di un
caso capace di porre in discussione la moralità di alti funzionari ed il rapporto tra il mondo della politica quello degli affari; d’altro canto, gli organi giudiziari che avevano trattato il caso erano composti
esclusivamente da giudici professionali, all’esito d’un procedimento in contraddittorio, sì da risultare
garantito e verificabile dagli atti del fascicolo che la vasta libertà d’espressione di cui aveva goduto la
stampa nel caso specifico non aveva compresso lo stato d’imparzialità del giudice e la presunzione
d’innocenza.
Come può notarsi, si tratta esattamente di un caso che denota la differenza rispetto alle considerazioni spese dalla stessa Corte nell’affaire Allenet de Ribemont; quest’ultimo era un comune cittadino
coinvolto in un indagine per omicidio, di qui l’inammissibilità della divulgazione realizzata dalle pubbliche autorità; nel caso Craxi, le peculiarità proprie del processo contro un uomo politico di primario
rilievo, lasciano emergere il valore dell’interesse pubblico.
... E L’IMPATTO SULL’ORDINAMENTO INTERNO
Seppur parziale, la visuale prospettica in cui si muove la Direttiva è destinata ad impattare con le caratteristiche odierne della situazione italiana.
Viviamo in tempi in cui l’uso delle conferenze stampa, da parte degli inquirenti – autorità di polizia
e magistrati del pubblico ministero– pare essere un richiamo della giungla, a cui pochi sanno resistere.
Un intero complesso di circostanze concorre a rendere irresistibile il concetto stesso di conferenza
stampa: pubblici ministeri e investigatori che sciorinano nomi di arrestati, esiti delle indagini, pacchetti
di stupefacenti e armi esposti a lustro del genio inquirente di turno; tutto cioè comunque solo il contorno del piatto centrale, rappresentato dalla possibilità di parlare senza interlocuzioni, senza contraddittorio con qualcuno che smentisce o rettifica; è il fascino della vittoria senza tema di concorrenti, illuminata a giorno dalle luci dei riflettori; tutt’altra cosa, insomma, rispetto alle difficoltà di un aula dibattimentale in cui lo scontro è (o può essere) ad armi pari ex lege.
Scrive Dershowitz, traendo riflessioni più generali in merito all’iniziale campagna mediatica organizzata dall’accusa nel processo a O.J. Simpson: «perché gli avvocati dovrebbero preoccuparsi delle relazioni con il pubblico? Il loro compito è quello di convincere giudici e giurati, non il pubblico o gli
esperti. Ma i giurati provengono dallo stesso pubblico … Anche i giudici, poi, sono esseri umani, influenzati dall’opinione pubblica» 10.
Insomma; che il battage mediatico non sia psicologicamente irrilevante, neppure nei confronti dei
giudici professionali, sembra un dato certo, che è inutile aggirare con certi accorti fraseggi sulla capacità
del magistrato di ignorare la vulgata, come se egli vivesse in un etereo altrove e non ben radicato all’interno del suo mondo.
Così come è certo che lo strumento mediatico si alimenta in massima parte di materiali estratti
dall’unica fonte in possesso di “segreti” sulle indagini, ovvero gli uffici inquirenti, con la logica conseguenza per cui è l’inquirente e nessun altro a suscitare il vero interesse dei media 11.
10
A. Dershowitz, Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, Milano, 2007, p. 19.
11
P.P. Paulesu, La presunzione d’innocenza, cit., p. 126.
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A questo dato, obiettivo e ineludibile, se ne aggiunge un altro: è stato proprio il legislatore dell’art.
114 c.p.p. a consegnare la potestas di divulgazione in mano al pubblico ministero 12, agganciando i divieti di pubblicazione al segreto investigativo di cui all’art. 329 c.p.p. «con significato politico-legislativo
trasparente» 13.
Gli atti d’indagine – l’oggetto del desiderio giornalistico – risultano in linea di principio coperti dal
segreto (e dunque non pubblicabili)solo «fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e,
comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari», in virtù del rinvio implicito operato
dall’art. 114 all’art. 329 c.p.p.; ma il segreto è servente rispetto alle esigenze dell’attività investigativa e
della sua pregnanza, e non è antinomico rispetto alla divulgazione bensì rispetto alla rivelazione, ovvero
alla conoscenza degli atti da parte della difesa.
L’esito del costrutto normativo è un’artificiosa antitesi tra segreto e pubblicazione che oblitera chi
dovrebbe essere il reale beneficiario della cessata segretezza: non certo il mondo, attraverso i media, ma
l’indagato; e l’ulteriore esito paradossale è che non di rado la difesa apprende il contenuto di questo o
quell’atto investigativo dai giornali, piuttosto che dal suo legittimo accesso agli atti del fascicolo.
