1. Con ordinanza emessa il 18 aprile 2005 il GIP presso

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1. Con ordinanza emessa il 18 aprile 2005 il GIP presso
1. Con ordinanza emessa il 18 aprile 2005 il G.I.P. presso il Tribunale di Bari disponeva nei
confronti delle società (LF) s.c.r.l. e (D) s.p.a. la misura cautelare dell'interdizione per un
anno dall'esercizio dell'attività, che sostituiva con la nomina del Commissario giudiziale ai
sensi dell'art. 45 comma 3 D.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, per la stessa durata.
La vicenda si inseriva nell'ambito di un procedimento penale riguardante un'associazione a
delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, volti
all'aggiudicazione degli appalti dei servizi di pulizia ed ausiliariato banditi da diversi enti
pubblici del settore sanitario pugliese – soprattutto aziende AUSL di varie province ed alcuni
Comuni – procedimento in cui venivano emessi provvedimenti cautelari coercitivi nei confronti
di numerosi indagati per tali reati, alcuni dei quali commessi in favore delle due società.
Per quanto riguarda gli illeciti contestati agli enti, il G.I.P., nell'ordinanza suindicata, metteva
in rilievo come fosse stato realizzato un complesso sistema di corruzione che, con la
complicità di funzionari amministrativi, aveva consentito alle due società di ottenere lucrosi
appalti senza alcuna gara formale nonché di ottenere l'illecita prosecuzione dei contratti di
pulizia ed ausiliariato già appaltati, aggirando così le regole contrattuali imposte alla pubblica
amministrazione ed offrendo, come contropartita, una costante disponibilità ad assecondare
richieste clientelari provenienti dalla stessa amministrazione e dal mondo della politica, tra
cui numerose richieste di assunzioni. Ad operare per conto delle società, ponendo in essere i
reati contestati, sarebbero stati, nella ricostruzione fatta dal G.I.P., soggetti con funzioni di
rappresentanza, di amministrazione e di direzione, anche di fatto, nelle due società.
Quindi, erano stati ritenuti sussistenti i gravi indizi richiesti dall'art. 45 D.lgs. 231/2001 in
ordine agli illeciti amministrativi previsti dagli artt. 24 e 25 D.lgs. 231/2001, dipendenti dai
reati di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 comma 2 n. 1 c.p.) e di corruzione (art.
319, 321 c.p.) commessi, nell'interesse delle stesse società.
2. Il Tribunale di Bari, sull'appello proposto ai sensi dell'art. 52 comma 1 D.lgs. 231/2001
dalle società indagate, ha sostanzialmente confermato l'impianto dell'ordinanza cautelare,
modificando la durata della misura interdittiva – ridotta a sei mesi – e confermando la nomina
del commissario giudiziale. Inoltre, i giudici dell'appello hanno escluso l'applicabilità della
misura interdittiva per gli illeciti dipendenti dal reato di truffa aggravata – non essendo
prevista tale sanzione dall'art. 24 D.lgs. 231/2001 – e per alcuni episodi commessi prima
dell'entrata in vigore della normativa citata (capi di imputazione provvisori n. 12, 16, 19, 26,
40, e 48) limitando la misura ai restanti episodi di corruzione riportati nell'ordinanza cautelare
ai numeri 14, 18, 21, 28, 30, 32, 34, 48 e 50.
3. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei propri difensori,
la società (LF) s.c.r.l. ex art. 52 comma 2 D.lgs. 231/2001, chiedendone l'annullamento.
3.1 Dopo aver premesso di avere ancora interesse all'impugnazione, nonostante l'intervenuta
revoca della misura cautelare, la società ricorrente, con un primo motivo, ha dedotto la nullità
dell'ordinanza per violazione degli artt. 111 comma 2 Cost. e 125 comma 3 c.p.p., in quanto il
giudice d'appello avrebbe solo "apparentemente" motivato la propria decisione, avendo
riportato interi brani della memoria depositata dalla Procura, così rinunciando alla sua
funzione di controllo e compromettendo lo stesso principio della parità del contraddittorio e
della motivazione giurisdizionale delle ordinanze.
3.2 Con il secondo motivo viene riproposta l'eccezione di nullità dell'ordinanza per violazione
degli artt. 39, 45 D.lgs. 231/2001 e 292 comma 2 lett. a) c.p.p., essendo stata omessa, nel
provvedimento, la corretta indicazione del legale rappresentante della società, peraltro noto
al G.I.P. al momento dell'emissione della misura.
3.3 Con il terzo motivo si è dedotta la nullità dell'ordinanza per violazione degli artt. 45 D.lgs.
231/2001, 291, 292 e 125 comma 3 c.p.p. in relazione al principio della domanda cautelare.
Più precisamente, la società ricorrente, riproponendo un motivo presentato in appello, ritiene
che il tribunale non avrebbe dovuto confermare l'ordinanza cautelare, perché motivata
esclusivamente per relationem con l'altra ordinanza riguardante gli indagati-persone fisiche
(ordinanza emessa dal G.I.P. del Tribunale di Bari in data 8 aprile 2005), essendo differenti i
presupposti della misura cautelare personale e di quella interdittiva a carico delle persone
giuridiche; l'integrazione dei due provvedimenti avrebbe finito per confondere e annullare la
specificità della procedura prevista dal D.lgs. 231/2001.
