Vai - IRRE Toscana

Transcript

Vai - IRRE Toscana
1. Su contadu de su pohu ipinu - Il racconto del porcospino
Introduzione
La fiaba si situa senza incertezze nel gruppo delle fiabe di magia classificate al numero 425 di
Aarne e Thompson che porta il titolo "La ricerca del marito perduto", ed in particolare mostra
coincidenze con il sottotipo 425 A "11 mostro o animale come sposo, o Amore e Psiche".
Un’ulteriore somiglianza può essere indicata col tipo AT 441 "Hans, porcospino mio", se non altro
per il fatto che il mostro, come nella fiaba sarda, è un porcospino; ma altre coincidenze potrebbero
essere individuate nel fatto che anche qui il porcospino ottiene la sposa per aver offerto un
servigio. In ogni caso i due intrecci (AT 425 e 441) hanno come nucleo centrale la leggenda di
Amore e Psiche contenuta nell’Asino d’oro di Apuleio (11 sec. d.C.) da cui tuttavia non derivano
direttamente.
Nelle sue linee generali la fiaba illustrata dal Thompson presenta un’introduzione nella quale si
racconta come la fanciulla cada nelle mani di un mostro o animale che sposa. Per mezzo di un
bacio, di lacrime etc., il mostro che è un principe stregato, riprende le sue sembianze ma, per una
disobbedienza o imprudenza della sposa, scompare dopo averle dato indicazioni sul modo di
ritrovarlo. La sposa, anche con l’aiuto di mezzi e aiutanti magici, ritrova lo sposo e lo riconquista.
Il testo sardo si discosta alquanto da questo svolgimento, del quale conserva sostanzialmente il
motivo del principe mostro al quale solo l’amore di una fanciulla potrà rendere il primitivo aspetto,
e quello della scomparsa e successiva ricerca del mostro che, nel nostro caso, si verifica prima e
non dopo la trasformazione come nell’intreccio base di AT. Il giovane riprende le sue sembianze
nel momento in cui la fanciulla trovatolo morente piange e dice finalmente le parole d’amore da lui
invocate e dalle quali dipende la sua liberazione dall’incantesimo.
La narrazione si avvale di una narratrice eccezionale che comunica in maniera veramente efficace
tutto il pathos della vicenda
La fiaba è molto diffusa in Europa dove gode la massima popolarità nella parte occidentale. In
Italia è nota anche per la versione letteraria datane da G.B. Basile nel Pentamerone. In Sardegna,
allo stato attuale delle ricerche, se ne conoscono parecchie versioni variamente distribuite sul
territorio.
Ozieri 1971. Narratrice: Peppina Falconi di anni 70, sarta, scolarità 4° elementare. Fonte:
MANUNTA, n.18, p.237 sgg.; classificazione: AT 425 A.
Su contadu de su pohu ipinu
Il racconto del porcospino
Culthu este su contadu de su pohu ipinu. In
unu tempu lontanu, in una idda povera,
viviana maridu e muzere cun una pisedda,
poverissimos su mantessi. Tanta sa
povelthade ei sa debilesa propriu de su
tempusu... de comente fini, de comente fin’
poveros si sunu... si sunu immalaidados,
Questo è il racconto del porcospino. In un
tempo lontano, in un povero paese,
vivevano marito e moglie con una bambina,
poverissimi anche loro. Era tanta la miseria
e la debolezza proprie di quel tempo, di
quanto erano poveri, che si sono ammalati
entrambi; prima è morta la moglie, poi è
morto il marito e hanno lasciato questa
s’unu ei s’atteru; sa prima è moltha sa
muzere. poi è molthu su maridu, e ana
lassadu cultha pisedda sola e offana, in
cudda idda. Sas tiasa, unu pagu lontanasa
ma parentese de su babbu e de sa mama,
s’ana ritiradu cultha pizzinna, promittende
tanta promissas chi cultha pisedda la
trattaian bene. E gitta si l’ana a una
campagna, ca viviana in una campagna, fini
palthores.