È a questo livello che la Direttiva si destreggia abbastanza bene, imponendo al legislatore un adeguamento senza sfumature.
La pratica delle conferenze stampa a poche ore di distanza dagli arresti mattutini non dovrebbe avere più spazio nel nostro ordinamento, come in quello degli Stati membri: misura minima (di comune
civiltà, si ribadisce, prima ancora che di civiltà giuridica) è che le esternazioni di pubbliche autorità vocate a tratteggiare la persona come colpevole, direttamente o indirettamente, sono escluse a chiare lettere dal novero dei fenomeni ammissibili.
L’art 4, § 1, della Direttiva impone agli Stati membri un fine: adottare misure sufficienti a garantire
che, fino a quando la responsabilità di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, «le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche» non presentino la persona come colpevole.
La formula potrebbe essere intesa in senso riduttivo, come se essa, cioè, escludesse dalla sfera d’azione della Direttiva la mera divulgazione di dati relativi alle indagini, non accompagnata da dichiarazioni.
Il legislatore italiano dovrà essere accorto; una simile esegesi è resa improponibile dal successivo paragrafo 3, ai cui sensi «l’obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come
colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico».
Apparentemente costruita come eccezione rispetto alla regola del paragrafo 1, questa parte della
norma costringe, invece, ad intendere con maggiore ampiezza l’obbligo degli Stati: laddove si scrive
che la divulgazione non è impedita in caso di necessità investigative o a cagione dell’interesse pubblico,
s’intende giustappunto che, al di fuori dell’area determinata da simili esigenze, non è impedita solo la dichiarazione pubblica, ma anche la pura e semplice divulgazione degli atti del procedimento penale; e non basta: la
divulgazione collegata a queste evenienze dev’essere limitata allo “stretto necessario”, per esplicito disposto della norma.
In buona sostanza, l’art. 4 nella sua interezza vieta un duplice ordine di condotte: anzitutto le dichiarazioni provenienti da pubbliche autorità che presentino l’indagato come colpevole prima dell’accertamento; in secondo luogo, la divulgazione di atti del procedimento penale, eccezion fatta per stringenti
necessità collegate alle indagini in corso oppure all’interesse pubblico della vicenda.
L’art. 114 c.p.p. dovrà essere necessariamente rimodulato su questa base.
La possibilità di pubblicazione degli atti non può più rimanere agganciata (esclusivamente) al segreto istruttorio, poiché la Direttiva vincola la relativa disciplina alla presunzione d’innocenza e alla corretta formazione del giudizio, non certo alle esigenze investigative; al contrario saranno queste ultime a
giustificare le eccezioni ad un generale divieto di pubblicazione 14.
Si tratta, del resto, di un’impostazione tipica della giurisprudenza della Corte e.d.u., come già da
tempo rilevato sulla scorta dell’idea che «la segretezza degli atti nei processi penali è vista dalla Corte
12
In questo senso, la dottrina è chiarissima: v F. Giunchedi, Informazione e processo, in Processo penale e Costituzione, cit., p. 647
e ss.; e N. Triggiani, Verità, giustizia penale, mass media e opinione pubblica, in Verità e processo penale, Milano, 2012, p. 171 ss.
13
Bella espressione del fondamentale studio di G. Giostra, Processo penale e informazione, Giuffrè, Milano, 1989, p. 300.
14
Sulla peculiare posizione del pubblico ministero, in questa prospettiva, v. S. Buzzelli, voce Processo penale europeo, in Enc.
dir., Annali, III, Milano, 2010, p. 701 ss. (in particolare, p. 718).
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europea dei diritti dell’uomo fondamentalmente come un presidio, volto a tutelare da un lato, la presunzione d’innocenza, e dall’altro, lo svolgimento imparziale del processo, ovvero la formazione di un
giudizio non influenzato da nient’altro che dalle emergenze probatorie» 15.
Seguendo la prospettiva del compito che attende il legislatore interno in ottemperanza alla Direttiva,
non può essere giustappunto evitato un supporto esegetico derivante dalla giurisprudenza della Corte
e.d.u.. Il riferimento corre, in particolare, alla sentenza Dupuis c. Francia 16.