3.4 Con il quarto motivo la ricorrente ha dedotto violazione dell'art. 5 D.lgs. 231/2001 in
quanto l'ordinanza non avrebbe individuato correttamente i soggetti che avrebbero agito a
vantaggio della società (LF), limitandosi a sostenere la sussistenza della gravità indiziaria, in
quanto i reati contestati agli amministratori della (D) s.p.a. sarebbero stati commessi anche
nell'interesse e a vantaggio della società (LF). Ragionamento che viene contestato rilevando
che tra le due società non sussiste alcuna relazione definibile in termini di rapporto tra
controllante e controllata.
Peraltro, viene contestato che il vantaggio conseguito dal gruppo dirigente comporti ipso
facto un vantaggio ad entrambe le società.
3.5 Con il quinto motivo si deduce violazione degli artt. 5, 12 e 46 commi 1 e 3 D.lgs.
231/2001 perché la misura cautelare è stata ritenuta legittimamente applicata sebbene
difettasse l'elemento del vantaggio conseguito dalla società a seguito della commissione dei
reati. Più precisamente, si sostiene che lo stesso tribunale ha riconosciuto,
inconsapevolmente, che gli amministratori abbiano agito nel loro esclusivo interesse là dove
afferma che la società sia stata utilizzata e "saccheggiata" per soddisfare il personale
vantaggio degli amministratori.
Inoltre, la ricorrente aggiunge che, anche a voler ritenere l'esistenza di un vantaggio o un
interesse della cooperativa, vi sarebbe comunque stata una violazione di legge, in quanto né
il G.I.P. né il Tribunale hanno preso in considerazione le disposizioni contenute negli artt. 46
e 12 che prevedono misure meno gravi qualora il vantaggio o l'interesse ricavato dalla
società sia minimo.
3.6 Con il sesto motivo si deduce violazione dell'art. 45 D.lgs. 231/2001 per insussistenza dei
requisiti in ordine all'applicazione della misura. Secondo la società ricorrente i giudici di
merito avrebbero ritenuto sussistenti gli indizi con riferimento al reato presupposto contestato
agli indagati, non anche all'illecito amministrativo dipendente da un reato, tanto è vero che la
stessa ordinanza impugnata, per giustificare il provvedimento cautelare, gravemente carente
sul punto, ha dovuto compiere una sorta di "integrazione" tra i due atti, finendo con il
confondere i diversi presupposti riguardanti le due forme di responsabilità.
La conseguenza è che non sono stati valutati tutti gli elementi sui quali deve cadere la
verifica della gravità indiziaria, accertamento più ampio rispetto a quello che investe i gravi
indizi di colpevolezza in relazione al reato commesso dalla persona fisica, né risulta preso in
considerazione il modello organizzativo adottato dalla cooperativa ai sensi dell'art. 6 D.lgs.
231/2001.
3.7 Con il settimo motivo si deduce violazione dell'art. 45 comma 1 D.lgs. 231/2001 per
insussistenza di fondati e specifici elementi per ritenere il pericolo che vengano commessi
illeciti della stessa indole di quelli per cui si procede.
Secondo la società ricorrente non esistono elementi – né sono stati messi in evidenza – che
giustificano la sussistenza di un tale pericolo, tenuto anche conto che nessuna delle persone
fisiche coinvolte nella vicenda riveste oggi alcun ruolo nella cooperativa (LF) e che la
compagine di vertice è stata completamente sostituita con un nuovo rappresentante legale e
nuovi organi gestori.
Peraltro, priva di elementi di riscontro appare la giustificazione contenuta nell'ordinanza
secondo cui i vecchi amministratori svolgerebbero una sorta di gestione di fatto.
Secondo la ricorrente, i giudici avrebbero preso in esame la possibilità di commissione dei
"reati" da parte dei fratelli (M), di (L) e di (R) anziché operare una valutazione circa il pericolo
di reiterazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, così come richiesto dalla
legge.
3.8 Con l'ottavo motivo si deduce violazione dell'art. 13 D.lgs. 231/2001 per l'insussistenza
dei presupposti previsti per l'applicazione delle misure interdittive, in particolare per aver
erroneamente ritenuto la sussistenza del requisito del conseguimento, da parte dell'ente, di
un profitto di rilevante entità, confondendo la nozione di prodotto del reato con quella di
profitto.
Secondo la società, il Tribunale di Bari ha considerato come profitto gli importi dei contratti
realizzati dalla società, arrivando così a ritenere l'esistenza di un profitto di rilevante entità,
ma così facendo ha offerto una definizione del concetto di profitto che non trova fondamento
nella legge, che invece si riferisce ad una nozione aziendalistica di profitto, inteso come lucro
conseguito, cioè come utile netto. Tale interpretazione sarebbe confermata dalla lettura
dell'art. 19 D.lgs. 231/2001 che prevede, in caso di condanna dell'ente, la confisca del profitto
del reato che, qualora inteso nei termini indicati dal Tribunale, finirebbe per ricomprendere
nel caso di specie l'intero importo derivante dall'appalto in questione.