In cudda campagna, cuddas promissas sunu
ruttas luego a terra, custa pizzinna la
trattaiana male, no aiada su tantu nezessariu,
tantu tribulada de Su trabagliu, chi non nde
podia piusu. Issa naraia: «Pruit’è chi mi nde
azis attidu a inoghe. pro no mi trattare
’ene!» «No deves essere goi imberriada,
mamma tua e babbu tou t’ana imberriadu,
ma inoghe che ses pro trabagliare. Ti
pagamos e tue deves trabagliare.»
Issa ilthaia sempre pianghende e naraiada:
«Mamma e babbu, pessade bois, pessadebei
’oisi a mie, chi mi sezis lassende goi, sola e
abbandonada dae tottu.» Fattende tottu
culthas cossiderasciones, a bidu una femina
chi si l’è presentada: «Fiza mea cara, pruite
ses pianghende?» a nadu. E l’a nadu totta sa
passione sua. A nadu: «Mi sun trattende
troppu male, non nde potto pius. So una
pover’offana, chi m’ ana remtmidu nende
chi mi trattaian bene, m’ana gravadu meda
de trabagliu, robba chi eo no potto faghere,
ca sa’ folzas mi mancana, ca» a nadu «no
mi dana tanta cosa a manigare, su
suffiziente no mi lu dana a manigare.» «No
ti disiperes no, chi asa un’anima preghende,
fossi ded’essere s’anima ’e mamma tua,
s’anima ’e babbu tou, chi t’ana a cambiare
su tempus. Ista tranquilla.» «Ih! ma intanto»
a nadu «como..,» Cudda femina elthe
ihumpafida.
bambina sola e orfana in quel paese. Le zie,
un po’ lontane ma parenti del babbo e della
mamma, hanno preso con loro questa
bambina facendo tante promesse di trattarla
bene. E l’hanno portata in una campagna,
perché vivevano in una campagna, erano
pastori.
In quella campagna le promesse ben presto
son cadute a terra: trattavano male questa
ragazza, non aveva il necessario per vivere,
era tanto oppressa dal lavoro che non ne
poteva più. Lei diceva: «Perché mi avete
condotto qui per non trattarmi bene?» «Non
devi essere così viziata, mamma tua e babbo
tuo ti hanno viziato ma qui sei per lavorare.
Ti paghiamo e tu devi lavorare.»
Lei piangeva sempre e diceva: «Mamma e
babbo, pensate voi, pensateci voi a me,
perché mi state lasciando così, sola e
abbandonata da tutti?»
Mentre faceva queste considerazioni ha
visto una donna, che le è apparsa: «Figlia
mia cara, perché stai piangendo?» ha detto.
E le ha fatto tutta la storia della sua
sofferenza.
Ha detto: «Mi stanno trattando troppo male,
non ne posso più. Sono una povera orfana,
mi hanno raccolto dicendo che mi avrebbero
trattato bene; mi hanno caricato di lavoro,
cose che non posso fare perché mi mancano
le forze, perché» ha detto «non mi danno
molto da mangiare, il necessario non me lo
danno da mangiare.»
«Non disperarti, no, perché c’è un’anima
che prega per te, sarà forse l’anima di
mamma tua o l’anima di babbo tuo, e ti farà
cambiare il tempo. Sta tranquilla.» «Ih! ma
intanto» ha detto «adesso...» Quella donna è
scomparsa.
Dada l’ana tottu culthos pannos a samunare Le hanno dato da lavare tutti questi panni e
chi los alla polthos in unu carru pro alidare a li hanno messi su un carro per andare al
su riu: «Ih! Como è mezzusu! E comente
fatto a samunare totta cultha robba!» a nau.