Come si rammenterà, si legge in quella decisione che «la stampa svolge un ruolo di primo piano in
una società democratica: se è vero che non deve superare certi limiti, in particolare per quanto concerne
la protezione della reputazione e dei diritti degli altri e la necessità di impedire la divulgazione di informazioni riservate, essa deve comunque fornire, in conformità con i suoi doveri e responsabilità, informazioni ed idee su tutte le questioni di interesse generale […] In relazione al caso di specie, la Corte
osserva che il tema del libro riguardava una discussione di notevole interesse pubblico. Esso ha dato un
contributo a quello che si potrebbe chiamare, come afferma il Governo, un affare di stato, che interessava l’opinione pubblica. […]».
Lungi dai toni con cui la sentenza Dupuis è stata celebrata da alcuni commenti, come se essa costituisse l’esaltazione di una indiscriminata potestà divulgativa dei media, in verità essa si muove, fin dalle sue prime battute, lungo un filo rosso ben preciso, costituito giustappunto dall’interesse generale suscitato dalle informazioni (segrete) attinenti ad un procedimento penale, un interesse così intenso che la
Corte lo definisce come pertinente ad un «dibattito pubblico di estrema importanza», rispetto al quale il
lavoro dei giornalisti svolge – secondo la celebrata frase della Corte – un ruolo di «cane da guardia della democrazia» 17.
Premessa, dunque, la peculiarità della vicenda, avente ad oggetto un vero e proprio «affare di stato»,
la Corte delinea le ragioni della stampa: «è legittimo voler accordare una protezione particolare al segreto istruttorio considerata la pendenza di un procedimento penale, sia per garantire una buona amministrazione della giustizia che per la tutela del diritto alla presunzione d’innocenza delle persone indagate. Tuttavia, nel caso di specie, la Corte ritiene che al momento della pubblicazione del libro in
questione, nel gennaio 1996, oltre alla vasta copertura mediatica del caso conosciuto come “orecchie
dell’Eliseo”, era già noto che G.M. era stato accusato in questo caso, nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria aperta da quasi tre anni».
E allora, ecco il punto; il caso specifico era caratterizzato non solo dall’enorme valenza della vicenda
nella prospettiva dell’interesse pubblico, ma anche dal fatto che le rivelazioni giornalistiche, in violazione del segreto istruttorio, erano avvenute quando l’indagine e l’intera storia avevano già ricevuto
una vasta copertura mediatica, sì da rendere concretamente inoffensivo l’ulteriore disvelamento 18.
L’evidente consonanza tra l’art. 4, § 3, della Direttiva e la sentenza Dupuis inducono allora a comprendere con chiarezza qual è il tipo di “interesse pubblico” cui fa riferimento la nuova disposizione,
contribuendo a spiegare quanto stringenti debbano essere i limiti che il futuro legislatore italiano dovrà
rispettare in attuazione della Direttiva.
LA PRESUNZIONE D’INNOCENZA E L’ONERE DELLA PROVA
L’art. 4 della Direttiva è dedicato all’onere della prova.
Il testo è quello che segue: «1. Gli Stati membri assicurano che l’onere di provare la colpevolezza degli indagati e imputati incomba alla pubblica accusa, fatti salvi l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale competente di ricercare le prove sia a carico sia a discarico e il diritto della difesa di produrre
prove in conformità del diritto nazionale applicabile. 2. Gli Stati membri assicurano che ogni dubbio in
15
Così l’acuta sintesi di A. Balsamo-S. Recchione, Il difficile bilanciamento tra libertà di informazione e tutela del segreto istruttorio:
la valorizzazione del parametro della concreta offensività nel nuovo orientamento della Corte europea, in Cass. pen., 2007, n. 12, p. 4796 ss.
16
Corte e.d.u., 7 giugno 2007, Dupuis c. Francia, efficace sintesi in lingua italiana su www.duitbase.it, da cui son o tratte le citazioni che seguono nel testo.
17
Sottolineano il rilievo di questo elemento per la ricostruzione del caso A. Balsamo-S. Recchione, Il difficile bilanciamento tra
libertà di informazione e tutela del segreto istruttorio, cit., p. 4800.
18
Ancora una volta cogliendo pienamente nel segno, effettuano questo rilievo A. Balsamo-S. Recchione, Il difficile bilanciamento tra libertà di informazione e tutela del segreto istruttorio, cit., p. 4802.
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merito alla colpevolezza sia valutato in favore dell’indagato o imputato, anche quando il giudice valuta
se la persona in questione debba essere assolta».
Che si tratti di una formula davvero minimalista e piuttosto compromissoria, è cosa certa a primo
sguardo 19; ma per comprendere se esista un margine di utilità concreta rispetto alla situazione italiana,
vale la pena intrattenersi un attimo a rievocarne gli estremi con peculiare riferimento alla norma/simbolo dei poteri officiosi del giudice dibattimentale in materia di prova.
