l`OIL e l`emergere di uno spazio sociale europeo (1931

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l`OIL e l`emergere di uno spazio sociale europeo (1931
Capitolo primo
Dalla crisi alla guerra: l’OIL e l’emergere
di uno spazio sociale europeo (1931-1944)
1.1. Razionalizzazione economica e progresso sociale (prima parte):
l’OIL negli anni fra le due guerre
L’inizio degli anni trenta segnò l’avvio di una crisi irreversibile
dell’assetto internazionale stabilito a Versailles. Il pieno dispiegarsi
della crisi economica provocò la fine della collaborazione fra i principali paesi, con l’abbandono generalizzato del gold standard, la diffusa adozione di misure protezionistiche e il ripiegamento nelle varie autarchie nazionali. Figlia della crisi fu anche l’ascesa al potere
di Adolf Hitler, la cui dichiarata carica revisionista causò a sua volta
un terremoto nei rapporti politici europei, il tutto mentre le conseguenze dell’invasione giapponese in Manciuria assestavano il primo
duro colpo al sistema di sicurezza collettiva.
Lo specchio più evidente di tali cambiamenti furono le vicende
che coinvolsero la Società delle Nazioni (SdN), i cui limiti operativi
erano apparsi chiari fin dal momento della sua creazione, ma che
rimaneva il principale simbolo dell’equilibrio uscito dalla prima guerra mondiale. Il ritiro di Germania e Giappone dalle sue fila, nel
1933, segnò l’inizio di un declino che in pochi anni sarebbe sfociato
nella sconfitta definitiva dell’organizzazione, e che neanche l’adesione dell’Unione Sovietica, nel 1934, avrebbe contribuito concretamente ad arrestare. Benché subito ridimensionata dalla mancata
partecipazione degli Stati Uniti, la SdN era formalmente il baluardo
della nuova stabilità, come dimostrava anche l’inserimento del Covenant, il suo documento istitutivo, in tutti i trattati di pace con le
potenze sconfitte. Il rapido deterioramento dei rapporti fra i maggiori paesi, e il progressivo smantellamento dell’assetto di Versail19
les, entrambi iniziati con gli avvenimenti del 1932-33, determinarono quindi il fallimento politico dell’organizzazione, e svuotarono di
senso la sua stessa esistenza1.
Diverso fu il destino dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), la «sorella» della Società delle Nazioni, anch’essa creata
nel 1919 come pilastro della sicurezza collettiva, e consacrata tale
con l’inserimento del suo atto costitutivo nei trattati di pace. Quando, all’inizio degli anni trenta, l’equilibrio generale subì i primi
scossoni, le peculiarità legate ai suoi obiettivi e alla sua struttura istituzionale finirono per giocare in suo favore, permettendone l’adattamento alle nuove dinamiche internazionali.
Stabilita a Ginevra a poca distanza dalla Società delle Nazioni,
anche l’OIL era articolata su tre organi. Depositaria del potere decisionale era la Conferenza Internazionale del Lavoro (CIL), l’assemblea annuale di tutti i membri, il cui compito primario era l’approvazione di convenzioni internazionali in materia di condizioni lavorative, che stabilissero standard normativi generali. Oltre alle convenzioni, la cui applicazione era obbligatoria per i paesi membri che
ne approvavano la ratifica, la Conferenza aveva la possibilità di
emanare raccomandazioni, atti tendenzialmente più dettagliati ma
a carattere eminentemente orientativo, e di adottare risoluzioni, in
quest’ultimo caso anche su temi di carattere generale o solo indirettamente connessi con la sfera di competenza dell’organizzazione.
L’Ufficio Internazionale del Lavoro, più noto nella denominazione
francese di Bureau International du Travail (e nel relativo acronimo: BIT), era il segretariato permanente dell’OIL, vero e proprio
garante della continuità dei suoi lavori, con funzioni amministrative
e logistiche, di gestione dei rapporti con i paesi membri e con i
partner esterni, ma anche di studio e approfondimento sulle tema1
Il crollo di Wall Street e le sue conseguenze politiche sono indicati unanimemente dalla letteratura come l’inizio della caduta del sistema di Versailles. Un riferimento
per tutti: Zara Steiner, The lights that failed. European international history, 1919-1933,
Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 635-816, che riserva particolare attenzione alla crisi mancese e ai suoi effetti sulla Società delle Nazioni. Per una visione generale sulla storia della Società delle Nazioni, le sue debolezze e il suo progressivo svuotamento cfr. anche Fred S. Northedge, The League of Nations. Its life and times, Leicester, Leicester University Press, 1986, in particolare le pp. 25-164, e Ruth Henig, «The
League of Nations: an idea before its time?», in Frank McDonough (ed.), The origins of
the second world war: an international perspective, London/New York, Continuum International Publishing, 2011, pp. 34-49.
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tiche cui di volta in volta essa dedicava l’attenzione. Queste ultime
erano via via decise dal Consiglio di Amministrazione (CdA) del
BIT, l’organo direttivo a composizione ristretta, convocato in media
tre volte all’anno e incaricato anche di fissare l’ordine del giorno
delle Conferenze annuali e di approvare i programmi operativi connessi con l’attività dell’organizzazione.
Legata ai suoi compiti normativi, e mirata alla ricerca di regole
che trovassero il più ampio consenso (e quindi le maggiori probabilità di reale applicazione) negli Stati membri, era poi la principale
peculiarità dell’organizzazione: la composizione tripartita dei suoi
organi. Nata anche grazie all’impegno del mondo sindacale, l’OIL
era stata infatti concepita come una sorta di camera di concertazione fra le «forze sociali», lavoratori e datori di lavoro, dal cui dialogo
sarebbero scaturiti gli accordi sugli standard normativi. Per questo il
suo atto costitutivo prevedeva che la Conferenza Internazionale del
Lavoro fosse composta di quattro rappresentanti per ogni paese
membro, due governativi, uno sindacale e uno padronale, ciascuno
dei quali con piena libertà di voto. Analogamente i ventiquattro
seggi del Consiglio di Amministrazione sarebbero stati occupati per
un quarto ciascuno da lavoratori e datori di lavoro, e per la metà
rimanente da rappresentanti governativi; di questi ultimi, secondo
un principio affine a quello adottato per il Consiglio della SdN (e in
seguito per il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite), otto erano assegnati di diritto alle maggiori potenze industriali2.
La creazione dell’OIL, nel 1919, si era ispirata a due obiettivi di
carattere generale, uno di natura economica, l’altro politico-sociale,
entrambi richiamati in modo più o meno esplicito nell’atto costitutivo. Da una parte era evidente che in un contesto di forte interdipendenza economica come quello emerso in Europa fin dagli ultimi
2
Il testo dell’atto costitutivo dell’OIL è visibile sul sito web dell’Organizzazione,
sezione NormLex: ilo.org/dyn/normlex/en/. Nella sua forma originale esso rappresentava la parte XIII dei trattati di pace (il Covenant della SdN era la parte I); cfr. ad
esempio il testo completo del Trattato di Versailles, reperibile sul sito «The Avalon
Project» della Yale School of Law: avalon.law.yale.edu/subject_menus/versailles_menu.
asp. Sulle problematiche relative alla scelta degli otto paesi di «chief industrial importance», emerse fin dai primissimi anni, cfr. ad esempio la ricostruzione «in tempo
reale» di Charles Howard-Ellis, The Origin, Structure, and Working of the League of Nations, London, Allen & Unwin, 1928, pp. 251-256, e l’analisi di Ebere Osieke, Constitutional law and practice in the International Labour Organisation, Dordrecht, Martinus
Nijhoff Publishers, 1985, pp. 103-107.