«Eh, Deu meu!», issa supirende cun cuddas
lagrimas, nachi, finas a terra. Ascia sos oios
e bidede culth’animale falende dai cultha
montagna, un animale orribile, chi si
assimizaida a s’erittu, ma sas ipinas nachi
fini mannas. Gighia sos oios nachi chi
parian duos... duos... duos titones de fogu. E
faladu elthe, e andadu elthe a incuddane:
«Narami.» nachi «pruite ses pianghende?»
Issa timendelu... timendelu... I’a nadu totta
s’ilthoria. «Bae, fiza mea.» a nadu «e
drommidi sutta de cudd’avure, poi» a nadu
«a s’ihidada as’a crobare tottu fattu.» «Ih,
s’idia cussu!» E gai issa elthe andada a si
drommire sutta cudd’avure. ilthracca de
pianghere. A cando si nd’elthe ihidada,
crobada tottu cuddu fattu: andada a chihare
cuddu allimale e no lu crobada.
S’atteru die... a... s’atteru die, devia faghere
su pane. «Comente fatto» nachi «a faghe
tottu culthu pane: ma... bois no mi devides
aggiuare?» «No, no. ti pagamus e lu deppes
faghe tue.» Fini, nachi, malas, cultha zente,
no è beru? «Ma no li azzis promissu gai a
babbu e a mamma» a nadu; «pruite mi
cherides trattare gai?» Issa andada ai
cuddane: «Ih! Si falaia» nachi «
cudd’animale chi è bennidu» nachi,
«deved’essere cahi anima ’ona.» C’andada
ai cuddane e fala cuddu, su pohu ipinu, e l’a
nadu: «Tue ilthanotte, invece de ti ponnere a
suighere» a nadu, «ti cohas: poi.» a nadu
«manzanu ti nde asa a pesare» a nadu, «chi
tottu ded’essere fattu.» «Ih!...e me lu
faghides de abberu?» «Ista tranquilla» a
nau. «Piuprelthu, naramilu» a nadu «cantu
m’ilthimas.» Cando li fi’ nende: «Cantu...»
issa... «cantu... cantu...» isse cominzaiada a
offiare, a offiare, a offiare cuddos oios,
nachi, fini gai mannos chi parian duos
titones de fogu: «Cantu...» e no podia
narrere atteru. Isse ch’este iscumpafidu.
«Eh! Già mi l’as’a narrere, mi l’as’a
narrere!». E faghe gai, e ada su pane fattu.
fiume: «Ih adesso sto meglio! E come faccio
a lavare tutta questa roba!» ha detto. «Eh,
Dio mio!» lei sospirava con lacrime che,
dice, arrivavano fino a terra. Solleva gli
occhi e vede quest’animale che scendeva
dalla montagna, un animale orribile che
somigliava al porcospino ma gli aculei,
dicono, erano grossi. Aveva gli occhi, dice,
che sembravano due... due tizzoni ardenti.
E’ sceso ed è andato li: «Dimmi,» dice «
perché stai piangendo?» E lei lo temeva... Io
temeva... gli ha raccontato tutta la storia:
«Vai, figlia mia,» ha detto «e addormentati
sotto quell’albero; poi al risveglio» ha detto
«troverai tutto fatto.» «Ih, fosse vero!» E
cosi lei è andata a dormire sotto
quell’albero, stanca di piangere. Quando si è
svegliata trova tutto il lavoro fatto; va a
cercare quell’animale e non lo trova.
n altro giorno... un altro giorno, doveva fare
il pane. «Come faccio» dice, «a fare tutto
questo pane? ma... voi non dovete
aiutarmi?» «No, no, ti paghiamo e devi farlo
tu.» Erano cattive queste, vero? «Ma non
avevate fatto queste promesse a babbo e a
mamma! perché mi trattate così?» ha detto.
Lei va lì: «Ih, se scendesse quell’animale
che è venuto!» dice. «Deve essere un’anima
buona.» Va in quel posto, e scende quello, il
porcospino, e le ha detto: «Tu, stanotte,
invece di metterti a impastare, mettiti a
letto; poi,» ha detto «domani ti alzerai e
tutto sarà fatto». «Ih! e me lo fate davvero?»