3.9. Con il nono motivo si deduce violazione di legge per non avere l'ordinanza impugnata
adeguatamente utilizzato il giudizio di proporzionalità richiesto dall'art. 46 comma 2 D.lgs.
231/2001.
4. Come si è detto in narrativa, nelle more del procedimento d'impugnazione è intervenuta la
revoca della misura cautelare. Ciononostante deve affermarsi la permanenza dell'interesse al
ricorso della società indagata, sotto diversi profili.
Innanzitutto, con il provvedimento emesso in data 27 luglio 2005 G.I.P. non si è limitato a
revocare la misura cautelare interdittiva, ma ha "ordinato" alla società di adottare i modelli
organizzativi predisposti dal Commissario giudiziario e di risarcire il danno arrecato alle
pubbliche amministrazioni appaltanti, con la restituzione del profitto illecito, inoltre dando
incarico al Commissario di accertare l'avvenuta ed effettiva adozione dei modelli
organizzativi.
Ora, ai fini dell'accertamento della permanenza dell'interesse all'impugnazione, in linea con
la giurisprudenza delle Sezioni unite (sent. 12 ottobre 1993 n. 20, Durante e 13 luglio 1998 n.
21, Galieri), acquistano sicuro rilievo gli effetti derivanti dall'ordinanza sopra citata,
formalmente intestata "revoca di misure cautelari interdittive", effetti che impegnano la
società in una serie di attività e di obblighi, che conferiscono attualità e concretezza
all'interesse al ricorso, in quanto dall'eventuale annullamento dell'ordinanza impugnata
potrebbe derivare, come conseguenza diretta, non solo l'annullamento dell'ordinanza
cautelare, ma l'immediata inefficacia degli adempimenti ed obblighi disposti con lo stesso
provvedimento di revoca.
A ciò va aggiunto che l'interesse all'impugnazione appare ancora più evidente considerando
che la società ricorrente ha avanzato fondati dubbi sulla stessa legittimità dei provvedimenti
assunti con la revoca della misura. Nella specie, il giudice cautelare ha sostanzialmente
imposto l'adozione di un modello organizzativo alla società, secondo una procedura che non
trova appiglio nella normativa contenuta nel D.lgs. 231/2001, in cui non si prevede alcuna
forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi, la cui adozione, invece, è sempre
spontanea, in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di
eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare in
alcuni casi la esclusione della responsabilità (art. 6 D.lgs. 231/2001), in altri un sollievo
sanzionatorio (artt. 17, 78 D.lgs. cit.) e che, nella fase cautelare, può portare alla
sospensione o alla non applicazione delle misure interdittive (art. 49 D.lgs. cit.).
Inoltre, la stessa procedura di commissariamento risulta posta in essere in una confusione di
ruoli e di disposizioni ai limiti dell'abnormità, dove la nomina del Commissario giudiziale è
stata disposta contestualmente all'adozione della misura cautelare – nonostante l'art. 45
comma 3 D.lgs. 231/2001 prescriva che tale nomina debba avvenire "in luogo della misura
cautelare interdittiva" – per poi procedere alla revoca della stessa misura e attribuire, infine,
poteri di controllo al Commissario circa l'adozione del modello, sebbene questi nello stesso
provvedimento risulti sollevato dall'incarico.
Si tratta di disposizioni che – anche prescindendo da ogni valutazione circa la loro legittimità –
il G.I.P. ha potuto emanare solo in conseguenza dell'applicazione della misura cautelare e
ciò appare sufficiente al riconoscimento dell'interesse ad impugnare.
In secondo luogo, acquista rilievo quando dedotto nel ricorso circa la richiesta, rivolta alla
società, di liquidazione di euro 136.927,17 per il compenso dovuto al Commissario giudiziale
e al suo coadiutore nominati dal G.I.P., dal momento che un'eventuale annullamento del
provvedimento comporterebbe il venire meno dell'obbligo di effettuare il pagamento
dell'importo richiesto. In sostanza, una decisione favorevole non potrebbe non avere
influenza anche sul pagamento dei compensi.
5. Passando ad esaminare il merito del ricorso, infondato è il secondo motivo, in quanto
nessuna disposizione del D.lgs. 231/2001 sanziona con la nullità l'omessa indicazione
nell'ordinanza cautelare del nominativo del legale rappresentante della società indagata. Il
richiamo all'art. 292 c.p.p. contenuto nel comma 2 dell'art. 45 D.lgs. cit. ha come effetto
quello di estendere l'ipotesi di nullità dell'ordinanza nel caso in cui manchino le necessarie
indicazioni per identificare la società nei cui confronti viene emessa la misura cautelare,
ipotesi che non ricorre nel caso di specie in cui il provvedimento del G.I.P. consente ed ha
consentito la piena identificazione del soggetto collettivo.
