universita` degli studi di torino alla ricerca dell`anello mancante

Transcript

universita` degli studi di torino alla ricerca dell`anello mancante
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
CORSO DI LAUREA IN LINGUE STRANIERE PER LA COMUNICAZIONE INTERNAZIONALE
TESI DI LAUREA
ALLA RICERCA DELL'ANELLO MANCANTE: ANALISI
ANTROPOLOGICA DELL'OPERA DI TOLKIEN
RELATORE:
PROF.SSA Laura Bonato
CANDIDATA:
Elisa Mascali
Matricola 759597
Anno Accademico 2012-2013
INDICE
Introduzione...............................................................................................p. 1
Capitolo 1 - La narrativa popolare e lo sviluppo del genere fantasy
1.1
1.2
Origini, definizioni, forme...................................................................p. 3
La nascita e lo sviluppo del genere fantasy.......................................p. 11
1.2.1. Caratteristiche principali............................................................................. p.
12
1.2.2. I temi........................................................................................................... p.14
1.2.1. Le radici nel mito........................................................................................ p.
15
Capitolo 2 - John Ronald Reuel Tolkien: vita e opere
2.1. Vicende biografiche.............................................................................p. 19
2.2. Le opere..............................................................................................p. 22
2.2.1. Lo Hobbit o la riconquista del tesoro .................................................p.
22
2.2.2 Il Signore degli Anelli......................................................................p.
26
2.2.3 Il Silmarillion.................................................................................p.
34
2.2.4 I figli di Húrin.................................................................................p.
36
2.2.5 Altre opere................................................................................................. . p.
38
Capitolo 3 - Mitologie, innesti e Völsungar
3.1. Uno sguardo al passato........................................................................p.40
3.1.2 L’influsso del Cristianesimo.........................................................................
p. 48
3.2. Fonti letterarie...................................................................................... p. 50
3.2.1. L’Edda in prosa, l’Edda antica, la saga dei Völsungar e Beowulf.............
p. 50
3.2.2.Un caso simile: il Kalevala..............................................................
p. 55
3.2.2.1. La religione presso gli antichi finni.................................................
p. 63
3.2.3. La Bibbia e il Cristianesimo.......................................................................
p. 66
Capitolo 4 - Analisi delle figure ricorrenti
4.1. Il drago................................................................................................. p. 68
4.2. Il cavallo.............................................................................................. p. 70
4.3. L’aquila................................................................................................. p.72
4.4. L’albero................................................................................................ p. 73
4.5. L’anello................................................................................................. p. 74
4.6. Lo sciamano: Gandalf e Saruman a confronto..................................... p. 75
4.7. Gli elfi................................................................................................... p. 76
4.8. Gli orchi ............................................................................................... p. 77
4.9. I nani.....................................................................................................p. 78
4.10. Gli Hobbit............................................................................................p. 79
Conclusioni.................................................................................................. p. 80
Riferimenti bibliografici................................................................................ p. 83
Sitografia..................................................................................................... p. 86
Introduzione
L’essere umano è un animale a cui piace comunicare e, soprattutto, raccontare: che si tratti di immagini, di parole o di suoni, l’uomo narra, racconta,
canta e si racconta. È quasi un’esigenza fisiologia, al pari del mangiare o del
respirare e, a testimonianza di quest’affermazione, esiste un patrimonio di fiabe, racconti, aneddoti, proverbi e favole presso tutte le culture e presso tutti gli
esseri umani i quali amano mescolare e rimestare, creando così elementi
sempre nuovi.
La Gran Bretagna in particolare può essere presa ad esempio di quanto appena affermato. Ciò che caratterizza la fiaba inglese è innanzitutto una certa concretezza che rifugge da orpelli ed ornamenti, come la lingua inglese: semplice
e sicura. Le fiabe inglesi scaturiscono, appunto, dalla convergenza di elementi
dalle più svariate origini: celtiche, germaniche, francesi, slave ecc. La cultura
inglese ha la caratteristica di saper rimaneggiare i materiali di partenza, rielaborandoli e conferendo loro un’impronta locale inconfondibile. Gli studiosi di
folklore, tuttavia, sono soliti attribuire all'Inghilterra una scarsa produzione narrativa e di fiabe popolari: ne attestano la preferenza verso i numskull tales,
fondati sulla stupidità dei personaggi e per la forma della ballata. Situazione
diversa e contraddittoria è quella della Scozia e dell'Irlanda il cui corpus, derivante in maggior parte dalla tradizione mitologica celtica, non è mai stato raccolto completamente, anche a causa della sua vastità (Thompson, 1967,
p.40). Non pare esserci, invece, un corpus mitologico come quelli presenti in
Grecia o nei territori scandinavi. Questa trattazione si propone di esaminare il
tentativo dello scrittore britannico John Ronald Reuel Tolkien di conferire alla
sua patria un vero e proprio corpus mitologico e di realizzare quindi un’opera
letteraria di tipo mitopoietico, una creazione a posteriori che si sarebbe dovuta
inserire all’interno del patrimonio culturale britannico, prendendo ispirazione
dal sostrato celtico e germanico.
La trattazione procederà attraverso l’analisi degli elementi folklorici ed antropologici che stanno alla base della creazione letteraria: è immancabile, quindi,
una panoramica sulla fiaba popolare e sulle sue origini, forme e definizioni per
poi proseguire con una spiegazione del genere fantasy, sul motivo della sua
genesi e dei suoi sviluppi.
Una breve descrizione della vita dell’autore sarà d’obbligo per poter comprendere le sue scelte, che verranno analizzate poi al momento di prendere in esame le sue opere. Perché Tolkien non ci lasciò un unico volume né lavorò ad
un'unica opera magna: la quantità di appunti sull’universo da lui creato è quantomeno sterminata e dobbiamo al figlio Christopher la maggior parte del merito
per quanto riguarda il lavoro di raccolta, catalogazione e pubblicazione. La
trattazione si muoverà verso l’individuazione dei motivi e degli schemi analizzati nel primo capitolo. Il terzo capitolo contiene l’analisi del problema di un’opera mitopoietica attraverso lo studio delle fonti su cui questa si basa e si concluderà con un’ulteriore analisi degli archetipi che è stato possibile rilevare all’interno di questo imponente corpus letterario.
Capitolo 1
La fiaba popolare e lo sviluppo del genere fantasy.
Opere come Il Silmarillion, il Signore degli Anelli e Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien hanno raggiunto una notevole fama in tutto il mondo. Con la creazione
dell’universo di Arda, con le sue innumerevoli lingue, i suoi costumi e le sue
razze, il professor Tolkien è riuscito a ridare popolarità ad un genere che solitamente veniva relegato al semplice intrattenimento o ai bambini: il fantasy.
Ma come si vedrà, un genere come questo è tutt’altro che infantile o un semplice trastullo: il fantasy presenta molteplici livelli e chiavi di lettura, nonché innumerevoli rimandi al mito, alle leggende e alle fiabe della tradizione popolare
e, in particolare, a quelli norreni e celtici. Per definire e comprendere le caratteristiche di questo genere letterario che presenta dei connotati che lo differenziano notevolmente dagli altri, è necessario dare una definizione di fiaba popolare e dell’importanza che riveste il mito.
1.1 . Origini, definizioni, forme
L'atto umano del narrare costituisce un avvenimento universale, presente
in ogni classe sociale e in ogni parte del mondo e accomuna gli uomini d'ogni
tempo ed età: si potrebbe persino affermare che sia una delle più antiche (se
non la più antica) attività della storia umana stessa. Trascende i confini politici
e geografici e risponde alle stesse comuni necessità sociali degli uomini: potranno variare temi, protagonisti, scopi e narratori ma l'atto del fabulare è sempre esistito tra gli esseri umani. Si pensi per esempio al tentativo di esaltare,
tramite miti, leggende e racconti, un ipotetico passato glorioso di una tribù, a
quello di fornire una spiegazione a fenomeni incomprensibili, o ancora allo
sforzo di spiegare gli inizi della vita stessa (Thompson, 1967, p. 21). Numerosi
sono stati gli studi al riguardo e altrettanto numerose sono le scuole di pensiero che indagano l'argomento, come la scuola mitologica, che «partiva dalla
premessa che la somiglianza apparente di due fenomeni, la loro analogia apparente costituisce la prova del loro legame storico» o la scuola finnica, la
quale presupponeva «che le forme che s'incontrano più spesso di certe altre
sono anche peculiari della forma primordiale del soggetto» (Propp, 1949, p.
27).
Ma da dove nasce il bisogno di creare fiabe nell'essere umano?
Come già accennato, quello del raccontare costituisce un atto universale e comune a tutto il genere umano: in esso e attraverso esso l'uomo ha potuto
«soddisfare il bisogno di informazione, o di piacere, o di incitamento ad eroiche imprese, o di edificazione religiosa, o di svago dalla monotonia della vita».
(Thompson, 1967, p. 17).
Per risalire alle origini delle fiabe è interessante riportare gli studi di Vladimir
Propp, il quale afferma nel suo saggio Le radici storiche dei racconti di fate 1
che le fiabe, in particolar modo quelle di magia sulle quali si sofferma, presentano un profondo legame con la sfera del culto e della religione e conservano
diverse tracce di riti ed usanze alle quali sono strettamente collegate. Secondo
Propp molti motivi tipici delle fiabe risalgono a diversi istituti sociali e al rito del l’iniziazione in particolare, che è riconosciuto come il sostrato più antico del
racconto di magia e che sta alla base di numerosi motivi narrativi, come «la
cacciata o l’allontanamento dei bambini nella foresta o il loro ratto […], la capannuccia, la promessa di vendita, gli eroi percossi dalla maga, l’amputazione
del dito, gli immaginari segni di morte mostrati ai superstiti, la stufa della
maga, lo squartamento e la risurrezione, l’inghiottimento e l’eruttazione, il
dono dell’oggetto fatato o dell’aiutante fatato, il travestitismo, il maestro del bosco e la “scienza furba”2» (Propp, 1949, p. 566).
Accanto a questo vi è anche un'altra istituzione sociale rilevante che è l’insieme dei rituali collegati alla morte. All’interno dei racconti di magia sono numerose le corrispondenze che vi fanno riferimento ed in particolare «il ratto della
fanciulla a opera del serpente, le varie specie di nascita miracolosa, […] il ritorno del defunto, la partenza dell’eroe munito di calzature di ferro, ecc., la foresta quale ingresso all’altro regno, l’odore dell’eroe, l’aspersione della porta
1
Il titolo del saggio in lingua russa è Istori
eskie korni volšebnoy skazki dove per szkazki non si intendono i “racconti di fate” ma i racconti di magia. Si continuerà usando tale definizione.
2
Propp individua altri motivi che si relazionano al ciclo dell'iniziazione, ma che sono legati più da vicino al periodo subito seguente all'iniziazione, fino al matrimonio (Propp, 1949, p.
566).
della capannuccia, il banchetto in casa della maga, la figura del traghettatore –
guida, il lungo viaggio […], il duello con il custode dell’ingresso che vorrebbe
divorare il forestiero, la pesatura sulla bilancia, l’arrivo nell’altro regno» (Propp,
1949, p. 566). Fra i due motivi, che si mescolano a vicenda 3, non è possibile
operare una netta distinzione, anche perché il rito dell'iniziazione veniva percepito come «il soggiorno nel paese della morte e, che, viceversa, il morto
sperimentava tutto ciò che sperimentava l'iniziando» (Propp, 1949, p. 566) e
ne consegue che l'origine della fiaba di magia vada ricercata unicamente nella
realtà storica del passato. L'evoluzione del racconto di magia verso altre forme
è dovuta semplicemente all'evoluzione storica della comunità che ha causato
stratificazioni, sostituzioni, trasposizioni di senso. Un altro punto dello studio di
Propp che va dunque esaminato riguarda lo stretto rapporto tra rito e forze
storiche. Citando Engels e il suo Anti-Dühring (1878)4 Propp afferma che «ogni
religione non è altro che il riflettersi fantasticamente nelle teste degli uomini di
quelle forze esteriori che regnano sopra di essi, nella loro vita quotidiana; è il
riflesso nel quale le forze terrene assumono forma di forze soprannaturali. Ai
primordi della storia le forze naturali sono quelle che per prime subiscono questo riflesso. Ma ben presto accanto alle forze della natura appaiono anche le
forze sociali, forze che si contrappongono all'individuo e regnano sopra di lui,
rimanendo sulle prime incomprensibili, […] al pari delle forze della natura. Le
immagini fantastiche nelle quali si riflettevano all'inizio soltanto le forze misteriose della natura, acquistano attributi sociali e divengono rappresentazioni di
forze storiche» (Propp, 1949, p. 36) 5. Secondo Propp bisogna dunque confrontare le fiabe di magia non con la religione in generale ma con la sue rappresentazioni concrete6, cosicché sia possibile individuare due diversi modi di riflessione delle forze della natura: uno sfocia nell'interpretazione dogmatica
3
In realtà Propp li definisce “gli addendi fondamentali” della fiaba.
4
Il titolo intero è La scienza sovvertita del dottor Eugene Dühring.
5 Non bisogna dimenticare che Propp, il quale scriveva in epoca sovietica, identificava la fia ba come un prodotto di carattere sovrastrutturale, intrinsecamente connessa al sostrato eco nomico entro cui si è sviluppata, ponendo in questo modo l’accento sul legame tra la sfera
economica e quella sociale.
6
Sempre secondo Engels (1878), la religione è un riflesso delle forze della natura e di
quelle sociali.
che prova a spiegare il mondo attraverso una serie di procedimenti; il secondo
tenta di soggiogare la natura con atti volti a modificarla. Sono questi ultimi a
prendere la denominazione di riti e usanze. Propp afferma inoltre che i rapporti
tra rito e racconto si presentano attraverso diverse forme e, tra queste, il fenomeno più comune è quello della “trasposizione del senso del rito”, mentre il fenomeno della “completa coincidenza tra racconto e rito” si verifica raramente,
a differenza di quanto si possa pensare. Sebbene quest'ultimo, tramite il confronto tra i vari parallelismi che possono presentarsi tra fiaba e rito, riesca a
spiegare con maggior facilità le origini genetiche di un racconto, il primo si verifica con maggiore frequenza e nasce in corrispondenza di un mutamento storico: vengono sostituiti uno o più elementi ormai ritenuti desueti dalla comunità con altri accettabili. Il senso del rito viene così “trasposto” nel nuovo motivo
che lo richiama e ne prova la corrispondenza. Vi è infine il fenomeno dell’“inversione del rito”; un caso particolare di trasposizione in cui si riscontrano uno
o più elementi che si rifanno al rito per antitesi e che nasce anch'esso quando
si verifica un mutamento storico: così l'eroe che salva la fanciulla dal drago
che vorrebbe divorarla, richiamerebbe in realtà l'usanza di offrire in sacrificio le
fanciulle ad un'entità sovrannaturale che si desiderava placare o ingraziare.
Con il decadimento di certe tradizioni alcune usanze divennero obsolete se
non, in alcuni casi, intollerabili, e questo prova che tali motivi presenti nelle fiabe non siano un riflesso diretto della realtà ma la sua negazione. Le difficoltà
che presenta questo fenomeno sono due: la prima riguarda il numero di particolari a cui è legato il rito; la seconda è quella che presenta maggiori problemi
da affrontare poiché l'origine del rito in questione potrebbe essere ormai talmente oscurata da dover richiedere studi particolari, come quello etnografico,
con il conseguente affiancamento di un etnografo. Vi sono inoltre casi in cui il
racconto di magia, sebbene affondi le proprie radici nel rito, si trasforma da fenomeno che richiede una spiegazione in fenomeno che spiega, convertendosi
così in una fonte per lo studio del rito anziché il contrario.
Infine non bisogna trascurare il ruolo del mito, che ricopre una funzione fondamentale nell'evoluzione del racconto di magia poiché è in questo che molteplici motivi affondano le proprie radici. Per mito si intende un racconto che ha
come oggetto il divino o una o più divinità nella cui realtà la comunità crede.
Ne consegue che la fede vada considerata in questo caso come un dato storico anziché come un dato psicologico. Una delle principali differenze tra mito e
racconto sta proprio qui: nella loro funzione sociale, anche se, formalmente, i
due casi non possono essere facilmente distinti e alle volte possono coincidere in maniera così perfetta da ricevere entrambi la denominazione di fiabe nonostante entrambi abbiano origine nel fertile terreno della fantasia popolare.
Ma in base a quale criteri è possibile definire “popolare” una fiaba? Il primo
connotato che identifica come popolare una fiaba è sicuramente la trasmissione orale e il tramandare nel tempo da generazione in generazione ciò che il
narratore ha udito, letto o appreso da altri (Thompson, 1967, p. 18). Come già
menzionato, appare tutt'altro che rara la commistione di elementi ed episodi
presenti in altre fiabe e la presenza di più versioni dello stesso racconto: ne
consegue che le linee di demarcazione tra le varie tradizioni favolistiche (orali
o scritte) siano molto labili e risulta difficile, se non addirittura impossibile, tracciare una netta separazione. Una seconda caratteristica è quella del richiamo
all'autorità: ciò che il narratore desidera far percepire al suo uditorio «è che la
sua novella reca il sugello dell'autorità […] . Scrittori come Chaucer si preoccupavano di citare le fonti delle loro novelle e talvolta giungevano addirittura ad
inventare queste fonti, per dissipare inequivocabilmente il dubbio che essi
stessero propinando al pubblico delle storie nuove e non garantite» (Thompson, 1967, p. 18). Un altro tratto distintivo riguarda l'argomento e la funzione
sociale della fiaba: in essa era descritta la vita della gente che la narrava,
quella appartenente al ceto medio basso, che svolgeva lavori manuali e che
tramite la fiaba riusciva a tramandare il proprio immaginario, le proprie credenze, le proprie paure ed i propri valori. Rappresentavano un divertimento anche
per gli adulti e avevano grande importanza per la vita della collettività e ne rafforzavano i legami, poiché venivano recitate in quei momenti di socialità e di
comunione, per esempio nel corso delle veglie invernali o durante la filatura 7.
Infine, data la natura popolare, ne consegue che queste tipologie di narrazione
abbiano, anche perché spesso raccontate da illetterati, un linguaggio semplice
e alle volte sgrammaticato, pieno di detti popolari, proverbi e modi di dire, ca7
Queste informazioni sono tratte dagli appunti registrati durante il seminario del prof.
Gian Luigi Bravo in data 08/03/2013
ratterizzato dalla presenza del discorso diretto, di formule narrative tipiche (si
pensi al classico “c'era una volta”, o al “cammina, camminando”) e delle triplicazioni, ovvero la ripetizione di un evento (una prova da superare, per esempio) per tre volte.
Come già accennato, il racconto di magia ha subito una sorta di “evoluzione”
verso altre forme a causa dei mutamenti socio-economici che hanno influenzato le comunità. L'atto del raccontare, che inizialmente utilizzava quasi in
esclusiva il canale comunicativo orale, avviene sia in forma scritta sia orale e
possiede molteplici strutture, come la ballata, la lirica, la poesia epica, la prosa, la novella, il dramma o il racconto e non è dunque errato affermare che la
narrativa costituisce un vero e proprio genere letterario il quale comprende le
strutture appena citate e contempla la presenza di numerosi sottogeneri, tra
cui la fiaba.
Sebbene siano stati fatti numerosi tentativi di classificazione della fiaba e dei
suoi vari tipi e siano state tentate numerose denominazioni che potessero inquadrarle in termini generali, per le «limitazioni stesse della vita umana e la
somiglianza delle sue situazioni di base» (Thompson, 1967, p. 23), sono scaturiti prodotti talmente simili tra loro nella struttura e nell’estensione geografica
che risulta difficile inquadrarli in un contesto generale e generalizzato. È anche
vero che alcune fiabe hanno raggiunto un proprio grado d’identità e hanno sviluppato una connotazione talmente forte da ricevere un nome 8. I tedeschi si riferiscono a queste fiabe particolarmente connotate usando il termine Märchen,
un tipo di racconto che si avvicina al genere della nostra novella e all'interno
del quale predominano l'elemento meraviglioso, le ambientazioni irreali e i
contorni indefiniti dell'universo entro cui i personaggi si muovono. Anche nella
lingua inglese sono presenti diversi termini che tentano di designare le varie
forme di fiaba, alcuni più precisi di altri: così c’è il fairy tale , che ricorda il significato del Märchen, ma se ne discosta poiché la parola stessa sembrerebbe
richiamare le fate, che compaiono raramente all'interno del Märchen (Thompson, 1967, p. 24). C’è poi l’household tale, molto simile ai nostri “racconti della
nonna”9 o al conte populaire francese ma che risulta essere troppo generico
8
Il nome di una fiaba non va confuso con il suo eventuale titolo.
9
Ci si riferisce qui a quei racconti narrati per lo più nell'ambiente domestico.
in confronto al Märchen. L’hero tale è la tipologia di fiaba che si colloca a metà
tra Märchen e novella per la presenza di elementi di tipo sia fantastico sia realistico: ciò che fa la differenza è il protagonista di questo tipo di racconti, un
eroe che compie imprese sovrumane. Si riallaccia a questo tipo di racconto l’
explanatory tale inglese, a cui a sua volta è collegato il Sage tedesco: entrambi narrano eventi che si reputano avvenuti realmente ma il primo, diversamente dal secondo, tenta di spiegare l’origine di svariati elementi fisici, sociologici,
naturali.
Anche gli animali hanno il loro ruolo all’interno dell’immaginario collettivo e della fiaba: compaiono già come protagonisti nei miti primitivi in sembianze ed atteggiamenti antropomorfi. Tali caratteristiche vengono conferite anche ai protagonisti delle storie di animali nelle quali, attraverso una serie di situazioni comiche, vengono messi a confronto la furbizia di un animale e la dabbenaggine
di un altro. Capita molto spesso, inoltre, che i racconti in cui i protagonisti sono
animali (ai quali appartengono ragionamenti e caratteristiche umane) abbiano
un evidente intento didascalico e moraleggiante: in questi casi si parla di favole.
Tra le fiabe popolari ci sono anche quei brevi aneddoti umoristici che ruotano
intorno al protagonista sciocco, fanfarone e credulone e alle sue vicende. Hanno diverse denominazioni: vengono chiamati jest, merry tales o numskull tales
in lingua inglese e Schwank in lingua tedesca ma sono presenti in numerosissime culture, e spesso si evolvono al punto di diventare dei veri e propri cicli 10.
Infine, ricoprono un ruolo particolare la leggenda, la saga e il mito, tutti termini
estremamente equivoci, dai contorni altrettanto labili. In origine le leggende
erano narrazioni legate alle vite dei santi e ai loro miracoli, che dovevano fungere da esempio per il lettore o per l'ascoltatore: solo successivamente, grazie
alla presenza di elementi fantastici, miracolosi e straordinari sono state incluse
nella definizione tutte quelle narrazioni che, sullo sfondo di epoche, avvenimenti, gesta e personaggi realmente esistiti, stravolgono la realtà storica, modificandola in modo da accentuare il significato religioso. Mentre il mito è stret10
Per citare un caso geograficamente vicino, si pensi al ciclo di racconti di Giufà, personaggio di origine giudaico – spagnola presente nella tradizione popolare orale siciliana e nel
suo immaginario.
tamente collegato alla cosmologia e al sapere religioso, la leggenda ha come
protagonisti personaggi storici e le circostanze ambientali in cui si svolge sono
ben delineate e riguardano determinate caratteristiche di un luogo particolarmente importante per la comunità, delle quali viene spiegata l’origine (Comba,
1997, pp. 411–412). La saga descrive invece le gesta eroiche di un popolo e in
particolar modo si lega alle imprese dei popoli della Scandinavia e dell’Irlanda.
