Non si uccidono così anche i cavalli?
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Non si uccidono così anche i cavalli?
Non si uccidono così anche i cavalli? «E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e s'avvicina l'epoca della vendemmia.» (da John Steinbeck, Furore) Il 24 ottobre 1929 (il giovedì nero) il New York Stock Exchange (la borsa di Wall Street) registrò una drammatica caduta dei prezzi dei titoli con conseguente corsa alle vendite; il mercato azionario ebbe il suo crash definitivo il martedì successivo, il 29 ottobre. Il panico si diffuse tra gli investitori, si verificarono decine di suicidi e milioni di piccoli risparmiatori assediarono gli sportelli delle banche per riavere il loro denaro. Gli istituti di credito si trovarono impossibilitati a restituire quanto era stato depositato e chiusero gli sportelli: centinaia di banche dichiararono ben presto fallimento e nel giro di pochi mesi l’intero sistema produttivo fu travolto dalla carenza di denaro liquido. Ebbe così inizio la Grande Depressione, la più drammatica crisi economica che gli Stati Uniti abbiano mai dovuto affrontare nel corso della loro storia e che durò, lentamente attenuandosi, per tutti gli anni Trenta, fino allo scoppio della II Guerra Mondiale. La crisi sopraggiunse dopo un lungo periodo di ininterrotto sviluppo economico, soprattutto dopo un decennio (i ruggenti anni Venti) di grande incremento della produzione (con al suo centro l’industria automobilistica), di euforia finanziaria e di conseguente espansione dei consumi. La politica che il governo del presidente Hoover mise in atto per fronteggiare la crisi fu quella suggerita dall’economia classica: riportare e mantenere il bilancio dello Stato in pareggio in modo da rassicurare gli investitori riguardo alla solidità finanziaria del Paese, ma ciò non fece che accrescere la stretta creditizia ed aggravare la crisi del sistema produttivo. In poco tempo la produzione industriale diminuì del 45%, il tasso di disoccupazione raggiunse il 25% della popolazione attiva, i prezzi dei prodotti agricoli crollarono del 40-60%. Molti contadini non furono più in grado di restituire i soldi che avevano ricevuto in prestito dalle banche, che sequestrarono le loro proprietà; le coltivazioni furono abbandonate e spaventose tempeste di sabbia (dust bowl) desertificarono le praterie del Midwest. Milioni di operai disoccupati, di contadini in miseria iniziarono a vagabondare alla ricerca di un lavoro, di una fonte di sopravvivenza: il sogno americano si era infranto e i vecchi miti (la corsa all’oro, le praterie del Far West) non erano più. La nuova meta divenne la California, la fertile terra promessa di un’altra epoca di benessere…e nel cuore della California: Hollywood! l’industria del cinema nascente, la fabbrica dei sogni, il simbolo del successo e della felicità. Tutto ciò è magistralmente raccontato nei romanzi di una nuova generazione di scrittori realisti, che vissero in prima persona l’epica tragica della crisi: John Steinbeck, Erskine Caldwell, John Dos Passos, John Fante, Horace McCoy. Horace McCoy giunse ad Hollywood nel 1931, sperando di intraprendere con successo la carriera di attore, ma dopo qualche comparsa in ruoli di secondo piano fu costretto a sopravvivere di lavori precari. Fra le varie occupazioni fece anche il “buttafuori” sotto un tendone da circo dove si svolgevano maratone di ballo: attirati da un premio di qualche centinaio di dollari, coppie di disperati accettavano di partecipare ad una massacrante gara dove avrebbe vinto chi avesse resistito più a lungo in pista, mentre la gente accorreva e pagava per vedere lo spettacolo della sofferenza e dell’umiliazione umana. Il reality show, la realtà che si fa spettacolo nello spettacolo, non è stato inventato in tempi recenti dalla televisione, a quanto pare fu concepito, ed in forme ben più “realistiche”, in quegli anni in America, quando la società delle merci, in piena crisi di sovrapproduzione, inventò la merce più sofisticata: la rappresentazione di sé come luogo etereo in cui “ognuno ha diritto ad un quarto d’ora di celebrità”. Da quell’esperienza Horace Mc Coy trasse il romanzo They shoot horses, don’t they? (1935), che nel 1970 ha ispirato al regista Sidney Pollack il film che stiamo per vedere.