Né può invocarsi, così come ha fatto la difesa, la previsione di cui all'art. 39 comma 2 D.lgs.
cit., che sanziona con una ipotesi di inammissibilità la mancata indicazione delle generalità
del legale rappresentante: infatti, tale disposizione disciplina, dal punto di vista formale, la
partecipazione dell'ente nel procedimento, accollandogli l'onere di presentare una
dichiarazione contenente, tra l'altro, anche le generalità del rappresentante. In caso di
carenza di tali indicazioni, è prevista l'inammissibilità dell'atto dichiarativo di costituzione, con
la conseguenza che l'ente non potrà partecipare in maniera completa al procedimento e,
nella fase del giudizio, verrà dichiarato contumace.
Si tratta di una disciplina riguardante la modalità di intervento dell'ente nel procedimento,
funzionale ad individuare il soggetto deputato a manifestare la volontà del soggetto collettivo,
disciplina che non trova alcuna applicazione al di fuori di tali limitate previsioni.
6. È ancora infondato l'ottavo motivo in cui si deduce la violazione dell'art. 13 D.lgs. 231/2001
in relazione alla ritenuta sussistenza del requisito del profitto di rilevante entità.
Correttamente l'ordinanza impugnata ha esteso la verifica dei gravi indizi richiesti dall'art. 45
D.lgs. cit. anche all'art. 13, spostando il controllo sulla stessa legittimità dell'applicazione
della misura. La disposizione da ultimo menzionata si riferisce, in genere, alle sanzioni
interdittive, subordinandone l'applicazione all'esistenza di almeno una delle due condizioni
indicate nelle lett. a) e b) relative, la prima, alla circostanza che l'ente abbia tratto dall'illecito
un profitto di rilevante entità e la seconda al dato obiettivo della reiterazione degli illeciti. Sul
piano sostanziale l'art. 13 D.lgs. cit. rappresenta una delle condizioni applicative delle
sanzioni interdittive, nell'ambito di un sistema che ammette il ricorso alle sanzioni più incisive
solo in presenza di un accentuato disvalore del reato e dell'illecito amministrativo ad esso
collegato ovvero in funzione di prevenzione speciale.
Ciò significa che dal punto di vista cautelare il giudice deve accertare, sempre sul piano
indiziario, la presenza di una delle due condizioni per poter applicare una misura cautelare,
assicurando il collegamento tra sanzione definitiva e misura cautelare, che caratterizza
l'intero D.lgs. 231/2001. Del resto, un tale collegamento è imposto dallo stesso sistema
cautelare disciplinato nella sezione IV del decreto del 2001, che all'art. 46 comma 2 enuncia
il principio di proporzionalità della misura, con riferimento non solo all'entità del fatto, ma
anche alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all'ente.
Una diversa interpretazione porterebbe il giudice della cautela ad applicare una misura
interdittiva laddove il giudice della cognizione, sulla base del citato art. 13, non potrebbe
irrogare analoga sanzione in sede di accertamento della responsabilità dell'ente. In sostanza,
il ricorso alla misura cautelare trova una sua legittimazione solo attraverso una valutazione
prognostica sulla possibile, futura applicazione della sanzione interdittiva.
Ciò premesso, occorre ora verificare in base a quale criterio il giudice della cautela deve
valutare la sussistenza del profitto di rilevante entità, cui si riferisce l'art. 13 comma 1 lett. a)
D.lgs. 231/2001.
I giudici d'appello hanno escluso che la disposizione in esame faccia riferimento all'utile netto
ricavato dalla società ed hanno accolto, invece, una nozione di profitto più ampia, calcolata in
relazione all'intero importo del contratto ovvero al valore integrale della commessa, in
considerazione del fatto che la legge non richiede l'ingiustizia del profitto. Nella specie, sulla
base di tale interpretazione, il profitto che la società ha tratto dai reati commessi nel suo
interesse viene determinato tenendo conto anche del vantaggio di posizione sul mercato che
le società hanno acquisito facendo ricorso a condotte illecite, fino ad assumere un ruolo di
sostanziale monopolio in materia di appalti di pulizia nell'ambito della Regione Puglia.
Diversamente, per la società ricorrente il profitto richiesto dall'art. 13 cit. corrisponde al
concetto di redditività d'impresa, ovvero all'utile netto derivato, unica interpretazione che
consente di non confondere tale nozione con quella di prodotto del reato. A riprova di questa
tesi la difesa porta l'esempio dell'art. 19 D.lgs. 231/2001, che nel prevedere l'ipotesi della
confisca del profitto, in caso di condanna dell'ente, si riferisce sicuramente all'utile netto
conseguito. La ricostruzione riduttiva proposta dalla società indagata non può essere accolta.
Il profitto menzionato dall'art. 13 cit. non corrisponde alla nozione di profitto cui si riferiscono
le disposizioni in materia di confisca, quali, ad esempio, gli artt. 19, 15 comma 4, 17 comma
1 lett. c) D.lgs. 231/2001.