La categoria nebulosa del mito (al quale si è già accennato precedentemente),
è stata oggetto di numerosissime discussioni. Si tratta di racconti, quelli mitologici, molto importanti per la cultura di un popolo, poiché ad esso sono legate
le sue credenze e le sue pratiche religiose. Nel mondo antico era tenuto in altissima considerazione, venendo utilizzato addirittura per i fini della filosofia e
le storie fantastiche non restavano relegate alla sfera infantile, come avvenuto
in tempi molto più recenti (http://www.fabbricantidiuniversi.it) ma svolgevano
una funzione di rilievo all'interno della comunità. La particolarità del mito sta infatti nel senso religioso che lo differenzia dai già citati hero tales e nella spiegazione dell’origine delle cose con l’intervento di un essere divino o in parte divino, le cui gesta sono state compiute prima dell’ordine attuale delle cose,
anzi, sono state proprio quelle gesta a determinare tale stato. Il mito ha avuto
come naturale evoluzione i poemi epici ma bisogna evidenziare anche l’importanza che ha rivestito in altri ambiti nel corso della storia, in particolare nel
pensiero di filosofi come Platone, il quale visse in un’epoca di passaggio tra
oralità e scrittura e, ben presto deluso dal mondo della politica, dal dispotismo
del regime dei Trenta Tiranni che governò Atene dopo la guerra del Peloponneso, dalla “democrazia”, che nel 399 condannò a morte Socrate, il suo maestro, per empietà, si servì del mito, consapevole che questo ha determinati effetti sull'uditorio, ne stimola la fantasia, divertendolo, rimanendo impresso nella
memoria. Si serve così di miti esplicativi, detti “escatologici”, fra i quali il mito
della Biga Alata11. Mito e leggenda hanno una caratteristica che li accomuna,
che è la presenza di creature sovrannaturali come spiriti, demoni o divinità,
11
Il mito narra di una biga trainata da due cavalli rappresentanti l'uno, bianco e docile,
le passioni nobili e sublimi, l'altro, nero e recalcitrante, le passioni più infime e basse. Compito
dell'auriga è riuscire a dominarli grazie alla sua abilità e alla collaborazione del bianco. Non
tutti gli aspetti irrazionali sono dunque negativi ed è comunque impossibile eliminarli, si possono solo controllare con la parte razionale, alla quale in quanto dotata di sapere, spetta il governo dell'anima.
tutte collegate all’immaginario collettivo e all’universo religioso della comunità.
Va da se che la commistione di questi elementi dia luogo a confini labilissimi
tra le due categorie, tanto che si preferisce utilizzare l’espressione “miti e leggende”
(Comba,
1997,
p.
411-412).
É proprio in queste ultime tre categorie, come si vedrà più avanti, che il genere
fantasy affonda le sue radici.
1.2. La nascita e lo sviluppo del genere fantasy
Secondo la definizione del Vocabolario Treccani, il fantasy è un «genere letterario narrativo, […] caratterizzato da un’ambientazione fantastica […], in cui
convergono elementi delle fiabe di magia, delle saghe e delle mitologie nordiche e della letteratura anglosassone medievale» (http://www.treccani.it/vocabolario/fantasy). Sebbene le opere prese maggiormente in considerazione siano quelle degli ultimi due secoli, intrise di mentalità romantica e motivi fantastici tradizionali, il genere che oggi definiamo fantasy ha origini molto antiche e la
parola stessa deriva dal greco φανταστικόϛ (fantasticos) che significa “ciò che
è reso visibile”. Molto spesso questo genere viene erroneamente inserito all’interno della letteratura fantascientifica ma, mentre in questa la caratteristica
principale è la verosimiglianza di tipo tecnico-scientifico, nel fantasy gli eventi
sono imprevedibili e mutevoli, dominati da forze incontrollabili per l'uomo quali
la magia, l'intervento di esseri sovrannaturali e, soprattutto, il destino (www.treccani.it). Risulta difficile individuare il momento preciso della nascita di questo filone letterario, dato che la presenza degli elementi ricorrenti nel genere
(la magia, il meraviglioso, il fantastico, il surreale ecc.) si riscontra anche (e
soprattutto) nei racconti mitologici antichi ai quali si è già accennato e che rappresentano l'embrione o il prototipo delle narrazioni che oggi conosciamo.
Per definire le origini del fantasy bisogna fare riferimento alla letteratura, alla
mitologia e all'epica del mondo antico, di quello mediterraneo ma soprattutto
di quello del Nord, dei miti celti e nordici e delle grandi saghe, come l'Edda di
Snorri, la Saga dei Nibelunghi, Beowulf, la Saga dei Völsungar, il Ciclo Carolingio e il Ciclo Arturiano. «Come in qualsiasi altro testo, un testo fantastico è
prodotto nel suo contesto sociale e determinato in esso. Anche se potesse
combattere contro i limiti di questo contesto, […] non potrebbe essere capito
al di fuori di esso» (Jackson, 1986, p. 2). Nonostante le sue origini antiche, il
genere fantasy conosce un'intensa fase di ripresa durante il Romanticismo e si
sviluppa, così come lo conosciamo oggi, a cavallo tra Ottocento e Novecento,
soprattutto nell’Inghilterra della Rivoluzione Industriale, sotto la spinta dello
straniamento e del bisogno d'evasione che l'uomo prova in risposta all'avvicendarsi dei fatti storici, alla crisi dei valori morali e religiosi, al rifiuto della
modernità frenetica e della razionalità. Nasce così il desiderio verso l'alterità e
la diversità e fu in risposta a questo bisogno che si sviluppò la celebrazione
della società medievale vista in una prospettiva del tutto idilliaca, come risposta "a misura d'uomo" rispetto al caos modernista in cui l'uomo cade succube
della macchina. Inizialmente ebbe successo la cosiddetta “letteratura d'evasione” per poi evolversi, sull’onda dei sentimenti romantici, verso le narrazioni
fantastiche, magiche, surreali tipiche del genere che oggi conosciamo.
1.2.1. Caratteristiche principali
Il fantasy presenta caratteristiche ben precise, che lo separano e lo distinguono da tutti gli altri generi narrativi. Analizzando la radice etimologica della
parola fantastico è possibile ravvisare in essa il concetto di “apparizione” 12: nel
racconto fantasy, infatti, appare ciò che non è interamente reale ma che, allo
stesso tempo, non è completamente irreale. È sempre alla relazione con il
reale che i critici letterari si sono appellati per tentare di definire e di capire il
fantastico: al reale si riallaccia perché il mondo che presenta inizialmente è
concreto, tangibile e riconoscibile ma da questo quasi subito si discosta con la
presenza di elementi non ravvisabili nella realtà sensibile, quasi come a volerne rifiutare la razionalità e la solidità (Jackson, 1986, pp. 19-25). É da questa
contraddizione che nasce la difficoltà d'interpretazione di questo filone letterario, caratteristica che lo rende unico e che lo distingue dagli altri generi. Il
mondo reale diviene distorto, aperto e le sue strutture spazio-temporali crollano; ne consegue che il racconto fantasy è “aperto” all'alterità della realtà (sia
questa una realtà meravigliosa, strana o perturbante) che non trova spazio in
una cultura secolarizzata come quella europea. Nel saggio La letteratura fan12
La parola ha la stessa radice etimologica di fenomeno, che in greco significa “che appare”.
tastica di Tzvetan Todorov (1985) vengono individuate tre forme del fantastico,
ognuna delle quali possiede una relazione diversa con il reale. Todorov le inserisce all’interno di un diagramma in cui al principio vi è il “meraviglioso”, che
trova la sua spiegazione nella fede, nella magia e nel soprannaturalismo; è seguito dal “fantastico”, per il quale la ragione non trova spiegazioni, e dallo
“strano”, che viene spiegato con la presenza di forze inconsce. A loro volta
queste tre forme assumono una sfumatura diversa, sempre a seconda della
loro relazione con il reale ed abbiamo così lo “strano puro”, il “fantastico strano”, il “fantastico meraviglioso” e il “meraviglioso puro”. L’area del “meraviglioso puro” comprende i fairy tales, i romances e numerosi romanzi di fantascienza ed è caratterizzato da una totale accettazione dei fenomeni fantastici e dall’onniscienza del narratore ; il filone del “fantastico meraviglioso” include invece tutta quella narrativa che si presenta come fantastica e che termina con
l’accettazione del soprannaturale; l’area del “fantastico strano” annovera invece quelle narrazioni caratterizzate dall’origine soggettiva degli avvenimenti
strani ed infine, lo “strano puro” è caratterizzato dall’incertezza e dal dubbio
verso le situazioni e dalla soggettività della narrazione (Todorov, 1985). Infine,
per sottolineare ulteriormente il legame con il reale e al tempo stesso la sua
opposizione, molta narrativa fantasy rappresenta un mondo che è connesso a
quello reale soltanto grazie alla messa in discussione dei suoi valori in modo
retrospettivo o allegorico, un mondo altro, secondario, nel quale il lettore viene
trasportato (Jackson, 1986, p. 39).
1.2.2. I temi
Sono numerosi i temi e i tòpoi letterari che ricorrono in questo universo “secondario”, tòpoi come lo specchio, il ritratto, il vetro, gli occhi (usati per stravolgere ciò che è familiare, distorcendolo, ma anche per introdurre il tema dell’apertura verso un’altra dimensione, del doppio ecc.). Questa quasi ossessione verso la vista e la visibilità è strettamente correlata ad un’altra tematica importante, quella dell’invisibilità e, di conseguenza, alla negazione del potere
della vista e dello sguardo; e per «una cultura che identifica il “reale” col “visibile” e dà il predominio alla vista su tutti gli altri sensi, l’irreale è ciò che è invisibile. Ciò che non è visto, o minaccia di essere non – visibile, può solo avere
una funzione trasgressiva in relazione ad un sistema epistemologico e metafi-
sico che rende “Io vedo” sinonimo di “Io capisco”. La conoscenza, la comprensione, la ragione, sono stabilite attraverso il potere dello sguardo» (Jackson,
1986, p. 42). Quel che non è visibile risulta pertanto privo di qualsiasi sicurezza e minaccioso. Altri temi importanti sono quelli della trasformazione, del dualismo e, infine, della lotta tra il bene e il male: quest’ultimo compare sempre
nei racconti fantasy, si potrebbe dire che sia il topos letterario fantasy per eccellenza, e prevede lo scontro manicheo tra due forze opposte.
Questi temi generano una serie di figure ricorrenti, tutte legate alla sfera dell'impulso trasgressivo come fantasmi, ombre, vampiri, licantropi, mostri, bestie,
cannibali ecc. e ognuna di loro ha un legame con quelle pulsioni giudicate
“anormali” come l'incesto, la necrofilia, il cannibalismo, l'androginia ecc., e tendono ad annullare e sovvertire le differenze tra generi, rientrando pertanto nella sfera della pazzia, del sogno e dell'allucinazione (Jackson, 1986, p.45).
Questi elementi si riscontrano anche nelle cosiddette leggende metropolitane,
nelle quali è ricorrente il motivo dell’espianto degli organi, di solito del rene o
delle cornee (il primo è simbolo di potenza procreatrice e sede dei desideri se greti, mentre il secondo è simbolo della conoscenza) per opera di un altro, un
diverso o uno sconosciuto. Il luogo dove di solito viene compiuto l’intervento è
la discoteca, paragonabile alla foresta delle fiabe: entrambe rappresentano il
punto di partenza della storia ed entrambe sono oscure, fittissime (la prima per
i corpi, la seconda per gli alberi), buie, misteriose, descritte in maniera vaga e
avvolte dalla notte. Solitamente vi è una bella ragazza che attira il malcapitato
a sé, come se fosse una sirena o una lamia, ma può anche capitare che il motivo sia leggermente diverso e al posto della discoteca si presenta il supermercato, mentre le zingare sostituiscono la bella sconosciuta. Cambia anche l’oggetto del ratto: sono i bambini le vittime preferite, così la zingara trova il suo
corrispettivo nell’immaginario con la strega o con la masca piemontese. Capita
anche di sentire leggende metropolitane il cui oggetto è l’AIDS e la sua diffusione, una volta ad opera della prostituta di turno (magari ciò sta ad indicare il
pericolo mitologico della deflorazione della donna, o magari è la rappresentazione della sua potenza) o di una ragazza che, dopo essere stata contagiata,
decide di “vendicarsi” trasmettendo la malattia agli uomini, lasciando loro un
biglietto scritto sullo specchio del bagno con il rossetto (entrambi gli oggetti
sono carichi di significati: lo specchio, nell’immaginario, ha la facoltà di poter
assorbire l’anima mentre il rossetto rimanda alla bocca e alla sessualità). Il
luogo in cui il biglietto viene lasciato – il bagno – è legato al corpo, alla sua
cura e alla bellezza e viene così associato alle conseguenze della seduzione
(Bonato, 1998, pp. 30-36, 64-69).
1.2.3. Le radici nel mito
Sono le leggende dei Vichinghi e delle popolazioni celtiche quelle che han no maggiormente influenzato questo genere letterario poiché, come accennato in precedenza, era in un ipotetico ed idilliaco Medioevo che l’uomo in crisi
concepiva la società ideale, lontana dal caos che affliggeva la società moderna. La mitologia nordica è giunta a noi grazie a Snorri Sturluson, storico, poeta
e politico islandese che raccolse nell’Edda le leggende ed i miti che erano stati
la base della cultura vichinga, traducendole dal Norreno e, come la maggior
parte delle mitologie, quella dell’Edda riguarda principalmente divinità, eroi, e
l’eterna lotta tra bene e male. La guerra ha un ruolo centrale nella mitologia vichinga, tanto che gli uomini diventano eroi soltanto se muoiono in battaglia. Il
tema della guerra infatti si riscontra in numerosissime opere fantasy (basti
pensare alla battaglia dell'Anello ne Il Signore degli Anelli ma anche a quella di
Tyrsis ne La spada di Shannara o contro il Marchio ne Il magico regno di Landover).
Ci sono poi diverse leggende diffuse nel nord Europa che narrano di una forma di vita vegetale, l’Yggdrasil, l'albero della vita, un frassino sempreverde posto al centro dell'universo13 dal quale tutte le creature sarebbero scaturite. Tra
gli dei del pantheon norreno (chiamati Aesir) spiccano Odino, dio supremo che
governa le rune, lettere di un alfabeto sacro, sorgenti magiche di sapienza e
potere, e Thor, signore del tuono, dalla fluente barba e dai possenti muscoli,
molto amato dagli Scandinavi, tanto che i Vichinghi si definivano Popolo di
Thor. Egli possedeva una personalità contraddittoria, poiché da un lato si presentava come gigante scontroso e brutale, mentre dall’altro possedeva una
bonarietà che, a tratti, aveva contorni comici. Figli delle divinità sono gli eroi di
13La presenza di questo albero si riscontra anche nella mitologia finnica e nel Kalevala, opera
alla quale Tolkien si ispirerà per comporre Il Silmarillion.
cui si parla nelle storie germaniche come Sigfrido, lo sterminatore di draghi.
C’erano poi le Norne che in analogia alle Parche dell’immaginario greco-romano tessevano il destino degli uomini, ed infine creature non ben definite se non
per alcune loro peculiarità fisiche come l’altezza estremamente ridotta o sviluppata, tutti parte di un mondo fatato e allo stesso tempo malvagio, magico e
guerriero.
Tra i pochi poemi giuntici intatti spicca Beowulf, composto intorno al VII secolo
in lingua germanica e tradotto trecento anni più tardi in anglosassone, che rappresenta il più lungo ed importante testo epico che abbia per argomento dei
miti nordici. Appare infatti la costante lotta tra l’eroe e le creature mostruose,
Grendel e il drago, entrambi di stirpe demoniaca e vengono sottolineati i valori
guerrieri e la fedeltà al proprio signore. L’universo celtico presenta caratteristiche simili a quelle dell’universo norreno e germanico, sia nelle istituzioni (la
società era di tipo patriarcale, organizzata in una struttura verticale) sia nell’economia (anche se più evoluta rispetto a quella germanica), anche se diverse
furono le influenze culturali che subirono, venendo a contatto con gli Etruschi, i
Romani e i Greci di Alessandro Magno. Cesare li rappresenta nel De bello
Gallico come un popolo suddiviso in centinaia di piccole tribù in continua lotta
tra loro, guidato, più che da istituzioni civili simili a quelle romane, dalla casta
dei Druidi (dal greco drys, sacerdoti della quercia) che, insieme ai cavalieri,
costituivano la casta nobiliare. Figure religiose e politiche, questa cerchia di
sacerdoti pregava Oiw, divinità naturale che si esprimeva tramite un’ energia
triforme: Saggezza (Skiant), Forza (Nerz) e Creatività (Karentz), che si identificavano rispettivamente in Druidi, Guerrieri ed Artisti (www.fabbricantidiuniversi.it).
Il mondo celtico presenta un universo religioso estremamente complesso, ricco di celebrazioni: Beltane, la festa di primavera che cade il 1° maggio; la celebrazione di Autricum, durante la quale i Druidi appianavano i contrasti all’interno della tribù; la divinazione effettuata tramite sacrifici di animali o umani e
numerose altre. Il Pantheon celtico annoverava decine di divinità ed eroi,
come sempre ripartiti in due distinti schieramenti (bene\male) ma legati dal
sottile ed indissolubile filo di una magia che scaturiva dalla natura stessa. Le
divinità venerate dai Celti vennero equiparate da Cesare a quelle romane: ab-
biamo così Teutates-Mercurio, Cernunnos-Plutone, Grannu-Apollo, LenusMarte ecc. Vi sono poi divinità che Cesare non è stato in grado di accostare a
nessuna delle proprie, come Epona, la dea dei cavalli, Rosmerta, la consorte
di Teutates, o le Tre Madri, che in epoca cristiana divennero le “tre Marie”. Le
leggende celtiche, proprio per la loro vastità e per la mancanza di testi che le
raccogliessero14, ci sono giunte in modo assai confuso e contraddittorio, la
maggior parte tramite le narrazioni dei bardi che ancora abitavano la Britannia
e la Gallia settentrionale al tempo della conquista romana. Uno di questi documenti è il Mabinogion, il cosiddetto “manuale dei bardi”, un gruppo di testi in
prosa formato da undici racconti, che ha assunto la forma che presenta nel XXI secolo d.C. circa; il titolo è il plurale di Mabinogi, parola che si riferisce all’equipaggiamento, ovvero alle storie che un aspirante bardo, giovane apprendista, deve necessariamente imparare (Rolleston, 2010, p. 240). Nell’opera
sono presenti quattro testi e in alcuni di questi vi sono elementi arturiani, tra
cui la narrazione di Parsifal, sebbene presentata in una versione diversa e indipendente da quella romanza (Demandt, 2003, p. 108). Ciascuno dei testi
viene intitolato a un protagonista: troviamo così il Mabinogi di Pwyll, il Mabinogi di Branwen, il Mabinogi di Manawydan e, infine il Mabinogi di Math fab Mathonwy. Vi sono poi cinque racconti provenienti dalla tradizione e dalle leggende gallesi: Il sogno di Macsen Wledig, Lludd e Llefelys, Culhwch e Olwen, Il
Sogno di Rhonabwy e Taliesin.
14I celti e i druidi possedevano un alfabeto e una scrittura ma si limitavano ad utilizzarle per
fini pratici, come le incisioni dedicate agli dei.
Capitolo 2
John Ronald Reuel Tolkien: vita e opere
Perché parlare della vita di uno scrittore in una trattazione del genere?
Perché è dal desiderio di questo scrittore di “donare” all’Inghilterra una vera e
propria mitologia15 che sono nate le sue opere. L’idea nacque in lui grazie alla
passione che aveva sin da bambino di inventare lingue, che in seguito ebbero
bisogno di una “storia” che potesse permettere loro di evolversi e di raggiungere la complessità morfosintattica e lessicale che possiamo verificare. Era
presente in lui il desiderio di colmare l’assenza di un complesso mitologico
prettamente inglese creando «un corpus di leggende più o meno legate che
spaziasse dalla vastità di una cosmogonia alla piccola fiaba romantica […].
Avrebbe dovuto possedere […] la pacata ed elusiva bellezza che viene definita celtica (sebbene si possano raramente trovare delle antiche espressioni genuinamente celtiche), avrebbe dovuto essere di tono elevato, privo di grossolanità, e adatta alle menti più adulte di una terra che era stata a lungo immersa
nella poesia. […] I cicli avrebbero dovuto essere connessi e fusi in un insieme
maestoso, lasciando tuttavia spazio per altre menti e altre mani» (Carpenter,
2002, p. 130). Per questo è necessario analizzare la vita di John Ronald Reuel
Tolkien per comprendere le scelte che hanno condotto alla creazione di questo
vero e proprio corpus mitopoietico.
2.1. Vicende biografiche
John Ronald Reuel Tolkien nacque a Bloemfontein in Sudafrica il 3 gennaio 1892, da Arthur Reuel Tolkien e da Mabel Suffield, entrambi inglesi, originari di Birmingham; nel 1894 vide la luce il fratello Hilary Arthur.
La permanenza del giovane Tolkien a Bloemfontein non durò però a lungo, infatti la madre decise di tornare in Inghilterra con i due figli già nel 1895, stabilendosi alla periferia di Birmingham. Dopo pochi anni il padre morì a causa di
febbri reumatiche, ma la perdita del genitore che a stento ricordava non incise
particolarmente sul bambino, a differenza, invece, dei paesaggi dell’Inghilterra
15Secondo diversi studiosi, l’Inghilterra è povera di fiabe popolari autentiche e le forme narrative più usate sono la ballata e il numskull tale (Thompson, 1967, p. 40).
rurale nei quali crebbe e che furono fonte di ispirazione nelle opere successive
per la creazione della Contea e dei suoi abitanti, gli Hobbit. Bisogna sottolineare inoltre sia l’amore che nutrì sin da subito per le lingue, in particolare per
il latino, per l’inglese e per il gaelico e che lo influenzarono nella creazione del le lingue artificiali presenti nei suoi romanzi, sia per i racconti e le leggende,
soprattutto per il ciclo arturiano, per le storie dei pellerossa e per il romanzo di
Andrew Lang The Red Fairy Book (Carpenter, 2002, p.49).
Un altro elemento di rilievo nella formazione di Tolkienfu la conversione al
Cattolicesimo, scelta compiuta dalla madre Mabel ed estesa ai figli. Questo
gesto però fu la causa di gravi conseguenze in quanto sia la famiglia Tolkien
sia la famiglia Suffield, di tradizione anglicana, interruppero ogni contatto con i
parenti divenuti cattolici, negando loro ogni aiuto anche economico. Le condizioni della famiglia si aggravarono, fino alla prematura morte di Mabel nel
1904. Morta la madre, che divenne in seguito un punto di rifermento fisso eil
cui influsso indirizzò in qualche modo le scelte del figlio (Carpenter, 2002,
p.59), l’educazione di Tolkien e del fratello minore venne affidata a Padre
Francis Xavier Morgan dell’Ordine degli Oratoriani.
Tolkien proseguì gli studi presso la King Edward’s a Birmingham dove con i
compagni Rob Gilson, Geoffrey Smith e Christopher Wiseman fondò un gruppo non ufficiale che prese il nome dall’abitudine che avevano i soci di bere il tè
nella biblioteca del college e nei magazzini della ditta Barrow: il TCBS, acronimo di Tea Club and Barrovian Society entro il quale Tolkien compì i primi tentativi letterari, componendo numerosi testi poetici e alcuni racconti del Book of
the Lost Tales, il primo nucleo del suo universo mitologico.