L’art. 507 c.p.p. vanta oltre un ventennio di esegesi costanti, tutte virate a leggere l’esercizio dei poteri in questione in modo pressoché svincolato da confini operativi, ma anche quali oggetto di una fattispecie latamente discrezionale, libera da possibilità di controllo e sostanzialmente priva di sanzione a
presidio di un corretto uso della regola, tanto in positivo, quanto in negativo.
A partire dalla nota coppia di sentenze – Sezioni Unite Martin, del 1992 20 e C. cost. n. 111/1993 21 –
l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 507 c.p.p. ha legittimato il giudice del dibattimento ad acquisire ex officio o su impulso di parte, qualunque prova egli ritenesse necessaria per l’accertamento dei
fatti, ad onta del fatto che le parti fossero decadute dal relativo potere e talvolta persino ad onta del fatto che si trattasse di prove inutilizzabili 22.
Per converso, risultano anodini e incensurabili in Cassazione i casi in cui il giudice, pur sollecitato
dalle parti all’ammissione di una prova rilevante ai sensi dell’art. 507 c.p.p., rigetti la richiesta senza
spiegazioni di sorta; come pure le ipotesi in cui il giudice qualifica come richiesta posta ai sensi dell’art.
507 c.p.p. e poi (discrezionalmente) rigetta una richiesta di prova presentata in base alle ordinarie regole sull’ammissione della prova (es. una richiesta di confronto o di esperimento giudiziale) 23.
Possiamo considerare come un buon panorama dello “stato dell’arte” in materia la sentenza cost. n.
73/2010 24: un’intelligente ordinanza di rimessione sollecitava la Consulta a tornare sulla compatibilità
tra la norma vivente dell’art. 507 c.p.p. e la Grundnorm, posto che il noto precedente, rappresentato dalla sentenza costituzionale n. 111 del 1993, aveva considerato un quadro ancora privo delle regole derivanti dal giusto processo.
Come noto, il giudice delle leggi ha dribblato il quesito senza mezzi termini, lasciandolo del tutto (e
volutamente) impregiudicato: nel caso specifico – rileva la Corte – non si trattava di un’iniziativa officiosa del giudice, ma di una prova richiesta ai sensi dell’art. 507 c.p.p. dal pubblico ministero che, omettendo il deposito della lista testimoniale, aveva trasformato il processo in una tabula rasa delle prove a
carico. «In questa situazione» osserva la Consulta «indipendentemente da ogni considerazione circa il
problema della compatibilità col parametro costituzionale evocato degli interventi probatori officiosi
del giudice (tema sul quale questa Corte ebbe a prendere posizione, anteriormente alla modifica
19
V. O. Mazza, Una deludente proposta, cit., p. 5.
20
Cass., sez. un., 6 novembre 1992, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 822, cui si deve l’elaborazione del duplice canone secondo
cui anzitutto il potere del giudice di assumere ex officio mezzi di prova può essere esercitato anche qualora si tratti di prove dalle
quali le parti siano decadute a cagione della mancata o irrituale indicazione nella lista di cui all’art. 468 c.p.p., dovendosi intendere per prove “nuove” ai sensi dell’art. 507 c.p.p. tutte quelle precedentemente non disposte, a prescindere dal fatto che siano
preesistenti o sopravvenute, conosciute ovvero sconosciute; in secondo luogo, sempre a termini di questa nota sentenza, il potere giudiziale non si arresta neppure nell’ipotesi in cui non vi sia stata alcuna iniziativa probatoria ad opera delle parti, posto che
il sintagma «terminata l’acquisizione delle prove» indica non un presupposto d’esercizio del potere giudiziale, ma solo un dato
cronologico dettato dalla consuetudine per cui di solito (ma non necessariamente) l’implementazione istruttoria ha luogo “al
termine” di un’istruzione già gestita in base alle richieste delle parti. Sulla sentenza inevitabile la lettura di L. Marafioti, L’art.
507 c.p.p. al vaglio delle Sezioni unite: un addio al processo accusatorio e all’imparzialità del giudice dibattimentale, ibidem, p. 830.
21
C. cost., sent., 26 marzo 1993, n. 111, in Giur. cost., 1993, p. 901, con note di G. Spangher, L’art. 507 c.p.p. davanti alla Corte costituzionale: ulteriore momento nella definizione del “sistema accusatorio” compatibile con la Costituzione, ibidem, p. 919; volendo di C.