«Sta tranquilla» ha detto. «Piuttosto» ha
detto «dimmi quanto mi vuoi bene.» Mentre
lei stava dicendogli: «Quanto... quanto...
quanto...» lui comincia a gonfiarsi, a
gonfiarsi, a gonfiare quegli occhi, dice che
erano cosi grandi che sembravano due
tizzoni ardenti. «Quanto... » e non poteva
dire altro. «Eh, già me lo dirai me lo dirai!»
ed è scomparso. E fa cósì ed ha il pane
pronto.
Allora volevano che facesse il bucato; il
Tando cheriana a faghere sa ogada: sa ogada bucato era più difficile per una bambina
fi su prus diffizile pro una pizzinna, ca
pruite la devia faghere in su riu. Prima
l’aiana obbligada a lu samunare, poi devia
faghe sa ogada. Falada su pohu ipinu dai
cuddane: «Pruite ses pianghende?» «Ca
como cherene a faghe sa ogada, eo cando
aia mamma, ogada non nde appo fattu mai,
no iho mancu comente chere fatta; bi lis
appo nadu e niente, "chi eo la devo faghere,
chi mi pagana e chi eo, nachi, la devia
faghere".» «Eh! andada» a nadu. «Bae,
andada» a nau, «lassalos sos pannos in cue,
già bi pess’eo; tue» a nadu «ti cohas sutta de
cudd’avure» I’a torrada a narrere. E andadu
si ch’elthe. «Coro, chie ded’essere
culth’anima ’ona, Deu meu, faghidemila
idere» nachi «culth’anima ’ona chi
ded’essere, ma sa frigura l’a mala, pruite è
gai malu de frigura? Mamma e babbu ihia
chi fin bellos, invece culthu» nachi «è
propriu un animale...» Si nde ihidada. E
falada isse torra dai cudda montagna e a
nadu: «Tottu asa crobadu fattu?» «Sì,» a
nadu «bos ringrazio meda» nachi «ma pruite
sezis goi de mala frigura chi eo» nachi «bos
timo?» «Narami cantu m’ilthimas» li
torraiad’a narrere. Nendeli: «Narami cantu
m’ilthimas» isse li faghia cudda oghe bella.
«Coro, ite oghe bella, ma de frigura ite
malu!» Tandu comenzaiad’isse: «Narami
cantu m’ilthimas...» e issu offiende,
offiende si che faghiada, nachi, mannu
meda meda. «Cantu...» naraiad’issa,
«cantu... cantu...». Lu timiada, e cuddu si
che torraiad’andare. Balthe chi, passada
tottu culthu.
perché doveva farlo al fiume. Prima
l’avevano obbligata a lavare, poi doveva
fare il bucato. Scende da lassù il
porcospino: «Perché stai piangendo?»
«Perché adesso vogliono che faccia il
bucato; quando c’era mamma io non ne ho
fatto mai di bucato, non so nemmeno come
si faccia; glielo ho detto, e niente: "che devo
farlo, che mi pagano e che devo farlo io".»
«Eh, vai!» ha detto. «Vai, vai, lascia i panni
lì, già ci penso io» ha detto; «tu coricati
sotto quell’albero» le ha detto di nuovo. E
se n’è andato. «Cuor mio, chi sarà
quest’anima buona! Dio mio, fatemela
vedere» dice «quest’anima buona che
dev’essere; ma l’aspetto è brutto; perché è
così brutto d’aspetto? Mamma e babbo so
che erano belli, invece questo è proprio un
animale...» dice. Si risveglia. E lui
ridiscende da quella montagna e ha detto:
«Hai trovato tutto fatto?» «Sì» ha detto; «vi
ringrazio molto. Ma perché siete così di
brutt’aspetto, che io vi temo?» «Dimmi
quanto mi vuoi bene» le dice di nuovo.
Mentre le diceva «Dimmi quanto mi vuoi
bene» le faceva questa bella voce. «Cuore,
che bella voce ma che brutto aspetto!»