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decenni del XIX secolo, le diverse legislazioni sociali nazionali, con
la loro diversa incidenza sui costi di produzione, influenzavano notevolmente la competitività delle rispettive economie. Nel suo sforzo per l’adozione di meccanismi di tutela uniformi, l’OIL puntava
sostanzialmente a togliere i costi della protezione sociale dal gioco
della concorrenza, riportando da questo punto di vista i paesi su un
piano di parità. D’altro canto, riducendo in questo modo le possibilità di social dumping, l’azione dell’OIL eliminava il principale ostacolo all’adozione di normative avanzate nei singoli paesi, e favoriva
quindi il perseguimento dell’altra sua grande missione: la stabilizzazione sociale. Il mezzo secolo precedente la Grande Guerra era stato caratterizzato da manifestazioni sempre più acute del conflitto di
classe, che si erano estese ad aree sempre più vaste dell’Europa e
del Nord America in connessione con la «seconda rivoluzione industriale». Lo scoppio della guerra aveva momentaneamente ricompattato le società nazionali attorno all’obiettivo della difesa della patria, ma era illusorio pensare che lo scontro si fosse definitivamente
sopito, tanto che ben presto le varie union sacrée avevano iniziato ad
incrinarsi, e le tensioni si erano rapidamente riacutizzate. Il crollo
della Russia zarista e la rivoluzione d’Ottobre erano, del resto, la
dimostrazione più lampante della necessità di alleviare la «questione sociale» con un programma di riforme che migliorasse il benessere delle classi popolari. Questo era il senso dell’affermazione di
apertura dell’atto costitutivo dell’OIL, che indicava nell’obiettivo
della «giustizia sociale» l’unico fondamento possibile per una «pace
universale e duratura». Non è un caso che fra i sostenitori più accesi
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro figurasse una parte
consistente del movimento sindacale, desideroso di ottenere un
compenso, in termini di riforme sociali, per il tributo offerto dalle
masse popolari allo sforzo bellico. Un organismo internazionale incaricato di stabilire standard universali di protezione sociale andava
evidentemente incontro a tali aspettative, dato che le sue norme
avrebbero costituito uno stimolo a migliorare le condizioni di vita e
di lavoro in tutti i paesi del mondo3.
3
Tutti i testi sull’Organizzazione Internazionale del Lavoro menzionano i due
obiettivi fondamentali. Un esempio per tutti: Gerry Rodgers et alii, op. cit., pp. 1-10.
Cfr. anche i riferimenti, nel preambolo dell’atto costitutivo dell’OIL, al fatto che una
«universal and lasting peace can be established only if it is based upon social justice», e
22
Prima ancora dei suoi obiettivi normativi, era però la composizione tripartita dell’OIL a rivelarne la missione «stabilizzatrice».
L’idea di un foro internazionale permanente nel quale i rappresentanti delle parti sociali si incontrassero regolarmente per cercare
soluzioni condivise ai problemi del lavoro rappresentava, di per sé,
un approccio al conflitto di classe alternativo a quello appena affermatosi in Russia. Una soluzione basata sul dialogo che, presupponendo l’esistenza di associazioni effettivamente rappresentative
dei lavoratori e dei datori di lavoro, era chiaramente ritagliata sulle
condizioni delle democrazie liberali avanzate4. Non a caso nei decenni successivi l’Unione Sovietica avrebbe sempre guardato con sospetto all’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Né è un caso
che il sostegno del movimento operaio alla sua istituzione provenisse
dalle organizzazioni sindacali più moderate, come il Trades Union
Congress (TUC) e l’American Federation of Labor (AFL), poco ricettive al richiamo rivoluzionario (soprattutto la seconda) e miranti
piuttosto a consolidare la legittimazione politica guadagnata col
proprio sostegno alla guerra. Per i vertici dell’AFL, in particolare,
era forte anche la motivazione «economica», viste le opportunità che
gli stimoli dell’OIL alla liberalizzazione commerciale sembravano
poter aprire all’industria americana sui mercati mondiali, con i conseguenti vantaggi per la classe operaia nazionale5.
Assenti gli Stati Uniti a seguito della mancata ratifica del trattato
di Versailles, fin dai primi anni l’organizzazione rimase un riferiche «the failure of any nation to adopt humane conditions of labour is an obstacle in the
way of other nations which desire to improve the conditions in their own countries».
4
Una definizione testuale della creazione dell’OIL come «risposta delle potenze
vincitrici alla minaccia del bolscevismo» è in Robert W. Cox, «Labor and hegemony»,
in International Organization, vol. 31, n. 3, Summer 1977, pp. 385-424; la citazione è a
p. 387.
5
Sul TUC nella prima guerra mondiale cfr. John N. Horne, Labour at war. France
and Britain, 1914-1918, Oxford, Clarendon Press, 1991, in part. le pp. 218-260 e 302349. Sul rilievo politico assunto dall’AFL durante la guerra e il suo conseguente appoggio all’internazionalismo wilsoniano cfr. Edward C. Lorenz, Defining global justice.
The history of US International labor standards policy, Notre Dame, Ind., University of
Notre Dame Press, 2001, ad es. le pp. 25-26. Sul ruolo del TUC e dell’AFL nella creazione dell’OIL cfr. Antony Alcock, History of the International Labour Organisation, London, Macmillan, 1971, pp. 14-37. Sulla «motivazione economica» dell’AFL cfr. ad
esempio quanto riportato in Robert Cox, op. cit.: «American labor’s foreign policy has
stressed American interest first, international labor solidarity second – and indeed the
second has been so far behind as hardly to count at all» (p. 395).
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mento fondamentale per il sindacalismo e il socialismo riformista
europeo, buona parte del quale aveva oramai messo in discussione
l’idea della lotta di classe come via per l’emancipazione del proletariato. Da tali ambienti fu anche reclutato il primo direttore generale
del BIT, Albert Thomas, membro dell’ala destra del socialismo
francese e ministro dell’Armamento nel governo di Aristide Briand
durante la guerra6. Proprio quest’ultima esperienza aveva avuto un
ruolo decisivo sulle idee di Thomas, mostrandogli le potenzialità, in
termini di capacità produttiva e di soddisfazione dei bisogni materiali, di uno sforzo condiviso razionale e organizzato, il cui contrasto
col caos della Russia rivoluzionaria gli era apparso quanto mai eclatante. Per questo nel dopoguerra il suo obiettivo politico era divenuto la ricerca di un compromesso sociale stabile, finalizzato a perseguire quello che, abbandonata la lotta di classe, gli appariva oramai come il presupposto essenziale per qualsiasi miglioramento
delle condizioni popolari: una crescita economica solida e costante7.
Una visione in piena sintonia con i principi che avevano ispirato
l’OIL, e che fin dalla sua entrata in carica come direttore generale
lo spinse a imprimere un impulso alquanto energico all’attività dell’organismo ginevrino.
Per dare un’idea, fra il 1919 e il 1932, anno della sua morte pre6
Cfr. Albert S. Lindemann, Socialismo europeo e bolscevismo (1919-1921), Bologna, Il
Mulino, 1977 (ed. or. 1974), che sottolinea come in realtà posizioni di questo tipo fossero ben presenti nel socialismo europeo già prima del 1914, e che la guerra fornì
l’occasione per la loro messa in pratica: «Per personaggi come Friedrich Ebert in
Germania e Albert Thomas in Francia, la collaborazione di classe creata dal trauma
della guerra rappresentava un modo per sfuggire ai crescenti dilemmi del socialismo
prebellico», p. 72.
