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LA STAMPA
SABATO 28 GIUGNO 2014
MARIO DEAGLIO
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
ella giornata di ieri, le questioni
italiane, pur molto importanti e
meritevoli di analisi, sono passate al terzo posto dietro due avvenimenti del tutto straordinari:
con la designazione – mediante la procedura
insolita del voto a maggioranza – del lussemburghese Jean-Claude Juncker a presidente
della Commissione europea, 26 paesi dell’Unione hanno deciso di dare uno schiaffo
sonoro al Regno Unito del primo ministro
Cameron, unico, insieme con il primo ministro ungherese, a votare contro Juncker.
Con una prova di forza assai rara per un
consesso di paesi sempre inclini al compromesso, l’Unione non ha ceduto alle minacce, un
po’ maldestre, di Cameron che da tempo fa balenare la possibilità di un referendum che sancisca l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. E
forse sia l’Europa sia la Gran Bretagna starebbero meglio se Londra fosse legata all’Unione
da semplici accordi commerciali, dal momento
che non vuole rinunciare alla sua posizione di
ombelico finanziario del mondo globalizzato
sulla quale ha costruito la sua economia postindustriale, per sottostare alle più severe norme europee sui movimenti dei capitali.
Non contenti di aver sfidato la Gran Bretagna, nello stesso giorno i ministri europei
hanno sfidato anche la Russia, firmando con
l’Ucraina (e anche con la Georgia e la Moldova) un trattato di associazione che fa entrare
questi tre paesi in una sorta di «area commerciale europea», sottraendoli in parte a
rapporti stretti e privilegiati con Mosca. E
contro la Russia hanno addirittura usato toni
da ultimatum, minacciando sanzioni qualora
non si vada verso negoziati di pace tra ucraini
filorussi e ucraini filoeuropei. E’ ben possibi-
N
L’EUROPA
HA SVOLTATO
ORA STA A NOI
le che dietro queste parole altisonanti ci siano in realtà trattative discrete per sbloccare
la crisi ucraina, ma era ormai molto tempo
che da Bruxelles non arrivano prese di posizione di alto profilo.
L’Europa che emerge dalla riunione del
Consiglio del 27 giugno è, in altre parole,
un’Europa diversa che si prepara a vivere in
un pianeta sicuramente diverso, come mostrano gli avvenimenti di Siria ed Iraq, un’Europa che recupera la dimensione politica e
cerca di affrancarsi dal predominio della burocrazia europea. Ed è in questo contesto di
svolta, di rottura con un passato anche recente che si collocano le problematiche italiane.
Per tornare a metafore calcistiche, la delegazione italiana non ha né vinto né perso, ha ottenuto un dignitoso pareggio, proprio quello
che è mancato alla nazionale; questo dignitoso pareggio consente all’Italia di passare il
turno, ossia di prepararsi a una serie di confronti, a un irrobustimento della debole crescita attuale nel quadro di un’Unione europea
in via di rinnovamento.
La nuova dimensione politica implica che lo
sforzo stesso di produrre riforme abbia il suo
peso nella valutazione finanziaria di un paese. Il
famoso (famigerato?) limite del 3 per cento resta ma gli elementi che servono a determinarlo
potranno cambiare: la valutazione sarà diversa
se al tre per cento si arriva per non essere riu-
sciti a contenere la spesa pubblica corrente o se
ci si arriva per aver messo in moto una vigorosa
campagna di investimenti pubblici, in assoluta
trasparenza e in coerenza con obiettivi di crescita.Lapresenzaonodiundisegnocoerentedi
crescita, e di una sua trasparente attuazione,
potrà fare la differenza nell’esame della situazione dei conti, non ci saranno quasi certamente degli «sforamenti» ma piuttosto degli «slittamenti» di termini se è dimostrabile che il paese
ha messo in moto un processo di riforme. Che
naturalmente sono quelle che l’attuale governo
ha avviato e che si appresta a realizzare, alcune
fin da subito, altre nei mille giorni che il presidente del Consiglio ha espressamente richiesto.
La palla torna quindi all’assemblea di Montecitorio (e, ancora per poco, se le cose vanno
come il governo auspica, anche a quelle di Palazzo Madama). E come osservatore di ciò che
succederà in quell’assemblea ci sarà anche
l’Europa. Che non sarà molto tenera verso intoppi derivanti da guerriglie parlamentari che
risulterebbero incomprensibili ai nostri partner al di là delle Alpi. Ci si aspetta, in sostanza
un esame dei testi delle riforme al tempo stesso più tecnico e più rapido e da questo dipenderà anche quanti e quali fondi europei saranno a
disposizione per gli investimenti del paese. In
un’Europa che ha «svoltato» il Parlamento italiano ha molte responsabilità in più.