Allora lui cominciava: «Dimmi quanto mi
vuoi bene» e si gonfiava, si gonfiava e
diventava grandissimo. Lei diceva:
«Quanto... quanto... quanto...» e ne aveva
paura; e lui se ne andava via di nuovo.
Insomma è successo tutto questo.
E un giorno... Aveva fatto tutto quel lavoro.
E una die... Tottu cuddu trabagliu l’aia fattu. Più lavoro faceva e più gliene davano
Piusu nde faghiada, più bi lu garrigaiana
quelle, ma stavano sempre pensando quale
cuddasa, ma sempre pessende ite fi’ su
fosse il mistero di questa ragazza e che forse
miltheriu de cultha pizzinna, fossi si fidi
si stava prendendo gioco di loro. Allora le
lende giogu de issas. Tando l’an dadu sa
hanno dato la lana da carminare e poi da
lana a grammenare, poi a la filare, poi a la filare e poi da tessere. «Ma come faccio a
tessere. «Ma comente fatto tottu custu chi
fare tutto questo, non ne ho fatto mai;
non d’appo mai fatto? Proit’e chi mi lu
perché me lo date che io questi lavori non li
sezzis dende chi eo de culthu non d’appo
ho mai fatti!» «Tu devi farlo. Ti paghiamo e
mai fattu!» «Tue lo deppese faghere. Ti
devi farlo». Lei completamente disperata e
pagamos e lu deppese faghere.» Issa totta
piangente, va là. E di nuovo scende il
disiperada e pianghende, iguddane. Torrada porcospino: «Perché stai piangendo?»
a falare su pohu ipinu: «proite se’
«Perché vogliono che faccia questo, fare la
pianghende?» «Ca cherene a faghe culthu, a
faghe sa lana, a la samunare, a la tessere, a
la filare, a la tessere. Eo tottu culthu,
mamma mia idia chi lu faghiada, ma eo no
lu potto faghere.» «Eh! bae, bae» a nadu, «e
cohadi sutta a cudd’avure.» Si coha sutta a
cudd’avure I’a samunada, issa sa lana e
filada, cussu già s’è proada a lu faghere.
Fala su pohu ipinu: «Lassalu ilthare, mancu
culthu cherzo a faghere. As’a bidere» a
nadu «chi provvedimus finzas a igussu.»
Tando li naraiada: «Narami... narami cantu
m’ilthimas.» E sempre offiende, sempre
offiende. sempre offiende. «Cantu...
cantu...», si l’abbaidaiada: «Coro, canto bo
so timende. Cantu... cantu... cantu...» e no li
naraia mai nudda. Si c’andad’ isse. Li faghe
tottu cuddu e si torrad’a drommire issa. E
passa cussu puru.
Tando la fini sighende a trattare male su
mantessi, ma su pohu ipinu no s’idia piusu.
«E comente fatto!» a nadu. «Poh’ipinu
meu» nachi «no mi la fattas cultha, de
m’abbandonare tue chi» a nadu «faghe»
nachi «de tottu; già ti naro su chi cheres tue.
balthe chi tue mi c’aggiues.» E torrada a
falare su pohu ipinu. A nadu: «Tue, si no
faghes su chi t’appo nad’eo, eo no ti potto
aggiuare piusu; cando eo» a nau «mi che
offio so isettende dae te una paraula de
cunfolthu e tue mi la deves narrere.» «Eh!»
a fattu ibbia. «Naramilu,» a nau «cantu
m’ilthimas.» «Cantu... cantu... cantu...» e no
l’a potidu narrere e su pohu ipinu si ch’elthe
andadu. E no b’è torradu. Issa disiperada
mala.