Valentini, La Corte costituzionale alle prese con l’art. 507 c.p.p., ovvero: ritorno al futuro, ibidem, p. 922, e infine di P. Ferrua, I poteri
probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle Sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1994, p. 1065.
22
Le virtù espansive dell’art. 507 c.p.p., anzi la sua capacità di accogliere le situazioni processuali più stravaganti, si veda E.
Farinelli, Una singolare (e discutibile) presa di posizione della Cassazione in tema di correlazione tra accusa e sentenza: l’intervento ad
adiuvandum del giudice in funzione riequilibratrice delle carenze accusatorie, in Arch. pen., 2015, n. 2, p. 1 ss.
23
Su questo specifico aspetto del problema v., volendo, C. Valentini, Il potere del giudice nell’ammissione della prova, Cedam,
Padova, 2004, p. 243.
24
C. cost., sent., n. 73/2010, su cui si legga la nota di P. Paulesu, Iniziative probatorie del giudice dibattimentale e “giusto processo”, in Giur. cost., 2010, p. 842.
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dell’art. 111 Cost., con la sentenza n. 111/1993) – il vulnus lamentato dal giudice a quo resta escluso per
una ragione pregiudiziale: e, cioè, che non risulta configurabile neppure una reale deroga al principio
dispositivo, in base al quale il giudice è chiamato a giudicare sulla base di quanto allegato e provato
dalle parti. Manca, di conseguenza, in radice la possibilità di ipotizzare una lesione del principio di imparzialità del giudice – principio cui ineriscono, più che a quello di terzietà, le censure del rimettente, in
quanto relative al rapporto tra giurisdizione e decisione – con riguardo al rischio, anche soltanto astratto, di una impropria assunzione da parte del giudice di compiti dell’accusa o della difesa, atta a trasformarlo in un “alleato” dell’uno o dell’altro dei contendenti».
Come si diceva: le parole mostrano un messaggio chiaro, che dice come la Consulta abbia preferito
non intervenire sul delicato tema configurato dalla compatibilità tra principio dispositivo e struttura
del giusto processo.
Dal canto suo, il mondo empirico fa mostra di un panorama variegato: tramite il potere di cui all’art.
507 c.p.p. risultano acquisite al giudizio prove erroneamente omesse dalle parti all’atto della valutazione sulle richieste di prova compiuta nell’incipit del giudizio; elementi cognitivi la cui utilità emerge solo
nel corso del dibattimento; così come vengono regolarmente recuperate alla valutazione del giudice
prove testimoniali da cui il pubblico ministero è decaduto per mancato deposito della lista omonima 25;
prove testimoniali della parte civile inammissibili del pari a causa del tardivo deposito o per altre ragioni; prove documentali o intercettazioni non depositate dal p.m. ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p., secondo un elenco di applicazioni flessibili al massimo livello 26.
In una recente ricostruzione si è notato come l’esegesi consolidata dell’art. 507 c.p.p. – ovvero quella
appena descritta – sia sostanzialmente coerente con l’intento di proteggere in pari modo tutti gli interessi coinvolti: accertamento della verità e diritto di difesa primi tra tutti 27.
Non vi è dubbio che l’assunto risulti condivisibile, nella misura in cui si ragioni sulla capacità della
disposizione di rimediare a vistose lacune nell’attività istruttoria gestita dalle parti.
Diremmo, anzi, che a fronte di vaste tendenze all’elisione del diritto alla prova, l’uso dell’art. 507
c.p.p., quale strumento di garanzia per l’immissione di dati nel processo, potrebbe quasi apparire come
una meritoria controtendenza.
E vale la pena aggiungere anche qualcos’altro: non vi è dubbio neppure che il pensiero sempre riaffiorante sia quello ancora di recente espresso da un maestro come Guastini, allorquando osserva: «ovviamente quanto più è ricco l’insieme degli elementi di giudizio, tanto più è probabile che la decisione
sulla quaestio facti, oltre che processualmente valida, sia anche vera» 28; sicché, in questa prospettiva,
l’intervento del giudice che ordina l’acquisizione di prove non richieste appare nel segno di un mezzo
estremamente atto a delimitare l’arbitrio insito nella posizione delle parti, che, in quanto tali, hanno
comunque interesse ad una visione parziale dell’accaduto storico 29.
Si considerino ora, però, gli esiti: il termine di cui all’art. 468 c.p.p. ha una chiara valenza di disposizione finalizzata alla posizione di una piattaforma dimostrativa tendenzialmente stabile, suscettibile
d’integrazione solo in base a prove sine termine (come quelle documentali) o la cui ammissione è collegata ad evenienze variabili (come quelle descritti dall’art. 493, comma 4, c.p.p.): grazie alla vigente esegesi dell’art. 507 c.p.p., quel termine finisce addirittura con l’essere considerato “non perentorio” 30, ad
25
Evenienza frequentissima per stessa ammissione del giudice costituzionale: cfr. ancora C. cost. n. 73/2010, che la definisce
«tutt’altro che rara nella pratica».