Nel 1908 conobbe Edith Bratt e se ne innamorò, sposandola poi nel 1916.
Grazie ad una borsa di studio ottenuta nel 1911 poté frequentare l’Exeter College di Oxford, dove ottenne il titolo di Bachelor of Arts16 nel 1915. Allo scoppio
della prima guerra mondiale, nel 1914, Tolkien ritardò l’arruolamento, entrando
nell’esercito solo nel 1915 come sottotenente nel battaglione dei Lancashire
Fusiliers, dopo aver appreso di una disposizione che gli consentiva di svolgere
16Il Bachelor of Arts è un corso di laurea di primo livello che corrisponde alla laurea triennale
italiana. Il campo di studi è quello umanistico.
l’addestramento militare e, al contempo, di frequentare le lezioni (Carpenter,
2002, p. 109).
Nello stesso anno partecipò alla battaglia della Somme, esperienza che
ebbe grande influenza sulla sua vita e sulla sua personalità, nella quale l’amico Rob Gilson perse la vita (successivamente verrà ucciso anche Geoffrey
Smith). Nonostante questo, come testimoniano alcune sue lettere, anche nel
corso della vita in trincea non cessò di mettere mano alla sua lingua inventata.
Ammalatosi di febbre da trincea, venne congedato nel 1917 e tornò in Inghilterra, dove trascorse il resto della guerra al comando di un avamposto. In
quell’anno nacque il suo primo figlio, John Francis Reuel, cui nel 1918 seguì
Michael. Nel 1919, una volta ottenuto il definitivo congedo dall’esercito, proseguì gli studi a Oxford, che terminarono con il conseguimento del titolo di Master of Arts17.
Nel 1921 diventò professore di Lettere all’università di Leeds. Risale a questi anni l’inizio della sua amicizia con Clive Staples Lewis con il quale, durante
gli anni ’30, diede vita alle riunioni del circolo degli Inklings, di cui altro esponente di spicco fu Charles Williams18. Nel corso di questi ritrovi venivano lette
ad alta voce alcune composizioni letterarie inedite dei membri, che ricevevano
poi le critiche e i giudizi degli altri. Fu in questo ambiente che fecero la prima
comparsa le opere letterarie più conosciute del professore, come Lo Hobbit
(Carpenter, 2002, p. 197).
Nel 1924 nacque i terzo figlio, Christopher, che divenne in seguito il curatore delle sue opere; l’ultima figlia, Priscilla, nacque nel 1929.
Nel 1925 Tolkien fu nominato professore di Filologia Anglosassone presso il
Pembroke College di Oxford. Nel 1937 la casa editrice Allen & Unwin diede
alle stampe Lo Hobbit, la sua prima opera narrativa compiuta, il cui successo
spingerà Tolkien a proseguire nella produzione narrativa: la stessa casa editrice, infatti, tra il 1954 e il 1955 pubblicherà tutte e tre le parti de Il Signore degli
Anelli.
17Il Master of Arts è un titolo di studio che corrisponde in Italia alla laurea magistrale in lettere.
18Scrittore, poeta e teologo britannico. È noto soprattutto per i suoi “thriller spirituali”, opere
nelle quali si inseriscono, all’interno di una cornice mondana, eventi mistici e soprannaturali.
(Carpenter, 2002, p. 197).
Nel 1945 gli venne assegnata la cattedra di Lingua Inglese e Letteratura
Medievale presso il Merton College. Si ritirerò definitivamente dall’ambiente e
dall’attività accademica nel 1959, dedicandosi all’opera che costituì il nucleo
fondamentale del suo corpus mitologico, Il Silmarillion, cominciato fin dal 1917
e pubblicato postumo nel 1977 dal figlio Christopher.
Tolkien morì il 2 settembre 1973 all’età di 81 anni.
2.2. Le opere
È possibile suddividere le opere di Tolkien in due grandi categorie:
-
racconti di argomento fantastico e spesso considerati rivolti ai bambini,
come Il cacciatore di draghi, Albero e foglia, i racconti brevi Foglia di Niggle e
Il fabbro di Wootton Major e la pièce teatrale Il ritorno di Beorhtnoth figlio di
Beorhthelm, Le avventure di Tom Bombadil, Le lettere di Babbo Natale, Mr.
Bliss e Roverandom;
-
racconti ambientati nella Terra di Mezzo.
La trattazione analizzerà le opere appartenenti alla seconda categoria, in
virtù della loro concezione mitopoietica.
2.2.1. Lo Hobbit o la riconquista del tesoro
Lo Hobbit è un’opera che non rientra nel corpus mitologico e mitopoietico che Tolkien desiderava realizzare: tuttavia è interessante notare come i tipici schemi della fiaba che lo compongono presentino elementi originali, che si
discostano dalle altre fiabe per bambini; inoltre è necessario collocarlo all’interno di questa trattazione poiché la vicenda narrata è strettamente collegata
alle opere che invece mettono in atto la realizzazione dell’opera mitologica che
Tolkien realizzò.
Nato inizialmente come racconto per i figli e destinato ad un pubblico infantile, Lo Hobbit narra le avventure di Bilbo Baggins, uno Hobbit per bene e ben
pasciuto che abita nella Contea e che viene catapultato, un po’ controvoglia, in
un mondo pericoloso e sconosciuto dallo stregone Gandalf e da una compagnia di Nani. La compagnia è capeggiata da Thorin Scudodiquercia e dai suoi
congiunti Balin, Dwalin, Fíli, Kíli, Dori, Nori, Ori, Óin, Glóin, Bifur, Bofur e Bom-
bur19, tutti alla ricerca di un tesoro meraviglioso appartenutoal loro popolo e poi
sottratto loro dal drago Smaug, il quale lo custodisce all’interno della Montagna Solitaria. In tutto ciò, Bilbo avrebbe avuto, su consiglio di Gandalf che garantì per lui di fronte ai Nani, il ruolo dello “scassinatore”.
L’avventura inizia con l’attraversamento dei boschi che circondano La Contea finché la compagnia giunge a Forraspaccata 20, dove il signore del luogo,
Elrond Mezzelfo, concede loro gli strumenti necessari per decifrare la mappa
che Thorin ha con sè, scoprendo così alcuni simboli magici detti “rune lunari”
che possono essere letti solo attraverso la luce della luna e che cambiano il
proprio significato a seconda della fase di quest’ultima. La compagnia muove
poi verso Bosco Atro, un luogo infido e pieno di bestie pericolose, che conduce la compagnia alle Montagne Nebbiose, infestate dagli Orchi. L’anello fa la
sua comparsa per la prima volta in quest’opera ed appare come un oggetto
magico in grado di rendere invisibile chi lo indossa21: Bilbo lo trova per caso in
una caverna sotterranea mentre cerca di scappare da alcuni orchi e riesce a
sottrarlo alla creatura Gollum ad una gara di indovinelli.
Grazie ai poteri dell’anello, Bilbo riesce a salvare i suoi compagni precedentemente catturati dal popolo degli Elfi Silvani e con loro giunge a Pontelagolungo, i cui abitanti sperano che la compagnia possa liberarli dal drago
Smaug, scacciandolo dalla Montagna Solitaria dove abita. Dopo una serie di
peripezie e di battaglie, l’avventura si conclude con il ritorno di Bilbo alla Contea.
Ciò che è possibile notare in quest’opera è innanzitutto il motivo dell’allontanamento: la situazione iniziale viene presentata come equilibrata ma si verifica
la rottura di tale equilibrio e l’eroe è costretto a superare un numero di peripezie prima di poter ristabilire la situazione iniziale. La storia si sviluppa poi se19Tolkien afferma in una delle sue lettere alla Allen & Unwin (18 gennaio 1938) che, ad eccezione di Balin e Óin, i nomi dei Nani sono stati tratti tutti dal Völuspá, il primo poema dell’Edda
poetica (Carpenter e Tolkien, 1981, lettera n.25).
20Forraspaccata è il calco riportato nella traduzione italiana dell’originale inglese Rivendell. Il
luogo è chiamato anche“Gran Burrone”.
21Nell’opera non viene fatto riferimento al fatto che questo sia in realtà “l’Unico Anello”: i suoi
poteri effettivi verranno rivelati ne Il Signore degli Anelli, mentre la sua origine viene narrata ne
Il Silmarillion.
guendo un ordine ben preciso, dettato da nove delle trentuno funzioni individuate da Propp (1966) all’interno delle fiabe. Tali funzioni sono:
-
allontanamento;
-
partenza;
-
funzione del donatore;
-
reazione dell’eroe;
-
fornitura dell’oggetto magico;
-
trasferimento;
-
lotta;
-
vittoria;
-
ritorno.
Il ritorno nella Contea che spetta a Bilbo Baggins non contempla tuttavia il
ristabilimento della condizione di equilibrio prevista dallo schema “canonico” di
Propp. Al contrario, ciò che si evince è che al ritorno vi è un Bilbo molto diverso rispetto a quello che lasciò la Contea: un Hobbit meno pasciuto e più ricco,
meno sprovveduto ma che ha perso il suo status di “persona rispettabile” all’interno della Contea: gli abitanti, infatti, dopo averlo dichiarato morto, si sono
appropriati di tutti i suoi averi e al suo ritorno lo etichettano come personaggio
strano e tipo poco raccomandabile. Perciò Bilbo, come accade anche per il
suo congiunto Frodo ne Il Signore degli Anelli , è un eroe che non potrà più essere reintegrato nella comunità e nel contesto di partenza: Bilbo si è reso un
personaggio scomodo agli occhi dei suoi compaesani con la sua scelta di andarsene in giro per il mondo contravvenendo così alle “regole”, tanto che preferiscono dichiararlo morto (e appropriarsi così di tutti i suoi averi). Ma quel
che conta di più è che il viaggio lo ha cambiato profondamente, rendendo il
suo luogo d’origine inadatto e in un certo modo “piccolo” per la nuova persona
che è diventato. La “ristrettezza” del villaggio porterà Bilbo all’insofferenza,
tanto che ne Il Signore degli Anelli deciderà di partire nuovamente verso le
montagne (Tolkien, 2000b, pp.64-65) ed infine accetterà di andare verso le
Terre Immortali (Tolkien, 2000b, p. 1224).
Un altro elemento sul quale è necessario soffermarsi è il personaggio di
Beorn, che aiuta Bilbo e i Nani ad attraversare il Bosco Atro. Gandalf, parlando
di lui al resto della compagnia, afferma che «alcuni dicono che è un orso di scendente dai grandi e antichi orsi delle montagne che vivevano lì prima che
arrivassero i Giganti. Altri dicono che è un discendente dei primi Uomini che vivevano in questa parte del mondo, prima che vi arrivassero Smaug e gli altri
draghi, e prima che gli Orchi arrivassero dal Nord sulle colline. Quale sia la ve rità non saprei dirlo, anche se personalmente mi pare più verosimile la seconda ipotesi» (Tolkien, 1989, p. 135). È un personaggio in grado di mutare il proprio aspetto e di trasformarsi in un orso, come si evince dal nome stesso 22: è
interessante, quindi, notare il legame tra l’uomo e l’animale e ricondurlo ai suoi
primordi e alle rappresentazioni rupestri di esseri teriomorfi, i quali possedevano la corporatura di un essere umano e alcuni attributi bestiali che, per rassomiglianza, servivano a propiziare la caccia23.
È altresì interessante analizzare l’animale in questione, l’orso, poiché metafora dell’energia naturale intorno alla comunità contadina. Non solo: questo
animale è legato a diversi usi e rituali collegati con il calendario delle festività e
delle stagioni: appare nel Carnevale, adornato con piume o foglie, come personificazione dell’energia rinnovatrice della terra. Questa figura è detta “orso
della candelora” e fa parte dell’immaginario dei pronostici e della divinazione.
Si era soliti, infatti, osservare questo animale mentre usciva dalla sua tana: se
notava la luna nuova, terminava il suo letargo. In caso contrario, il letargo con tinuava e ciò significava che la primavera avrebbe tardato il suo arrivo (Grimaldi, 1993, p. 81). In effetti Beorn appare molto legato alla sua terra e ai suoi animali e la sua dimora è circondata da un giardino sempre fiorito (Tolkien, 1989,
cap. VII).
È opportuno richiamare l’attenzione anche sul ruolo della foresta e del Bosco Atro, entrambi collegati al rito dell’iniziazione e del passaggio al “regno
della morte” e dello sconosciuto, di cui si è già discusso nel precedente capito 22Beorn significa orso e deriva dalla parola béo (ape), richiamando l’amore degli orsi per il
miele (Tolkien, 2004, pp.164-165) ma l’etimologia può essere fatta risalire anche al norreno
björno, biorn, “orso” per l’appunto, in riferimento alla pratica di alcuni guerrieri scandinavi noti
come Berserkir di cambiare i propri nomi con quelli di animali come il lupo o l’orso per sottolinearne la possanza in battaglia (http://lexicon.ff.cuni.cz) e la cui origine viene fatta risalire ai
guerrieri di Óðinn, divinità principale delle religioni germaniche (Chiesa Isnardi, 1977, p. 64).
23Queste informazioni sono tratte dagli appunti registrati durante il seminario del prof. Gian
Luigi Bravo in data 22/03/2013.
lo24. Va citato infine un involontario parallelo istituito dall’autore con il poema
anglosassone Beowulf, somiglianza che si dispiega quando Bilbo Baggins cerca di rubare la preziosa coppa d’oro al drago Smaug (Carpenter e Tolkien,
1981, lettera n. 25).
2.2.2. Il Signore degli Anelli
L’opera, divisa in tre volumi (La compagnia dell’Anello, Le due torri, Il ritorno del Re), rappresenta il compimento della creazione mitopoietica che Tolkien
aveva in mente. Si apre riprendendo i fatti laddove si erano conclusi nel prece dente Lo Hobbit, con la festa per il centoundicesimo compleanno di Bilbo Baggins. Ai preparativi della sontuosa festa partecipano attivamente sia i Nani,
suoi vecchi compagni, sia lo stregone Gandalf, che si presenta alla festa con i
suoi famosi fuochi d’artificio. Intenzione dello Hobbit è lasciare la Contea ma è
suo proposito farlo in maniera talmente spettacolare da continuare a far parlare di sé: al termine della festa scompare di fronte a tutti i basiti invitati, usando
l’anello che tempo fa aveva sottratto alla creatura Gollum e che egli credeva
“semplicemente” magico. Scivolato in casa, incontra Gandalf, il quale lo mette
in guardia circa quella che sospetta essere la vera natura dell’anello e gli dice
di separarsene: in principio Bilbo non ha nessuna intenzione di farlo, costringendo lo stregone a ricorrere a tutta la sua autorità e collera per convincerlo a
lasciarlo al cugino e protetto Frodo, col resto dell'eredità.
Ora Frodo è il nuovo padrone di casa e Gandalf, prima di ripartire adducendo misteriose ragioni, lo esorta a non usare assolutamente l’anello magico.
Più avanti diverrà chiaro il pericolo che questo costituisce: dopo diciassette
anni di lunghi viaggi e numerose ricerche Gandalf riappare, annunciando ciò
che è riuscito a scoprire e la minaccia dell’anello, spronando così Frodo a partire per tentare di distruggerlo. Gandalf è riuscito a venire a conoscenza della
vera natura del piccolo manufatto: è l'Unico Anello, forgiato dal Maiar Sauron
in epoche remote per controllare tutte le razze e i popoli della Terra di Mezzo
attraverso gli altri Anelli del potere 25. Sauron ne ha assolutamente bisogno per
24Cfr. cap. 1, pp.2-4.
25La genesi degli Anelli del Potere verrà trattata più avanti, nel paragrafo dedicato a Il Silmarillion.
compiere i suoi piani ed é solo per caso che un manufatto così potente è finito
nelle mani di Bilbo prima e di Frodo poi; è un oggetto così potente da corrom pere le menti e i corpi degli uomini e degli elfi più grandi e valorosi, tra cui Isil dur, il discendente della casata di Elendil, una delle più importanti della Terra
di Mezzo, che sconfisse Sauron stesso, riuscendo a sottrargli l’anello, ma dal
quale, infine, si lasciò corrompere.
Quando Frodo comprende la vera natura dell’anello, decide di partire per
una missione disperata nel tentativo di impedire all'Oscuro Signore di Mordor,
che nel frattempo si è risvegliato dopo l'ultima sconfitta nella quale aveva perso proprio l’anello, di rientrarne in possesso. Così Frodo ed altri tre Hobbit, il
giardiniere ed amico Samvise “Sam” Gamgee, e i suoi parenti Peregrino “Pipino” Tuc e Meriadoc “Merry” Brandibuck, si incamminano lungo la strada che li
avrebbe condotti come prima meta del viaggio alla città di Gran Burrone, dove
è stato fissato l’incontro con Gandalf. Ma sin dall’inizio il viaggio si dimostra
irto di pericoli.
I primi nemici compaiono non appena i quattro Hobbit lasciano la Contea:
essi sono inseguiti dai Cavalieri Neri, conosciuti anche come Nazgûl o “Spettri
dell'Anello”, gli antichi Re degli Uomini portatori degli anelli del potere ormai
del tutto corrotti da Sauron, il quale li aveva diretti verso La Contea a seguito
delle confessioni estorte con la tortura a Gollum. Dopo averli elusi, i quattro
riescono a superare la Vecchia Foresta grazie all’aiuto di Tom Bombadil 26, che
li indirizza verso il vicino villaggio di Brea, dove vengono avvicinati da Grampasso, un Ramingo del Nord amico di Gandalf e da lui inviato al suo posto per
proteggere gli Hobbit.
Dopo aver superato il Tumulilande, una terra infestata, giungono a Gran
Burrone, dove possono riunirsi allo stregone. Qui Elrond Mezzelfo convoca un
consiglio di tutti i rappresentanti delle genti libere della Terra di Mezzo per de26L’autore non è mai stato chiaro sulla natura di questo personaggio. Da una delle lettere di
Tolkien alla Stanley & Unwin si evince che Tom incarna lo spirito della campagna di Oxford e
del Berkshire, tuttavia il dibattito tra i critici è ancora aperto: c’è chi lo identifica come un Vala,
chi come un Maiar, chi la rappresentazione di Eru Ilùvatar, chi come Ainur, chi come un essere
che non appartiene a nessuna delle razze citate, una razza unica e più antica di tutte tra i Figli
di Ilúvatar, o una creatura guardiana dei boschi creata da Yavanna, la Vala responsabile della
potenza rigeneratrice della terra. Bombadil risulta inoltre immune al potere dell’Anello, non desiderandolo e non subendone gli effetti (Manni, 2002, pp.97-100; www.ilfossodielm.it).
cidere come liberarsi della malefica presenza di Sauron. A tal fine il consiglio
decide che l’anello deve essere gettato nella Voragine del Fato, sul monte
Orodruin, nella Terra di Mordor. Distruggerlo è infatti l'unica possibilità per gli
esseri viventi di allontanare per sempre l’Oscuro Signore. Per la missione viene così formata la Compagnia dell’Anello, composta da 9 membri: i quattro
Hobbit, Grampasso (in realtà Aragorn Elessar, ultimo discendente della casa
di Isildur), Gandalf, Legolas l’Elfo, Gimli il Nano e Boromir di Gondor, il reame
a Sud della Terra di Mezzo. Nel frattempo la Compagnia apprende del tradimento di Saruman il Bianco, capo del Consiglio degli Stregoni e vecchio amico
di Gandalf ed ora fermamente convinto di potersi avvalere del potere dell’anello per controllare Sauron e porre così la Terra di Mezzo sotto il dominio “razionale” degli Stregoni.
Durante l'attraversamento delle Miniere della città di Moria (Khazad-dûm
nella lingua dei Nani) si apprende la vera storia di Gollum, il cui vero nome è
Smeagle, e si assiste al distacco della compagnia da Gandalf, precipitato in un
abisso per salvare i suoi compagni dal Flagello di Durin, il Balrog, un’antica
creatura creata da Morgoth, il malvagio dei Tempi Remoti di cui Sauron era
solo un servitore. Scampati alle rovine di Moria, la Compagnia giunge al reame di Lothlorien, dove vengono accolti dagli Elfi, governati da Dama Galadriel
e da Sire Celeborn, che si mostrano benevolenti nei confronti della Compagnia. Di fronte a Dama Galadriel la mente dei membri della Compagnia viene
messa a nudo grazie al suo potere di leggere negli animi di chi le sta di fronte:
in particolare Boromir sarà costretto a confessare a se stesso la brama nei
confronti dell’anello. Durante la permanenza a Lothlorien Galadriel convoca a
sé Frodo e Sam conducendoli ad un giardino nel cui centro si erge una vasca
nella quale Sam e Frodo sono invitati a guardare. Gli Hobbit intravedono frammenti di futuro ma non riescono pienamente a comprenderli: quello che Sam
vede è una Contea devastata e rovinata e, successivamente, quella che sembra essere la morte di Frodo, mentre Frodo vede l’occhio di Sauron, comprendendo così il fardello del quale è stato investito e offre pertanto l’anello a
Dama Galadriel. Sebbene inizialmente scossa da tale offerta, Galadriel sa che
l’anello la corromperebbe e lo rifiuta, accettando così il destino che di li a poco
avrebbe inesorabilmente colpito la sua razza. Alla loro partenza colmerà di
doni i viaggiatori, regalando una spilla d’argento ad Aragorn, un arco di Lothlorien a Legolas, tre capelli dalla sua chioma a Gimli, delle cinture a Boromir,
Merry e Pipino, una scatoletta con la terra di Lothlorien a Sam e una fiala contenente la luce della stella di Eärendil a Frodo, cosicché possa illuminarlo nei
momenti più oscuri del suo viaggio. Darà loro inoltre dei manti elfici, sorretti da
spille a foggia di foglie di alberi di Mallorn (gli alberi di Lothlorien) in grado di
nascondere chi li indossa, e del cibo, chiamato "pan di via" o “lembas”, in grado di sostenere con un sol boccone un robusto guerriero per un’intera giornata.
Giunta nei pressi delle cascate di Rauros sul Grande Fiume Anduin, la
Compagnia si scioglie perché Frodo e Sam decidono di intraprendere la missione da soli, per non mettere in pericolo gli altri.
Il secondo volume dell’opera, Le due Torri, si apre con la caduta di Boromir,
il quale tenta di sottrarre l’anello a Frodo per portarlo a Gondor e cercare di
usarlo contro Sauron, mentre in realtà ne viene soggiogato. Pentito del suo
gesto, Boromir cerca Frodo, che nel frattempo si era reso invisibile, per scusarsi: ma una truppa di orchi trova e attacca la compagnia. Boromir muore nel
tentativo di difendere Merry e Pipino, redimendo così la sua colpa. Tuttavia i
due Hobbit vengono rapiti dagli orchi e così Aragorn, Legolas e Gimli si lancia no al loro inseguimento. Lungo la strada incontreranno gli uomini del Mark di
Rohan detti “i signori dei Cavalli” e si uniranno a loro e al loro Re, Théoden,
per combattere Saruman al Fosso di Helm nel primo grande scontro per i popoli liberi della Terra di Mezzo. Ritroveranno inoltre Gandalf, che è riuscito a
sconfiggere il Balrog e che è tornato dalla morte, purificato, prendendo il posto
di Saruman come "Stregone Bianco". Nel frattempo Merry e Pipino, che sono
riusciti a fuggire, trovano soccorso presso degli esseri a metà tra uomini ed alberi, gli Ent, antichi custodi della foresta i quali, dopo aver appreso della distruzione perpetrata alle foreste che circondavano Isengard e la torre di Orthanc, si rivolteranno contro Saruman, distruggendone l’esercito di orchi.