[email protected]
IL TOUR DE FORCE ALL’ETÀ DI 77 ANNI
ANDREA TORNIELLI
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
motivo di preoccupazione, alimentando le voci più disparate.
Dunque come sta il Papa? Doveva recarsi al Policlinico Gemelli,
celebrare all’aperto alle 16 con
un sole che ieri a Roma spaccava le pietre,
nel momento più caldo della giornata, ma
all’ultimo istante, con la papamobile già a
motori accesi, Francesco ha dato forfait.
Non è la prima volta che accade e il ripetersi di questi episodi contribuisce ad accrescere domande e anche speculazioni.
Padre Federico Lombardi ha comunicato
che oggi e domani gli impegni del Papa sono tutti confermati - compresa la celebra-
E
zione in San Pietro della messa per la festa
dei santi Pietro e Paolo, patroni di Roma - e
ha aggiunto che «non vi sono motivi di preoccupazione» per la sua salute. In effetti se
ieri pomeriggio fosse accaduto qualcosa di
serio, invece di restarsene tranquillo in Vaticano Francesco al Gemelli ci sarebbe andato di corsa, ma come paziente.
Vale la pena di ricordare che, a motivo
della celebrazione della messa mattutina
a Santa Marta con una cinquantina di fedeli e la telecamera del Centro Televisivo
Vaticano, Papa Bergoglio è monitorato
quotidianamente come non accadeva neanche con i suoi immediati predecessori, i
quali possono avere avuto sindromi influenzali, momenti di stanchezza e indisposizioni delle quali nessuno ha mai avuto notizia.
Certamente all’inizio di quest’estate
Francesco è stanco: l’anno che ha vissuto
non è stato intenso, è stato un tour de force
di udienze, incontri, messaggi, celebrazioni e viaggi che avrebbe fiaccato chiunque
(e basta interrogare i collaboratori costretti a seguirlo ad esempio nelle visite alle
parrocchie romane per sapere quanto
stancanti siano). Quello che l’attende, dagli
incontri per la riforma della Curia al viaggio in Corea a Ferragosto, nella stagione
più calda e umida di quel Paese, non è da
poco. In più, Bergoglio per abitudine non fa
vacanze. La sua è l’agenda fittissima di un
pastore che, noncurante dell’età - 77 anni
compiuti - si spende fino in fondo, senza
riuscire a dire di no a chi vuole incontrarlo
o lo invita. Di tanto in tanto il suo fisico gli
ricorda che non ha più trent’anni.
GIOVANI, EMERGENZA DI TUTTI
LUIGI LA SPINA
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
quella di un Paese nella serie
B del mondo. Dove i giovani
più fortunati, quelli nati in famiglie abbienti, saranno costretti a emigrare e, per gli altri, il destino è quello della sottoccupazione,
sempre più precaria e meno qualificata.
Abbiamo già tradito una volta i nostri figli e
i nostri nipoti, durante gli ultimi due o tre decenni dello scorso secolo, quando abbiamo riversato sulle loro spalle il più grande debito
pubblico di uno Stato occidentale, un cappio al
loro collo che li sta soffocando, perché ha ridotto in maniera intollerabile l’investimento
sulla loro vita. Se non riconosciamo l’enorme
responsabilità di questo primo tradimento nei
loro confronti, se non cercheremo urgentemente di limitare i danni di questa gravissima
colpa generazionale e di salvare in qualche
modo il loro futuro, li tradiremo una seconda
volta e, questa volta, in modo irrimediabile.
I numeri sono noiosi, ma in certi casi sono
troppo eloquenti per non citarne almeno qualcuno. Perché non si tratta di discutere opinioni, ma di voler prendere atto di una realtà di
fronte alla quale non bastano lamentazioni rituali, promesse elettorali, impegni di buone intenzioni. Occorre una ribellione della coscienza pubblica, in nome della nostra responsabilità più grande, quella di padri e di madri. Ecco
alcuni dati, davvero sconvolgenti.
Il tasso di occupazione dei giovani diplomati e laureati italiani, con un titolo di studio conseguito da uno a tre anni prima, è ar-
E’
rivato al 48,3 per cento, inferiore di ben 27
punti rispetto alla media dei 28 Paesi Ue. La
spesa pubblica per l’istruzione universitaria, rispetto al Pil, è in Italia 0,83. La media
della zona euro è 1,27 e, tra tutti i 28 Paesi
dell’Europa, siamo al penultimo posto, perché superiamo solo la Bulgaria. In ricerca e
sviluppo il confronto è umiliante: la media
dei 28 Stati Ue, sempre rispetto al Pil, è di
2,07; la nostra spesa è quasi la metà, 1,27.
