Circolo Culturale La Torre - Chiavenna

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Sposarsi per davvero. In chiesa, anche gli atei
http://www.papalepapale.com/ Pubblicato il 1 agosto 2016 in L'Incredulo
Sposarsi per davvero. In chiesa, anche gli atei
La cerimonia di nozze. Chi l’ha vista? Molti invitati la saltano. Perché è una formalità, perché vengono da fuori
e non fanno in tempo, perché l’importante è la festa; le danze, l’abbuffata, la torta e l’engagement session, il
filmino del prequel; già, usa molto montare clip e foto della vita precedente degli sposi insieme a interviste
semiserie a parenti e amici, proiettandole in sala prima del dessert. Può anche essere divertente, con gli sfottò
degli amici in dialetto, magari. Ora, con questa maratona da affrontare (giù da noi non meno di otto nove ore)
come volete che si stia a sopportare pure il rito?
Quello civile ci ruba una ventina di minuti, sepoffa’. Ma quello religioso ci blocca per un’ora e mezza! Tanti
invitati, poi, non sopportano i preti, specie quelli – pochi –
che hanno il coraggio di ricordare nella predica la diversità
dei ruoli. Sarà per questo che una coppia su due ormai si
sposa in municipio, una scartoffia tra le altre, l’atto notorio
che ci mette a posto con l’anagrafe.
Un matrimonio è sempre toccante, lo ammetto, ma
perché lasciarlo celebrare a un assessore? Sposatevi in
chiesa, cioè per davvero. Anche se non ci credete.
Si, è vero, ci sono assessori dotati di piacevole aspetto e notevole facondia, così come ci sono preti
inguardabili e inascoltabili. Sì, è vero, ci sono saloni di proprietà comunale più fastosi, più ornati, più eleganti di
tante chiese, specie di certi orrori consegnatici dalla modernità. Anche se a volte, guarda caso, il luogo deputato
per il patto civico è una chiesa sconsacrata, come la vecchia cappella padronale sita nel parco di qualche
megaristorante per cerimonie. E’ una certificazione deprimente di impotentia celebrandi, una caricatura, come
una messa nera, comunque un pessimo viatico per un’impresa che non perdona le finzioni.
Certo, la fascia tricolore ha il suo fascino: si può andare orgogliosi di unirsi davanti alla Patria, nulla da
eccepire (Giuseppe Mazzini disse che la famiglia è la patria
del cuore). Ma l’assessore sancisce, non benedice. Non
siete interessati all’acqua santa? Va bene, limitiamoci
allora a considerare le formule.
L’Assessore enuncia gli articoli del codice civile sui diritti e
sui doveri dei coniugi: obbligo di coabitazione, di assistenza
materiale (anche morale, è scritto, benché non si capisca
come si misuri, in termini di codice civile, questo
adempimento morale); si menziona anche l’obbligo alla
fedeltà (se infranta può condizionare eventuali alimenti) e,
naturalmente, alla contribuzione in relazione alle proprie
sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o
casalingo. Poi vi verrà chiesto, molto romanticamente, se
intendete usufruire del regime di comunione o di quello di separazione dei beni.
Se però volete sentir risuonare le parole amare e onorare per tutta la vita, dovete entrare in un Tempio. Se
volete che il vostro amato prometta di essere fedele sempre, nella gioia e nel dolore, dovete presentarvi a un
sacerdote, a quel sacerdote che chiuderà con un monito solenne: “L’uomo non osi separare ciò che Dio
unisce”. Ooops, ci si era ripromessi di non nominare Dio, che qui non sarebbe invano ma potrebbe scatenare
avversioni ideologiche.
Tuttavia è un patto sacro quello che stiamo stringendo, per quanto prosaica, materialista, sia la nostra visione del
mondo. Nessun tifoso, mai, rinnega la sua squadra,
cambiando in corsa perché gli piaceva il gioco di un’altra
squadra. Sarebbe oggetto di un ostracismo più feroce di
quello riservato a chi abbandona la fede musulmana. Il
tifoso è legato fino alla morte a un colore. Non ai giocatori,
non all’allenatore, non al Presidente, ma al colore di una
maglia.
Affronterebbe qualsiasi disagio per la gloria di quella
maglia, più che per i colori della bandiera nazionale. Per
Marc Augé la partita è una liturgia. Sacro è il prato di quello
stadio, sacri gli spalti della curva dove appoggia le chiappe.
Ma guai a nominare la parola ‘sacro’ a proposito del
matrimonio.
All’assessore basterà sapere che siete cittadini non coniugati; il prete pretenderà di accertare che siate (un
po’) cristiani o che facciate finta di esserlo.
Vi obbligherà a un corso prematrimoniale. A molti risulta insopportabile (e data la preparazione dei preposti, non
hanno tutti i torti) eppure quanti hanno davvero riflettuto su cosa sia un matrimonio, per quali dannati – o
benedetti – motivi ci si stia sposando?
Come non pretendere un minimo di serietà dai convolanti? Come far comprendere loro che non dovrebbe trattarsi
di una sorta di scappata a Las Vegas come quelle che hanno visto
in tv? Indurli per un momento a pensare che non è una questione
privata?
Che si promette solennemente di fronte ad altri (se non volete
nominare l’Altro)?
L’assessore vi promette che sarete seguiti e assistiti
dall’anagrafe, dal catasto, dalla tari, dalla tasi dalla tarsu, dalla
tares, dalle tasse di successione, dall’ufficio vaccinazioni, dagli assistenti sociali. Il prete vi dirà che sarete guidati
direttamente da Lui, anche se cambia la giunta. Non siamo obbligati a credere alla Divina Provvidenza ma se
dovesse risultare operativa (mai dire mai) perché privarsi di questa opportunità? E’ aggratis.
L’ISTAT certifica che “la propensione a separarsi è molto inferiore – e stabile nel tempo – nei matrimoni
celebrati con il rito religioso”. Bella forza, direte: i cattolici sono succubi dei divieti ecclesiastici. Ma come si può
escludere che la benedizione funzioni a prescindere?
Alzi la mano chi non tocca ferro davanti a gatti neri o auguri di sventura. E certo non vi sposereste, potendo
scegliere, di Venere o di Marte. Non è vero ma ci credo, si dice a discolpa.
Se però credete alla sfiga dovete anche credere alla buona ventura: non potete lasciarvi sfuggire,
pascalianamente, l’opportunità di partire col piede giusto.
Solo un puntiglio perverso può portarvi ad abbandonare la
tradizione, a rifiutare la perpetuazione del rito che ci lega a
tutti i nostri antenati.
Elio Paoloni