7
Sylvain Schirmann, «Albert Thomas, il BIT e i progetti di Europa sociale fra le
due guerre», in Lorenzo Mechi e Antonio Varsori (a cura di), Lionello Levi Sandri e la
Politica sociale europea, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 119-132. V. inoltre Patrizia
Dogliani, «Progetto per un’internazionale ‘aclassista’: i socialisti nell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro negli anni Venti», in Esperienze e problemi del movimento socialista fra le due guerre mondiali, Quaderni della Fondazione Feltrinelli, n. 34, Milano,
Franco Angeli, 1987, pp. 45-68, che parla della «ricerca di un’armonia sociale che rispettasse e permettesse la coesistenza delle diverse componenti del mondo industriale
e della società civile» (p. 59). Sul gruppo di Thomas al BIT v. Dzovinar Kevonian,
«Albert Thomas et le Bureau international du travail (1920-1932). Enjeux de légitimation d’une organisation internationale», in Jacques Bariety (dir.), Aristide Briand, la
Société des Nations et l’Europe 1919-1932, Strasbourg, Presses Universitaires de Strasbourg, 2007, pp. 324-338.
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matura, furono approvate 33 convenzioni internazionali, su temi
che spaziavano dal lavoro femminile e infantile ai problemi della sicurezza, fino a questioni delicate come gli orari o il diritto di associazione sindacale. Un risultato confortato anche dal consistente
numero di ratifiche che esse ottennero, oltre che dalle 41 raccomandazioni approvate su una gamma di tematiche altrettanto eterogenea8. Contemporaneamente l’OIL si affermò come centro di
raccolta, elaborazione e diffusione di informazioni su tutti gli aspetti
compresi nella sua sfera di competenza. Una funzione essenziale ai
fini della sua attività normativa, ma le cui potenziali ricadute andavano ben oltre i confini dell’organizzazione stessa, poiché per la
prima volta essa metteva a disposizione di tutti una fonte di dati
completa e aggiornata sulle condizioni e le legislazioni sociali dei
più diversi paesi. E ciò divenne ancora più importante via via che il
BIT ampliò la propria sfera d’interesse al di là dei temi sociali in
senso stretto, per occuparsi anche degli aspetti di natura economica
connessi con i suoi scopi istituzionali. Un ampliamento che nel 1922
fu legittimato da due pronunce della Corte Internazionale dell’Aia,
e che permise a Thomas di rivolgere l’attenzione dell’Ufficio anche
ai problemi della crescita e della razionalizzazione economica, nell’idea che, come si è accennato, solo in esse si sarebbero trovate le
risorse per innalzare i livelli di vita dei lavoratori senza compromettere la pace sociale9.
8
L’elenco e il testo di tutte le convenzioni e raccomandazioni approvate nel corso
della storia dell’OIL è reperibile nella sezione NormLex del suo sito ufficiale. Il problema delle ratifiche è messo in rilievo da tutti i testi sulla storia dell’organizzazione;
per un resoconto ben dettagliato, che lascia ampio spazio all’azione personale di
Thomas per favorire le ratifiche stesse, cfr. Denis Guérin, Albert Thomas au BIT, 19201932. De l’internationalisme à l’Europe, Genève, Euryopa, 1996, pp. 30-37; lo stesso testo riporta dati sulle ratifiche di ciascun paese membro al 1932, pp. 81-82.
9
Sul significato di tale vicenda si veda in particolare il celebre volume di Ernst B.
Haas, Beyond the Nation State. Functionalism and International Organization, Stanford,
Stanford University Press, 1964, pp. 147-148. Le due pronunce menzionate sono i
pareri consultivi nn. 2 e 3, emanati dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale il 12 agosto 1922 e intestati rispettivamente a «Competence of the ILO in regard
to International Regulation of the Conditions of the Labour of Persons Employed in
Agriculture» e «Competence of the ILO to Examine Proposal for the Organization
and Development of the Methods of Agricultural Production». Il testo di entrambi è
reperibile sul sito web della Corte Internazionale di Giustizia, nella sezione dedicata
alla Corte Permanente di Giustizia Internazionale del periodo inter-bellico, all’indirizzo www.icj-cij.org/pcij/. Una delle prime manifestazioni dell’interpretazione esten-
25
Ora, nell’OIL degli anni venti, largamente dominata dai paesi e
dalle problematiche europee, le vie per la razionalizzazione economica apparivano essenzialmente due, entrambe ispirate dall’osservazione delle più recenti performance dell’industria americana. La
prima riguardava direttamente il processo di produzione, e consisteva nell’applicazione in Europa dei metodi di organizzazione
scientifica del lavoro sviluppatisi negli Stati Uniti attorno alle teorie
di Frederick Taylor. In una versione «umanizzata», attenta anche
all’arricchimento sociale e culturale del lavoratore, essi avrebbero
permesso di stimolare la ripresa e, contemporaneamente, di consolidare la condizione di piena cittadinanza guadagnata dalla classe
operaia col suo contributo di sangue alla patria10. La seconda via
concerneva un livello più «macro», e consisteva in un’integrazione
progressiva delle economie europee, che eliminasse le inefficienze
derivanti dal protezionismo e creasse a sua volta un ambiente più
favorevole alla crescita. Una posizione in piena sintonia sia con il
generico europeismo diffuso dalla guerra nel mondo politico (e largamente condiviso all’interno del BIT), sia con i progetti di accordi
di cartello o di unione doganale europea portati avanti da alcuni
ambienti dell’industria. Se la prima delle due vie presentava le implicazioni più evidenti dal punto di vista di un’azione riformista, la
seconda, nella sua doppia qualità di fattore di razionalizzazione e di
garanzia di pace, ne era in ogni caso una condizione essenziale11.
siva della competenza del BIT si ebbe con l’inchiesta sulla produzione industriale
condotta fra il 1920 e il 1925, quando l’analisi della dimensione sociale fu affiancata
da quella dei fattori di natura economica passibili di influenzare il livello di produttività nei diversi settori. La ricostruzione più completa della vicenda è quella in Mario
Taccolini, Una crisi annunciata? L’inchiesta sulla produzione del Bureau International du
Travail (1920-1925), Milano, Vita e Pensiero, 2001.
10
Cfr. Thomas Cayet, Rationaliser le travail, cit., passim, e Id., «The ILO and the
IMI: a strategy of influence on the edges of the League of nations, 1925-1934», in
Jasmien Van Daele et alii, op. cit., pp. 251-269. Particolarmente significativo a questo
proposito è un testo citato da Cayet, che descrive l’«International Management
Institute», creato nel 1926 dal BIT in cooperazione col XXth Century Fund del filantropo americano Edward Filene per studiare i metodi di organizzazione scientifica del
lavoro, come «un instrument afin d’accroitre massivement le pouvoir productif de
l’industrie, pour favoriser la responsabilité et la coopération des employeurs et des
travailleurs, et pour augmenter le marge de bien-être des masses dont le progrès politique et social comme la stabilité économique dépendent».
11
Denis Guérin, op. cit., pp. 61-70. Sui progetti di cooperazione economica
europea di vario tipo nella Francia degli anni venti cfr. Laurence Badel, «Les promo-
26
È noto che, nonostante le ambizioni di Thomas e dei vertici del
BIT, negli anni venti l’OIL non riuscì a guadagnare un’effettiva centralità nel dibattito internazionale, del quale le questioni sociali rimasero regolarmente a margine12. Perfino la sua attività istituzionale, nonostante gli inequivocabili risultati positivi, si scontrò talvolta
con resistenze nazionali insormontabili. Emblematica fu, in questo
senso, la questione della giornata lavorativa di otto ore, che avrebbe
dovuto giocare un ruolo strategico nella prospettiva di «umanizzazione del lavoro» perseguita dal BIT, ma sulla quale la mutua sfiducia fra gli stati membri impedì di ottenere risultati significativi13.