I giovani in Italia hanno una grave colpa: sono pochi e a nessuno interessa difenderli. La
classe politica non li giudica un bacino di voti
determinante, anche se il successo travolgente
del movimento di Grillo tra di loro, documentato dalle analisi sui flussi elettorali, incomincia a
suscitare qualche dubbio, almeno tra i politici
più avvertiti. Il governo Renzi ha preferito privilegiare l’investimento nell’edilizia scolastica,
per ragioni di occupazione in un settore in crisi
e di visibilità mediatica, mentre sull’università
l’ineffabile ministro Giannini è arrivata al punto di promettere, per basse ragioni elettorali,
l’eliminazione del test d’ingresso a medicina.
Un provvedimento irrealizzabile, tra l’altro,
nelle condizioni dei nostri atenei, come qualunque persona che li conosca sa benissimo. È vero che l’avventata promessa non ha procurato
voti al partito del ministro, ma quell’annuncio
non fa ben sperare sulle sue intenzioni future.
I sindacati, poi, non hanno nessun interesse
a sostenere le ragioni dei giovani, perché i loro
iscritti sono pensionati e professori. Difendono quelle categorie con ostinazione conservatrice ma insuperabile e la loro potenza è tale
da sfidare con successo qualsiasi intenzione
innovativa e meritocratica venisse mai in
mente a un ministro. Basti pensare alla sorte
del povero Berlinguer, quando osò varare il famoso «concorsone». È vero che i sindacati, così, stanno mettendo a rischio il futuro delle loro organizzazioni, ma i dirigenti, come tutti i
dirigenti, si occupano delle loro poltrone, non
di quelle dei successori.
Anche gli imprenditori, a parole tanto
preoccupati della formazione di quello che
chiamano il «capitale umano», guardano solo alle esigenze contingenti e non a quelle
che determineranno il futuro delle loro
aziende. Cercano figure professionali che
non trovano, tornitori e tecnici specializzati, ma non sono disponibili ad assumere diplomati e laureati, perché costano e, magari, pretendono di fare quello per cui hanno
studiato. Senza pensare che, per sopravvivere sui mercati internazionali, il loro «capitale umano» deve raggiungere i livelli più alti di competenze scientifiche e tecnologiche.
Ecco perché senza una presa di coscienza
dell’opinione pubblica nazionale che non si
rassegni a vedere figli e nipoti emigranti
senza ritorno o camerieri e guide turistiche
per visitatori delle bellezze italiche, non ci
sono speranze di interventi pubblici e privati capaci di invertire l’andamento di una
condizione giovanile disperata, soprattutto
al Sud del nostro Paese. Se le colpe della
passata generazione non bastano a un atto
doverosamente riparatorio verso la nuova,
facciamo appello almeno all’egoismo, un vizio che, qualche volta, costringe persino a
una costretta generosità. Qualcuno davvero
può credere che i nostri pochi e precari giovani saranno in grado di pagare le pensioni
ai tanti anziani, per di più e per fortuna, destinati a una lunga vecchiaia?
Lettere e Commenti .23
.
LA VITA
NELLA CITTÀ
DI UBER
CARLO RATTI E MATTHEW CLAUDEL
ais oui! Come sa qualunque studente francese di quinta elementare, Internet è stato
inventato a Parigi. Si chiamava Minitel, abbreviazione di Médium interactif par numérisation d’information téléphonique, una
rete di quasi nove milioni di terminali che consentiva alle
persone e alle organizzazioni di connettersi le une alle altre e
discambiareinformazioniintempireali.Minitelharegistrato un boom durante gli Anni 80 e 90, poiché sfornava una
serie di app online che anticipavano la frenesia globale dotcom. Poi subì un lento calo fino alla totale disattivazione dopo l’affermarsi del dominio globale del «vero» Internet.
Sia Minitel che Internet si basavano sulla creazione
delle reti di informazioni digitali. Le loro strategie di
implementazione, tuttavia, differivano enormemente.
Minitel aveva un sistema top-down; un’importante
azione di dispiegamento lanciata dal servizio postale
francese e dall’operatore nazionale di telecomunicazioni. Funzionava bene, ma il suo potenziale di crescita e
innovazione era necessariamente limitato dalla sua rigida architettura e dai protocolli brevettati.
