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La ragazza selvaggia e il «Terzo
paesaggio»
Il seme nel cassetto - L’ultimo romanzo di Laura Pugno indaga la relazione che c’è
tra la natura e l’azione civilizzatrice dell’uomo, ma non solo
/ 06.02.2017
di Laura Di Corcia
La Natura è buona o cattiva? L’epoca a cavallo fra Illuminismo e Romanticismo indagò il tema in
lungo e in largo, e la risposta è ovviamente che la Natura è entrambe le cose. Ma ci sono domande
che sono pozzi, fonti inesauribili di nuovi interrogativi e risposte, ed è su questo terreno che si
muove l’ultimo romanzo di Laura Pugno – La ragazza selvaggia (Marsilio) – poetessa e scrittrice che
sin dagli esordi narrativi ha indagato il tema della fine delle cose, del loro sgretolarsi.
La cornice entro cui si dipana la vicenda è Stellaria, il tentativo (artificioso?) di creare uno spazio
incontaminato, di dare vita al «Terzo paesaggio» così come lo ha descritto in maniera lucida e netta
un esponente sopraffino del pensiero ecologico come il paesaggista francese Gilles Clément. Ma
attenzione: il fitto bosco vicino a Roma, al quale Tessa, la protagonista del romanzo, rimane
attaccata dopo aver perso praticamente tutto, non è uno di quei luoghi sfuggiti come buchi in una
rete fitta all’azione civilizzatrice dell’uomo. Stellaria è in fondo un esperimento in vitro, è il risultato
di un atto volitivo, è fortemente condizionata dallo sguardo (e la fisica quantistica ci insegna che
l’attenzione esercitata da parte di un soggetto verso un oggetto lo modifica): può un luogo come
questo rendere conto davvero delle logiche avulse dall’azione esercitata dall’umana ragione?
Stellaria è teatro di una vicenda che ha dell’incredibile: una ragazza figlia adottiva di una famiglia di
industriali, Dasha, si perde nei suoi boschi da ragazzina, a causa della sorella gemella Nina, e ci
rimane per anni cibandosi di carne cruda che si procura da sola. Sarà Tessa a ritrovarla, la
ricercatrice che segue l’andamento della riserva naturale destinata ormai alla chiusura e che vive lì
da tantissimo tempo, in una casetta rifornita del minimo indispensabile, al confine fra civilizzazione e
vita selvaggia. Sia lei sia Nina proiettano su Dasha il loro bisogno di tranciare i legami col mondo, di
tuffarsi nel ventre molle della Natura, nelle sue terribili contraddizioni.
Dasha, in fondo, rifiutando di parlare e rinchiudendosi in una sorta di autismo muto e secco, non
aveva mai varcato la soglia magica della civilizzazione; sopravvissuta al disastro di Cernobyl insieme
a Nina, aveva preferito rimanere attaccata alle macerie, alla materia decostruita e non ordinata in
società. Riportarla a casa dopo anni di vita selvaggia nel bosco non è una buona idea: fra le mura
paterne e materne Dasha può vivere solo sedata, vegetando come una pianta. Per lei non esiste via
di ritorno; per Tessa sì, ed è per questo che alla fine si deciderà a lasciare Stellaria per raggiungere
la ex collega in Camargue e lavorare a un nuovo progetto.
Il romanzo di Laura Pugno, scritto con una lingua asciutta, senza fronzoli, precisissimo nei rimandi e
affilato come una lama tagliente, è in fondo un’inquisizione sul destino, sull’ombra che ci cammina
accanto e decide per noi la via. Le vite dei personaggi sono tutte legate da un filo invisibile, ogni
cosa che accade ha una gittata, un effetto sul resto: Nina va in coma quando torna Dasha, muore
quando scappa di nuovo. Agnese, la madre, pure ha alle spalle una storia gemellare, ma prima della
nascita: la sorella, morta, era stata in qualche modo inglobata nel suo corpo. Liberando per la
seconda volta la figlia selvaggia, permetterà una sorta di riscatto a quella gemella mai venuta alla
luce.
Nel comparto denso, fiabesco, spettrale e allo stesso tempo umanissimo creato dall’autrice, esistono
pochi legami causali e sono sempre sfuggenti; tutto è psichico, simbolico, sanguigno. Laura Pugno
nuota nella faglia che c’è fra visibile e invisibile e come ogni grande scrittore ce la riporta con tutto
il suo sapore selvatico, misterioso e non sempre pacificato: rimane tutto così, come deve, come può
essere.