Una situazione che, del resto, andava di pari passo con le modalità
della stabilizzazione economica che interessò l’Europa a partire
dalla metà del decennio, incentrata sul ritorno al gold standard e
sulle conseguenti politiche di rigore14.
Il colpo più duro alla linea di Thomas arrivò comunque con la
crisi economica che, spazzando via ogni prospettiva di crescita, ne
fece venir meno la premessa fondamentale. A partire da quel momento gli studi del BIT si concentrarono sempre di più sulle possibilità di rilancio occupazionale, ma, pur dando luogo a progetti originali, come il celebre programma di lavori pubblici europei propoteurs français d’une union économique et douanière de l’Europe dans l’entre-deuxguerres», in Antoine Fleury (dir.), Le Plan Briand d’Union fédérale européenne, Bern,
Peter Lang, 1998, pp. 17-29. Cfr. inoltre la lettura del pacifismo «europeista» di
Thomas di Jean-Michel Guieu, «Albert Thomas et la paix, du socialisme normalien à
l’action internationale au BIT», in Alya Aglan, Olivier Feiertag, Dzovinar Kevonian
(dir.), Albert Thomas, société mondiale et internationalisme. Réseaux et institutions des années
1890 aux années 1930, Cahiers IRICE n. 2, Actes des journées d’études des 19 et 20
janvier 2007 Université Paris-I Panthéon-Sorbonne, online sul sito di Cairn.info.
12
V. ad esempio le vicende connesse con la Conferenza economica internazionale
del 1927, alla quale il BIT fu associato solo in modo marginale, in Denis Guérin, op.
cit., pp. 38-41.
13
Sui problemi relativi alla ratifica della convenzione OIL n. 1 del 1919, relativa
alla giornata lavorativa di otto ore, cfr. Souamaa Nadjib, «La loi des 8 heures: un
projet d’Europe sociale? (1918-1932)», Travail et Emploi, n. 110, aprile-giugno 2007,
pp. 27-36.
14
Una delle più celebri analisi macroeconomiche sugli effetti negativi del gold
standard fra le due guerre è quella di Barry Eichengreen, Golden fetters: the gold standard and the Great Depression, 1919-1939, New York, Oxford University Press, 1992. La
ricostruzione più classica delle politiche di stabilizzazione nell’Europa di metà anni
venti è quella di Charles S. Maier, Recasting Bourgeois Europe. Stabilization in France,
Germany and Italy in the decade after World War I, Princeton, Princeton University Press,
1988, pp. 481-578.
27
sto nel 1931, essi persero rapidamente concretezza di fronte alla
spirale protezionista degli anni trenta15.
Lo stesso, ovviamente, accadde all’altra componente della strategia originaria, l’integrazione economica europea, che però sembrò
avere qualche speranza di realizzazione proprio durante la prima
fase della crisi, in connessione col progetto di Unione Federale presentato da Aristide Briand alla Società delle Nazioni nel 1929. Il dibattito che seguì la proposta fornì anche l’occasione al BIT di
esporre la sua visione in merito alle caratteristiche concrete dell’integrazione economica, che fu resa pubblica in un memorandum del
gennaio 1931 dedicato alle implicazioni sociali dell’unione doganale prevista nel progetto francese. In linea generale il documento
era ispirato a una fiducia quasi assoluta nei meccanismi di mercato,
e delineava un’unione doganale con una dimensione sociale estremamente ridotta, sottolineando come l’integrazione economica, di
per sé, avrebbe avuto un effetto taumaturgico su buona parte dei
problemi sociali preesistenti. Queste sono le parole del memorandum, redatto direttamente dal direttore generale:
Toute mesure prise en vue de développer la coopération économique
entre les nations de l’Europe et de procéder, pour ainsi dire, à une
rationalisation de son activité, aboutira fatalement à un accroissement de
la productivité du continent, dont les travailleurs bénéficieront à des
titres divers.
[…]
Tout progrès obtenu par une circulation plus libre et mieux réglée des
marchandises, par la multiplication et l’élargissement des marchés, par la
stabilisation des conditions commerciales, par une meilleure répartition
de la production en conformité avec les ressources de chaque pays, par le
développement de la production industrielle et par un aménagement
plus rationnel des cultures doit se traduire par le relèvement des niveaux
de vie des travailleurs, dans les villes comme dans les campagnes.
Come si è detto, i più elevati livelli di efficienza stimolati dall’unione doganale avrebbero facilitato la soluzione di una serie di problemi sociali:
15
Sul progetto di lavori pubblici europei cfr. Isabelle Lespinet-Moret e Ingrid
Liebeskind-Sauthier, «Albert Thomas, le BIT et le chômage: expertise, catégorisation
et action politique internationale», in Alya Aglan et alii, Albert Thomas, société mondiale
et internationalisme, cit., pp. 157-179.
28
Il est donc incontestable qu’en cette matière, comme en bien d’autres,
tout acte de progrès économique entraîne, par voie de conséquence, un
progrès social qui ne saurait laisser indifférente l’Organisation Internationale du Travail.
Con queste premesse, le sole politiche sociali realmente necessarie nel quadro dell’unione doganale sarebbero state quelle connesse
con le esigenze del suo funzionamento: la liberazione dei movimenti di manodopera fra i paesi membri e, suo corollario, meccanismi
che permettessero di garantire ai migranti i benefici assicurativi e
previdenziali maturati in paesi diversi. Inoltre, in previsione del fatto che la razionalizzazione stimolata dall’apertura economica avrebbe comportato una riduzione di attività per le imprese meno concorrenziali, con la conseguente espulsione di manodopera, Thomas
sottolineava la necessità di istituire delle «mesures de réparation et
d’adaptation […] pour la protection de la classe ouvrière». Nel quadro risolutamente pro-mercato del memorandum, queste generiche
misure di adattamento rappresentavano quindi l’unico aspetto puramente sociale. Provvedendo ad addolcire le conseguenze occupazionali a breve termine dell’unione doganale, esse avevano lo scopo
evidente di dare credibilità all’equazione che stava alla base delle
concezioni del BIT, quella fra razionalizzazione economica, crescita
e progresso sociale16.
I cambiamenti dei primi anni trenta ridussero brutalmente le
possibilità di cooperazione economica in Europa, non solo svuotando di consistenza progetti come quello appena descritto, ma creando problemi anche a pratiche che sembravano consolidate, come
l’attività normativa dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
La spirale protezionista innescata dalla grande crisi tendeva infatti a
indebolire l’interesse verso l’elaborazione di standard sociali internazionali, proprio mentre l’uscita della Germania dall’organizzazione, nel 1933, assestava un duro colpo alla credibilità e all’efficacia di questi ultimi, togliendo dalla loro sfera di applicazione l’industria più competitiva d’Europa. Contemporaneamente l’involuzione
16
Commission of Enquiry for European Union, «Memorandum by the International Labour Office», in ILO, Official Bulletin, vol. XVI, 1931, pp. 34-38. Sul progetto
di unione doganale contenuto nel Piano Briand v. Eric Bussière, «Les aspects économiques du projet Briand: essai de mise en perspective. De l’Europe des producteurs
aux tentatives régionales», in Antoine Fleury, op. cit., pp. 75-92.
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autoritaria di molte democrazie europee, prima fra tutte quella tedesca, pareva sminuire fortemente anche la motivazione politicosociale che stava alla base dell’OIL, aprendo la strada a soluzioni
del conflitto di classe ben lontane da quella incarnata dal tripartitismo dell’organizzazione17.