Queste ultime disposizioni, sebbene in maniera diversa, si preoccupano di assicurare allo
Stato quanto illecitamente conseguito dalla società attraverso la commissione degli illeciti e
oggetto del provvedimento ablativo non può che essere il profitto inteso in senso stretto, cioè
come immediata conseguenza economica dell'azione criminosa, che può corrispondere
all'utile netto ricavato.
Nell'art. 13 cit., invece, il riferimento al profitto del reato non è direttamente collegato ad una
ipotesi di confisca ma rappresenta un presupposto applicativo delle sanzioni interdittive
temporanee. Può essere utile ricordare che la disposizione in esame ha tradotto il criterio di
delega contenuto nella direttiva di cui all'art. 11 lett. l) legge 29 settembre 2000 n. 300, che
prevedeva l'applicazione delle sanzioni interdittive, in aggiunta a quella pecuniaria, solo nei
"casi di particolare gravità", secondo una di quelle clausole generali con cui il legislatore
spesso individua le ipotesi di maggior disvalore dell'illecito. Il richiamo al profitto di cui all'art.
13 cit. costituisce, quindi, l'attuazione di quel criterio di delega, reso sicuramente più
determinato, al quale deve essere riconosciuta l'originaria funzione di selezionare i casi più
gravi da punire con le sanzioni maggiormente afflittive per l'ente.
Se questa è la funzione attribuita alla condizione applicativa contenuta nell'art. 13, allora
appare estranea a questi fini una nozione di profitto intesa come utile netto, dovendo optarsi
per un concetto di profitto dinamico, più ampio, che arrivi a ricomprendere vantaggi
economici anche non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell'illecito.
Nella fase cautelare, in cui l'imputazione è ancora in fieri e gli accertamenti hanno natura
provvisoria, pretendere di riferirsi all'utile netto, cioè ad un valore che richiede calcoli precisi
in un raffronto tra ricavi e costi, appare oltremodo difficoltoso e contrario alla stessa funzione
del procedimento incidentale volto all'emissione di provvedimenti temporanei.
Con questo, ovviamente, non si vuole dire, così come sembra affermare l'ordinanza
impugnata, che il profitto di cui all'art. 13 cit. corrisponde, quasi automaticamente, al valore
del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, potendo sostenersi semmai che tali
valori rappresentino comunque un importante indizio a favore della rilevanza del profitto.
La rilevanza del profitto potrà, almeno con riferimento ad alcuni dei reati indicati negli artt. 24
e 25 D.lgs. 231/2001, basarsi sul valore della commessa ottenuta attraverso la illecita
contrattazione con la pubblica amministrazione, valore che rappresenterà un indizio a favore
della percezione di un profitto rilevante, così come richiede l'art. 13 cit.
Deve pertanto riconoscersi che nella specie, seppure in base ad una differente impostazione
rispetto a quella evidenziata dall'ordinanza impugnata, sussista il requisito richiesto dal citato
art. 13, in quanto prendendo in considerazione il valore reale degli appalti acquisisti dalla
società (si veda la tabella riassuntiva a pag. 38), pari ad una somma complessiva di oltre 40
milioni di euro (a cui va comunque sottratto il valore degli appalti acquisiti dalla (D) s.p.a.),
può fondatamente ritenersi l'esistenza di un profitto rilevante conseguito dalla società per
effetto degli illeciti commessi, anche in considerazione di quanto evidenziato nella stessa
ordinanza impugnata circa la posizione di quasi monopolio raggiunta dalla società indagata
nel mercato pugliese degli appalti di pulizia e ausiliariato.
7. Più complesso è il problema posto dal primo e dal terzo motivo del ricorso, con sui si
censura l'ordinanza impugnata per non aver rilevato la violazione dell'art. 45 D.lgs. cit.,
avendo il G.I.P. disposto le misure interdittive a carico della società motivando per relationem
all'ordinanza cautelare emessa nei confronti delle persone fisiche indagate per i reati dai
quali dipende l'illecito amministrativo attribuito alla società ovvero riportando interi brani della
memoria del pubblico ministero. In sostanza, viene dedotta la violazione di legge in relazione
all'art. 45 D.lgs. cit., che richiama espressamente l'art. 292 c.p.p., il quale a sua volta
prevede, a pena di nullità, che l'ordinanza cautelare contenga l'esposizione delle specifiche
esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura: nel caso di specie,
sostiene la ricorrente, l'ordinanza del G.I.P. risulterebbe prevalentemente motivata per
relationem alla ordinanza cautelare personale, che ha presupposti del tutto diversi da quelli
richiesti per emettere una misura interdittiva a carico di una società, con la conseguente
violazione delle disposizioni di legge suindicate.