In quel che resta di Isengard, Aragorn, Legolas e Gimli ritrovano i due compagni Hobbit e, sfuggendo all’ultimo tentativo di corruzione di Saruman, trovano tra le macerie il Palantír un manufatto magico in grado di mostrare il passato, il presente e il futuro nel quale in seguito, infrangendo il divieto di Gandalf,
Pipino scruterà scorgendovi l’Occhio di Sauron. Spaventati, i compagni si separeranno di nuovo: Merry rimarrà con l’esercito dei Rohirrim, Gandalf e Pipino partiranno per Gondor, dove il Palantír aveva rivelato che l'Oscuro Signore
avrebbe attaccato gli Uomini27.
Nel frattempo Frodo e Sam si imbattono in Gollum il quale, dopo aver cercato di uccidere i due Hobbit per riprendere “il suo tesoro”, viene costretto da
un giuramento ad aiutare Frodo e Sam nell’attraversamento delle Paludi Morte
fino al Cancello Nero nella Terra di Mordor. Quando gli Hobbit si accorgono di
quanto sia impenetrabile il Cancello, fidandosi di Gollum si incamminano verso
sud-ovest per raggiungere il passo di Cirith Ungol. Mentre attraversano la regione dell'Ithilien vengono sorpresi da alcuni degli uomini di Gondor comandati
da Faramir, fratello di Boromir, il quale prima li imprigiona ma, resosi conto della natura e dell’importanza della loro missione, decide di lasciarli andare.
Gli Hobbit continuano quindi la loro marcia e raggiungono il passo di Cirith Ungol. Sono però ignari del tradimento pianificato da Gollum, il quale aveva deciso invece di condurli nella tana del ragno gigante Shelob, che riesce a colpire
Frodo, facendolo sprofondare nel sonno, ma viene quasi subito trafitta ed uccisa da Sam, il quale, però, non riesce ad evitare la cattura di Frodo da parte di
alcuni orchi.
Il terzo volume dell’opera, Il ritorno del Re, chiude la trilogia, incorporando
anche alcune appendici che forniscono informazioni sulla storia, la lingua e gli
usi delle civiltà presenti nell’opera. Si apre con la descrizione di Minas Tirith, la
città minacciata da Sauron, dove Pipino, per ripagare il debito verso Boromir,
presta giuramento di fedeltà al sovrintendente di Gondor e padre di Boromir,
Denethor. Nel frattempo Aragorn, Legolas e Gimli si uniscono ad Éomer, nipote del Re di Rohan, e ad un gruppo di raminghi del Nord con i quali formeran no “la Grigia Compagnia” per dirigersi verso i Sentieri dei Morti, un luogo infestato per richiedere l’aiuto di un antico popolo che tradì il giuramento di servire
Isildur contro Sauron: soltanto l’erede d'Isildur, dunque, poteva uscire indenne
27Il Palantír mostra in effetti un albero bianco e avvizzito dato alle fiamme, il Nimloth, che rappresenta il legame tra i Numenoreani e gli Elfi Primigeniti (Eldar) poiché fu da questi donato
agli uomini. L’albero di Gondor proveniva, appunto, dal frutto del Nimloth. Nel periodo della
cattività di Sauron in Númenor, il re Ar-Pharazôn, su istigazione di Sauron, arriva persino ad
abbattere quel simbolo di alleanza e fratellanza ed è per questo che Isildur ne ruba un frutto,
che poi pianta e trasporta nella Terra di Mezzo (Tolkien, 2004, p.342-343).
da quei luoghi, poiché solo mantenendo la promessa fatta a Isildur e dunque
aiutandone l’erede, i guerrieri maledetti avrebbero potuto trovare la pace.
La narrazione si sposta su Gondor: Sauron riverserà le sue truppe nella
battaglia di Osgiliath, dando così inizio all’assedio di Gondor durante il quale
Faramir parte con le sue truppe alla volta del contrattacco ma Osgiliath cadrà
sotto gli attacchi dei Nazgûl e degli orchi, in netta maggioranza numerica. In
questa occasione Faramir verrà ferito, causando la follia di Denethor, il quale
crede di aver perduto entrambi i figli: il sovrintendente, in preda alla pazzia,
decide di far erigere una pira funeraria per il figlio, intervento sventato da Gan dalf che si conclude con il suicidio del sovrintendente.
Dopo la caduta di Osgiliath, Aragorn decide di guardare nel Palantír e rive larsi a Sauron nella sua veste di erede di Isildur, nella speranza di riuscire a distogliere la sua attenzione da Frodo e dall’anello. Inizia così la battaglia per le
terre libere durante la quale verrà sconfitto il capitano degli eserciti di Mordor,
il Signore di Angmar e Re degli Spettri dell’Anello, come disse lui stesso, non
per mano di un uomo ma per mano di Dama Eowyn, sorella di Éomer di Rohan, e di Merry lo Hobbit. Perde la vita però anche il Sire del Mark e al suo posto diviene re proprio Éomer, mentre Faramir prende il posto del padre come
sovrintendente.
Dopo aver riportato questa vittoria insperata, gli eserciti dell’Ovest, capitanati da Aragorn, discendente dei re di Gondor e pretendente al titolo, si muovono per far guerra a Sauron innanzi alle porte di Mordor. Il Cancello Nero si
apre e ne esce La Bocca di Sauron, quello che una volta era un Uomo di Númenor ma la cui corruzione lo porta a servire Sauron e a divenirne l’emissario
ed il portavoce. Mostra dei beni appartenenti a Sam e Frodo e, in cambio della
loro vita, chiede una resa incondizionata e che tutte le terre ad est del fiume
Anduin siano conferite a Sauron, mentre quelle ad ovest fino alle montagne
nebbiose e alla breccia di Rohan vengano poste sotto il comando di un luogotenente, divenendo tributarie di Mordor. Gandalf chiede di vedere gli ostaggi
ma l’emissario esita, quindi lo stregone rigetta tutti i termini imposti, dando
così inizio alla battaglia, alla quale parteciperanno anche le Aquile, dei Maiar
in forma animale.
A questo punto la narrazione riprende da Frodo e Sam all’interno della Torre
di Cirith Ungol, nel tentativo di quest’ultimo di liberare Frodo dagli orchi, i quali
si erano uccisi a vicenda durante una disputa su chi dovesse appropriarsi dei
beni dello Hobbit. Travestiti da orchi, i due Hobbit tentano di attraversare la
terra di Mordor, riuscendo a giungere alla voragine del Monte Fato. Durante il
tragitto Gollum li attacca all’improvviso, tentando nuovamente di ucciderli e di
impossessarsi dell’anello, ma Frodo riesce a sconfiggerlo mentre Sam si prepara ad ucciderlo ma, mosso a pietà, gli risparmia la vita. Arrivati alla voragine
Frodo non riesce a separarsi dall’anello e a gettarlo, reclamandolo per sé. In
quel momento Gollum riappare improvvisamente, staccando a morsi il dito e
riprendendosi l’anello; per la felicità non si accorge di essere sull’orlo del precipizio e cade, distruggendo così anche l’anello.
Dopo l’incoronazione di Aragorn gli Hobbit fanno ritorno alla Contea ma è
un luogo completamente diverso quello che li accoglie, dove non è rimasto altro che una landa desolata. I quattro Hobbit scoprono che durante la loro assenza un lontano cugino di Frodo, Lotho Sackville-Baggins, ha imposto una
sorta di dittatura aiutato da un certo Sharkey e dai suoi mezzorchi. In realtà
Lotho è solo un burattino nelle mani di Sharkey, che si rivelerà essere Saruman stesso, fuggito dalla torre di Orthanc dove gli Ent lo trattenevano. I quattro riusciranno a fomentare una ribellione contro i mezzorchi e contro Saruman, il quale, sconfitto, sarà graziato dagli Hobbit ma verrà ucciso a tradimento dal suo servo, Grima Vermilinguo, che precedentemente aveva servito re
Théoden come consigliere mentre in realtà alimentava gli incantesimi di Saruman su di lui. Grima verrà ucciso dalle frecce degli Hobbit e la Contea risanata
grazie all’ausilio della terra regalata a Sam da Dama Galadriel.
Dopo molti anni Frodo non riesce più a vivere all’interno della Contea, come
accadde a Bilbo prima di lui; a Frodo però spettano ferite ben più profonde e il
fardello dell’anello seguita a pesare su di lui. Questa è la ragione per la quale
salpa insieme a Bilbo, Gandalf e agli Elfi alla volta delle Terre Immortali di Valinor. Dal momento in cui Gandalf consiglia a Frodo di lasciare la Contea, inizia
la quest (la ricerca), il viaggio verso Monte Fato nella terra di Mordor ma è una
quest al contrario quella che attende gli eroi, poiché l’oggetto magico è presente sin dall’inizio e non occorre cercarlo ed inoltre non costituisce un mezzo
in grado di aiutare i protagonisti nella la loro missione a causa della sua natura
intimamente malvagia, ragione per la quale deve essere distrutto (Manni,
2002, p. 27).
L’opera presenta inoltre tutte le caratteristiche di quella che viene definita
“fiaba complessa” con avversari e protettori soprannaturali, compagni straordinari, magie e meraviglie (Thompson, 1967, pp.42-103): tuttavia inserirla all’interno della definizione di fiaba risulterebbe riduttivo a causa di diversi fattori tra
cui la presenza di elementi come Elfi, Nani, Orchi e magia; la complessità dei
temi e dei rimandi; il rimaneggiamento delle fonti e l’appellarsi ad esse come
richiamo all’autorità28 che abbracciano la mitologia nordica e che allo stesso
tempo riescono a inserirsi nel mondo contemporaneo. Si possono discernere
«l’Anello di Gige della Repubblica platonica e quello nibelungico di Wagner,
l’Edda poetica e quella di Snorri; la missione edificatrice del “piusAeneas”
(Frodo); il ciclo arturiano; le leggende celtiche del Mabinogion; la NavigatioSanctiBrandani; il soprannaturale shakespeariano; Swift; la letteratura fantastica ottocentesca inglese e americana e i marchen tedeschi del periodo romantico. […] anche i libri cosiddetti “storici” dell’Antico Testamento e le parabole
del Nuovo; le teologie della storia dei Padri della chiesa; la filosofia metafisica
di Tommaso d’Aquino; la dialettica del cardinal Newman» (Manni, 2002, p. 28).
Tutto questo farebbe rientrare l’opera a diritto entro la definizione di saga.
È interessante notare anche il “tipo” di magia che pervade l’opera: «è ciò
che va al di là della natura, come qualcosa che la comprende ma in essa non
si esaurisce» (Manni, 2002, p. 195). È una magia che si discosta da quella
presente nelle fiabe popolari o negli altri romanzi fantasy: non ci sono streghe
che mescolano in grandi calderoni ingredienti casuali senza connessione tra di
loro, né maghi che pronunciano formule magiche pomposamente latineggianti.
La magia presente ne IlSignore degli Anelli potrebbe essere definita come conoscenza e sapere ma anche come “aura” che emana da esseri come gli Elfi
o Gandalf; infine vi è la magia in forma di esseri rari, al di fuori dall’esperienza
comune come gli Ent o i Nazgûl o i Draghi: tutto questo perché era nelle intenzioni dell’autore rimanere fedele alle grandi epopee alle quali si era ispirato,
28Cfr. Capitolo 1, paragrafo 1.1.
nelle quali si incontrano elementi straordinari ma che rimangono spiegabili razionalmente, ed altri che, invece, rimarranno inspiegati e misteriosi (Manni,
2002, pp.195-201).
2.2.3. Il Silmarillion
Il Silmarillion è la principale opera postuma di J.R.R. Tolkien, che la considerava lo sfondo storico-mitologico de Il Signore degli Anelli ma anche la mitologia che intendeva consegnare all’Inghilterra, una mitologia che fosse completa ed indipendente dalle altre esistenti. Il Silmarillion venne concepito sul
modello del Kalevala finlandese, come raccolta a posteriori di tradizioni narrative (Manni, 2002, p.31). Come il Pentateuco biblico, è suddiviso in cinque libri
: il libro primo, l’Ainulindalë, “La Musica degli Ainur”, descrive la nascita di Arda
(la Terra) e degli Ainur, i potenti spiriti creati dalla mente di Eru Ilúvatar, lo spirito supremo, i quali plasmano e modellano l’universo di Arda nel quale si muoveranno le creature chiamate “Figli di Ilúvatar”, ovvero gli Elfi, i Priminati, i
Nani e gli Uomini, i Secondinati; il libro secondo, il Valaquenta, o “Novero dei
Valar”, è una trattazione sugli Ainur e sulle loro gesta. Questi vengono distinti
in Valar e Maiar e, laddove i primi vengono identificati come spiriti supremi e
demiurgici, i secondi sono spiriti il cui potere è minore paragonato a quello dei
Valar. Anche Saruman, Gandalf e Sauron erano dei Maiar e i primi due vennero chiamati Istari, ovvero stregoni, e vennero inviati ai Figli di Ilúvatar allo scopo di aiutarli e consigliarli.
Il terzo libro, il Valaquenta,o "La storia dei Silmaril”, narra delle vicende della Prima Era della Terra, i cui eventi ruotano intorno alla creazione e al furto di
tre gioielli forgiati da Fëanor, il più grande fra tutti gli Eldar. Gli eventi si snodano dalla creazione dei Silmaril alla successiva fuga degli Elfi da Valinor verso
la Terra di Mezzo e approdano alle guerre contro Melkor, uno dei Valar che, a
seguito della sua brama di potere, venne isolato dagli altri, prendendo in seguito il nome di Morgoth29.
29Eru convocò tutti gli Ainur allo scopo di far cantare loro la Musica degli Ainur, con la quale
avrebbero creato il mondo. Ognuno dei Valar aveva la sua parte ed essi si armonizzavano
ascoltandosi l’un l’altro ma Melkor deviò dal tema che Ilúvatar aveva dato loro, creando, in di saccordo con gli altri temi, cose che solo lui aveva immaginato, originando così il Male nel
Mondo. Molti dei Valar rimasero confusi, smettendo di cantare, mentre altri si adattarono al
canto di Melkor, finché Ilúvatar non sollevò la mano sinistra, decretando così l’inizio del mondo
(Tolkien, 2004, pp.11-16).
Nel quarto libro, l’Akallabêth, "La Caduta di Númenor", vengono narrate le
vicende relative all’ascesa e alla caduta degli Uomini della Seconda Era che
vissero nel regno di Númenor che si trovava sull’Isola Stella. I Numenoreani, a
causa della loro superbia, condussero il loro regno alla decadenza e alla caduta, lasciandosi corrompere da Morgoth e da Sauron: essi sfidarono il volere
dei Valar, i quali si infuriarono e li punirono con la distruzione della loro isola.
L’ultimo libro racconta degli Anelli del Potere e dell’avvento della Terza Età,
che vede l’aumento del potere di Sauron dopo che il suo signore Morgoth fu
sconfitto ed esiliato. Prima del suo asservimento a Morgoth, Sauron era un potente Maiar al servizio del Vala Aulë il Fabbro, del quale ne apprese le arti e,
nel corso della Seconda Era, fingendosi loro amico, insegnò agli Elfi l’arte della forgiatura ed essi crearono tre Anelli: Narya, l’anello di rubino, Nenya, l'anello di diamante, e Vilya, l'anello di zaffiro. Elargì successivamente Anelli del potere anche agli Uomini e ai Nani ma nessuno sapeva che, in segreto, Sauron
avesse forgiato un Unico Anello, in grado di piegare e sottomettere tutti gli altri
e con il quale avrebbe voluto dominare la Terra di Mezzo. Il racconto dell’Anello del Potere è infatti il filo narrativo su cui si snodano le vicende de Il Signore
degli Anelli. Tema centrale del libro è naturalmente la creazione dei Silmaril, i
gioielli entro cui Fëanor aveva racchiuso la luce dei Due Alberi di Valinor, Teleperion e Laurelin, distrutti dopo l’attacco di Morgoth e di Ungoliant, un veleno so ragno gigante che ne succhiò l’essenza. Questi gioielli divennero l’oggetto
dei desideri di Morgoth che riuscì a rubarli, scatenando così una serie di lotte
tra coloro che gli si opponevano e i suoi servitori che culminarono in più scontri decisivi tra cui la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime. Viene narrata inoltre
l’ascesa (e in alcuni casi il declino) dei regni degli Elfi, degli Uomini e dei
Nani, come il regno di Nargothrond o quello di Menegroth, della fondazione di
città nascoste, come Gondolin. Gli imperi del Beleriand, la regione dove si
svolgono maggiormente i fatti, non sono destinati a durare a lungo e, per gli
Elfi, la speranza risiede sempre ovest, a Valinor, dove molti di loro faranno ritorno. Nel libro si parla poi della conseguente creazione dei Regni Númenóreani in esilio, come Gondor e Arnor, fondati da Elendil e dai suoi figli Isildur e
Anárion.
Nel secondo libro del Silmarillion è possibile ritrovare lo schema tipico della
quest medievale ma è possibile individuare anche diversi altri rimandi alla Bibbia e alle saghe scandinave, in particolare al Kalevala e l’Edda poetica. Nel
quarto sono invece presenti riferimenti al mito di Atlantide del Criziadi Platone
e ai libri storici dell’Antico Testamento (Manni, 2002, p. 32). A differenza delle
altre due opere, Il Silmarillion presenta uno stile narrativo aulico e solenne, in
virtù della missione mitopoietica per la quale era stato concepito. Il tono rimane alto anche nei valori, nelle gesta, nei sentimenti e nelle descrizioni, ponen do in contrasto nettissimo il bene e il male. Proprio come nelle grandi saghe
del nord, le gesta degli eroi sono epiche ma senza speranza: essi sono consapevoli del proprio destino, tuttavia lo affrontano a testa alta 30.
2.2.4. I figli di Húrin
Anche questa è un’opera pubblicata postuma dal figlio Christopher. La storia narra degli avvenimenti accaduti ai figli di Húrin Talion, un valoroso guerriero della stirpe degli Uomini che, durante la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, viene catturato da Morgoth poiché a conoscenza dell’ubicazione di Gondolin. Non volendo rivelare la posizione del regno, Morgoth maledice Húrin e
tutta la sua casata, poi lo pone in cima all’enorme torrione di Thangorodrim su
un seggio e lì lo incatena. Attraverso il potere di Morgoth avrebbe potuto assistere, impotente, a tutti i mali e alle sventure che sarebbero capitati alla moglie
Morwen ed al figlio Túrin. Come suo padre, Túrin rifiuta di essere abbattuto da
Morgoth e, dopo una serie di vicissitudini per le quali è costretto a lasciare la
casa di re Thingol, dove veniva ospitato, unisce a sé una banda di fuorilegge e
gradualmente inizia una guerra personale contro la supremazia di Morgoth
sulla Terra di Mezzo. Grazie ai suoi innumerevoli successi in battaglia, cresce
rapidamente la sua influenza presso il consiglio del re del Nargothrond, Orodeth, insieme però alla sua spavalderia che gli costa la disfatta ad opera di
Glaurung, il più possente dei Draghi. Successivamente Túrin incontra improvvisamente nel bosco una ragazza nuda, sporca e aggressiva: è Nienor, la sorella che egli vide appena prima della partenza per il reame di Thingol sotto un
incantesimo di oblio per il quale non ricordava nulla di sé. Non riconoscendola,
30Cfr. Tolkien, 2000a, pp. 49-57.
Túrin le attribuisce il nome di Níniel (fanciulla in lacrime) e se ne innamora,
sposandola. Glaurung riappare per distruggere la regione del Brethil: nello
scontro finale con il Drago, Nienor prima e Túrin poi apprendono la verità sul
loro legame di sangue: la ragazza, fuori di senno per la notizia, si suicida gettandosi da una rupe. Sconvolto dalla morte della moglie, Túrin uccide Glaurung il quale, prima di spirare, gli rivela la vera natura di Níniel. Non sopportando oltre il peso dell’esistenza, Túrin si uccide sulla sua spada.
Vale la pena menzionare quest’opera per i temi collegati al rito d’iniziazione
e all’incesto: l’allontanamento, il travestitismo e il cambio d’identità, la foresta
ecc. sono tutti richiami al rito dell’iniziazione e alla paura che l’iniziando provava sperimentandoli31. Al tema dell’incesto è collegato inoltre il suicidio dei due
fratelli: è un tabù presente in tutti i gruppi umani e respinto da quasi tutte le religioni e la pena prevista per coloro i quali infrangevano tale divieto era quasi
sempre la morte. Vi è quindi una stretta correlazione tra lignaggio e scambio,
generazioni e sessi, a partire da questa stessa interdizione. In questo modo la
legge primordiale organizza l’ordine simbolico, si riproduce in istituzioni e costituisce l’individuo come soggetto sociale (Colombo, 2009, p. 73). Sono fortissimi, inoltre, i richiami alla leggenda di Kullervo presente nel Kalevala (Carpenter, 2002, p.110) che, dopo lo stupro della sorella e la guerra che ha distrutto la sua famiglia, si uccide gettandosi sulla propria spada (www.bifrost.it).
2.2.5. Altre opere
Vale la pena menzionare alcune opere inedite di Tolkien, pubblicate postume dal figlio Christopher: ci si riferisce ai Racconti incompiuti e alla Storia
della Terra di Mezzo della quale non è presente per tutti i volumi la traduzione
italiana.
I Racconti incompiuti costituiscono degli approfondimenti alle opere precedentemente citate, in particolare sono presenti diversi racconti del Silmarillion
nelle loro versioni ampliate . La Storia della Terra di Mezzo è una raccolta di
tredici volumi di appunti, bozze e altri racconti. Attualmente sono stati pubblicati in Italia solo i primi due, i Racconti ritrovati e i Racconti perduti. Famoso è
il racconto de La Casetta del Gioco perduto, scritta ai tempi della guerra, tra le
31Cfr. Capitolo 1 sui riti d’iniziazione.
trincee. Quest’opera costituisce un’espansione notevole, includendo descrizioni di luoghi, popoli, avvenimenti e spiegazioni di gran parte degli eventi che si
sono succeduti nella Terra di Mezzo e che vengono narrati nelle altre opere.
Capitolo 3
Mitologie, innesti e Völsungar
A questo punto della trattazione si presenta il nodo cruciale da affrontare:
come può un’opera letteraria (in questo caso più opere letterarie) divenire il
corpus mitologico di una nazione? Quali sono i temi e i motivi mitologici sui
quali questi lavori si innestano e sviluppano? Stando alla definizione dell’Enciclopedia delle Religioni curata da Mircea Eliade, i miti sono «storie che fondano e narrano l’origine di vari aspetti della realtà naturale e umana, compongono un sistema di racconti interrelati (una mitologia) che costituisce parte integrante della tradizione orale di ciascun popolo, trasmessa da una generazione
all’altra e strettamente connessa con il rito, il culto e il pensiero religioso. […]
Le storie assurde e fantastiche contenute un questi racconti contrastavano
nettamente con i prodotti più perfezionati del pensiero logico e razionale. Tuttavia, se perfino i Greci, il popolo che aveva raggiunto le vette più alte della civiltà, secondo molti studiosi, avevano conservato così numerose tracce di
questa forma primitiva di pensiero, se ne doveva giustificare scientificamente
l’esistenza e la genesi» (Eliade, 1995, vol. 2 p. 479). Sono nate così diverse
scuole di pensiero, come quella di Müller, che con la mitologia comparata riconduceva il mito allo sviluppo del linguaggio, inquadrandolo come una sua
“malattia” nata dall’influenza degli spettacoli naturali sulla mente degli uomini
“primitivi”. A ciò si ricollega anche la posizione di Lévy-Bruhl, il quale afferma
che il mito è semplicemente il prodotto di una mentalità primitiva, dominata da
processi mentali prelogici e mistici. C’è poi il pensiero di Cassier, il quale afferma che il mito si distacca dal pensiero teoretico e scientifico, poiché forma autonoma di conoscenza e rappresentazione, fondate entrambe su categorie di
pensiero particolare. Infine Jung è riuscito ad individuare alcune immagini ricorrenti di origine inconscia che tendono a manifestarsi sia a livello individuale
che collettivo (Eliade, 1995, vol. 2 pp. 479-480). Va infine segnalato l’importante contributo allo studio del mito di Claude Lévi-Strauss, il quale, applicando i
principi della linguistica strutturale, inaugurò una nuova prospettiva, segnalando il mito come un corpus da leggersi nella propria interezza e nel proprio contesto (Lévi-Strauss, 1978, p. 58) Lo studioso afferma inoltre che il mito, collegato alle credenze e alla cosmogonia di un popolo, sia un elemento originale,
che si serve delle immagini tratte dall’esperienza dell’uomo e della sua comunità per nascere e svilupparsi (Lévi-Strauss, 1978, p. 36). Date queste premesse è lecito chiedersi come sia possibile che il frutto della mente di un singolo autore che matura nell’arco, tutto sommato, di un breve periodo possa inserirsi all’interno della comunità umana, dei suoi riti e delle sue credenze. Per
riuscire dunque a capire su quali miti e credenze si innestano le opere analizzate nel precedente capitolo è opportuno esaminare le fonti a cui si ispirano o
dalle quali è stato estratto e rimaneggiato il materiale.