È, però, proprio dagli effetti della crisi economica mondiale e di
quella, conseguente, della democrazia liberale, che emersero le basi
per la sopravvivenza e l’adattamento dell’OIL al nuovo ambiente internazionale. Prima di tutto perché la crisi, investendo pienamente
la sfera d’interesse istituzionale dell’organizzazione, stimolò un’intensa attività di studio da parte del BIT, mirata a contrapporre alle
varie autarchie nazionali strategie alternative basate sul coordinamento e la collaborazione internazionale. In secondo luogo perché,
nelle situazioni in cui la democrazia resse, l’esigenza di soluzioni
concertate sul piano sociale si fece particolarmente impellente, e
generò un’automatica rivalutazione dei principi incarnati dall’OIL.
In terzo luogo perché proprio il meccanismo appena descritto stimolò l’elemento che più di ogni altro avrebbe giocato in favore
della sopravvivenza politica dell’organizzazione, prima alle conseguenze della crisi economica, e poi alla seconda guerra mondiale:
l’adesione degli Stati Uniti d’America18.
1.2. L’OIL, il New Deal e lo scoppio della guerra
Come per la Società delle Nazioni, gli Stati Uniti avevano avuto
un ruolo di rilievo nella creazione dell’OIL, salvo poi non aderirvi a
causa della mancata ratifica dei trattati di pace da parte del Senato.
In particolare, proprio negli anni immediatamente precedenti la
guerra si era determinato un cambiamento nelle posizioni tradizionalmente sostenute dall’AFL. Nonostante il menzionato interesse
all’affermazione economica degli Stati Uniti, essa era sempre stata
17
Per una sintesi sulla crisi della democrazia liberale in Europa negli anni venti
cfr. Mark Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Milano,
Garzanti, 2000 (ed. or. 1998), pp. 17-51.
18
L’importanza dell’adesione americana per la sopravvivenza e il rilancio dell’organizzazione è ampiamente sottolineata nella letteratura. Cfr. ad esempio Stephen
Hughes, Nigel Haworth, «A shift in the centre of gravity: the ILO under Harold Butler and John G. Winant», in Jasmien Van Daele et alii, ILO histories, cit., pp. 293-311.
30
refrattaria ad approcci di tipo normativo anche sul piano interno, e
per questo non aveva abbracciato neanche la tematica degli standard sociali internazionali. Tali posizioni dipendevano dalle scottature inflitte al movimento operaio dal sistema politico americano,
che in materia sociale riservava attribuzioni quasi esclusive agli Stati
federati, e che nei decenni precedenti aveva visto il sistematico annullamento da parte delle corti nazionali e locali di atti legislativi
già approvati. Un sistema che favoriva un forte conservatorismo sul
piano socio-economico, e che aveva spinto l’AFL a un atteggiamento pragmatico, incentrato sulla contrattazione diretta con i singoli
datori di lavoro piuttosto che sulla richiesta di regole universali.
Con le riforme dell’età progressista, che soprattutto durante la prima Amministrazione Wilson avevano portato vantaggi per il sindacato, la federazione aveva ripreso una parziale fiducia nelle soluzioni normative, e in seguito, forte della centralità politica guadagnata
col proprio sostegno allo sforzo bellico, aveva abbracciato l’obiettivo
di una generale «umanizzazione del lavoro» attraverso un’azione internazionale coordinata. Così Samuel Gompers, fondatore e leader
storico della federazione, aveva presieduto la Commissione della
Conferenza di Parigi che aveva redatto l’atto costitutivo dell’OIL, e
nel 1919, a trattative di pace ancora in corso, si era tenuta a Washington la prima Conferenza Internazionale del Lavoro19.
Negli anni successivi, nonostante la mancata adesione, i rapporti
fra gli Stati Uniti e l’OIL erano stati comunque intensi, favoriti anche dal mantenimento di un ufficio di collegamento permanente
dell’organizzazione nella capitale americana, che fra le altre cose le
aveva permesso di ricevere informazioni regolari sugli indicatori
economici e sociali del paese, per accuratezza e dettagli paragonabili a quelle fornite dagli Stati membri. Nel 1923 Thomas era anche
19
Sull’evoluzione dei caratteri del sindacalismo americano negli anni precedenti la
prima guerra mondiale v. ad esempio Christopher L. Tomlins, The state of the unions.
Labor relations, law and the organized labor movement in America, 1880-1960, Cambridge,
Cambridge University Press, 1985, pp. 10-95 e Nelson Lichtenstein, State of the union.
A century of American labor, Princeton, Princeton University Press, 2002, pp. 1-12. Sul
dibattito nel sindacato americano attorno alla creazione dell’OIL, e le difficoltà di
Gompers a far accettare i risultati della conferenza di Parigi un volta rientrato in patria, cfr. Elizabeth McKillen, «Beyond Gompers: the American Federation of Labor,
the creation of the ILO and US labor dissent», in Jasmien Van Daele et alii, ILO histories, cit., pp. 41-66. Sulla Conferenza Internazionale del Lavoro del 1919 a Washington cfr. Antony Alcock, op. cit., pp. 37-46.
31
riuscito ad accordarsi con i vertici dell’AFL e della Camera di Commercio degli Stati Uniti per una loro regolare presenza alle Conferenze Internazionali del Lavoro come osservatori, pur in mancanza
di un’effettiva membership del paese. La scarsa convinzione da parte
delle due associazioni e l’ostilità diffusa verso tali forme di collaborazione internazionale avevano però impedito l’applicazione concreta dell’accordo, nonostante vi guardassero con interesse anche
membri di rilievo dell’Amministrazione, a partire dal segretario al
Commercio Herbert Hoover20.
Attratto dalle esperienze americane in materia di organizzazione
scientifica del lavoro, ma anche dall’idea di coinvolgere nelle attività
dell’OIL l’economia più grande del mondo, Thomas negli anni venti non aveva mai smesso di ricercare un legame con gli USA, senza
però riuscire a ottenere risultati significativi. Solo il crollo di Wall
Street e i suoi primi effetti sull’economia reale permisero al suo vice
Harold Butler di compiere un salto di qualità, e intessere una rete
di contatti e di collaborazioni che si fecero rapidamente sempre più
fitte. L’avvicinamento si giovò anche della crescente sensibilità per
le tematiche dell’OIL stimolata in una parte delle élite americane
da alcune dinamiche manifestatesi nel corso degli anni venti. In
particolare, la progressiva delocalizzazione dell’industria tessile dal
New England verso gli Stati del Sud, a più basso costo del lavoro,
aveva spinto gli ambienti politici del Nord-est, preoccupati per l’emorragia occupazionale, a guardare con sempre maggior favore
all’approvazione di standard sociali uniformi sul piano nazionale. I
primi segni della crisi avevano moltiplicato le dimensioni del fenomeno, contribuendo così a creare le condizioni per l’avvio di una
collaborazione con l’OIL. Non è un caso che tale collaborazione,
ancor prima dell’adesione formale, si concretizzasse con un gruppo
di Stati industriali del Nord-est che, attorno ai governatori di New
York Franklin Delano Roosevelt e del New Hampshire John Gilbert
Winant, avevano avviato forme di coordinamento in materia di protezione sociale e di lotta alla disoccupazione. Ad essi i vertici del
BIT avevano prontamente offerto l’assistenza dell’organizzazione21.
20
Edward Phelan, «Some reminiscences of the International Labour Organisation», Studies – An Irish Quarterly Review, n. 43, 1954, pp. 241-270 (in particolare le pp.
244-245).
21
Cfr. Antony Alcock, op. cit., pp. 118-125.