È noto che nel nostro ordinamento processuale la motivazione c.d. per relationem è
considerata legittima, purché siano osservate determinate condizioni: a) faccia riferimento a
un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di
giustificazione propria del provvedimento di destinazione; b) fornisca la dimostrazione che il
giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di
riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la decisione; c) l'atto di riferimento sia
conosciuto dall'interessato, attraverso l'allegazione o la trascrizione nel provvedimento in
questione, o quanto meno ostensibile nel momento in cui si renda attuale l'esercizio della
facoltà di valutazione, di critica e di gravame, consentendo il controllo dell'organo della
valutazione o dell'impugnazione (Sez. un., 21 giugno 2000 n. 17, Primavera; Sez. IV, 20
gennaio 2004 n. 16886, Rinero; Sez. I, 20 dicembre 2004 n. 2612).
Peraltro, il rispetto di tali condizioni presuppone che la motivazione per relationem rinvii ad
altri provvedimenti dello stesso procedimento, atteso che solo in tal caso è possibile per il
giudice dell'impugnazione controllare l'iter logico e giuridico che sorregge la decisione
impugnata attraverso l'esame degli atti del fascicolo, diversamente da quanto può accadere
in caso di rinvio a provvedimenti di altri procedimenti che non possono essere attinti dal
giudice dell'impugnazione (Sez. III, 25 maggio 2001 n. 33648, Cataruzza).
Dal punto di vista formale l'ordinanza del G.I.P. ha rispettato, solo in parte, tali condizioni:
sebbene risulti che il provvedimento cautelare personale sia stato notificato alla società
unitamente all'ordinanza applicativa delle misure interdittive e che entrambi i provvedimenti
siano stati emessi nell'ambito del medesimo procedimento penale (…), tuttavia deve
riconoscersi che con riferimento alla procedura cautelare prevista in materia di responsabilità
amministrativa degli enti, il rinvio per relationem all'ordinanza cautelare personale può
assolve all'onere motivazionale solo per quanto concerne uno dei presupposti per
l'applicazione delle misure interdittive, quello cioè della sussistenza dei gravi indizi circa la
commissione dei reati.
Infatti, è solo in relazione a questa porzione della fattispecie complessa prevista dall'art. 45
D.lgs. 231/2001 che l'ordinanza applicativa delle misure coercitive personali può svolgere
una funzione integrativa della motivazione, che sia coerente con la decisione cautelare
riguardante il soggetto collettivo. Dalla lettura dell'ordinanza del 18 aprile 2005 il rinvio al
provvedimento di riferimento non è limitato alla individuazione dei gravi indizi di colpevolezza
in relazione ai reati presupposto, ma tende ad assorbire l'intero quadro di gravità indiziaria
riferibile alla fattispecie di cui al citato art. 45, in una sovrapposizione di livelli che finisce per
confondere il piano relativo alle persone fisiche con quello riguardante la società.
E tale impostazione viene replicata anche nell'ordinanza del Tribunale di Bari, che oltre a
giustificare la tecnica di redazione della motivazione adottata dal G.I.P, ha assunto a
fondamento della propria decisione argomentazioni riguardanti i reati posti in essere dagli
amministratori, tra l'altro dilungandosi nell'esame della struttura e delle caratteristiche
dell'associazione per delinquere, che è reato che non rientra tra quelli la cui commissione
può determinare la responsabilità amministrativa a norma del D.lgs. 231/2001. In questo
modo, l'accertamento della sussistenza dei gravi indizi della responsabilità dell'ente ha finito
per concentrarsi soprattutto nella verifica dei gravi indizi di colpevolezza relativi ai reati
presupposto, trascurando e svalutando il controllo sui restanti elementi della fattispecie.
Occorre sottolineare che il massiccio ricorso fatto dall'ordinanza del G.I.P. – e, in parte, anche
dall'ordinanza del Tribunale – alla tecnica di motivazione per relationem non si giustifica in un
procedimento a carico delle persone giuridiche, in quanto del tutto diversi sono i presupposti
e i requisiti per accertare l'esistenza della gravità indiziaria a carico dei soggetti collettivi,
elementi che devono essere individuabili autonomamente dall'ordinanza cautelare emessa ai
sensi dell'art. 45 D.lgs. 231/2001 che, come si è detto, può anche richiamare il diverso
provvedimento in cui sono state emesse le misure cautelari personali, ma solo per
dimostrare la sussistenza dei gravi indizi in rapporto ai reati presupposto, senza costringere
difensori e giudici dell'impugnazione ad effettuare continue verifiche in atti processuali per
procedere alla ricostruzione e al controllo della più ampia fattispecie cautelare richiesta dal
D.lgs. 231/2001.
8. Proprio la tecnica di motivazione per relationem ha prodotto una erronea applicazione di
alcune delle disposizioni in materia di misure cautelari nel procedimento a carico degli enti,
violazioni cui si riferiscono i motivi quarto, quinto e sesto del ricorso, che possono essere
trattati congiuntamente.
L'art. 45 D.lgs. cit. subordina l'applicazione delle misure cautelari interdittive alla sussistenza
dei gravi indizi di responsabilità dell'ente. Tale valutazione deve essere riferita alla fattispecie
complessa che integra l'illecito amministrativo attribuito all'ente e che comprende anche il
rapporto di dipendenza con il fatto reato. Ne consegue che l'ambito di valutazione del giudice
deve comprendere non soltanto il fatto reato, cioè il presupposto dell'illecito amministrativo,
ma estendersi ad accertare la sussistenza dell'interesse o del vantaggio derivante all'ente, il
ruolo ricoperto in concreto dai soggetti indicati dall'art. 5 comma 1 lett. a) e b) D.lgs. cit.,
nonché verificare se tali soggetti abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi (art.