Internet, invece, si è evoluto in modo bottom-up, riuscendo a sfuggire agli iniziali appelli di regolamentazione dei colossi delle telecomunicazioni. Alla fine è diventato lo strumento caotico e rivoluzionario che ha cambiato il mondo che conosciamo oggi («un dono di Dio»,
come lo ha recentemente chiamato Papa Francesco).
Oggi, un’altra rivoluzione tecnologica è alle porte. Le pervasive reti digitali stanno entrando nello spazio fisico, dando
vita all’«Internet of Everything» – la rete vitale della «città
intelligente». E, ancora una volta, un corollario di modelli di
implementazione sta emergendo in diversi parti del mondo.
Negli Stati Uniti, l’idea generale di spazio urbano intelligente è cruciale per l’attuale generazione delle start-up di
successo. Uno degli esempi recenti è Uber, una app per
smartphone che consente a chiunque di chiamare un taxi o
essere un driver. Le operazioni della società vengono polarizzate – Uber è oggetto di proteste e scioperi in tutto il mondo (soprattutto in Europa) – eppure è stato recentemente
valutato alla stratosferica cifra di 18 miliardi di dollari.
Oltre a Uber, il termostato intelligente Nest, il sito di
condivisione di case AirBnB e il più recente sistema per
la domotica di Apple, per citare solo alcune innovazioni, dimostrano le nuove frontiere dell’informazione digitale che penetra nello spazio fisico. Simili approcci
ora promettono di rivoluzionare molti aspetti della vita
quotidiana – dal pendolarismo al consumo energetico
alla salute personale – e stanno ricevendo enorme supporto dai fondi di venture capital.
In Sud America, Asia ed Europa, i governi a tutti i
livelli stanno rapidamente identificando i potenziali benefici della creazione di città «smart» e stanno lavorando per sbloccare significativi investimenti in quell’area.
Rio de Janeiro sta creando le basi per il suo centro di
«Smart Operations»; Singapore sta per imbarcarsi in
un ambizioso progetto di «Smart Nation»; e Amsterdam ha recentemente incanalato 60 milioni di euro (81
milioni di dollari) in un nuovo centro urbano innovativo
chiamato Amsterdam Metropolitan Solutions. Il programma Horizon 2020 dell’Unione europea ha destinato 15 miliardi di euro nel 2014-2016 – un significativo
impiego di risorse destinate all’idea di città intelligenti,
soprattutto in un momento di severe restrizioni fiscali.
Ma in che modo tali finanziamenti possono essere
impiegati con la massima efficienza? Allocare ingenti
somme di denaro pubblico è davvero il modo giusto per
incentivare la nascita delle città intelligenti?
Il governo riveste certamente un ruolo importante nel
sostenere la ricerca accademica e nel promuovere le applicazioni in quei campi che potrebbero essere meno allettanti per il venture capital – domini privi di fascino ma cruciali,
come i rifiuti urbani o i servizi idrici. Il settore pubblico può
altresì promuovere l’uso di piattaforme aperte e standard
in tali progetti, fatto che ne accelererebbe l’adozione nelle
città di tutto il mondo (l’iniziativa «protocollo della città» di
Barcellona è un passo in questa direzione).
Ma, fatto più importante, i governi dovrebbero utilizzare i propri fondi per sviluppare un ecosistema bottomup orientato alle città intelligenti, similare a quello che si
sta sviluppando negli Usa. I policy maker devono andare
oltre al sostegno dei tradizionali incubatori producendo
e coltivando i quadri regolamentari da sviluppare. Considerando gli ostacoli giuridici che continuamente colpiscono applicazioni come Uber o AirBnb, questo livello di
supporto è estremamente necessario.
Allo stesso tempo, i governi dovrebbero astenersi
dalla tentazione di rivestire un ruolo top-down più deterministico. Non è una loro prerogativa decidere quale
sarà la prossima soluzione di «smart-city» – o, cosa
peggiore, utilizzare i soldi dei cittadini per rafforzare la
posizione delle multinazionali tecnologiche che si stanno ora espandendo in questo campo. Le offerte pronte
all’uso, proprietarie e omologate di queste società rappresentano un percorso che dovrebbe essere evitato a
tutti i costi – per non risvegliarci nella città di Minitel.
M
Traduzione di Simona Polverino
Carlo Ratti è docente al Mit,
dove dirige il Senseable City Laboratory.
Matthew Claudel è ricercatore presso
il Senseable City Laboratory.
Copyright: Project Syndicate, 2014.
www.project-syndicate.org