Beni cudda femina chi li fidi appafida
tando: «fiza mea cara,» a nadu «pruite l’asa
trattadu gai» a nadu «su phu ipinu? chi
como» a nadu «no ti che torrada.» «No mi
che torrada! ... ma e comente faghere» «Già
ti lu naro deo comente faghere. Deves
andare ai cudda montagna chi ch’elthe
attesu attesu, in cussa montagna b’ada» a
lana, lavarla, tesserla, filarla, tesserla. Io
tutto questo... mamma mia vedevo che lo
faceva... ma io non posso farlo.» «Eh! Vai,
vai e coricati sotto quell’albero» ha detto. Si
sdraia sotto l’albero; I’ha lavata lei la lana e
filata, questo ha provato a farlo. Scende il
porcopsino: «Lascia stare, non voglio che tu
faccia neanche questo. Vedrai» dice «che
provvederemo a fare anche questo.»
Allora le diceva: «Dimmi... dimmi quanto
mi vuoi bene.» E sempre gonfiandosi,
gonfiandosi, gonfiandosi; se lo guardava:
«Cuore mio, quanto vi sto temendo.
Quanto... quanto... quanto...» e non diceva
mai altro. Quello se ne va, le fa tutto il
lavoro e lei si riaddormenta. E passa anche
questo.
Allora continuavano a trattarla male, ma il
porcospino non si faceva più vedere. «E
come faccio!» ha detto. «Porcospino mio,
non farmi questo, non abbandonarmi tu che
fai di tutto» ha detto; «già ti dico tutto
quello che vuoi purché tu mi aiuti.» E il
porcospino di nuovo scende. Ha detto: «Se
tu non fai quello che io ti ho detto, non
posso più aiutarti. Quando io mi gonfio» ha
detto «sto aspettando da te una parola di
conforto, e tu devi dirmela». «Eh!» ha fatto,
e basta. «Dimmi» ha detto «quanto mi vuoi
bene.» «Quanto... quanto... quanto...» e non
è riuscita a dire altro e il porcospino se n’è
andato. E non è ritornato. Lei
completamente disperata.
Viene quella donna che le era apparsa:
«Figlia mia cara,» ha detto «perché hai
trattato così il porcospino? Adesso» ha detto
«non torna più.» «Non torna!... Ma e come
si può fare?» «Ti dico io cosa devi fare.
Devi andare su quella montagna laggiù
lontano; sulla montagna c’è un palazzo, nel
palazzo c’è un cancello, al cancello c’è un
nadu «unu palattu, in cussu palattu b’ada
unu gancellu, in su gancellu b’ada unu cane
ch’iltha sempre appeddende; tando» a nadu
«tue cando isse elthe appeddende no lu
timas, si no lu times» a nadu «t’abberi su
gancellu e tue intras. Daghi intras» a nadu
«as’a crobare unu leone, chi cussu leone
iltha sempre fattu tou chi pare chi ti
devorede, invece no ti faghe nudda. Poi» a
nadu «as’a crobare unu serpente, de cussos
serpentes mannos» a nadu «de una mala
frigura, chi parede» a nadu «chi ti
chefad’ingullire. Tue» a nadu «no lu timas e
sighis andare. Tanto c’ascias» a nadu «in
cuss’ihala. Il cuss’ihala» nada, «asa a
crobare un animale malu chi ti parede» a
nadu «chi abbelzendeli sa ucca, chi ti si
chefada ingullire. Tue passa derettu, tue
passa derettu» a nadut «e c’ascias a subra;
subra as’a crobare» a nadu «una banca
apparizzada. In cussa banca apparizzada» a
nadu «b’elthe su pranzu prontu» a nadu
«pro chie bi deve bennere: cultha banca
apparizzada» a nadu «elthe isettende a tie.
Poi... Ma no bides ancora» a nadu «su pohu
ipinu. Cussa è sa domo ’e su pohu ipinu, ma
su pohu ipinu» a nadu l’as’a crobare in
un’ilthanzia chi ti lu deves girare tottu
culthu palattu, e l’as a crobare in malu
ilthadu» a nadu «ca su pohu ipinu, si tue no
andas elthe acculzu a morrere!» «Ih, coro!