26
Si veda, però, il caso annotato da I. Guerini, L’iniziativa probatoria del giudice nel processo penale accusatorio: la Cassazione definisce i limiti all’esercizio del “potere di completamento istruttorio” di cui all’art. 507 c.p.p., in Proc. pen. giust., 2015, p. 42.
27
P. Maggio, I poteri istruttori del giudice penale tra interpretazioni consolidate e nuovi limiti dettati dal principio della parità delle armi, in Proc. pen. giust., 2015, p. 139.
28
Così R. Guastini, Presentazione, in J.F. Beltràn, La valutazione razionale della prova, Milano, 2012, n. 7, p. XI.
29
È quanto osserva J.F. Beltràn, La valutazione razionale, cit., p. 25: «l’intervento delle parti … riveste una particolare importanza, giacché permette loro di difendere i propri interessi, che non necessariamente devono coincidere, né, di fatto, coincidono
con la scoperta della verità. La difesa di tali interessi può perfettamente richiedere la manipolazione del materiale probatorio …
La possibilità che il giudice ordini l’istruzione di prove non richieste dalle parti, nei processi in cui è prevista, può contribuire a
mitigare il problema
30
Così M. Daniele, Regole di esclusione e regole di valutazione della prova, Torino, 2009, p. 8 che scrive: «non pongono regole di
esclusione neppure le disposizioni che fissano criteri di ammissibilità delle prove fondati sul rispetto di termini non perentori»;
dove la mancanza di perentorietà viene dedotta giustappunto dalla possibilità di recupero giudiziale ex art. 507 c.p.p. Una siffat ANALISI E PROSPETTIVE | LA PRESUNZIONE D’INNOCENZA NELLA DIRETTIVA N. 216/343/UE
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onta dell’esplicita previsione d’inammissibilità formulata in seno alla disposizione, con l’effetto inevitabile di accentuare ancor più la generale atmosfera di grave dissoluzione della legalità che impronta il
presente; senza aggiungere che, di fatto, siffatta esegesi tramuta un diritto delle parti – quello alla futura ammissione delle prove (rilevanti) tempestivamente inserite nella lista testi – in una situazione di
completo assoggettamento al potere discrezionale del giudice, potere tanto lato nei suoi confini applicativi da ingenerare quasi inevitabilmente applicazioni pratiche divergenti e dunque spesso gravemente
lesive dell’art. 3 Cost.
Il poco profittevole scambio di un diritto pieno con la facoltà di impetrare l’esercizio del potere giudiziale è dunque l’esito finale dell’operazione.
Ma non basta; assentire all’esegesi dilatante dell’art. 507 c.p.p. implica la conseguenza di accettare,
per così dire ideologicamente, che la ricerca della verità possa giustificare come normale l’occasionale
deviazione da tutte le regole codicistiche in materia di prova, incluse quelle identificabili come regole
d’esclusione.
Si rammentava, in effetti, di recente che «come noto, tali regole non dipendono dalla logica né dalla
loro funzionalità epistemologica e, quindi, dalla loro maggiore o minore utilità nella ricerca del vero,
come talora si ritiene. Esse scaturiscono in misura prevalente, quasi esclusiva, da ragioni di natura etico-politica. Non è tanto la logica che arresta, modifica, altera la ricerca della verità quanto, piuttosto,
l’etica della presunzione d’innocenza, del contraddittorio e del rispetto della persona» 31.
Ecco, al pari della maggior parte delle regole codicistiche di esclusione, l’art. 507 c.p.p., nella versione esegetica sconfitta dalla giurisprudenza dominante, mirava giustappunto a conciliare in delicato
equilibrio “l’etica della presunzione d’innocenza” con l’impulso alla ricerca della verità, sicché non sorprende che, allora, il potere discrezionale del giudice fosse da intendersi esattamente negli angusti limiti di uno strumento eccezionale, il cui uso doveva rimanere certamente confinato alle ipotesi in cui non
venisse in questione l’ottemperanza del pubblico ministero al suo dovere istituzionale di condurre a
giudizio un’accusa fornita delle prove idonee a sostenerla.