3.1. Uno sguardo al passato
Per comprendere appieno e riuscire a classificare e ad interpretare questo
corpus occorre proiettare uno sguardo sull’Inghilterra, sulla sua storia e sulle
popolazioni che l’hanno abitata e colonizzata portando con loro tradizioni, riti e
miti. Secondo quanto riportato dalle cronache anglosassoni32, nel 410 d.C. le
tribù degli Angli e dei Sassoni, popolazioni di origine germanica, invasero le
32Collezione di annali risalente alla fine del IX sec., scritta in Old English (inglese antico), che
racconta la storia degli Anglosassoni e della quale sono rimasti solo nove manoscritti (per la
consultazione del testo in lingua inglese www.gutenberg.org).
sponde della Britannia, precedentemente occupata dalle legioni romane, spingendo le popolazioni celtiche33 verso l'attuale Galles e la Scozia. In seguito
chiamarono quest'isola Angleland, cioè “Terra degli Angli”, che diventerà England (www.inghilterra.cc). Erano molti i guerrieri anglosassoni che prestavano
servizio sull’isola sia nell’esercito regolare romano sia in unità irregolari da prima che questa terminasse d’essere territorio imperiale. Già Cesare aveva
compreso che la provenienza germanica costituisse tra i guerrieri un motivo di
vanto grazie all’antichità che questa stirpe possedeva, elemento che trova
conferma in particolari riti religiosi dato che « quanto più antiche erano le origi ni e quanto migliori erano gli dèi, tanto migliore, nel senso di “più rispettato”,
era il popolo […]. Le società cultuali vengono presentate dalle fonti antiche più
importanti come comunità originarie […] in contrasto con il loro costituirsi
come associazioni di entità autonome in un culto comune» (Wolfram, 2005,
pp. 59 – 60). Un’altra peculiarità delle popolazioni germaniche era il forte senso comunitario di gens, che li contraddistingueva in maniera piuttosto visibile 34
dalle altre tribù. La tribù germanica era costituita dal Sippe, un clan formato
dall'unione di più famiglie patriarcali imparentate fra loro e che costituiva
un'entità economica, militare e politica autonoma e autosufficiente. Le battaglie e le guerre erano eventi per i quali le popolazioni si rivolgevano al loro
pantheon ricorrendo a diversi rituali, come il dipingersi di nero il busto e lo scu do prima dello scontro35 36(Wolfram, 2005, pp.58-71). Quando un valoroso capo
moriva, venivano celebrati solenni riti funerari. La cremazione era il rito più diffuso e alla verticalità del fumo della pira era associata l’importanza del defunto
(per cui tanto più si spingeva in alto il fumo, tanto più sublime era colui che ve33Sui Celti cfr. cap. 1 pp. 15-16
34Un esempio è costituito dall’abbigliamento tribale Suebo, un artistico nodo di trecce tra i capelli che conferiva grande prestigio e che fu adottato da diverse altre tribù che subirono la germanizzazione dei propri costumi, come, per esempio, gli stessi celti (Wolfram, 2005, p. 59).
35Per alcune popolazioni, come quella degli Arii, questo rito costituiva più un legame con gli
altri uomini al di fuori della Sippe che un generico rituale legato ad essa e ai suoi costumi
(Wolfram, 2005, p. 72).
36Lo scudo costituiva uno degli accessori più importanti per le popolazioni germaniche: era
l’unica arma di difesa dei combattenti e perderlo significava andare incontro al più grande dei
disonori tant’è che, secondo quanto riportato da Tacito (Germania, 6), coloro che se ne macchiavano non erano più ammessi alle cerimonie sacre e alle assemblee della tribù e molti preferivano suicidarsi che vivere con la vergogna ( Wolfram, 2005, p. 71)
niva cremato). La pratica dell’inumazione si diffuse solo nel IX o nel X secolo,
partendo dalla Danimarca. Snorri Sturluson riporta nel Prologo della Heimskringla37 due ere, “l’era del rogo” (brunaöld) e “l’era del tumulo” (haugsöld):
tale mutamento di costume si fece sentire in quasi tutti i territori, tranne che in
Svezia, come riflesso della sepoltura di Carlo Magno ad Aquisgrana. I riti funerari erano seguiti da un solenne banchetto durante il quale l’erede solleva il
calice detto bragafull per prestare giuramento. Il rito del banchetto stabiliva il
legame sacro fra i componenti della stirpe ancora in vita e quelli defunti: non
solo, mirava anche a fondare una nuova comunità nella quale la forza della
stirpe si sarebbe ciclicamente sviluppata. Il rito del bragafullsi ricollega al calice del dio Bragi, dio dell’arte poetica: l’erede, bevendo dal calice del dio, ne
assume la potenza, la forza e l’ispirazione, rendendosi simile a lui e ricevendo
al contempo la forza dal defunto. Il rituale assume in questo modo un carattere
ctonio, grazie al vivificante contatto con l’antenato che infonde all’erede una
forza nuova (Chiesa Isnardi, 1977, pp. 65-67).
Tramite documenti come La Battaglia di Finnsburg, La Battaglia di Brunanburg
e La Battaglia di Maldon38, è possibile delineare anche alcune caratteristiche
37Raccolta di saghe messe insieme da Snorri Sturluson che narrano le vicende dei re norvegesi.
38Il primo narra la battaglia tra Dani e Frisoni, la cui mitica origine è fatta risalire all'eroe Finn,
il secondo fu uno scontro avvenuto tra le forze Anglosassoni e le forze Scozzesi alleate con
quelle Vichinghe per la conquista della Northumbria nell'anno 937. Il terzo si svolse nel 991 e
vide scontrarsi gli Inglesi contro i Vichinghi che progettavano di invadere il territorio sbarcando
a Maldon.
dei rapporti che esistevano tra il guerriero e il suo signore. Tale rapporto, descritto con il nome di comitatus da Tacito, prevedeva un insieme di regole basate sulla lealtà del guerriero, sul suo obbligo di vendicare il proprio signore e
di mantenere la parola data a cui doveva corrispondere la magnanimità del signore. Anche il comportamento marziale era disciplinato da una sorta di “codice d’onore” secondo il quale un principe non poteva essere superato in valore
dai suoi sottoposti i quali, a loro volta, non potevano dimostrarsi deboli. Vi era
inoltre l’obbligo di difendere il proprio signore ad ogni costo e sopravvivergli in
battaglia veniva considerato un disonore ed una vergogna (Manfroi, www.tolkien.it). Gli anglosassoni, a differenza dei cristiani Britanni di discendenza celtica, erano di religione pagana (Wolfram, 2005, p. 115) ed è importante rilevare la pratica di collegare la nascita di un clan all’origine divina, usanza che si
riscontra anche in Svezia e in Norvegia, e che nobilitava la stirpe innalzandone gli appartenenti al divino (Chiesa Isnardi, 1977) e conferendo loro un’aura
di sacralità ed invincibilità. Le divinità anglosassoni presentano numerosissime
affinità con quelle norrene: secondo quanto riportato nella Germania di Tacito,
dal dio Manno discendevano gli Ingevoni (tribù della quale facevano parte gli
Anglosassoni), gli Erminoni e gli Istevoni, dal dio Yngvi / Freyr discendeva la
stirpe svedese degli Ynglingar, da Gaut discendeva la stirpe degli Amali, e così
via. Sia le divinità norrene che quelle anglosassoni presentano la bipartizione
fra Æsir e Vani: giovani e bellicosi dèi della guerra e del cielo i primi, vecchi e
stanziali dèi della fertilità i secondi. I Vani entrarono spesso in contrasto con gli
Æsir (anche se le due stirpi si riconciliarono in seguito, mescolandosi e vivendo insieme nel Walhalla39), conoscevano il matrimonio tra fratelli e la società di
tipo matriarcale, contavano divinità gemellari benigne 40 ed erano governati da
39 Uno dei palazzi presenti in Ásgarðr ove risiedevano coloro i quali morirono gloriosamente in
battaglia.
40Va segnalato che per molte popolazioni (soprattutto tra i nativi del nord e sud America, ma
anche nell’antica Grecia con i Dioscuri Castore e Polluce), il parto gemellare veniva considerato un avvenimento tanto insolito quanto particolare, ricollegabile in qualche modo alla sfera divina. Per esempio, tra gli Amerindi era diffusa la concezione che fosse il frutto di una separazione interna dei fluidi corporei ciò che porta alla creazione di due bambini. Il parto gemellare
si riflette, inoltre, anche nel mito come nascita di un futuro eroe, positivo o negativo che sia: la
fretta competitiva di uno dei due bambini lo porta a distruggere il corpo della madre, uscendo
dalla parte dei piedi, pur di essere il primo a venire alla luce, prendendo l’iniziativa. Per questo
molte comunità erano solite uccidere i gemelli, così come i bambini nati per i piedi. In altre culture si pongono a metà tra la potenza divina e il piano umano (Lévi – Strauss, 1995, pp. 39 –
46).
Wotan o Óðinn41, tradotto in italiano con “Odino” (Wolfram, 2005, pp. 62-64), il
più anziano degli Æsir e signore di Ásgarðr, la dimora degli dèi posta in contrapposizione con Miðgarðr, la “Terra di Mezzo”42 che era invece la patria degli
uomini. Da lui discendono tutti gli dèi che lo servono nello stesso modo in cui i
figli servono il padre: è per questo che possiede l’appellativo Allfǫðr, “padre di
tutti”. Frigg figlia di Fjǫrgynn è la sua sposa, con la quale generò Baldr e Hǫðr.
Dalla precedente moglie Jǫrð, nacque il più forte e possente dei suoi figli, il dio
del tuono Þórr (Donar in tedesco antico e nederlandese, Þūnor in inglese antico e latinizzato in Thoro e meglio conosciuto con il nome di Thor). Ebbe numerosi altri figli da varie amanti, tra cui Váli, Víðarr il silenzioso, Hermóðr, e Týr il
valoroso, anche se altri riconducono la paternità di quest’ultimo al gigante
Ymir. Il pantheon norreno annovera poi Bragi, divinità della poesia e delle arti
scaldiche, sposo di Iðunn, che custodisce le mele con le quali gli dèi, una volta invecchiati, si cibano per poter ringiovanire. Vi è poi Heimdallr, sentinella di
Ásgarðr generato all'inizio dei tempi da nove sorelle, ed infine Loki, dio dell’inganno, figlio di Fárbauti e di Laufey. Tra i Vani che dimoravano in Ásgarðr vi
erano Njǫrðr e i suoi gemelli Freyr e Freyja. Questi due giovani erano nati da
Njǫrðr che, secondo il costume dei Vani, si era unito alla sua stessa sorella e
rappresentavano gli dèi della fertilità e dell’abbondanza, oltre che del piacere
(www.bifrost.it). Un altro elemento fondamentale della tradizione pagana germanica e anglosassone è l’albero: ve ne sono tre che assumono un ruolo particolare nelle credenze di tali comunità. I loro nomi sono Yggdrasil, Léraðr e
Mímameiðr. Yggdrasil è il più antico e il più imponente e appare nella profezia
della Völuspá: è un frassino sempreverde che sorregge nove mondi con i rami
e che riesce a raggiungere con una radice Helheimr, il regno dei morti, con la
seconda Jǫtunheimr, il regno dei giganti e con la terza Miðgarðr, la terra degli
uomini, e la sacra fonte di Urðarbrunnr. È fonte di vita, sapienza e del destino
poiché nella dimora sita davanti la fonte vivono le Nornir, tre fanciulle che stabiliscono il destino degli uomini (così come per gli antichi Greci vi erano le Par41Il primo nome è di origine tedesca, il secondo di origine norrena.
42La concezione di Terra di Mezzo presente nella mitologia germanica è la stessa che adotta
Tolkien per la sua Middle – earth, il quale ne ricalca sia il nome che la funzione di piano mediano (nel suo caso) tra le Terre Immortali dei Valar e il piano delle creature mortali.
che) e che leniscono i danni causati dalle bestie che vivono tra i suoi rami e le
sue radici: un aquila, un falco, quattro cervi e i serpenti, che ne rosicchiano in
continuazione le radici. Léraðr è un albero delle cui foglie si nutrono il cervo
Eikþyrnir e la capra Heiðrún, animali che vivono entrambi nel Walhalla. Dalle
corna del cervo cadono le gocce che formano il pozzo di Hvergelmir, da cui
hanno poi origine i fiumi che scorrono per l'universo, mentre dalle mammelle
della capra scorre l'idromele di cui si nutrono gli Einherjar, gli spiriti degli uomini morti valorosamente in battaglia. Infine, su Mímameiðr c’è un gallo chiamato
Víðófnir, che attende di poter annunciare il giorno del Ragnarökr43(www.bifrost.it). Non è solo nella mitologia norrena che è possibile ritrovare l’albero come
axis mundi della propria cosmogonia: al contrario, la figura dell’albero si ritrova
nella simbologia di numerose culture in ogni parte del mondo. Per citare alcuni
esempi, ritroviamo i centri totemici australiani, i templi primitivi semitici e greci,
indù e pre–indù ed i luoghi sacri più antichi costituiti da un albero o da un palo
di legno associato ad una pietra meteorica: ciò simboleggia una sorta di imago
mundi dove la roccia rappresenta la stabilità e l’albero il divenire, prendendo in
questo modo anche la concezione di axis mundis, l’albero – colonna. In più è
legato, tramite la fioritura, la fruttificazione e la perdita del fogliame, al ciclo
della vita e la sua verticalità, così come quella del fuoco, viene umanizzata e
legata alla posizione eretta dell’essere umano. Viene poi associato al simbolo
agro-lunare come suo isomorfo, e, collegato alle acque fertilizzanti, diviene albero della vita. Przyluski, linguista e storico delle religioni, individua invece nel
passaggio dalla cultura legata alla caccia e al nomadismo alla cultura agricola
e sedentaria l’evoluzione del culto dell’albero a quello del grano, elemento fondamentale di queste nuove società. Nella cultura degli antichi egizi, l’albero –
colonna sarà il tipo stesso dell’ermafrodito, la sintesi dei due sessi e il prodotto
del matrimonio mentre nell’iconografia paleo – orientale rappresenta Pemba 44
43Con il termine Ragnarökr si indicano i giorni della fine del mondo e della rovina degli dèi,
preannunciati da tre anni di perenne inverno e di guerre in Miðgarðr. Altri segni premonitori saranno la scomparsa del sole (Sól) e della luna (Máni), divorati dai lupi Skolle Hati , la scomparsa delle stelle e numerosi terremoti. Seguirà lo scontro tra gli dèi e le loro nemesi, Yggdrasil
appassirà e cadrà, Ásgarðsi scioglierà e il mondo cadrà nell’oscurità per poi risorgere dalle
proprie ceneri, rigenerato (Munch, 1926, p. 20).
44Dio creatore che, inviato sulla Terra dallo spirito universale Yo, diede vita all’albero Balanza,
che divenne il rifugio degli uomini. Il suo culto nacque e si diffuse in Mali (www.lefantasiedisteo.it).
il Creatore, l’Androgino primordiale. E che si tratti dell’albero della tradizione
indiana, di quella lunare dei Maya o degli Yakoute, della tradizione babilonese
o di quella nordica, rimane sempre un simbolo associato alla totalità del cosmo, nella sua genesi e nel suo divenire. L’albero e la sua verticalità inducono
inoltre ad un certo messianismo, dovuto al richiamo al legno della croce cristiana: l’albero «non sacrifica e non implica alcuna minaccia, esso è sacrificato, legno bruciato del sacrificio, sempre benefico anche quando serve al supplizio» (Durand, 1972, pp. 340 – 348). Così come l’albero svolge per diverse
culture la funzione di sostenitore del mondo, Yggdrasil, come già precedentemente accennato, ne sostiene nove, nati dal corpo del gigante Ymir, dal cui
sangue si formò l’oceano che li circonda e dal cui cranio fu ricavata la volta ce leste. I nove mondi vengono citati nella Völuspá ed indicano nove regioni diverse nell’universo. Sebbene l’argomento sia ancora oggi oggetto di discussione, è possibile, secondo alcuni, disporli come segue: vi è Miðgarð, dimora degli uomini; Asaheimr, dove risiedono gli Æsir e dov’è collocata la città di Ásgarðr; Vanaheimr, la terra dei Vani; Jǫtunheimr, regno dei giganti (jǫtnar) posto ai
confini del mondo in Útgarðr, il recinto ricavato dalle ciglia di Ymir, che lo separa dal Miðgarðr; Álfheimr, dove vivono gli elfi chiari (ljósálfar); Niflheimr, uno
dei mondi più antichi, in origine facente parte del Ginnungagap45, patria dei giganti di ghiaccio, da cui hanno origine il gelo e tutte le cose temibili; Múspellsheimr, regno del fuoco e dimora dei giganti di fuoco, faceva anch’esso parte
del Ginnungagaped è sorvegliato dal guardiano Surtr, che guiderà i giganti nel
giorno di Ragnarökr; Hel, una sorta di limbo nel quale dimorano le anime di
coloro che non muoiono in battaglia e che si trova nella zona più profonda dell’universo ove albergano gelo, pioggia, umidità e nebbie. Al di sotto si trova Niflhel46, ove si dirigono le anime dei malvagi (www.bifrost.it).
45Il Ginnungagap viene nominato per la prima volta nell’Edda Poetica come composto il cui significato è “il baratro era spalancato”. Il Ginnungagap è infatti la voragine dei tempi primordiale, paragonabile al vuoto che precedette la creazione del mondo (www.bifrost.it)
46Da notare la somiglianza fra Hel e la traduzione dell'inferno cristiano in inglese (Hell).
Va notato che, parallelamente a quanto accadde con le divinità celtiche, anche
quelle anglosassoni vennero sottoposte dai latini ad un processo di equiparazione che vede il dio Marte accostato al dio Tiu, Mercurio a Wotan, Giove a
Donar/Thor, Venere a Freya. Tale accostamento sopravvive ancora oggi nei
nomi della settimana con le coppie martedì – Tuesday, mercoledì – Wednesday, giovedì – Thursday, venerdì – Friday. Vi erano inoltre sacerdoti e, soprattutto, sacerdotesse le cui capacità principali erano legate ai presagi e alla
chiaroveggenza47 (Wolfram, 2005, p. 65). Era usanza diffusa, infatti, quella di
offrire un sacrificio agli dèi a scopi divinatori, per conoscere le sorti delle battaglie. Il rito si svolgeva tre volte l’anno: il 14 ottobre (vetr – nætr), il 14 gennaio
ed all’inizio dell’estate, nei momenti legati alla vita contadina come la semina
ed il raccolto (Chiesa Isnardi, 1977, pp. 64-65).
3.1.2 L’influsso del Cristianesimo
La conversione degli Anglosassoni in Inghilterra cominciò alla fine del VI
secolo grazie all’opera di Sant’Agostino, inviato da Papa Gregorio nel 597 d.C.
47Non a caso Völuspá (La profezia della veggente) è il primo e più famoso poema dell'Edda
Poetica, dove la figura della Veggente è di centrale importanza: ella annuncia il Mito della
Creazione, seguito dal Ragnarökr.
per diffondere il Vangelo e reclamare i territori appartenuti precedentemente
all’impero romano. L’influsso della Chiesa ebbe un forte peso sull’isola e sulla
sua civilizzazione, in particolare incoraggiò la fusione delle culture pagane con
quelle romane (www.britannia.com). Il documento più antico che testimonia il
periodo di transizione e di commistione tra paganesimo e cristianesimo, nonché primo poema della letteratura inglese è Beowulf, il cui manoscritto anonimo, chiamato Cotton Vitellius, viene datato al X secolo (Sanders, 2001, p. 26)
e descrive le gesta di Beowulf, leggendario eroe dei Geati, che si scontrò ed
uccise i mostri che affliggevano la Danimarca di Re Hrotgar, Grendel e la di lui
madre, entrambi discendenti dalla stirpe di Caino dalla quale sono nati i demoni. Divenuto re dei Geati, fronteggiò infine il Drago sconfiggendolo, ma rimanendo ucciso nello scontro per un colpo del corno velenoso della bestia 48. Il
documento testimonia evidenti commistioni tra usanze e valori pagani da una
parte e cosmologia cristiana49 dall’altra. Sono rintracciabili anche diverse sovrapposizioni tra i due mondi in questione, derivate probabilmente dalla confusione mentale dei primi anglosassoni che «entrarono in contatto col cristianesimo, col Sermone della Montagna, con la teologia cattolica e con le idee di
paradiso e di inferno. Vediamo la differenza mettendo a confronto le componenti più selvagge – l’elemento proprio del racconto popolare – di Beowulf con
le componenti più selvagge di Omero. Prendiamo come esempio il racconto di
Odisseo e del Ciclope, lo stratagemma di Nessuno. […] Polifemo, divorando i
suoi ospiti, agisce in maniera odiosa a Zeus e agli altri dèi; e tuttavia il Ciclope
è egli stesso di stirpe divina e gode della divina protezione […]. I giganteschi
nemici con cui s’incontra Beowulf vengono invece identificati come i nemici di
Dio. A Grendel e al Drago ci si riferisce continuamente ricorrendo a un linguaggio che richiama le potenze dell’oscurità dalle quali si sentono circondati i cristiani» (Tolkien, 2000, p. 47). Dunque i mostri sono diventati avversari di Dio
poiché simboleggianti le potenze del male, sebbene la loro appartenenza sia
confinata al mondo materiale e alla sua conseguente mortalità: una fusione in
48A testimonianza della commistione tra cosmologia norrena e anglosassone, Beowulf subirà
la stessa sorte del dio Thor, il quale, durante il Ragnarökr, ucciderà il gigantesco Miðgarðsorm, il serpente di Miðgarðr, rimanendo ucciso a sua volta dal veleno di quest’ultimo.