5 comma 2); inoltre, nel giudizio cautelare rientrano anche le condizioni indicate dall'art. 13
D.lgs. cit., che subordina l'applicabilità delle sanzioni interdittive alla circostanza che l'ente
abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità ovvero, in alternativa, che l'ente abbia
reiterato nel tempo gli illeciti, articolo che al comma 3 esclude l'applicabilità delle sanzioni
interdittive nei casi in cui l'autore del reato abbia commesso il fatto nel prevalente interesse
proprio o di terzi ovvero quando il danno patrimoniale sia di particolare tenuità (art. 12
comma 1).
Infine, anche nella fase cautelare il giudice deve fondare la sua valutazione in rapporto ad
uno dei modelli di imputazione individuati dagli artt. 6 e 7 D.lgs. cit., l'uno riferito ai soggetti in
posizione apicale, l'altro ai dipendenti, modelli che presuppongono un differente onere
probatorio a carico dell'accusa.
Si tratta di requisiti che concorrono su un piano di assoluta parità a configurare l'illecito
amministrativo dell'ente, per cui l'accertamento della gravità indiziaria deve riguardare
ciascun elemento della fattispecie complessa. La gravità degli indizi va perciò riferita non
(solo) al reato, ma all'illecito amministrativo che lo comprende, per cui il giudizio sugli
elementi da prendere in considerazione si presenta più complesso rispetto alla valutazione
che il giudice compie quando applica una misura cautelare nei confronti di una persona
fisica.
Deve allora sottolinearsi come sia l'ordinanza impugnata, sia il provvedimento genetico del
G.I.P. non abbiano proceduto ad un esame completo della fattispecie cautelare.
8.1 In alcuni casi appare viziata la stessa valutazione sulla sussistenza di un rapporto
qualificato dell'ente con i diversi autori dei reati. In particolare, il Tribunale di Bari, che pure
ha limitato l'ambito applicativo delle misure, escludendo una serie di episodi inizialmente
contestati alle società, avrebbe dovuto verificare la struttura delle imputazioni provvisorie
riportate ai numeri 14, 18, 21 e 28 dell'ordinanza del G.I.P., in cui non è indicato il soggetto
che avrebbe commesso il reato a vantaggio o nell'interesse della società.
Si tratta, in realtà, di quattro distinti episodi di reato in cui si descrivono ipotesi di corruzione
(artt. 319 e 319-bis c.p.) attribuite a funzionari o dirigenti di aziende ospedaliere, di ASL o di
enti territoriali che con diverse modalità avrebbero ricevuto favori e favorito la società
ricorrente, ma non si indica la persona fisica del corruttore, per poter accertare se si tratti di
un soggetto "interno" alla persona giuridica, che possa aver impegnato l'ente, secondo il
modello delineato dal D.lgs. 231/2001.
D'altra parte, né il provvedimento del G.I.P. né l'ordinanza del Tribunale consentono di
integrare tale omissione, in quanto nessuna delle due decisioni esamina separatamente e
analiticamente i diversi episodi contestati, limitandosi a richiamare genericamente le condotte
di alcuni imputati, con particolare riferimento alla loro collocazione nell'ambito della
associazione per delinquere, ricorrendo alle indicazioni contenute nell'ordinanza applicativa
delle misure cautelari personali.
Neppure l'imputazione provvisoria sub A), riguardante l'ente, è in grado di sopperire a tali
carenze, data la sua assoluta genericità. In questo modo, per i quattro episodi indicati appare
difficile anche l'individuazione del modello di imputazione utilizzato, cioè se quello dei
soggetti apicali di cui all'art. 6 – anche nella forma della gestione di fatto – ovvero quello dei
dipendenti previsto dal successivo art. 7 D.lgs. 231/2001.
Peraltro, tale incongruenza, che si traduce in un'erronea applicazione dell'art. 5 in fase
cautelare, appare ancor più evidente dal momento che negli altri capi di imputazione si fa
invece riferimento, seppure in maniera indiretta, ai soggetti apicali della società come autori
dei reati da cui l'ente avrebbe tratto vantaggio.
8.2. Anche con riferimento al requisito dell'interesse o del vantaggio si registrano una serie di
incertezze applicative, rilevate nei motivi quarto e quinto del ricorso.
Nel prendere in considerazione le condotte poste in essere dalle persone fisiche a favore
della società (LF), l'ordinanza impugnata, condividendo quanto ritenuto dal Pubblico
Ministero nella sua memoria – di cui sono riportati interi brani – sostiene che l'interesse
deriverebbe, comunque, dai reati commessi a vantaggio della (D) s.p.a., che in quanto
società controllata finirebbe per "avvantaggiare" anche la controllante.