32
Nel maggio 1932, alla morte di Thomas, Butler, che più di tutti
aveva contribuito a tessere contatti con gli ambienti statunitensi, fu
nominato alla direzione del BIT. Sei mesi dopo, la vittoria di Roosevelt alle elezioni presidenziali spalancò le porte all’adesione americana. Vi era un’indubbia affinità ideologica fra gli ideali di giustizia sociale dell’OIL e gli obiettivi riformatori della nuova Amministrazione. Ma nella prima e più cauta fase del New Deal l’interesse
per l’adesione dipendeva anche da ragioni più concrete, legate ai
menzionati problemi del settore tessile e, più in generale, al fatto
che l’acuirsi della crisi spingeva l’Amministrazione a imporre regole
più stringenti a tutta l’industria nazionale. Per evitare che la contrazione produttiva si risolvesse in un gioco al massacro, e contemporaneamente proteggere il potere d’acquisto dei lavoratori, il National Industrial Recovery Act (NIRA) del giugno 1933 impose una
serie di codici di regolamentazione settoriali, basati su accordi di
cartello fra i produttori ma comprendenti anche forti garanzie in
materia di condizioni di lavoro e di relazioni industriali. Trattandosi, in quest’ultimo caso, di temi di tradizionale pertinenza degli Stati
federati, ci si attendevano però forti resistenze. L’adesione all’OIL,
l’organizzazione che stabiliva standard internazionali in materia sociale, avrebbe potuto facilitare l’opera di armonizzazione perseguita
sul piano interno. Varando una legislazione sociale basata sulle convenzioni dell’OIL, che una volta ratificate dal Congresso avrebbero
tratto forza vincolante dalla loro natura di atti internazionali, si sperava infatti di scavalcare gli ostacoli posti a tale armonizzazione dai
meccanismi costituzionali interni, primo fra tutti il potere di annullamento delle Corti statali e della Corte Suprema22.
Non è un caso se il 1934 fu l’anno che vide, sostanzialmente in
contemporanea, l’ufficializzazione dell’adesione all’OIL e la creazione presso il Dipartimento del Lavoro della «Division of Labor
22
Cfr. Kirstin Downey, The woman behind the New Deal. The life and legacy of Frances
Perkins, New York, Anchor Books, 2010, p. 195. Così anche Jill Jensen, «From Geneva
to the Americas: the International Labor Organization and Inter-American social security standards, 1936-1948», International Labor and Working-Class History, n. 80, Fall
2011, pp. 215-240. Com’è noto nel 1935 fu proprio la Corte suprema ad annullare il
NIRA, la riforma più importante della fase iniziale, e a scatenare, per reazione, l’avvio
di una fase di riforme ancora più ampia e profonda da parte dell’amministrazione,
nota come il «secondo» New Deal. Cfr. ad esempio il classico William Leuchtenburg,
Franklin Delano Roosevelt e il New Deal, Bari, Laterza, 1976 (ed. or. 1963), pp. 135-137.
33
Standards»23. Né è un caso se l’azione più incisiva nella strada verso
l’adesione fu giocata dal segretario al Lavoro Frances Perkins, la cui
lunga e costante azione di lobbying permise di superare l’ostilità di
molti membri del Congresso, relativa alla sfera d’interesse specifica
dell’organizzazione o più semplicemente allineata al diffuso sentimento isolazionista della società americana. Proprio per quest’ultimo motivo il Dipartimento di Stato, nonostante il favore del segretario Cordell Hull verso l’operazione, tenne una posizione di basso
profilo, tale da trasmettere all’opinione pubblica un’immagine più
«depoliticizzata» possibile dell’adesione. Quasi inesistente fu anche
il ruolo degli ambienti sindacali, benché i vertici dell’AFL, tornati
sulle tradizionali posizioni «contrattualistiche» durante gli anni venti, dallo scoppio della crisi avessero ricominciato a guardare con favore a soluzioni di tipo legislativo24. Grande rilievo ebbe infine l’azione di sensibilizzazione del mondo politico svolta da un gruppo di
intellettuali internazionalisti vicini all’Amministrazione, la cui figura
più eminente era lo storico della Columbia University James T. Shotwell. Questo, spesso indicato come vera e propria eminenza grigia
dell’adesione, era stato consulente ufficiale per il governo USA alla
conferenza di pace del 1919, e proprio nel 1934 pubblicò una voluminosa monografia sulle origini dell’OIL. Come buona parte degli intellettuali del gruppo, Shotwell era strettamente legato al
Carnegie Endowment for International Peace, un think tank di orientamento progressista particolarmente influente in materia di politi23
Cfr. «A short history of the United States Department of Labor», Labor Law Journal, vol. 1, n. 10, July 1950, pp. 761-767. Venti anni dopo la disomogeneità delle legislazioni statali in materia sociale era ancora molto elevata, e anzi, con una dinamica
opposta rispetto a quella sperata, essa era stata di ostacolo alla ratifica di numerose
convenzioni dell’OIL. Si veda ad esempio Edwin E. Witte, «The Relation of Labor
Standards in the United States to ILO standards», The Journal of Politics, vol. 17, n. 4,
November 1955, pp. 669-675.
24
Fu comunque necessario aspettare che il Congresso approvasse l’adesione, nel
giugno 1934, perché anche la federazione sindacale dichiarasse ufficialmente il proprio favore. Cfr. Gary B. Ostrower, «The American decision to join the International
Labor Organization», Labor History, vol. 16, n. 4, Fall 1975, pp. 495-504, che evidenzia sia il ruolo della Perkins, di Cordell Hull e di alcuni loro collaboratori, sia l’azione
di Butler e del suo vice Edward Phelan (che sarà a sua volta direttore durante la seconda guerra mondiale). Interessante anche il racconto personale dello stesso Phelan,
che arricchisce con dettagli coloriti il resoconto dell’intera vicenda dell’adesione americana: Edward Phelan, «Some reminiscences», cit., in particolare le pp. 244-256. Sul
ruolo di Frances Perkins cfr. anche Kirstin Downey, op. cit., pp. 195-196.
34
ca estera, che negli anni successivi avrebbe annoverato fra le sue file
la gran parte dei rappresentanti statunitensi nell’Organizzazione Internazionale del Lavoro25.
A dispetto di un processo di adesione relativamente lento e difficoltoso, la presenza degli Stati Uniti nell’organizzazione si caratterizzò fin dall’inizio come molto attiva e influente. La stessa qualità
dei rappresentanti inviati ai meeting dell’OIL lasciava pochi dubbi
sull’attenzione che a Washington si riservava all’organismo ginevrino, con Frances Perkins o altri membri di spicco dell’Amministrazione regolarmente presenti alle Conferenze Internazionali del Lavoro, assieme a personalità di primo piano dell’AFL e della Camera
di Commercio degli Stati Uniti26. In sostanza il nocciolo duro dell’alleanza politico-sociale del New Deal: la componente nordista del
Partito Democratico, il sindacato e i settori più progressisti del business, quelli che continuarono a dialogare con l’Amministrazione anche dopo le indigeste riforme dei cd. «secondi cento giorni». Vi
rientrava una parte dell’industria strutturalmente in declino, soprattutto nel settore tessile, ma anche le imprese dei settori a più elevato contenuto tecnologico, capaci di sostenere meglio i costi sociali in
virtù della minor quantità di manodopera e, per la loro elevata
competitività, le maggiori beneficiarie potenziali dell’apertura internazionale favorita dall’OIL27. Per lo più affiliate alla Camera di
25
Sul ruolo svolto nella vicenda da Shotwell e dagli ambienti intellettuali cfr. ad
esempio Edward C. Lorenz, op. cit., p. 28. Sull’influenza del Carnegie Endowment
sulla politica americana in generale cfr. Inderjeet Parmar, «Engineering consent: the
Carnegie Endowment for International Peace and the mobilization of American public
opinion, 1939-1945», Review of International Studies, n. 26, 2000, pp. 35-48. Il saggio è
focalizzato sugli anni della guerra, ma non trascura elementi di carattere più generale, e affronta in modo piuttosto accurato anche il ruolo di alcune personalità, fra le
quali lo stesso Shotwell. La monografia menzionata, in due volumi, è James T. Shotwell, The origins of the International Labour Organisation, New York, Columbia, 1934,
tuttora un riferimento imprescindibile per gli studi sulle prime fasi dell’OIL.
