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Franco Roselli, da Blob all’esordio di ‘Un Buddha in giardino’
di Laura Bonelli
IL MATTINO TV
novembre - 5 - 2014
Franco Roselli è uno dei registi della trasmissione Blob, ideata da
Enrico Ghezzi, che ogni sera entra nelle case degli italiani e ripropone
la realtà attraverso i frammenti che la compongono.
Ha scritto per il teatro, per il cinema e ha collaborato con dei veri
colossi come François Truffaut e Rainer Werner Fassbinder.
“Un Buddha in giardino” (Graphofeel Edizioni) è il suo primo
romanzo ed è una saga familiare in cui si intrecciano molte vite, tra il
Connecticut e Parigi.
L’autore entra dentro l’anima dei personaggi e ne narra la
quotidianità e gli ideali, affrontando le storie e i destini di una
famiglia di origine italiana, a contatto con la cultura e la mentalità
americane.
Un Buddha in giardino è una saga familiare con molti
personaggi. Perché hai scelto questa tipologia di racconto e
che cosa ti ha affascinato di più delle storie che hai
raccontato?
Joshua Hill è una strada di Windsor, nel Connecticut, in cui vivono i
Crosby, una famiglia afroamericana, in una casa colma di persone,
suoni, colori e profumi.
Un luogo magico, quasi fuori dal tempo, in cui vivono, nascono, partono, ma soprattutto continuano a
tornare, i protagonisti di questa saga familiare.
E’ un romanzo di storie d’amore intense e leggere, quasi sempre felici, tanto più sono marcate le differenze.
Dalla coraggiosa ed appassionata unione tra Selma una seducente ragazza afroamericana e Tony, uno
sciupa -femmine di origine italiana, nascono i tre figli Louise ,Tony junior ed Henry.
Racconto le storie di ognuno di loro, i loro successi, i fallimenti, le gioie e i dolori che incontrano e superano
,con senso di responsabilità, affrontando gli ostacoli della lingua, razza e culture diverse.
Testimone muto, la statua di un Buddha in giardino, ricorda il principio di non casualità nella vita. Niente
avviene per caso, mai.
Ho sempre raccontato e scritto, come ghost writer, per il cinema e per il teatro, le storie che altri volevano, a
me restava una profonda nostalgia per quei personaggi appena disegnati, che se ne andavano da me, per
avere una vita autonoma sullo schermo o in palcoscenico.
Ho colmato la mia memoria e il mio cuore, in tutti questi anni, di quelle storie, ho trattenuto con tenerezza
anche quelle più dolorose e poi finalmente le ho riprese, almeno in parte, per raccontare la saga della famiglia
Crosby, in UN BUDDHA IN GIARDINO.
Tu ha lavorato a fianco di grandi nomi come Fassbinder e Truffaut. Che ricordi hai di loro?
Sono state esperienze profonde, con entrambi i registi anche se erano totalmente diversi fra loro ed è stato
diverso il mio modo di collaborare con entrambi.
Truffaut lo conobbi per caso, dopo essere stato coinvolto nella riscrittura di alcune parti minute del film “La
signora della porta accanto” . Ero terrorizzato, non capivo cosa volevano da me, cosa si aspettavano. Mi
ritrovai con due pagine di descrizione di un personaggio femminile, minore, nell’equilibrio del racconto, una
donna di una certa età che aveva tentato il suicidio ed era rimasta offesa nel corpo. Poche battute. Dovevo
ricreare.
Presentai allo sceneggiatore una quindicina di pagine.
Una mattina all’alba, un freddo, che arrivava alle ossa, fui chiamato sul set, mentre c’erano solo i tecnici e
lui..Truffaut. Teneva tra le mani il mio lavoro ,io ero nascosto tra i tecnici del set, mi fece avvicinare, lo
sceneggiatore mi presentò al regista.
In un francese semplice ,inserendo qualche espressione in lingua italiana, mi ringraziò per la delicatezza nel
ritrarre il personaggio e per la passione, tutta italiana che aveva assaporato, poi ,aiutandosi con lo
sceneggiatore mi disse che dovevo imparare a dominare le parole, poiché la soglia dell’attenzione di un attore
e dello spettatore è fragile e non può essere superata ,si rischia la caduta dell’attenzione e la perdita
dell’armonia. Giusto il tempo di una canzone, quello era il tempo.