Si osserva al riguardo che, pur convenendo in merito alle considerazioni svolte circa il fatto
che le nozioni di interesse e di vantaggio possano atteggiarsi in modo differente qualora
siano riferite ad un contesto di gruppo di imprese, tuttavia nel caso di specie non vi è stata
alcuna contestazione in questo senso, non figurando né nel capo di imputazione provvisorio
né nell'ordinanza cautelare del G.I.P. un riferimento al fatto che tra le due società vi fosse un
rapporto qualificabile come tra controllante e controllata, dovendosi poi evidenziare che
nessun elemento a favore di questo presunto rapporto sia stato fornito, neppure a livello
meramente indiziario.
Nella ricostruzione che hanno dato i giudici di merito, il collegamento è dato semmai dai
soggetti che partecipavano all'associazione criminosa, circostanza questa che però non
rileva ai fini della responsabilità dell'ente e che dimostra, ancora una volta, come si tenda a
confondere il vantaggio conseguito dal gruppo dirigente della associazione criminale con
quello della società.
In sostanza, il Tribunale avrebbe dovuto accertare, sempre a livello di gravi indizi, se e in che
limiti la commissione dei reati abbia fatto conseguire un interesse diretto alla società (LF),
prescindendo da ogni considerazione sull'interesse o sul vantaggio indirettamente derivato
dai reati posti in essere a favore della (D) s.p.a. Anche sotto questo profilo risulta un erronea
applicazione dell'art. 5 D.lgs. 231/2001 in rapporto alla fattispecie concreta.
8.3. Il requisito dell'interesse è oggetto anche del quinto motivo del ricorso, in cui si deduce,
tra l'altro, la violazione del comma 2 dell'art. 5 D.lgs. cit.
La disposizione citata prevede che l'ente non risponde dell'illecito qualora gli autori del reato
hanno agito "nell'interesse esclusivo proprio o di terzi": si tratta di una norma che si riferisce
al caso in cui il reato della persona fisica non sia in alcun modo riconducibile all'ente, in
quanto non risulta realizzato nell'interesse di questo, neppure in parte.
In simili ipotesi la responsabilità dell'ente è esclusa proprio perché viene meno la possibilità
di una qualsiasi rimproverabilità al soggetto collettivo, dal momento che si considera venuto
meno lo stesso schema di immedesimazione organica: la persona fisica ha agito solo per se
stessa, senza impegnare l'ente. Alla medesima conclusione si giunge anche qualora la
società riceva comunque un vantaggio dalla condotta illecita posta dalla persona fisica, dal
momento che l'art. 5 comma 2 D.lgs. cit. si riferisce soltanto alla nozione di interesse: in ogni
caso, si tratterebbe di un vantaggio "fortuito" in quanto non attribuibile alla "volontà" dell'ente.
Anche tale condizione negativa deve essere verificata nella fase cautelare, non potendo
applicarsi una misura interdittiva qualora risulti, anche a livello indiziario, l'esclusività
dell'interesse. Nella specie, dall'ordinanza impugnata emerge una applicazione
contraddittoria della disposizione in esame: infatti, in alcuni passaggi del provvedimento i
giudici di merito evidenziano l'uso strumentale che gli indagati avrebbero fatto della società
cooperativa, tanto da tradirne le finalità mutualistiche, sfruttandola per il proprio personale
vantaggio; in altri sottolineano che l'attività della società era di fatto fittizia; giungendo, infine,
a dubitare che possa trattarsi di una società intrinsecamente criminosa. Si oscilla tra una
ricostruzione in cui la società viene considerata una "vittima" dell'operato di un gruppo di
persone, cioè uno strumento nelle mani di un'associazione criminale che persegue l'obiettivo
di realizzare una serie di reati per mezzo della società (LF) e non a favore o nell'interesse
della stessa, e una ricostruzione alternativa in cui alla stessa società viene attribuita una
natura illecita.
Ancora una volta, si confonde la associazione per delinquere con la società cooperativa, nel
senso che dove c'è interesse per l'associazione si individua, automaticamente, anche
l'esistenza di un interesse per l'ente, in una sovrapposizione di livelli che resta estranea al
modello di responsabilità amministrativa di cui al D.lgs. 231/2001.
Tanto è indice di una errata applicazione della disciplina prevista dagli artt. 5 e seg. D.lgs.
231/2001, dal momento che non è stato accertato se ed in quale misura vi sia stato il
vantaggio o l'interesse della cooperativa (LF), anche sotto il profilo della possibile
applicazione dell'art. 12 comma 1 lett. a) D.lgs. cit., con riferimento ad un eventuale interesse
prevalente degli autori dei reati rispetto all'interesse e al vantaggio dell'ente, che porterebbe
ad escludere il ricorso alle misure interdittive.
9. In conclusione l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Bari
per un nuovo esame relativo ai gravi indizi, da compiere tenendo conto dei principi innanzi
indicati. Lo stesso giudice all'esito di questo esame valuterà, se del caso, la sussistenza
attuale delle esigenze cautelari.