26
Cfr. ad esempio gli elenchi dei delegati statunitensi in International Labour
Conference (ILC), 20th session, Record of proceedings, Geneva, 1936, p. XIII, e ILC,
24th session, Record of proceedings, Geneva, 1938, p. XIII.
27
Un’analisi sull’affermazione del «blocco storico» del New Deal, che descrive le
«capital-intensive industries» come una componente centrale, è Thomas Ferguson,
«Industrial conflict and the coming of the New Deal: the triumph of multinational
liberalism», in Steve Fraser, Gary Gerstle (eds.), The rise and fall of the New Deal order,
Princeton, Princeton University Press, 1989, pp. 3-31. Sulla collaborazione con l’industria tessile nella seconda metà degli anni trenta, in particolare in sede OIL, cfr.
35
Commercio, queste ultime sostennero almeno fino alla fine della
guerra l’attività dell’organizzazione, nella quale vedevano anche un
antidoto alla radicalizzazione del conflitto sociale e alla sua degenerazione in senso eversivo28. Solo negli ultimi anni della seconda
guerra mondiale, in virtù della credibilità riguadagnata all’industria
americana dal suo apporto alla vittoria contro l’Asse, anche la componente più conservatrice dell’imprenditoria, quella rappresentata
nella National Association of Manufacturers (NAM), si sarebbe riavvicinata all’Amministrazione, e dal 1946 avrebbe contribuito a nominare i membri imprenditoriali nell’OIL29.
Tutto ciò contribuì a una relativa sintonia fra le posizioni delle
tre componenti della rappresentanza statunitense per tutto il primo
decennio dopo l’adesione, sintonia che non fu sostanzialmente turbata neanche dalla rivalità fra l’AFL e il neonato Congress of Industrial Organizations (CIO), iniziata con la rottura del 1935 e che ben
presto finì per riguardare anche il diritto alla designazione dei rappresentanti sindacali nell’OIL. A rafforzare ulteriormente l’influenza americana nell’organizzazione contribuì poi la nomina, nel 1935,
di John Winant a vicedirettore del BIT e, nel 1938, la sua «promozione» a direttore, carica che avrebbe mantenuto fino al febbraio
1941, quando sarebbe stato nominato ambasciatore degli Stati Uniti
a Londra.
I risultati concreti non si fecero attendere. Tutte e tre le componenti della rappresentanza statunitense svolsero ad esempio un
ruolo chiave, alla CIL del 1937, per l’approvazione di due importanti raccomandazioni in materia di lavori pubblici. Nel quadro
della generale attenzione per i problemi occupazionali, i due documenti istituivano un Comitato per i Lavori Pubblici dell’OIL per
raccogliere i programmi dei paesi membri in materia, e suggerivano
meccanismi, di carattere sia tecnico che economico-finanziario, per
Edward C. Lorenz, op. cit., pp. 111-119. Sulle principali riforme del «secondo New
Deal», come il Wagner Act, e sul Social Security Act, varato anch’esso nel 1935, esiste
una letteratura sterminata; mi limito qui a rimandare al già citato volume di William
Leuchtenburg, op. cit., pp. 122-126 e 135-156 e al saggio di Steve Fraser, «The labor
question», in Steve Fraser, Gary Gerstle, op. cit., pp. 55-84.
28
Ad es. Edward Lorenz, op. cit., p. 126, che riporta una citazione di Fortune nella
quale l’OIL è definita come una «revolution insurance».
29
Paul F. Power, «American Employer Behavior in the International Labor Organization», Midwest Journal of Political Science, vol. 12, n. 2, May 1968, pp. 259-278.
36
ottenerne il massimo effetto anticiclico. Si trattava, per lo più, delle
soluzioni già individuate dal BIT nei primi anni trenta, ma sulle
quali solo la presenza americana, anche in virtù dell’autorevolezza
guadagnata in materia dal New Deal, aveva permesso di concentrare l’attenzione in modo sufficiente per l’approvazione di una raccomandazione internazionale30.
Ancor più che sulla tradizionale attività normativa, la presenza
americana ebbe però conseguenze sugli orientamenti generali dell’OIL, contribuendo ad alcune importanti novità che, dalla seconda
metà degli anni trenta, ne contraddistinsero in modo crescente il lavoro. Innanzitutto, dopo anni di attività completamente incentrata
sulle esigenze dei paesi europei, essa iniziò a rivolgere l’attenzione a
temi di interesse specifico di altre aree geografiche, in particolare
con la convocazione, nel 1936 e nel 1939, delle prime due «conferenze regionali americane», composte cioè dalle rappresentanze
tripartite dei soli paesi membri del nuovo continente. La questione
fu sollevata per la prima volta dal governo cileno, ma gli stati Uniti
ne furono fin dall’inizio accesi sostenitori, vedendo nelle conferenze
regionali un quadro istituzionale che avrebbe loro permesso di consolidare la collaborazione in materia sociale già avviata con alcuni
paesi dell’America latina, componente essenziale della «politica di
buon vicinato» dell’Amministrazione Roosevelt. A partire da quel
momento, la «regionalizzazione» si sarebbe affermata come una
prassi sempre più solida nell’attività dell’organizzazione, interessando progressivamente anche tutte le altre aree geografiche (compresa l’Europa, dove però una conferenza regionale non sarebbe
stata possibile fino al 1955)31.
La regionalizzazione, fra l’altro, fu facilitata dallo stesso indebolimento della componente europea nell’organizzazione, seguito in30
Cfr. il testo delle raccomandazioni R50 e R51 del 1937, intestate rispettivamente
a «Public Works (International Co-operation)» e «Public Works (National Planning)»,
sezione NormLex del sito web dell’OIL. Cfr. inoltre Otto T. Mallery, «Action by the
International Labor Organization on public works and unemployment», Social service
review, n. 12, 1-4, March-December 1938, pp. 101-104, e Franco De Felice, op. cit., pp.
246-250.
31
Ivi, pp. 305-323. Sulla proposta della prima conferenza regionale americana cfr.
ILO, Minutes of the 71st and 72nd sessions of the Governing Body, Geneva, May-June 1935,
pp. 331-332. Sull’interesse degli Stati Uniti verso le conferenze pan-americane come
complemento della politica di buon vicinato v. Jill Jensen, op. cit.