Cali si siada sacrifiziu, già fatto tottu su chi
mi nades bois. Ma chie sezis ’ois, nadimilu?
Mamma sezis?» «No, no so mamma tua, ma
ti so proteggende.»
Tando ch’intrada e crobada, nachi, su pohu
ipinu, da unu momentu a s’ateru, nachi,
tottu offiadu, offiadu, offiadu cun cuddos
oios, nachi, abbaidendesila; e issa
timendelu, issa timendelu. «Pohu ipinu
meu,» nachi «coro, chi già ti chelzo ’ene,
già t’ilthimo» nachi «cantu... cantu... cantu
su coro.» L’a nadu ibbia.
Cuddu chi ad’intesu "cantu su coro", si
ipezzada su pohu ipinu e nde essi culthu
grande prinzipe: «Eh! Finalmente» a nadu
«è finida sa penitenzia mia; tue filthi» a
cane che sta sempre bramando; allora tu non
aver paura quando ringhia, se non ne hai
paura apri il cancello ed entra» ha detto.
«Quando entrerai, troverai un leone che ti
starà sempre dietro e sembra che voglia
divorarti, ma non ti fa nulla. Poi,» ha detto
«troverai un serpente, di quei serpenti
grandi, brutti, e sembra che ti voglia
inghiottire; tu non aver paura e continua ad
andare. Allora salirai per questa scala» ha
detto, «per questa scala, e troverai un
animale cattivo che sembra spalanchi la
bocca per inghiottirti. Tu passa diritto, passa
diritto» ha detto, «e sali al piano di sopra; e
troverai una tavola apparecchiata. In questa
tavola apparecchiata» ha detto, «c’è il
pranzo pronto per chi deve arrivare; questa
tavola apparecchiata sta aspettando te. Poi...
Ma non vedrai ancora il porcospino» ha
detto. «Questa è la casa del porcospino, ma
il porcospino» ha detto «lo troverai in una
stanza, perché questo palazzo lo devi girare
tutto; e lo troverai in cattivo stato perché il
porcospino, se tu non vai, sta per morire.»
«Ih, cuore mio! Qualunque sacrificio, già
faccio tutto quello che voi mi dite. Ma chi
siete? Ditemelo, siete mamma?» «No, non
sono mamma tua ma ti sto proteggendo.»
Allora è entrata e trova il porcospino, dice,
che da un momento all’altro si era tutto
gonfiato, gonfiato, gonfiato, con quegli
occhi che la guardavano e lei ne aveva
paura, lo temeva. «Porcospino mio,» dice
«cuore mio, già ti voglio bene, già ti amo,
quanto... quanto... quanto il cuore.» Gli ha
detto solo questo.
Quello, al sentire "quanto il cuore" si
spezza, il porcospino, e ne vien fuori questo
grande principe: «Eh, finalmente è finita la
nadu «protetta da un’anima ’ona. Eo creo
chi siad’ilthada mamma tua, chi a mie m’a
raccontadu tottu culthu chi eo ti devia
proteggere, e si eo no resessia a igustu de
ti... de ti proteggere» a nadu «eo moria. No
molzo ca tue» a nau «m’asa liberadu; su
pohu ipinu, ch’idende sese...» a nau «so unu
prinzipe chi fia sett’annos in penitenzia.
Como andamus» a nadu «ca su pranzu è
prontu, ca sono su fizu de unu re e devimus
manigare umpare.»
Fiaba sarda da: www.archividelsud.it
mia penitenza!» ha detto. «Tu eri protetta da
un’anima buona. Io credo che fosse tua
madre che mi ha raccontato tutto questo,
che ti dovevo proteggere e che se non fossi
riuscito a proteggerti, sarei morto» ha detto.
«Non muoio, perché tu mi hai liberato; il
porcospino che vedi... sono un principe che
è stato per sette anni in penitenza. Adesso
andiamo,» ha detto, «perché il pranzo è
pronto, perché io sono figlio di un re e
dobbiamo mangiare insieme.»