Riscrissi il tutto in una notte, solo cinque pagine. Perfetto.
La questione dei tempi, della lunghezza nella scrittura la ritrovai anche collaborando con il gruppo che
seguiva R.W.Fassbinder.
Il regista tedesco era un serio e grande perfezionista, nulla doveva essere lasciato al caso.
Io lavoravo assieme ad un gruppo di persone che saltava da un progetto all’altro, film finito da editare, film
in lavorazione da seguire e film nuovo in fase di scrittura della sceneggiatura. Lavoravo con questo gruppo da
diversi mesi, non sapevo se Fassbinder fosse a conoscenza della mia presenza, mi sbagliavo sapeva il nome di
tutti e un giorno mi vide tra un gruppo di collaboratori mentre ero incantato a rivedere alcuni film tedeschi in
bianco e nero degli anni 20. Non conoscevo la lingua tedesca ,la mia emozione nasceva dalle immagini, dal
ritmo e dalla luce sui volti degli attori, sugli oggetti, sui dettagli.
Prese una sigaretta delle mie e sedette accanto a me, mi fissò a lungo poi chiamò un suo assistente e mi
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consegnò dei fogli scritti in inglese era una scena di un film che era in preparazione, il dialogo tra due anziani
e un giornalista di fronte ad una casa, mi fece raccontare la storia dal suo assistente e se ne andò. Il film era
Veronika Voss.
Sei uno dei dodici componenti dell’ “armata” di Blob di Enrico Ghezzi. Che occhio ti ha formato
questo tipo di lavoro e quanto ti serve per le tue incursioni in campo letterario?
Dopo molti anni di vita come ghost writer sono approdato alla RAI a Roma.
Per alcuni anni ho svolto la funzione di programmista regista, poi nel 1996 sono entrato nel gruppo
redazionale di Blob creato da Enrico Ghezzi. Non molti sanno che il lavoro di Blob è un processo creativo
particolare che comprende molte ore di visione della televisione, guardare tutti i programmi operando una
scelta di alcune parti ,frammenti, spesso minimi, di alcuni secondi appena che, montati uno sull’altro danno il
risultato di una trasmissione indefinibile che si chiama BLOB.
Nel lavoro a Blob ho ritrovato ancora una volta nella mia strada creativa il concetto di brevità e di essenziale.
Ciò che non dice nulla, che non appartiene al nucleo centrale dell’immagine , in una frase, nelle note di una
canzone, può essere abbandonato, si può raccontare anche solo attraverso l’essenziale.
Quando ho deciso di scrivere UN BUDDHA IN GIARDINO ricordo che avevo ancora con me tutte quelle storie
raccontate ,inventate, ascoltate, scoperte e ho deciso di mescolarle insieme come gli ingredienti di un dolce,
come raccogliendo i colori sparsi di un dipinto ancora non presente.
Da subito la mia scrittura mi è apparsa scarna, buona per i dialoghi, le conversazioni tra personaggi, ma
ancora un poco fragile per affrontare la strada di un racconto complesso come un romanzo.
Ho tentato di allargare il racconto, ma mi addormentavo, allora mi sono ricordato…giusto il tempo di una
canzone, non oltre.
Così ho ripreso a scrivere seguendo il ritmo, attento a non far scendere la soglia dell’attenzione, a allo stesso
tempo di ritrarre persone vere come quelle che avevo conosciuto, dettagli precisi, suoni intensi e profumi
indimenticati.
Sviluppando il racconto mi sono ritrovato lo stesso ritmo usato nel scegliere e montare Blob, lasciando al
lettore la possibilità di alzare gli occhi dalla pagina scritta e di immaginare altro, oltre a quello che io avevo
scritto, come se una parte del viaggio appartenesse al lettore nel caso di UN BUDDHA IN GIARDINO o allo
spettatore televisivo nel caso del Blob quotidiano.
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