37
nanzitutto al ritiro della Germania e dell’Italia, e anche per questo
contribuì a sua volta a stimolare un’altra importante novità. Era infatti evidente che l’attività normativa tradizionale presupponeva sistemi giuridici e apparati amministrativi relativamente efficienti, capaci di trasformare rapidamente in diritto interno le convenzioni del
lavoro approvate dalle Conferenze annuali e poi di farne rispettare
le norme. Una condizione sostanzialmente soddisfatta dai paesi europei, ma che poneva invece serie difficoltà a paesi meno sviluppati
come quelli latinoamericani. Per questo nel corso degli anni trenta
furono organizzate le prime missioni di assistenza tecnica, consistenti
nell’invio di funzionari o esperti del BIT, per periodi di durata variabile, ad aiutare i singoli governi nell’organizzazione di servizi specifici, come gli uffici di collocamento, le strutture per la formazione
professionale o i meccanismi di sicurezza sociale, di solito sulle linee
previste dalle convenzioni internazionali del lavoro. Tali pratiche,
avviate in misura limitata in quegli anni, nel dopoguerra sarebbero
rapidamente divenute la principale attività dell’organizzazione32. Per
quanto l’attività di assistenza tecnica fosse direttamente legata alle
esigenze dei paesi meno sviluppati, anch’essa trovò un forte sostegno
negli Stati Uniti. Per i motivi esposti in precedenza, e al di là delle
speranze dei newdealers, fin dal momento dell’adesione era apparso
chiaro che l’applicazione delle norme OIL nel paese si sarebbe regolarmente scontrata con le rigidità del sistema istituzionale americano. Per questo gli standard normativi furono sempre trattati con
difficoltà (basti pensare che allo scoppio della guerra gli Stati Uniti
avevano ratificato solo cinque convenzioni), e l’assistenza tecnica fu
sempre più vista a Washington come l’espressione più adeguata e interessante dell’attività dell’organizzazione33.
Accanto a tali cambiamenti di natura strutturale, sul finire degli
anni trenta il rapido deterioramento del quadro politico europeo
sollevò poi la questione del futuro dell’OIL nell’eventualità di un
conflitto generale. Nel settembre 1938, quando la crisi dei Sudeti
rese tale ipotesi quanto mai realistica, furono avviate discussioni uf-
32
Antony Alcock, op. cit., pp. 134-148.
Un atteggiamento che non è cambiato nel tempo, se si pensa che ad oggi, nel
2012, gli Stati Uniti hanno ratificato soltanto 14 convenzioni, contro le 84 della Germania, le 87 del Regno Unito, le 111 dell’Italia, le 124 della Francia e le 133 della
Spagna. Cfr. NormLex.
33
38
ficiali, che sfociarono nella decisione di mantenere in ogni caso il
pieno funzionamento dell’organizzazione. Si riteneva, infatti, che
per le sue competenze e la sua peculiare composizione essa avrebbe
fornito un supporto fondamentale sia allo sforzo economico richiesto dalla guerra, sia alla sua accettazione da parte delle forze sociali
dei paesi belligeranti. Inoltre, cosa ancor più importante, essa
avrebbe potuto partecipare e dare un contributo concreto all’elaborazione dell’assetto del dopoguerra, in particolare in materia di
collaborazione socio-economica internazionale, tema che alla fine
della prima guerra mondiale era stato largamente trascurato.
Il problema della scelta di campo, ovviamente, non era neanche in
discussione. L’uscita di Germania, Giappone e Italia dai meccanismi
di sicurezza collettiva era più che sufficiente a indirizzare le simpatie
dell’OIL, così come il fatto che tutte le maggiori democrazie figurassero fra i suoi membri. Tale discriminante democratica sembrò ulteriormente rafforzata nel dicembre 1939, quando lo scoppio della
«guerra d’inverno» con la Finlandia determinò l’espulsione dell’URSS
dalla SdN. Come disse Léon Jouhaux, segretario generale della
Confédération Générale du Travail (CGT, il maggiore sindacato
francese) e membro del Consiglio d’Amministrazione del BIT fin dal
1919, con la sua composizione tripartita l’organizzazione era «l’expression d’une civilisation particulière, dont la vie et la continuation
dépendaient du résultat de la lutte actuelle».
Sul piano concreto, la decisione si tradusse nell’istituzione, all’inizio del 1939, di una Commissione di Crisi di soli otto membri,
naturalmente a composizione tripartita, incaricata di proporre le
misure via via necessarie al proseguimento dell’attività dell’organizzazione, e di assumere le funzioni del Consiglio d’Amministrazione
nell’eventualità che una guerra avesse impedito le riunioni di quest’ultimo. Eventuali assenze di alcuni membri della Commissione
sarebbero state coperte dagli alti funzionari del BIT. La delega alla
Commissione di Crisi, che fu attivata poco dopo l’attacco tedesco
alla Polonia, si rivelò un atto quanto mai lungimirante, se si pensa
che in più di quattro anni, fra lo scoppio della guerra e la fine del
1943, il Consiglio d’Amministrazione avrebbe avuto la possibilità di
riunirsi soltanto tre volte34.
34
Fra le varie fonti che ricostruiscono la vicenda, si vedano in particolare John G.
Winant, «The ILO in wartime and after», Foreign Affairs, n. 19, 1-4, 1940/1941, pp.
39
Per la verità, fino alla primavera del 1940 il lavoro dell’OIL sembrò poter continuare in modo relativamente regolare, in virtù del
fatto che la maggior parte dei suoi membri erano ancora neutrali,
ma soprattutto delle caratteristiche della drôle de guerre in atto in
Europa. Tanto che nel febbraio di quell’anno il Consiglio di Amministrazione, regolarmente riunito, iniziò a fare piani per tenere una
Conferenza plenaria in estate. Tutto fu però spazzato via dall’offensiva tedesca verso occidente, e dalla caduta, nell’arco di due mesi, di Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e
Francia. Se sul piano formale tali vicende non determinarono particolari cambiamenti nell’organizzazione, dato che, come già nei casi
di Cecoslovacchia e Polonia, la maggior parte di tali paesi continuò
a partecipare ai lavori attraverso i rispettivi governi in esilio (lo stesso avrebbero fatto dal 1941 la Jugoslavia e la Grecia), e la Francia di
Vichy rimase membro a pieno titolo dell’organizzazione, è evidente
che esse contribuirono a ridurvi ulteriormente l’influenza europea e
a spostarne ancora di più il fulcro verso il nuovo continente. A sanzione anche simbolica di questo intervenne, nei mesi successivi, il
trasferimento provvisorio della sede dell’OIL nei locali della McGill
University di Montreal, mirato a permettere il regolare proseguimento dei suoi lavori al riparo dalle minacce di invasione tedesca
della Svizzera, oramai circondata dai paesi dell’Asse. A Ginevra rimase soltanto un minuscolo avamposto di funzionari sotto la guida
di Marius Viple, un esperto funzionario francese, già capo di Gabinetto di Albert Thomas, che per tutta la durata della guerra avrebbe
tenuto regolari contatti col nuovo quartier generale dell’organizzazione oltreoceano35.
633-640, e Id., A report to Governments, Employers and Workers of Member States of the International Labour Organisation, Montreal, International Labour Office, 1941. Il secondo è una sorta di testamento finale dell’oramai dimissionario direttore, in procinto di
trasferirsi a Londra come ambasciatore, che ricostruisce gli aspetti principali dei due
anni e mezzo della sua esperienza a Ginevra. Le parole di Jouhaux vi sono riportate a
p. 7. Le tre riunioni del Consiglio d’Amministrazione sono l’89a, del febbraio 1940, la
90a, del novembre 1941, e la 91a, del dicembre 1943.
35
Sul trasferimento a Montreal cfr. la colorita ricostruzione in Edward Phelan,
«Some reminiscences», cit., oltre a Bernard Delpal, «Le refuge américain de l’OIT
(1940-1946). De l’esprit de Genève à l’esprit de Philadelphie, place du syndicalisme
dans la stratégie de reconstruction», in Isabelle Lespinet-Moret et Vincent Viet, op.
cit., pp. 107-120. Più ricca di dettagli, anche se attenta soprattutto ai rapporti col
regime di Vichy, è quella in Victor-Yves Ghebali, La France en guerre et les organisations
40