È in questa prospettiva che la disposizione europea può offrire una certa utilità, ad onta del suo testo
compromissorio: il tenore dell’art. 6, anzitutto, definisce con chiarezza un concetto che da noi stenta ancora ad essere pronunziato con sufficiente decisione, ovvero quello secondo cui l’accusa pubblica ha un
preciso onere della prova, non pari a quello dell’attore del processo civile, ma anzi più gravoso, posto
che al pubblico ministero (e, di regola, non all’attore) incombe la necessità di superare la presunzione di
cui qui si discorre.
«Gli Stati membri assicurano che l’onere di provare la colpevolezza degli indagati e imputati incomba alla pubblica accusa»: l’incipit della disposizione enuncia una regola rispetto alla quale «l’eventuale
obbligo per il giudice o il tribunale competente di ricercare le prove» è chiaramente inteso come eccezione, meramente tollerabile e per di più configurata non certo come un potere discrezionale, ma come
“obbligo”, ovvero quale fattispecie processuale correlata a precise situazioni concrete.
Sembra allora di poter dire questo sugli effetti della Direttiva nei riguardi dell’ordinamento italiano:
essa esclude la compatibilità col sistema europeo di una disposizione che consente, nella sua applicazione pratica, la completa soppressione dell’onere della prova incombente sul pubblico ministero; ed
esclude pure che le eccezioni alla regola possano essere espresse mediante una norma a carattere discrezionale, che consenta, cioè, al giudice di elidere l’obbligo gravante sull’organo d’accusa in assenza
ta esegesi ha l’indiscutibile pregio di coordinare logicamente l’esplicita previsione dell’inammissibilità della lista, in seno all’art.
468 c.p.p., con la dominante esegesi dell’art. 507; il difetto sembrerebbe, però, allignare giustappunto in questo, che un testo
normativo esplicito (quello dell’art. 468) viene praticamente cancellato in omaggio alla creatività giurisprudenziale che domina
da anni con riferimento all’art. 507 c.p.p. Il difetto, insomma, consiste nella formulazione di un aperto consenso al sempre più
dominante primato del diritto giurisprudenziale; su quest’ultimo argomento, merita leggere il recente contributo di M. Donini,
Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in www.penalecontem
poraneo.it, notando come le osservazioni dell’autore calzino perfettamente rispetto alla situazione sopra descritta nei rapporti tra
artt. 468 e 507 c.p.p., specie laddove scrive: «questo è il problema del tempo presente: l’unificazione dei poteri in quello giudiziario. Il controllore-esecutore co-definisce le regole ad ogni livello, le spiega e le argomenta. Al vertice, poi, il “giudice delle
leggi” … Pare perciò evidente che la giurisprudenza-fonte debba ormai essere salvata dal suo indiscutibile successo, che riempie il vuoto della crisi e dell’inadeguatezza del potere legislativo, ma rappresenta, non solo per il penalista, un problema costituzionale». Sul tema della moderna crisi del principio di legalità, merita attenta lettura il recente lavoro di R.E. Kostoris, Processo
penale, diritto europeo e nuovi paradigmi del pluralismo giuridico postmoderno, in Riv. it dir. proc. pen., 2015, p. 1177.
31
L. Marafioti, Giustizia penale negoziata e verità processuale selettiva, in Cass. pen., 2013, p. 2497.
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di presupposti definiti in modo vincolante, così si conviene ad ipotesi eccezionali rispetto ad una regola.
In breve: è ora di tornare sull’art. 507 c.p.p.
Negli oltre vent’anni appena trascorsi, la disposizione ha cagionato danni notevoli, in un silenzio determinato dall’assuefazione degli operatori come pure dall’autentico amore giurisprudenziale per le
fattispecie indeterminate, idonee a delineare poteri svincolati da confini afferrabili; un amore condiviso
dal legislatore, il quale – a sua volta – sempre più spesso rinuncia alla precisione del dettato normativo
per cedere le scelte effettive nelle mani della iurisdictio. I danni sono sotto gli occhi di tutti: con buona
pace degli ammonimenti spesi da una Corte costituzionale d’altri tempi (quella della sentenza n. 88 del
1991) l’azione penale viene quotidianamente esercitata in assenza del necessario corredo di elementi
dimostrativi, senza che l’udienza preliminare – laddove prevista – svolga il suo indispensabile ruolo di
vaglio sulla correttezza dell’azione esercitata; giunta a dibattimento, l’accusa sfornita di supporto dimostrativo può sempre contare, però, sull’ausilio del giudice, che risulta esteso a comprendere pure i
casi in cui l’accidia del pubblico ministero nel coltivare il suo munus si sia esteso fino ad impedire persino il minimale compito di deposito della lista.