49L’opera va anche guardata con occhio critico, poiché bisogna tenere in conto i rimaneggiamenti operati dagli amanuensi cristiani che l’hanno trascritta (Sanders, 2001, p.26).
cui il “vecchio” mondo pagano e il “nuovo” mondo cristiano si incontrano, fondendosi alla perfezione (Tolkien, 2000, p. 49). Un altro elemento al quale si è
già accennato nel capitolo 2 e che rappresenta uno degli elementi più importanti derivati da tale fusione è il coraggio nordico, la “fede nella volontà inflessibile”, «un’esultante stravaganza bellica che li rende più simili (gli dèi del
nord, ndr) ai Titani che agli Olimpi; solo, essi stanno dalla parte giusta sebbene non si tratti della parte che vince» (Tolkien, 2000, p. 49). La sconfitta poteva dunque colpire anche gli dèi, i quali scelsero gli uomini quali loro alleati poiché in grado, quando davvero eroici, di condividere appieno “un’assoluta resistenza senza speranza”, e di sostenere con loro l’ultima difesa: gli dèi, così
come gli uomini, possono morire ma a loro, a differenza di quanto accade con
i mostri, è concessa l’onore della morte in battaglia, una morte coraggiosa e
derivata da una precisa scelta, dalla nuda volontà. L’influsso del Cristianesimo
su tale concezione comportò un semplice “cambio di prospettive” piuttosto che
un annientamento ed una cancellazione delle tradizioni autoctone: alla concezione dell’uomo che viene comunque sconfitto dalla morte e dai mostri che la
rappresentano, della disperazione che deriva da tale condizione viene accostato il solo Dio, l’eterno condottiero della nuova era che premia il coraggio e
la lealtà (Tolkien, 2000, p. 52 - 57). Infine, va sottolineata la diretta correlazione con la Scrittura e la concezione dei mostri come figli della discendenza di
Caino come progenitore della razza: il Caino di origine biblica è connesso con
gli eotenas(i giganti) e gli ylfe (gli elfi)50 che equivalgono agli stessi giganti ed
elfi (jötnared álfnar)del mondo norreno; al lato opposto troviamo una forte mescolanza tra paganesimo e cristianesimo nella figura di re Hrotgar, il quale
possiede virtù proprie della religione cristiana come la pietas e la nobiltà nel
suo ruolo di folceshyrde, di “pastore del popolo”, che tuttavia cadde preda dell’idolatria in quanto appartenente ad un’epoca antecedente alla cristianità. Virtù più attinenti alla materia tradizionale britannica sono invece i tratti principali
di Beowulf: un hæleð(eroe) che fece uso del dono del mægen51(grande forza)
50Cfr. Beowulf verso 112
51Cfr. Beowulf verso 1534
per procurarsi dom52e lof53(gloria e fama durevole) fra gli uomini e i loro discendenti (Tolkien, 2000, pp.57-59).
3.2. Fonti letterarie
L’aver illustrato la cosmologia e le usanze dell’Inghilterra pre e proto cristiana
è servito per poter passare ad analizzare le fonti di cui Tolkien si è servito per
creare la “sua” mitologia e i suoi personaggi, oltre che per poter individuare ed
analizzare i vari elementi mitologici presenti all’interno di questo corpus. Le
fonti utilizzate, infatti, si presentano come un insieme piuttosto eterogeneo che
rielabora diverse mitologie e che spazia dai poemi e dalle saghe islandesi al
cristianesimo, al cattolicesimo e al manicheismo, che va dal Kalevala alla saga
dei Völsungar, accostando dunque al mito diverse fonti letterarie.
3.2.1. L’Edda in prosa, l’ Edda antica, la saga dei Völsungar e Beowulf
Un considerevole contributo alla creazione dell’universo di Arda è stato
dato dalla mitologia islandese, in particolare dalle già citate saghe riportate
nell’ Edda in prosa di Snorri Sturluson e nell’Edda antica o Edda Maggiore o
Poetica, contenente il poema Völuspá, noto anche come La profezia della
Veggente. Il termine Edda significa “ava”, “antenata” o “bisnonna” e dunque il
titolo avrebbe il senso di “storie raccontate dall'antenata, storie dei tempi della
bisnonna” (www.bifrost.it). L’Edda, sia quella in prosa che quella antica, stimolò parecchio l’immaginazione di Tolkien, il quale se ne servì per conferire alle
sue opere la «sensazione di un mito vibrante, un sentimento di misterioso timore nella sua rappresentazione dell’universo pagano» (Carpenter, 2002, p.
99), inoltre, parecchi dei nomi nanici furono estrapolati da queste opere. L’Edda in prosa e l’Edda poetica meritano una piccola digressione in quanto costituiscono il repertorio reperibile più importante sulla mitologia norrena e germanica (www.bifrost.it). La prima fu concepita come un manuale di arte scaldica 54
e, solo in secondo luogo, un trattato di mitologia norrena ma, dato il numero di
racconti sulla cosmogonia e sulla mitologia che venivano considerati materiali
52Cfr. Beowulf verso 1491
53Cfr. Beowulf verso 1536
54La poesia scaldica è un tipo di poesia di solito composto per omaggiare un re, dal verso e
dalla metrica complicata (www.bifrost.it).
irrinunciabili per lo skáld, nella prospettiva del lettore moderno è spesso capitato di fraintendere l’opera considerandola essenzialmente un trattato di mitologia; ciò è dovuto al fatto che, sotto l’influenza della filologia ottocentesca, le
moderne traduzioni abbiano tralasciato le informazioni sulla poesia scaldica
(www.bifrost.it). Snorri Sturluson, autore dell’Edda in prosa, attinse parecchio
materiale dall’ Edda poetica (Ljóða Edda). Il manoscritto è contenuto nel Codex Regius ed è suddiviso in due parti: la prima è composta da dieci poemi
mitologici, la seconda da diciannove poemi di argomento eroico. Il primo di tutti i poemi mitologici è Völuspá o Profezia della Veggente, che narra la storia
del mondo fino alla sua fine al Ragnarökr. Opera di un anonimo poeta islande se ancora legato al paganesimo, la Völuspá si configura come la visione di
una völva, una profetessa evocata da Óðinn, affinché potesse rivelargli la sapienza e i destini del mondo. La Veggente racconta la creazione dell'universo,
di una remota età dell'oro e della guerra che oppose gli Æsir ai Vanir, narra
della morte di Baldr, descrive Yggdrasil e i nove mondi da lui sorretti, per concludersi con l’apocalittica visione del Ragnarökr (www.bifrost.it). La Völuspá è
stata utilizzata da Tolkien per trarne i nomi che avrebbe dato ai nani e a molti
altri personaggi delle sue opere, servendosi delle stanze 9-16 del poema
(www.bifrost.it). Come già accennato55, alcuni, come Oin e Balin, sono stati
creati dall'autore per confermare i vincoli di parentela con altri personaggi che
invece prendono il nome dalla Völuspá. Un altro documento contenuto nel Codex Regius e da cui Tolkien trasse parecchia ispirazione per la creazione dell’anello e del personaggio di Smeagle - Gollum, è la saga dei Völsungar che
lui recitava durante gli incontri del TCBS (Carpenter, 2002, p.78). La saga dei
Völsungar narra le gesta dell’eroe Sigurd, lo sterminatore del Drago 56, e delle
origini del clan Völsungar. La leggenda narra che Fáfnir, padre di Sigurd, era
uno dei figli di Hreidmar, re dei nani e i suoi fratelli erano Otr e Reginn. Per un
55Cfr. paragrafo 2.2.1.
56La saga dei Völsungar, come molte altre saghe dello stesso periodo, servì per nobilitare una
stirpe ed in questo caso narra le origini dell’omonimo clan, che fa risalire la propria origine divina all’eroe Sigurd (italianizzato in Sigfrido), protagonista di numerose altre saghe del Nord Europa tra cui la Saga del Nibelungo e il poema epico Nibelungenlied e ripreso nell’opera L’anello del Nibelungo di Wagner.
errore il dio Loki uccise Otr e dato il caro prezzo del guidrigildo 57, diede a
Hreidmar un anello magico, Andvaranautr 58, in grado di produrre oro. Spinti
dall’avidità i due fratelli assassinarono il padre ma Fáfnir tenne l’anello solo
per se. La maledizione dell’anello lo tramutò in drago (o serpe), simbolo del
male e dell’avidità, costringendolo a vivere da solo nella foresta, a guardia del
suo tesoro. Venne ucciso da Sigurd, il quale, dopo averlo decapitato con la
spada Gramr59, ne cucinerà il cuore per servirlo a Reginn, divenuto padre
adottivo del giovane guerriero. Ma Sigurd, scottandosi con il cuore, ne assaggiò il sangue e divenne così in grado di comprendere il linguaggio degli anima li60: apprese così del tradimento di Reginn, il quale intendeva fare in modo che
Sigurd uccidesse il suo vero padre, e l’uccise (Byock, 2005, pp.65-66). È evidente come il personaggio di Gollum, corroso dall’anello al quale è profondamente devoto, tragga parecchio humus dalla leggenda di Fáfnir: dal modo in
cui l’anello, nell’uno e nell’altro caso, perviene fino alla caduta finale. L’anello
dell’opera tolkeniana stesso presenta parecchie similitudini con quello della
saga dei Völsungar: entrambi gli anelli possiedono un grande potere ma sono
legati ad un unico proprietario (Sauron e Andvari) ed entrambi conducono i
propri portatori alla caduta o alla disfatta. Infine anche il personaggio di Smaug
ne Lo Hobbit ricorda molto quello di Fáfnir, anch’egli a guardia di un preziosissimo tesoro. A testimoniare le antiche origini di questa saga vi sono le cosiddette Pietre di Sigfrido, un gruppo di pietre con incisioni runiche più una pietra
scolpita con sole immagini (la cosiddetta “scultura di Ramsund”) rinvenute in
57Il guidrigildo è, nell’antico diritto germanico, il prezzo che l’uccisore di un uomo libero doveva pagare alla famiglia dell’ucciso, per riscattarsi dalla vendetta. In origine il pagamento consi steva in uno o più capi di bestiame ma più tardi fu valutato in denaro in base al grado sociale
dell’offeso. Venne sostituito già dal XIV secolo dall’azione dell’autorità e delle pene pubbliche
(www.treccani.it)
58Andvaranautr era posseduto inizialmente dal nano Andvari, uno dei nani creati all’inizio dei
tempi. Loki lo ingannò e ne trafugò i tesori, fra cui Andvanautr. Per vendetta Andvari maledisse
l'anello, che da quel momento in poi avrebbe portato distruzione per il suo possessore. Per
questo Loki lo cedette ad Hreidmar, il quale morì poco dopo. La disgrazia, in seguito, si abbatté anche su Fáfnir (Chiesa Isnardi, 1991, p.79) .
59Come Narsil, la spada che Aragorn impugnò contro Sauron e che andò distrutta durante lo
scontro che questi ebbe contro Elendil, anche Gramr andò in frantumi nello scontro contro
Óðinn e fu riforgiata, divenendo ancora più potente (Orchard, 1997, pp. 59-60).
60Nella mitologia norrena, i draghi avevano la facoltà di comprendere tutte le lingue esistenti,
facoltà utilizzata per ingannare tutti gli esseri viventi (Byock, 2005, p. 65-66).
diversi luoghi della Svezia: Uppland, Södermanland, Gästrikland, Bohuslän e
Gotland, le cui iniziali sono state utilizzate per catalogare i reperti. Riportano
episodi della leggenda di Sigurd e furono realizzate durante l'era vichinga.
Rappresentano la più antica testimonianza norrena, oltre che della saga dei
Völsungar, del Nibelungenlied e della leggenda di Sigurd nell’Edda poetica.
Data la scarsa quantità di documenti scritti risalenti all’epoca medievale in
Scandinavia, questi reperti rappresentano un importante patrimonio per quel
che riguarda «lo sviluppo della lingua e della poesia, dei costumi, dei nomi dei
luoghi e della comunicazione, della cultura dei vichinghi e della cristianizzazione» (Birgit, 2000, p.3). Di seguito alcune immagini.
Infine, sono molti i testi della letteratura medievale inglese a cui Tolkien si ispirò come Sir Gawain and the Green Knight, Pearl e i testi del ciclo arturiano
(Carpenter, 2002, p.68) ma il più importante di tutti (e, forse, il più amato dal
professore) è Beowulf, di cui si è già parlato. Per la storia di Túrin usò l’equivalente moderno della metrica allitterativa del poema (Carpenter, 2002, p.150) e
l’episodio del drago a guardia del calice fu utilizzato per costruire la figura di
Smaug ne Lo Hobbit ma la sensazione che pervade le opere “maggiori”, Il Silmarillion e Il Signore degli Anelli è quella “assoluta resistenza senza speranza”
e quel coraggio nordico, i quali conducono gli eroi a mettersi in gioco senza alcuna certezza su quelle che sarà la sorte del proprio mondo, minacciato dal
Male: lo stesso male che affliggeva la reggia di Heorot e che si incarnava nella
progenie di Caino.
3.2.2. Un caso simile: Il Kalevala
Fu durante il periodo scolastico, quando era un Prefect61, che Tolkien conobbe il Kalevala62 o Terra degli eroi nella traduzione di W.H. Kirby, la raccolta
di poemi che riporta i principali episodi mitologici della cultura finnica. Poco
dopo, ne scrisse con entusiasmo parlando «di questo “strano popolo e questi
nuovi dèi, questa razza di eroi scandalosi, genuini, non ipocriti”, aggiungendo :
“Più leggo questi poemi più mi sento a casa e mi diverto”» (Carpenter, 2002,
p. 81). Da un punto di vista strettamente compositivo, il Kalevala presenta una
grande affinità con le opere di Tolkien, poiché anche questo è il risultato a posteriori del lavoro di collocazione, giustapposizione e, in alcuni casi, di rielaborazione del medico e filologo finlandese Elias Lönnrot il quale si servì dei canti
popolari e dei miti da lui stesso raccolti attraverso tutta la Carelia e la Finlandia
sud – occidentale. Kalevala si presenta dunque come un insieme di episodi
che risultano però privi di un filo conduttore che li leghi (www.bifrost.it). Tuttavia è possibile individuare tre figure principali: Väinämöinen il cantore, Ilmarinen il fabbro e Lemminkäinen l’avventuriero i quali si alternano durante la prima metà del poema, per poi comparire insieme nella seconda metà, nella spedizione alla conquista del sampo63. Semplificando, l’opera potrebbe essere
suddivisa in più cicli:
• Runot I-II: creazione del mondo
Ilmatar, figlia dell’aria, scende dal cielo per adagiarsi tra le onde del mare. Da
un uovo d’anatra che cade dal nido posto sul suo ginocchio sorgono il cielo, la
terra, il sole, la luna, le stelle e le nuvole. Ilmatar creò allora i fondali, le terre
emerse, i promontori e le montagne e dopo essere stata fecondata dal vento,
dopo una gestazione durata settecento anni da alla luce Väinämöinen, che nasce già vecchio. Arrivato sulla brulla terraferma, Väinämöinen ordina al giova-
61Il Prefect delle scuole inglesi è uno studente al quale sono state affidate la responsabilità e
una limitata autorità su altri studenti, traducibile grossomodo con l’italiano “capoclasse”.
62Letteralmente Terra di Kaleva, l’eroe nazionale progenitore della stirpe finnica (www.bifrost.it).
63Il mitico strumento creato da Ilmarinen per poter sposare la Fanciulla di Pohjola, in grado di
donare ricchezza ed abbondanza a chiunque lo possieda, descritto come un congegno fornito
di un coperchio girevole, tre bocche di mulino e tre radici: una nella terra, una nell'acqua e la
terza dentro casa (www.bifrost.it).
ne Sampsa Pellervoinen64 di piantare i primi semi, dai quali nascerà una rigogliosa vegetazione e una quercia gigante 65 che oscurò il sole e la luna e che
verrà dunque abbattuta. Väinämöinen si occupò di seminare l’orzo e le messi
e pregò per la prosperità delle genti di Kaleva.
• Runot III-X: primo ciclo di Väinämöinen
Il primo ciclo di Väinämöinen è incentrato sulla di lui sfida di canti contro Jokuhainen, un giovane cantore. Sconfitto, Jokuhainen per salvarsi dalla palude in
cui Väinämöinen lo aveva precipitato, promette la mano della sorella Aino la
quale, piuttosto che sposare un vecchio, si suicida gettandosi in mare. Accecato dal dolore per la perdita della sorella, Jokuhainen tenta di annegare Väinämöinen il quale, dopo essere stato a lungo sballottato dai flutti, viene salvato da un’aquila che lo trasporta nella terra del nord, Pohjola. Qui viene soccorso da Louhi, signora di Pohjola, la quale gli estorce la promessa di fabbricarle
il sampo. Väinämöinen promette e, tornato indietro, chiede al fabbro Ilmarinen di recarsi a Pohjola per costruire l’artefatto. Costui rifiuta ma Väinämöinen lo fa volare a Pohjola con un incantesimo e una volta giunto li, si innamora
della bellissima figlia di Louhi e per poterla sposare, la megera gli impone
come prova la costruzione del sampo. Ilmarinen costruisce il congegno, che
verrà nascosto da Louhi ma la bella fanciulla, con un pretesto, si rifiuta di lasciare Pohjola. Ilmarinen torna da solo a Kalevala.
• Runot XI-XV: primo ciclo di Lemminkäinen
Il giovane Lemminkäinen, dopo aver ripudiato la propria sposa per una promessa non mantenuta, decide di recarsi a Pohjola per cercarne un’altra, nonostante i consigli della madre. Discutono a lungo ed infine Lemminkäinen le da
64Tradotto come “Sansone, figlio del campo”, nella mitologia finlandese è il genio a guardia
della fecondità del terreno, il cui nome, secondo alcuni studiosi, è, dal punto di vista etimologico, strettamente correlato al sampo (www.bifrost.it).
65Torna qui il motivo dell’albero cosmico, al quale si è già fatto riferimento. Nel Kalevala, il motivo appare due volte: con la quercia del II runo e con il sampo stesso. Nel caso della quercia
gigante il riferimento è chiaro ma per quanto riguarda il sampo, la connotazione risulta più
oscura. Entrambi, in un certo qual modo, sorreggono l’universo ed entrambi condividono lo
stesso destino: quello di andare in frantumi. La rottura dell’asse cosmica può essere identificata con il fenomeno della precessione degli equinozi e con il susseguirsi delle ere con Väinämöinen che succede a Ilmatar, e Väinämöinen stesso che partirà da Kaleva, il cui posto verrà
preso dal Fanciullo Meraviglioso, del quale si parlerà più avanti (www.bifrost.it)
il suo pettine, affermando che se sarà ferito o ucciso, questo sanguinerà.
Giunto a destinazione, Louhi lo sottopone a varie prove: catturare l’alce di Hiisi, lo spirito malvagio delle colline, imbrigliare il cavallo di fuoco e catturare il
cigno di Tuonela, il reame dei morti. Il giovane riesce nelle imprese ma mentre tenta l’ultima viene assassinato da un sicario di Louhi, che ne smembra il
corpo, gettandolo nel fiume di Tuonela. La madre di Lemminkäinen, avendo
notato il pettine sanguinare, corre sul fiume di Tuonela, raccoglie le membra
dilaniate del figlio e, a mezzo di potenti incantesimi, le rimette insieme, restituendogli la vita66.
• Runot XVI – XVIII: secondo ciclo di Väinämöinen
Väinämöinen intende costruire una barca per tornare a Pohjola e partecipare
alla contesa per la mano della figlia di Louhi. Tuttavia, mancandogli le parole
magiche necessarie, non riesce a completare l’opera. Le otterrà sconfiggendo
l’antico gigante Antero Vipunen, dal quale riceverà il sapere.
• Runot XIX – XXV: primo ciclo di Ilmarinen (le nozze)
Ilmarinen, dopo aver superato difficili prove (l’aver arato un campo irto di vipere, l’aver catturato l’orso di Tuonela, il lupo di Manala e il luccio che nuota nel
fiume dei morti), vince la mano della fanciulla di Pohjola e torna con lei in Kalevala.
• Runot XXVI – XXX: secondo ciclo di Lemmikäinen
Resuscitato, Lemminkäinen, offeso per non essere stato invitato alle nozze
della fanciulla di Pohjola, decide di tornare a nord, sebbene la madre tenti di
dissuaderlo. Dopo aver superato gli abitanti, che gli sbarravano la strada,
Lemminkäinen sfida il signore di Pohjola, mozzandogli il capo ma Louhi schiera il suo esercito, mettendo il giovane in fuga, costringendolo a rifugiarsi su
un’isola, ma anche qui è costretto alla fuga, dopo aver sedotto numerose donne e ragazze.
• Runot XXXI – XXXV: ciclo di Kullervo
66L’assassinio, il corpo smembrato e gettato nel fiume e il risorgere trovano un evidente corri spettivo nella mitologia egizia, con il mito di Osiride.
Il ciclo di Kullervo costituisce un episodio staccato dal contesto principale. Delle vicende si tratterà più avanti.
• Runot XXXIX – XXXXIV: il furto del sampo
E’ la vicenda centrale dell’intero poema. I tre eroi salpano per recuperare il
sampo da Louhi. Durante il viaggio i tre si imbattono in un luccio gigante, Vetehinen: dalle sue mascelle Väinämöinen ne ricaverà il kantele, uno strumento a
corde, tuttora in uso e dichiarato in Finlandia “strumento nazionale”. Giunti a
Pohjola, Väinämöinen ne farà uso per addormentare tutti gli abitanti, riuscendo così a recuperare facilmente il sampo. Al suo risveglio, Louhi si accorge del
furto e schiera la sua intera flotta contro i fuggitivi. Servendosi di un incantesimo, Väinämöinen fa sorgere degli scogli dal mare, sui quali s'infrangono le
navi di Louhi. Non dandosi per vinta, Louhi utilizza i pezzi delle imbarcazioni, e
si trasforma in un enorme rapace pronta ad attaccare. Durante la lotta il sampo viene distrutto: i pezzi più grossi cadono sul fondo, alimentando così le ricchezze del mare, i più piccoli, spinti sulla spiaggia dalla risacca, verranno consegnati da Väinämöinen agli abitanti di Kalevala, contribuendone così alla ricchezza e alla prosperità.
• Runot XXXXV – XXXXIL: la vendetta di Louhi
Furiosa per il furto del sampo, la vecchia signora di Pohjola intende vendicarsi
sul popolo di Kalevala. Cerca di affliggerli con morbi e pestilenze, ma grazie
all'uso della sauna e ai canti magici di Väinämöinen vengono debellati. Invia
quindi un ferocissimo orso, che verrà ucciso. Infine tenta gettare il popolo
di Kalevala nelle tenebre spegnendo il sole e la luna. Ilmarinen prova a forgiare un nuovo sole e una nuova luna usando oro e argento, ma questi non
splendono né scaldano come quelli veri, nonostante la preziosità dei materiali.
Ukko67, il dio del cielo, fa allora cadere sulla terra una scintilla scaturita dalla
sua spada che finisce nello stomaco di un grosso pesce per venire recuperata
da Väinämöinen e Ilmarinen. I due si dirigono quindi alla ricerca del sole e della luna, trovandoli rinchiusi in una caverna, da dove li libereranno.
67Divinità suprema del pantheon finnico, Ukko è il signore del cielo e dio della folgore. nell'immagine tramandata nei canti popolari finlandesi (e ancor più estoni, dove Ukkonen è più specificatamente un dio del tuono) sembra avere ereditato molti tratti dal dio scandinavo Þórr , quale ad esempio l'uso di un martello per creare il rimbombo del tuono.