Ad uscirne distrutta, in ultima analisi, è proprio la presunzione d’innocenza, posto che un sistema
del genere consente che l’imputato subisca il trauma del processo, in assenza di quel requisito che solo
vale a conferirgli legittimità ossia la “concretezza” dell’azione 32, il suo essere supportata da dati cognitivi precisi.
Ma non basta: da questa impostazione esce distrutto persino il canone di obbligatorietà dell’azione,
che esige un dovere ben preciso in capo al pubblico ministero: il dovere di indagare, di raccogliere prove, di istruire il caso in vista del giudizio, tutti doveri venendo meno ai quali non si calpesta la forma,
ma di sicuro la sostanza del principio costituzionale. In questa prospettiva, la figura di un giudice che rimedia alle inefficienze del pubblico ministero attivandosi al momento del giudizio, finisce col fornire
ausilio ad una prassi che ormai da anni ha sconfinato i limiti del caso patologico e marginale per diventare la patologica normalità.
L’art. 6 della Direttiva esige che il legislatore ponga mano a questa situazione che si prolunga da un
tempo ormai decisamente eccessivo e, del resto, le possibilità di riplasmare l’art. 507 c.p.p. in termini
compatibili con la Direttiva (e con il giusto processo) sono cospicue: è sufficiente costruirlo – come si
diceva – nei termini di una fattispecie vincolata alla sussistenza di situazioni eccezionali delineate dal
legislatore; per il resto, a rimedio di accidenti vari esiste pur sempre l’art. 493, comma 2, c.p.p., clausola
recuperatoria a sua volta di vasta dimensione applicativa, il cui scarsissimo uso empirico è evidentemente dovuto al ripiegamento della prassi sul paternalistico strumento di cui all’art. 507 c.p.p. 33.
LA PRESUNZIONE D’INNOCENZA E IL DIRITTO AL SILENZIO
L’art. 7 della Direttiva intende disciplinare quell’altro capitale aspetto della presunzione d’innocenza
che ridonda in termini di diritto al silenzio.
«1. Gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuto il diritto di restare in
silenzio in merito al reato che viene loro contestato. 2. Gli Stati membri assicurano che gli indagati e
imputati godano del diritto di non autoincriminarsi. 3. L’esercizio del diritto di non autoincriminarsi
non impedisce alle autorità competenti di raccogliere prove che possono essere ottenute lecitamente
ricorrendo a poteri coercitivi legali e che esistono indipendentemente dalla volontà dell’indagato o
imputato. 4. Gli Stati membri possono consentire alle proprie autorità giudiziarie di tenere conto,
all’atto della pronuncia della sentenza, del comportamento collaborative degli indagati e imputati. 5.
L’esercizio da parte degli indagati e imputati del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi non può essere utilizzato contro di loro e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato ascritto loro».
32
Ancora una volta, concetto cardine della sentenza cost. 15 febbraio 1991, n. 88, cit.
33
Del resto, si è di recente notato come la versione “vivente” e paternalistica dell’art. 507 c.p.p. si presti a comporre i tratti di
un esprit giurisprudenziale caratterizzato da «disomogeneità e incoerenza sistematica» nel confronto con i tanti luoghi esegetici
in cui viene, al contrario, stigmatizzato il disimpegno delle parti e il loro affidamento ai rimedi giudiziali. Sul punto v. R. Lopez,
Intervenuta ammissibilità dell’oblazione per derubricazione del reato, ovvero emendatio iuris e prerogative della difesa: le sezioni unite tornano sull’argomento tra fraintesi e omissioni, in Cass. pen., 2016, p. 2116.
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A fronte di un simile testo, è inevitabile notare come qui la Direttiva sia stata ancor più avara che
negli articoli precedenti; scivolano al di fuori della sua sfera d’azione temi fondamentali come il rapporto tra la presunzione d’innocenza e l’abuso della custodia cautelare; così come solo un distratto cenno
del comma 4 fornisce il placet europeo a tanti sgradevoli mercimoni tra “comportamento collaborativo”
dell’imputato e sconto di pena.
Un’occasione mancata in merito ad un tema su cui sarebbe stato meglio che la Direttiva tacesse del
tutto, in attesa di elaborazioni più consapevoli.
Il presente articolo non impedisce agli Stati membri di prevedere che, in relazione ai reati minori, lo
svolgimento del procedimento, o di alcune sue fasi, possa avvenire per iscritto o senza un interrogatorio dell’indagato o imputato da parte delle autorità competenti in merito al reato ascritto loro, purché
ciò rispetti il diritto a un equo processo.
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