• Runo L: Storia di Marjatta
Il poema si conclude con l’apparizione di un nuovo personaggio: Marjatta, la
vergine che concepisce un bambino dopo aver ingoiato una bacca. Il bambino
viene condannato a morte dal vecchio sacerdote Virokannas, ma il neonato
inizia miracolosamente a parlare, rimproverandolo. Virokannas allora lo consacra al re di Carelia, suscitando lo sdegno di Väinämöinen, che si allontana in
barca e si reca verso il punto in cui il cielo e la terra si congiungono, preannunciando il suo ritorno il giorno in cui lo si chiamerà di nuovo. Prima di partire, fa
dono del kantele e dei suoi meravigliosi canti al popolo finnico. Il poema non
influenzò soltanto la trama delle opere di Tolkien, ma ebbe dei considerevoli
effetti anche sulla sua “inventiva linguistica”, poiché cominciò a creare un idioma personale profondamente influenzato dalla lingua finlandese: la lingua che,
in seguito, sarebbe apparsa nelle sue opere con il nome di Quenya o Alto Elfo.
Non solo, ne sottolineò l’importanza della mitologia in esso racchiuso, definendola come «il primitivo sottobosco che la letteratura europea ha tagliato, ridotto e ridisposto con diversa qualità e pienezza per molti secoli e attraverso differenti popoli» (Carpenter, 2002, p.93). Si ritrovano echi di quest’opera soprattutto ne Il Silmarillion e ne I figli di Húrin.Nel primo Eru Ilúvatar crea gli Ainur
tramite la parola e gli Ainur stessi creano il mondo tramite la musica e la parola: la stessa parola creatrice che pervade l’intero Kalevala 68, la stessa “fiamma
imperitura” di Eru Ilúvatar che trova il suo parallelismo nel dio supremo Ukko.
Nel secondo, la storia del protagonista Túrin è chiaramente ispirata alla vicenda di Kullervo, protagonista del ciclo omonimo che va dal trentunesimo al trentaseiesimo runo, secondo la sistemazione di Lönnrot. Kullervo nacque nella
casa dello zio Untamo, nella quale si ritrovò in condizione servile, a seguito
della faida da questi condotta contro il fratello, Kalervo, al quale sottrasse la
moglie, riducendola ad una schiava. Sin da piccolo, Kullervo medita vendetta
contro le genti di Untamo, dimostrando un’indole forte ed aggressiva, cosa che
68Da notare come il Kalevala si distacchi dagli altri poemi epici come quello di Omero o quelli
germanici per la materia trattata: non vi sono grandi guerrieri o epici scontri ma maghi, cantori,
fabbri, più propensi a intonare canti che a combattere (www.bifrost.it). Va comunque sottoli neato il fatto che gli antichi finni attribuissero un grande potere alla parola: lo dimostra Väinä möinen stesso, i cui incantesimi altro non sono che la semplice conseguenza del suo dominio
sulla Parola e che, per altro, lo rende simile alle figure degli aedi dell’area slava come Bojanū
(www.bifrost.it).
spingerà lo zio e la sua gente a volerlo uccidere, ma senza successo. A seguito dei falliti tentativi di omicidio, Kullervo è venduto al fabbro Ilmarinen come
custode di mandrie, ma per vendicarsi di uno scherzo malvagio fattogli dalla
moglie di costui, trasforma la mandria in un’orda di lupi e orsi che chiude nella
stalla e che la divoreranno. Fuggiasco nella foresta, incontra i genitori ed i fra telli che si erano miracolosamente salvati dallo sterminio ed in seguito, si imbatte per la strada una fanciulla che seduce e che sposa senza sapere che si
tratta della propria sorella, perduta da bambina: accadde la stessa cosa a Nienor e a Túrin, che si sposarono ignari del loro legame di sangue. Per la vergogna, così come fece Nienor che per la vergogna impazzì, la ragazza si suicida
e Kullervo, per espiare il delitto dell’incesto, muove guerra a Untamo, disobbedendo ai consigli dei genitori. Al ritorno, Kullervo trova i parenti sterminati. Decide allora di togliersi la vita, gettandosi sulla sua spada (www.bifrost.it), esattamente come fece Túrin. Il lavoro di raccolta svolto da Lönnrot va oltre la
semplice composizione del Kalevala e si colloca come un importante contributo agli studi folklorici dell’Ottocento: a lui si devono, oltre alla composizione del
poema, numerose raccolte dei canti tradizionali del popolo finnico dai titoli
Kantele, taikka Suomen kansan sekä vanhoja että nykysempiä runoja ja lauluj69, Runokokous Väinämöisestä70, Kanteletar, taikka Suomen kansan vanhoja
lauluja ja virsiä71, ed infine, le interessanti raccolte dei 7077 proverbi in versi intitolata Suomen kansan sanalaskuja72 e degli enigmi ed indovinelli finlandesi
ed estoni intitolata Suomen kansan arvoituksia73. Vanno annoverate anche le
registrazioni dei canti dei laulajat ed in particolare quelli recitati da Arhippa
Perttunen, il più celebre tra tutti i laulajat, il quale fornì a Lönnrot ben quattromila versi narrati nell’arco di due o tre giorni. Il materiale fornito da Perttunen
era di ottima qualità e recitato in maniera impeccabile: molti dei canti da lui
eseguiti, che formavano dei piccoli cicli, giungevano del tutto nuovi all’orecchio
69“Kantele, ossia poesie e canti vecchi e nuovi del popolo finnico”.
70“Raccolta di canti su Väinämöinen”.
71“Kanteletar, ossia i vecchi canti e le canzoni del popolo finnico”.
72“Proverbi del popolo finnico”.
73“Enigmi del popolo finnico”
di Lönnrot, il quale riconobbe il considerevole patrimonio fornitogli (www.bifrost.it). L’antica e ormai scomparsa tradizione dei laulajat (dal finlandese
“laulaa”, che significa “cantare”), trova ampi riscontri nella caratterizzazione
dei personaggi del Kalevala e trova difficilmente un corrispettivo all’interno delle altre tradizioni europee: rapsodi nati da una società elementare e popolare
che li ha resi quanto mai lontani dall’ideale di poeti di classe o di professione, i
quali tramandavano il loro repertorio di canti o runot secondo usanze antichissime. I laulajat intonavano i propri runot con un metodo di esecuzione particolarissimo: secondo quanto riporta Lönnrot, essi sedevano vicinissimi, solitamente l’uno di fronte all’altro e tenevano le mani intrecciate, dondolandosi con
movimenti ritmici. Quindi il primo, solitamente il più stimato per abilità, competenza ed età, inizia ad intonare un verso, fino al terzo piede o alla terzultima
sillaba. Il compagno riprende il verso cantato, con un tono leggermente variato
finché giunge a sua volta al terzo piede o alla terzultima sillaba del verso. Il
compagno riprende, e così via, fino alla fine del canto. L’intervallo di tempo in
cui il primo laulaja tace serve a questi per poter ricordare il verso successivo
od improvvisarlo. I due laulajat venivano solitamente accompagnati dal suono
del kantele. Väinämöinen era in grado di incantare con le melodie del kantele
tutti gli esseri e gli elementi della natura, conferendo allo strumento una connotazione magica, se non addirittura sacra. Lo strumento aveva il compito di
accentuare le caratteristiche ritmiche dell’esecuzione, creando una specie di
rapimento estatico simile a quello creato dal tamburo per alcune comunità
sciamaniche (www.bifrost.it).
Va infine notato come Lönnrot abbia inserito all’interno del Kalevala, un gran
numero di incantesimi e scongiuri, rendendola così una delle poche fonti che
riescano a fornire un quadro delle pratiche magiche degli antichi Finni. Vi sono
scongiuri per placare i serpenti (runot XIX – XXVI), contro il freddo e gli stregoni (runo XXX), per ammonire l'orso (runo XXXII), per calmare le onde e i venti (runo XLII), per guarire dalle malattie (runo XLV) e dalle ustioni (runo XLVIII).
Vi sono inoltre anche alcuni canti nunziali che costituivano il vademecum della
giovane sposa: vi spiccano lunghe sequenze di consigli prematrimoniali nelle
quali le vengono illustrati i doveri domestici che l’attendono a casa nei confronti del marito e, soprattutto, dei suoceri (runot XX-XXIV).
3.2.2.1. La religione presso gli antichi finni
Il problema maggiore che affligge la conoscenza della religione degli antichi
finni sta nell’affidabilità delle fonti, dato che i primi documenti letterari sono sta-
ti tardamente redatti e alcuni risalgono addirittura all’epoca cristiana, come il
cosiddetto Canone di Agricola74, un documento posto a prefazione della traduzione di 150 dei Salmi dell’Antico Testamento, che contiene l’elenco delle divinità adorate dai finni prima dell’avvento del Cristianesimo le quali vengono localizzate soprattutto nella provincia di Häme e nella Carelia (www.bifrost.it).
Un valido contributo è stato fornito dal lavoro dei folkloristi ( il De poësi Fennica di Henrik Gabriel Porthan, il quale collaborò anche con Kristian Erik Lencqvist nella stesura del suo De superstitione veterum Fennorum theoretica et
pratica, la Mythologia fennica di Christfried Ganander, le raccolte di ballate popolari di Zachrias Topelius il “vecchio”, ecc.) e dalle loro raccolte di canti popolari, sebbene queste si presentino frammentarie e non prive di alterazioni impiantate dagli ultimi laulajat. L’analisi dei testi ha permesso però di epurare
questi documenti, permettendo di recuperarne il contenuto e di rilevare così i
comportamenti cultuali e le rappresentazioni mitologiche di queste popolazioni. Queste vengono ripartiti in quattro gruppi linguistici: ugrofinnici, altaici, paleosiberiani e paleoartici (www.bifrost.it). Questi popoli ritengono che tutte le
cose esistenti dispongano di una o più anime sotto l’aspetto di uno spirito-signore, siano esse cose, animali, piante o esseri umani, animati o inerti: caratteristica, questa, che si riflette nella lingua, la quale non è provvista di un genere, ad esclusione di quello grammaticale che agisce tramite suffissi e particelle per distinguere nomi che si riferiscono ad un essere femminile o maschile (Marazzi, 1984, pp. 10-11). Le divinità del pantheon finlandese che vengono
invocate nel Kalevala hanno davvero poco in comune con i titanici dei del pantheon norreno, germanico o greco: vivono in armonia con la natura che li circonda e sembrano aver instaurato con gli umani un rapporto di reciproco rispetto. Sono effettivamente simili agli spiriti-guardiani dei popoli nord-euroasiatici, che gli sciamani cercano ancora oggi di ingraziarsi con offerte, preghiere e piccoli doni, affinché si prendano cura di chi li invoca, fornendo primizie o
cacciagione Molti canti magici del Kalevala possono essere agevolmente confrontati con le invocazioni sciamaniche raccolte nell'area uralico-siberiana
(Comparetti, 1891, pp. 113-114). Secondo l’idea finnica, ogni cosa ha il pro74Mikael Agricola è stato il primo a tradurre il Nuovo Testamento, inaugurando ufficialmente la
lingua finlandese.
prio haltiat (da hallita , “governare”), il proprio spirito – signore. Quasi tutte le
divinità che compaiono nel Kalevala sono spiriti custodi degli elementi della
natura, del bosco, del mare o del cielo. La tajga, ad esempio, è la dimora
di Tapio, e le foreste assumono l'epiteto poetico di Tapiola. La sua consorte
è Mielikki, spesso invocata dai cacciatori. Loro figli sono Nyyrikki, il quale provvede a rendere praticabili le paludi in modo che le mandrie che si recano al
pascolo possano attraversarle, e Tellervo, patrona dei cacciatori. La figura di
Tapio trova diversi corrispettivi presso numerosi popoli uraloaltaici: gli Altaiani
(Teleuti), ad esempio, si rivolgono a Tayġa Tös, il signore delle foreste, perché
decreti loro successo nella caccia. Anche gli Jacuti riconoscono un signore dei
boschi, chiamato Bāy Bayanay al quale, con i suoi fratelli e sorelle, è legato
tutto quanto riguarda la forza e il rigoglio della vita (Marazzi, 1984, pp. 1-43).
Questa classe di personaggi ha inciso profondamente nel folklore slavo, producendo la figura del lešij, lo spirito che vive nel profondo dei boschi, e che
nelle fiabe russe, ha dato vita al boscaiolo Dubynja (Giansanti, 2008).Come
già accennato, ogni regno ha il proprio signore. Spirito-signore dell'elemento li quido è Ahto, da cui il regno sottomarino prende l'epiteto poetico di Ahtola. La
sua sposa è la benigna Vellamo e dalla loro unione provengono gli Ahtolaiset che dominano fiumi, laghi, sorgenti e cascate. Tra gli spiriti acquatici presenti nella cosmologia finnica è possibile ravvisare elementi provenienti dall’area uralico – siberiana ma anche dei legami con la tradizione slava e germanica: per esempio, il mostruoso Vetehinen può essere confrontato con lo spirito
russo delle acque, il vodjanoj. E ancora, in alcune ballate del ciclo di Novgorod, la vicenda del mercante Sadko che, disceso nei reami sottomarini, incanta lo zar del mare con le melodie suonate sulla sua gusli richiama l'episodio,
del quarantaduesimo runo del Kalevala, in cui Ahto s'impadronisce dei frammenti del kantele di Väinämöinen, e li trattiene per la gioia del suo popolo (Giansanti, 2008). Ukko è il dio supremo del pantheon finnico: nonostante
questo, più che una divinità uranica, cioè legata al cielo e alla natura celeste,
si tratta di una divinità legata agli eventi metereologici e che, per molti tratti, richiama il dio scandinavo Þórr , sia a causa del legame etimologico, come sostengono alcuni, dell’epiteto Öku-Þórr attribuito al dio scandinavo, sia perché
entrambi usano un martello per creare il rombo del tuono. Ukko viene invocato
anche, nel Kalevala, con il nome di Jumala 75, che significa “paese del cielo”:
una rappresentazione caratteristica dei popoli dell'Asia settentrionale e centrale, che condividono tutti un culto del cielo, inteso in primis nel puro aspetto
uranico, e poi come un dio supremo che finisce con l’identificarsi col cielo
stesso. I nomi dati a questa divinità celeste sono diversi: i popoli di lingua turco-altaica lo chiamano Tengri76, presso i Čeremissi si chiama Jumē,“cielo”.
L’appellativo più frequente presso i Samoiedi, gli Ostiachi e i Voguli è Nūm-tūrem, “l'alto”. Per gli Ostiachi dell'Irtyš, è Sänke, “il luminoso”. Presso i Tungusi
si usa il nome Buga , “cielo”, “mondo”. Per i mongoli è Kögö Moŋko, “cielo azzurro”. È Tängärä Qayraqan,“supremo qan del cielo” presso i Turchi sud-siberiani. Questi ultimi conoscono anche, tra le maggiori divinità celesti, Bay Ülgän, “grande ricco” e Yalqïn Ǟzi, “signore della fiamma”, dominatore del fulmine, le cui invocazioni contengono immagini non dissimili da quelle fornite
nel Kalevala per Ukko (Giansanti,2008). Ukko viene frequentemente invocato
e, solitamente, risponde dimostrandosi attento alle preghiere a lui rivolte:
quando Louhi rubò il fuoco, restituì la scintilla di luce al sole e alla luna facendola colare dalla sua spada, oppure quando Lemminkäinen cercò di catturare
il cavallo di fuoco, andò in suo aiuto. A differenza degli dèi greci o germanici,
non è onnipotente: per esempio, si è dimostrato impotente quando Väinämöinen lo implora di fermare l'emorragia dalla ferita che si è inferta sul ginocchio
con l'ascia, ma la guarigione non sarà possibile finché il cantore stesso non ricostruirà l'origine del ferro. Anche il sole (päivä) e la luna (kuu) sono ugualmente personificati, e hanno figli e figlie. Importante per completare la visione
del mondo dei finni è il regno di Tuoni o Mana, da cui l’epiteto Tuonela o Manala. Tuoni viene rappresentato come un vecchio inflessibile, dalle unghie di
ferro e dal cappello calcato fin sulle spalle e che trova il suo corrispettivo nell’
Ärlik Qan delle concezioni altaiche. La sua consorte è Tuonetar che nel Kalevala viene ironicamente chiamata “buona signora” (hyvää emäntä), ed era solita cucinare ai morti un rancio a base di lucertole, serpenti e rospi. Secondo
quanto riporta Agricola, il culto dei morti era ampiamente sviluppato presso gli
75In finlandese moderno, questo termine indica il Dio cristiano.
76Esistono anche numerose varianti locali: Tängärä tra Tatari e Teleuti, Tangir tra i Beltiri, Taŋara tra gli Jacuti, Tura tra i Čuvaši, Tŋri presso i Mongoli, Teŋeri presso i Buriati).
antichi finni, ma i riti e i costumi funebri sono state solamente ricostruiti dagli
antropologi. Secondo gli studi folklorici, pare che i Finni credessero che gli spiriti dei morti rimanessero nelle tombe – il cui dominio apparteneva a Kalma,
dio della morte – fino alla completa disintegrazione dei corpi. Liberatesi, le anime si imbarcavano lungo il fiume che conduceva al Tuonela. Lo stesso Väinämöinen dovette imbarcarsi per l’aldilà e in questo modo il suo viaggio ricorda
le catabasi degli sciamani siberiani, i quali, calandosi nei mondi ipoctoni, dovevano superare paurosi ostacoli, prima di arrivare al cospetto di Ärlik Qan e dei
suoi tremendi figli (Marazzi, 1984, pp. 182-187).
3.2.3. La Bibbia e il Cristianesimo
Uno degli influssi più evidenti che è possibile riscontrare nel corpus mitopoietico tolkeniano è sicuramente quello che deriva dalla Bibbia e dal Cristianesimo. Alcuni hanno riflettuto sulla relazione presente tra il Tolkien scrittore e la
sua fede cristiana e hanno rilevato un mondo in cui l’adorazione di Dio risulta
assente: sebbene l’adorazione di una divinità non sia evidente e non esistano
luoghi di culto77 ad eccezione di quello costruito a Morgoth a Númenor dove si
tenevano sacrifici umani (Manni, 2002, p. 222), sarebbe errato affermare che
non sia presente un Dio (in modo più esplicito ne Il Silmarillion); nessuno nomina o prega mai l’Unico (Eru Ilúvatar) 78 ma è anche vero che con la sua figura insieme a quelle dei Valar e dei Maiar, Tolkien ricalca quelle del Dio cristia no e della sua schiera di angeli 79 ed inoltre, in un certo qual modo, rievoca con
la figura degli elfi la condizione dell’uomo prima della Caduta (Carpenter,
2002, pp. 133 – 134). Chiari sono i riferimenti alle virtù proprie della religione
cristiana (Fides, Spes e Caritas) e che si riscontrano in diversi personaggi
come Gandalf, Frodo, Sam e nella loro fiducia in un provvidenziale Destino
77Chiaro riferimento alla religiosità di Israele dal tempo di Abramo a quello di Davide, durante
il quale non vennero edificati templi per Jahvè in virtù del fatto che il rapporto religioso non avvertiva il bisogno di essere “vincolante e vincolato” attraverso il culto, grazie alla speranza nu trita dal popolo verso di lui (Manni, 2002, p. 222).
78E’ interessante notare come nelle religioni abramitiche sia presente il comandamento religioso “non nominare il nome di Dio invano”: nell’universo tolkeniano «sembra che in qualsiasi
situazione lo si nominerebbe invano, e dunque non lo si nomina mai» (Manni, 2002, p. 216).
79Un elemento di originalità che coniuga monoteismo e politeismo è la presenza tangibile delle “intelligenze angeliche” in Arda le quali sono soltanto esecutrici della volontà divina e sono
profondamente legati alla realtà terrena a causa della loro scelta di risiedere nel mondo (Manni, 2002, p. 233).
trascendente, unitario e sensato, profondamente diverso dal Caos mentre all’opposto opposto troviamo figure come Denethor e Gollum che si ribellano al
Destino e che cadono (Manni, 2002, p. 211). A questo punto è necessario inserire la visione Manichea ed Agostiniana dei concetti di Bene e Male: Manichea in quanto il Bene ed il Male sono due forze uguali e contrarie dal cui
scontro si configura l’universo così come ci appare, imprescindibili l’una dall’altra e che si concretizza nell’opposizione dei personaggi come Frodo / Gollum,
Gandalf / Saruman, Galadriel / Shelob, Theoden / Denethor, Faramir / Boromir,
Hama / Grima. Uno sguardo più attento può però notare come il Male possa
recare con se un briciolo di Bene e viceversa (come accade esemplarmente
nel caso di Gollum) in una visione Agostiniana del mondo 80. Ciò non prevede il
dominio di una visione sull’altra: piuttosto queste si completano poiché le opposizioni tra i personaggi non si risolvono mai con il confronto o l’annullamento
reciproco degli avversari (ad eccezione della coppia Frodo / Gollum) e, effettivamente, il Male non è visto che come decadimento del bene: gli Orchi non
sono altri che elfi corrotti da Melkor Morgoth, così come i Cavalieri Neri, il Balrog, lo Spettro dei Tumuli e lo stesso Sauron. Inoltre una concezione prettamente agostiniana dell’universo di Arda negherebbe qualsiasi possibilità dell’esistenza del libero arbitrio, il quale si presenta invece vero e tangibile, testimoniato dal fatto che il Male potrebbe realmente trionfare (Manni, 2002, pp. 210213).
80Il mondo, secondo la dottrina delle Idee di Sant’Agostino, non possiederebbe il male ma soltanto "assenza", privazione, allontanamento e decadimento del Bene, imputabile unicamente
alla fallacità dell’uomo.
Capitolo 4
Analisi delle figure ricorrenti
Il precedente capitolo è stato d’aiuto nell’analizzare le fonti, scritte ed orali,
che sono state necessarie per creare quell’humus fertile sul quale è nata Arda
con i suoi personaggi e le sue vicende. E’ stato possibile evincere, tramite l’analisi di queste fonti, una serie di figure ricorrenti che meritano una più profonda analisi in quanto parte di un universo e di un repertorio di immagini ormai
consolidato in numerose culture. Tramite l’analisi delle seguenti figure sarà
possibile dare una risposta ai quesiti posti nel precedente capitolo poiché analizzandone le radici profonde e dandone un’interpretazione, sarà possibile capirne e spiegarne l’evoluzione.
4.1. Il drago
Senza dubbio, il drago è una figura assai ricorrente nell’universo di Arda:
Ancalagon, Glaurung, Schata e Smaug rappresentano alcuni dei peggiori nemici contro cui i protagonisti sono costretti a scontrarsi. Dopo aver analizzato
“da dove vengono i draghi” dell’universo di Tolkien, è necessario soffermarsi
sulla loro funzione di archetipo nella cultura umana. Appartenente ai simboli
nictomorfi, il Drago è un archetipo universale insieme teriomorfo e, sorprendentemente, acquatico e sembra riassumere tutti gli aspetti del regime notturno dell’immagine81: è un antico essere mostruoso, belva del tuono e seminatore di morte (Durand, 1972, p. 89). Donteville ha studiato le manifestazioni della
figura attraverso la toponimia celtica, ritrovandone tracce in culture differenti: vi
è dracs nel Delfinato e nel Contal, Dracheo Drake tra i popoli germanici e i
Wurme o Worm (letteralmente “verme”)82 presso gli scandinavi, a cui si aggiungono la Gorgone, Gerione, il Mâchecrout e il Coulobre della fontana di Vacluse (Durand, 1972, p. 89). Il Drago viene ritratto come un gigantesco sauro,
81Semplificando grossolanamente, secondo Durand (1972), la produzione delle immagini avviene lungo un tragitto che è in prima istanza neuro-biologico, e successivamente si estende
ai livelli culturali, seguendo diverse fasi: dalla riflessologia alla tecnologia, dalla tecnologia alla
filosofia, dalla filosofia all’iconologia e dall’iconologia alla semiologia. Durante questo percorso, le immagini si distribuiscono in insiemi al cui interno si dispongono per analogia struttura le. Si disegnano così le tre grandi “costellazioni” dell’immaginario, che inglobano gli archetipi
del distinguere, del confondere e dell’unire e i due regimi dell’immaginario: quello diurno, legato agli universi uranici, alla luce e al fuoco, e quello notturno, legato alle pulsioni, al mostruoso
e all’acqua.
82Glaurung e Schata possiedono tale epiteto poiché sprovvisti di ali.
palmipede e talvolta alato e le sue prime raffigurazioni sono state rinvenute a
Noves, nella bassa Duranza che risalgono all’epoca celtica. Nell’Apocalisse, il
Drago è legato alla Prostituta e ricorda i Rahab, il Leviatano, il Béhémot e molti altri esseri legati all’ambiente acquatico: sembra dunque, che l’archetipo del
Drago richiami anche quelli della belva, della notte e dell’acqua combinati insieme (Durand, 1972, p.91). È l’archetipo fondamentale che riassume il Bestiario della luna, poiché «in una tale prospettiva, la negatività, anche animale,
è necessaria all’avvento della piena positività» e pertanto, il Drago diviene anche l’animale polimorfo per eccellenza: attraverso il volo viene caricato di valore positivo come potenza uranica e attraverso le squame che ne compongono
il corpo, richiama il serpente piumato, il serpente cornuto e la coccatrice 83. Il
mostro è dunque «simbolo di totalizzazione , di censimento completo delle
possibilità naturali, e da questo punto di vista ogni animale lunare, anche il più
umile, è unione mostruosa» (Durand, 1972, p. 314). Inoltre, nelle fiabe e nei
racconti, del drago non viene mai descritto l’aspetto, sebbene lo si conosca e
le ali non sono che una sorta di “accessorio” che serve per planare più che per
volare (Propp, 1949, pp. 333-334). Oltre che dell’acqua, la natura del Drago è
costituita anche dal fuoco, che porta dentro se e che viene emesso con una
fiamma. L’elemento igneo e quello acquatico non sono caratteri che si escludono vicendevolmente: al contrario, spesso si alleano (Propp,1949, pp. 334335). Nelle fiabe e nei racconti popolari lo si trova nelle acque ma anche sui
monti, motivo per il quale assume l’epiteto di “Serpente Montano” (Propp,
1949, p.346) e le sue funzioni principali sono tre: quella del rapitore di donne,
quella di insediarsi in un uomo (vivo o morto) sotto forma di spirito e quella di
assediare una città pretendendo come tributo una donna da sposare o da divorare (Propp, 1949, pp. 346-348). Il Drago sa dell’esistenza dell’eroe e, soprattutto, sa che morirà per mano sua o, per meglio dire, sa che non può morire per mano di nessun altro (Propp, 1949, p. 352): questi deve fare attenzione
a non addormentare (o meglio, a non distrarsi in alcun modo), pena la sconfitta. Il motivo dello scontro è derivato da quello dell’inghiottimento dell’eroe, sul
83Creatura leggendaria dalle dimensioni di un drago e dall’aspetto di un brutto gallo con alcune caratteristiche da lucertola, nata da un uovo deposto da un gallo e covato per nove anni da
un rospo od un serpente.
quale si è stratificato. Ancora una volta è nel rito dell’iniziazione che tale motivo viene rilevato, quando l’iniziando doveva passare all’interno di un congegno
che richiamava la forma di un animale: in questo modo l’iniziando, viene digerito e vomitato come uomo nuovo, attraverso la fusione con l’animale totemico
(Propp, 1949, pp.358-361). Digressione a parte merita la spiegazione del motivo dell’eroe che acquisisce la conoscenza del linguaggio degli uccelli, come
accadde per Sigurd che lo acquisì quando assaggiò il sangue di Fáfnir. E’ possibile formulare la congettura secondo cui è solo attraverso la fusione con l’animale totemico che l’iniziando ne assume le virtù e le caratteristiche magiche:
man mano che l’uomo riesce a padroneggiare la natura e la sua produzione, il
carattere magico di questo rito svanisce tuttavia resta la reminiscenza dell’assoluto potere che un tempo il cacciatore acquisiva su e tramite l’animale per
virtù del rito (Propp, 1949, pp. 361-368). Venuto meno il senso del rito, si è
perso anche il senso dell’inghiottimento e dell’eruttazione che si è trasferito
sull’uccisione dell’inghiottitore. Questo potrebbe spiegare anche come mai nella Bibbia, la figura del Drago viene demonizzata e caratterizzata da attributi
spregevoli, simboleggiando il male assoluto. Nell’universo di Arda, infatti, sotto
l’influsso della Bibbia e del Cattolicesimo, i Draghi assumono il ruolo di creature intimamente malvage, furbe ed abili nel manipolare i nemici grazie alle spiccate abilità discorsive. Schata distrusse la stirpe dei Nani e si appropriò del
loro tesoro, Glaurung si compiacque di aver condotto Nienor e Túrin al suicidio, Smaug – che è ispirato moltissimo al drago di Beowulf – si è impossessato di tutta la zona circostante Erebor e Ancalagon distrusse quasi per intero
l’esercito dei Valar.
4.2. Il cavallo
Anche il cavallo rappresenta un archetipo importante ed un simbolo ricorrente, che appare in numerosi miti e leggende. Lo ritroviamo soprattutto nel
Signore degli Anelli, con Ombromanto e la razza dei Mearas e con l’affiliazione
che questa ebbe con popolazione di Rohan, i Rohirrim detti appunto “i Signori
dei Cavalli”. Questo animale che, al pari del cane, accompagna l’uomo sin dal
3000 a.C., è innanzitutto un elemento ctonio, legato alle costellazioni acquatiche, al fulmine e agli inferi, prima di essere un elemento solare: è la cavalcatura di Ade e l’animale consacrato a Poseidone il quale, sotto forma di stallone
generò le Erinni. Altre leggende affermano che il simbolo ippomorfo sia il
membro di Urano, dal quale sono nati i Sileni. Brimo, la dea greca della morte,
è raffigurata su un cavallo e nell’Apocalisse la Morte cavalca il cavallo scialbo,
legando l’animale in maniera ancora più esplicita al male e alla morte tanto
che per alcune popolazioni germaniche e anglosassoni, sognare un cavallo è
presagio di morte. Nell’Apocalisse presenta inoltre un palese isomorfismo con
il leone e con le fauci del drago. Il cavallo solare, inoltre, si lascia facilmente
assimilare al cavallo ctonio, data l’instabilità legata al sole stesso. Il cavallo è
inoltre simbolo del tempo in diverse culture, dai Greci agli Scandinavi ai Persiani: le dee lunari e gli dei solari viaggiavano su carri trainati da cavalli e viene associato all’elemento acquatico in virtù del carattere terrificante e infernale
dell’abisso acquatico (Durand, 1972, pp. 67-70). All’interno dell’universo fiabesco compare in sostituzione degli animali della foresta in virtù del nuovo ruolo
economico che rappresenta ma ad essi rimane ancora legato, non essendo
capace di sostituirli in tutto. Un altro elemento particolare legato alla figura del
cavallo è la sua nutrizione: così come agli animali totemici venivano recate offerte, al cavallo è dovuta una specifica nutrizione, che gli conferisce una particolare forza magica (Propp, 1949, p. 271-274). Come precedentemente rilevato, il cavallo è legato all’universo ctonio attraverso il legame degli eroi con i
morti: è il defunto padre a cedere al figlio un destriero dalle incredibili capacità.
Questo motivo viene ricondotto alla consuetudine di seppellire il morto (di solito con i guerrieri) insieme al proprio cavallo, in modo che potesse servirlo nell’oltretomba, accompagnandolo nel regno delle anime. Il cambio da un’agricoltura di tipo itinerante ad una sedentaria, «quando nasce l’attaccamento alla
propria terra e sorge il culto degli antenati, non si crede più che i morti se ne
siano andati, ma si crede che vivano in casa, accanto al focolare, sotto la soglia oppure nella terra, nella tomba» (Propp, 1949, p. 276) e il cavallo “perde”
il suo senso particolare di accompagnatore dell’oltretomba, pur rimanendo un
marcato attributo del defunto, divenendo in questo modo un simbolo totemico
e manistico. Anche il mantello del cavallo riveste un’importanza particolare
poiché al colore sono legate le capacità e la forza dell’animale. Vengono spesso citati tre colori: leardo, fulvo e bianco. Quest’ultimo il più importante, rappresentante il colore degli esseri dell’aldilà. Veniva ritenuto inoltre che il cavallo
possedesse una sorta di “natura ignea” (che si rileva particolarmente quando
si presenta il mantello fulvo), che gli permetteva di trasportare l’eroe nel “regno
lontano” (da identificarsi, spesso, con l’aldilà) o nell’oltretomba. Tra le pagine
de Il Signore degli Anelli risalta la figura di Ombromanto, il principe dei Mereas, i grandi cavalli di Rohan. Era uno stallone in grado di comprendere il linguaggio degli Uomini che poteva correre più veloce di qualunque altro cavallo
della Terra di Mezzo ed il segno della sua forza era simboleggiato dal manto
argentato. Inoltre il legame dei Rohirimm con i cavalli si potrebbe ricollegare
sia ai Berserkir della tradizione norrena sia ad un simbolismo animale che ricorda i Centauri greci e dunque al teriomorfismo.
4.3. L’aquila
L’arrivo delle aquile nelle vicende dei personaggi della Terra di Mezzo si è
spesso rivelato provvidenziale per loro, capovolgendo le sorti degli eventi. Tuttavia, l’aquila e gli uccelli in generale, non vengono considerati altro che accessori dell’ala, lo strumento ascensionale per eccellenza subendo così un
processo di “disanimalizzazione”: disincarnazione che li conduce a divenire
semplici emblemi e simboli (Durand, 1972, pp. 128-129). Nel caso dell’aquila,
la ritroviamo legata all’arte augurale di origine indoeuropea riservata nell’antica Roma ai nobili e ai patrizi e in seguito, durante il medioevo, ai nobili e agli
imperatori e che collega l’immagine dell’aquila «alla volontà che sta in alto»,
conducendola così ad un processo di angelicizzazione e di sublimazione, che
la allontana dall’associazione al fallo di cui l’uccello è, spesso, carico (Durand,
1972, p.129). All’interno dei racconti e del folklore, il suo ruolo è, similmente a
quello del cavallo, trasportare l’eroe nell’altro regno, lontano. Essa va copiosamente nutrita, finanche a danno dell’eroe, ma altrettanto abbondantemente lo
ricompenserà. Questo motivo si è formato su una base precedentemente esistita: era consuetudine in Siberia nutrire e pregare l’aquila o un altro uccello, il
quale veniva poi ucciso per poter raccontare ai suoi simili quanto bene fosse
stata trattato e garantire così alla comunità una ricompensa. Il motivo dell’uccisione viene poi sostituito dalla compassione verso l’animale, il quale ricompenserà l’eroe trasportandolo nel regno lontano dove riceverà un oggetto che
gli garantirà ricchezza e potenza (Propp, 1949, pp. 267-270). Così come per
Zeus, l’aquila era il simbolo del Vala Manwë: appartengono alla stirpe divina
dei Maiar, sono molto più grandi delle normali aquile e riescono a comunicare
con tutte le creature di Arda. Svolgono il compito di vigilare su Melkor - Morgoth e hanno avuto un ruolo di rilievo nella Guerra d’Ira alla fine della Prima Era,
tuttavia, come è stato rilevato Propp, il ruolo nel quale appaiono più spesso è
quello di “traghettatori” degli eroi. Sono giunte spesso al loro salvataggio: accadde tre volte con Gandalf, con Bilbo e i Nani ed infine con gli stessi Frodo e
Sam durante la distruzione dell’Anello nel Monte Fato, mantenendo così intatta anche la loro immagine sublimata.
4.4. L’albero
E’ già stata analizzata la figura dell’albero nell’immaginario delle diverse
culture che possiedono questo elemento e che, nella maggior parte dei casi, lo
configurano come axis mundi del proprio universo e della propria cosmologia.
L’albero, o per meglio dire gli alberi di Tolkien assumono connotati del tutto diversi, che vanno messi in relazione con i precisi avvenimenti storici che stavano verificandosi mentre Tolkien scriveva. Barbalbero e gli Ent sono vere e proprie potenze elementali legate alla terra che richiamano, anche etimologicamente, gli Jötunn della tradizione norrena. Dato il particolare momento storico,
caratterizzato da ben due guerre mondiali, e dato il retroterra culturale romantico, queste creature vengono elette per schierarsi contro Isengard e il suo
esercito distruggendoli. Metafora, questa, dell’industria e delle macchine che
distruggono la natura, invece che salvaguardarla. Questa, richiamando a se le
proprie potenze elementali, riprende la supremazia sulla macchina, ristabilendo così all’interno dell’opera, il proprio predominio.
4.5. L’anello
Una delle figure più importanti, se non forse la più importante, all’interno di tut ta l’opera è l’anello. Delle vicende e dei poteri si è già ampiamente discusso
per cui si procederà inquadrandolo subito entro l’archetipo che rappresenta.
Secondo la classificazione Aarne-Thompson, rientra nel tipo 560 (oggetti magici), è un tipo diffuso ampiamente presso tutti i popoli e ricalca il seguente
schema: l’acquisizione dell’oggetto84 in maniera miracolosa (o casuale), l’uso
84Secondo Aarne, l’oggetto in questione era all’inizio una pietra, che in seguito venne sostituita dall’anello magico (Thompson, 1967, p. 111).
che l’eroe ne fa, la loro perdita e il loro recupero (Thompson, 1967, pp. 110112). Gli oggetti magici possedevano, presso alcune culture, la capacità di poter invocare gli spiriti: ciò dimostra che, presso questi popoli, questi oggetti venissero concepiti come possessori di una forza intrinseca. La rappresentazione di questa come di un essere invisibile si colloca più in là nell’asse temporale, verso la sostituzione dell’immagine (inizialmente affidata a peli, denti od artigli) con un concetto. E’ in questo modo che nasce la concezione degli anelli
(ma anche di altri oggetti) come feticci: strumenti che rientrano nell’uso quotidiano ma che non presentano alcun legame od alcuna attinenza esteriore con
la forza in questione (Propp, 1949, pp. 310-311). Costruito sulla traccia dell’anello della Saga dei Völsungar, l’anello di Tolkien rientra effettivamente entro
questo archetipo: è dotato di volontà e di forza proprie (anche se obbedisce
alla volontà di un unico padrone), nonostante non vi sia alcun vincolo tangibile
o apparente con Sauron sebbene, come lo stesso Tolkien ammette, « si tratta
di un espediente mitologico per rappresentare una verità: che la potenza (o
forse meglio la potenzialità) per essere esercitata e per produrre risultati deve
essere esteriorizzata e in questo modo esce (in maggiore o minor grado) dal
diretto controllo della persona» (Carpenter e Tolkien, 1981, lettera n. 211). Secondo alcuni, l’anello possiede un funzionamento analogo a quello di una droga piuttosto che una propria volontà: agisce annebbiando la mente di chi ne fa
usa, il quale finisce per attribuirgli le proprie azioni come se queste fossero
frutto degli effetti dello stupefacente piuttosto che della sua mente contorta
(Manni, 2002, p. 86).
4.6. Lo sciamano: Gandalf e Saruman a confronto
Gandalf e Saruman appartenevano ad un gruppo di “stregoni” chiamati
Istari, inviati dai Valar durante la Terza Era per contrastare Sauron: avrebbero
dovuto affiancare Elfi ed Umani consigliandoli e persuadendoli al bene, provandoli ad unire nell’amore e nella comprensione cosicché se Sauron fosse
tornato, non sarebbe stato capace di dominarli nella forza e nell’odio (Manni,
2002, p. 57). Inizialmente era un gruppo formato da cinque elementi: Saruman, chiamato anche Curunir (“uomo di destrezza”), i cosiddetti Stregoni Blu
dei quali si perse ogni traccia, Radagast (“custode di bestie”) che si innamorò
delle creature della Terra di Mezzo, finendo per vivere insieme a loro abbando-
nando il suo compito ed infine Gandalf o Mithrandir (“il pellegrino grigio”). Le
figure di Gandalf e di Saruman possono essere collocate a metà tra le potenze
angeliche bibliche e lo sciamano. Delle prime ne assumono il compito e il carattere ascensionale (Durand, 1972, pp. 130-131), della seconda la conoscenza e le virtù magiche85. Sebbene appartenenti allo stesso ordine, Saruman e
Gandalf possono essere assimilati a due archetipi diversi. Saruman è un personaggio che chiaramente si pone come un angelo caduto, che si fa vincere
dalla superbia, dall’avarizia e dall’invidia come accadde a coloro che si fecero
sopraffare dal potere dell’anello e dal Male: Gollum, Boromir, Denethor, Grima.
Saruman, che, totalmente intelletto e assenza di cuore, ricorda il marlowiano
Doctor Faust, si lascia sedurre dal Male, rientra a pieno titolo nel mito della caduta degli angeli malvagi della tradizione giudaico – cristiana, tema che, come
sottolineato più volte dagli etnologi, non è altro che quello del «tempo nefasto
e mortale, moralizzato sotto forma di punizione» (Durand, 1972, p. 107) e che
si manifesta in diversi altri miti, da quello di Prometeo a quello del serpente
tentatore: l’atto di sfidare una potenza divina costituisce il presupposto della
caduta, che si trasforma così nell’emblema del peccato (Durand, 1972, p.
107). Gandalf si colloca invece sul versante opposto, come campione del
Bene. Appare evidente la somiglianza con Óðinn nella sua forma di vagabondo, di vecchio errante e monocolo, dalla lunga barba bianca e dalle vesti ed il
cappello stropicciato. Infinita è però la saggezza del dio nordico, così come è
per la saggezza che gli abitanti di Arda si appellano a Mithrandir. L’idea del
personaggio venne concepita grazie ad una cartolina acquistata da Tolkien durante una vacanza in Svizzera, che raffigurava un vecchio con una lunga barba, seduto sotto un pino con indosso un lungo mantello e un cappello a tesa
larga, il cui titolo era Der Berggeist, lo spirito della montagna (Carpenter, 2002,
p. 83). Ed è sempre dall’Edda infatti, che Tolkien trae materiale per il nome di
questo personaggio: Gandálfr. Gandalf, insieme ai membri della Compagnia
dell’Anello, rientra tra quelli che Propp definisce “aiutanti fatati”: grazie al loro
aiuto l’eroe può procedere risolutamente verso la meta piuttosto che errare a
casaccio in balia di se stesso e degli eventi (Propp, 1949, p. 265). Possiamo
anche cogliere un esplicito rimando alla figura di Väinämöinen: il cantore della
85Sulla magia cfr. par. 2.2.3.
terra di Kaleva che gli uomini stimavano per la saggezza, che girovaga per la
Finlandia come Gandalf girovaga per la Terra di Mezzo, che si allontanerà dalle terre mortali, come farà Gandalf quando si recherà a Valinor. Rimanendo
nell’ambito delle fiabe russe, Gandalf potrebbe essere paragonato anche alla
maga, la quale possiede numerosi collegamenti con il regno dei morti (Propp,
1949, p. 85), allo stesso modo in cui Gandalf mantiene uno stretto collegamento con il regno dei Valar, di potenze facenti comunque parte di un regno
altro, e, parimenti alla maga, conduce l’eroe lungo il suo percorso iniziatico
esattamente come fanno gli sciamani delle società animiste con i propri iniziandi.
4.7. Gli elfi
Appaiono sin dalle primissime pagine de Il Silmarillion e, in un certo qual
modo, possono rappresentare una “variazione sul tema” delle figure conosciute sin dall’epoca scandinava con il nome di Álfar: nati anch’essi dai vermi presenti nel cranio di Ymir, in origine, venivano forse considerate divinità minori e
ricevevano offerte e piccoli sacrifici (www.bifrost.it). Gli elfi di Tolkien costituiscono appunto una “variazione sul tema”: anche loro, come i nani, sono creature elementali, legate all’ambiente dove nacquero. E come per i nani, spesso
vengono inseriti in un contesto “minuto e lezioso” (Tolkien, 2000, p. 169) La
cosa interessante da notare è che essi presentano molteplici aspetti caratteriali che sfociano in altrettante chiavi di lettura: come ha detto Tolkien stesso,
rappresentano gli esseri umani prima della caduta ma, allo stesso tempo, assumono atteggiamenti diversi nelle opere esplicitamente mitopoietiche. Ne Il
Silmarillion richiamano in pieno l’essere umano con i suoi pregi e i suoi difetti.
Si combattono, si ribellano, creano ed inventano, la loro società si evolve e si
separa in diverse stirpi che influenzano il corso delle vicende di Arda e, alla
luce di queste considerazioni, è possibile accostarli alle volubili divinità dell’antica Grecia: difetti ed ideali umani in una forma immortale, uomini in una dimensione immortale (Manni, 2002, pp. 132 – 133). Ne Il Signore degli Anelli,
ne Lo Hobbit e ne I figli di Húrin, tali caratteristiche appaiono smorzate, quasi
soppiantate da un atteggiamento più malinconico e consapevole, derivato dalla Caduta. L’immortalità rappresenta quasi un fardello per loro, che invidiano il
libero arbitrio, ma soprattutto la mortalità degli uomini che essi definiscono “il
Dono di Ilúvatar”86. Ne risultano dunque figure romanticamente titaniche afflitte
dalle passioni, che ricordano nella loro dirompenza più gli dèi norreni ed ellenici che dei delicati folletti. Anche se azzardato, si potrebbe cogliere un’analogia
fra l’evoluzione delle strutture sociali e dei costumi di questa razza e quella
dell’uomo, che da una struttura economica e sociale di tipo nomade è giunto
ad una di tipo stanziale e sedentaria.
4.8. Gli orchi
L’orco costituisce un archetipo legato in prima istanza al motivo dell’inghiottimento e in secondo luogo si ricollega ai simboli nictomorfi dell’universo immaginario notturno. Nel primo caso è stata rilevata la corrispondenza dell’orco
occidentale con la figura del diavolo, elementi entrambi assimilabili all’Orcus
sotterraneo e all’Occidente inghiottitore del sole (Durand, 1972, p. 80). L’iconografia lo rappresenta mentre inghiotte le viscere della vittima, come una bestia antropofaga dalle zanne schifose, mentre beve il sangue da un cranio, ed
è dunque palese il rimando al simbolismo animale (Durand, 1972, p. 80). Date
queste premesse è logica, quindi, la correlazione dell’orco con il mondo della
notte. Mettendolo in relazione con il folklore celtico e con le trinità e tetranità
che questo presenta, Dontenville afferma che «la notte è Orcus, l’orco, il chiaro sole è Apollo – Belen, quanto alla terza persone è Gargantua il Figlio, […]
assimilato al sole al tramonto» (Durand, 1972, p. 291). Il termine orcsi trova
soprattutto in Beowulf, in riferimento a Grendel e alla sua razza, gli Orc –
néas. Nelle opere vengono ritratti come creature di forma umanoide, nate da
elfi corrotti nella mente e nel corpo da Melkor-Morgoth il quale li attirò presso
di lui irretendoli. Altri nacquero dopo aver subito storpiature e torture mentre si
trovavano prigionieri nella fortezza di Utumno. Negli ultimi due secoli della Terza Età ad opera di Sauron e dei suoi seguaci, fu possibile modificare gli orchi,
ottenendo una nuova, terribile razza più forte: gli Uruk-hai. Si ripresenta ancora una volta il tema della caduta dalla grazia divina, che ha come termine ultimo la sconfitta.
4.9. I nani
86Per un miglior confronto fra le figure dell’elfo e dell’uomo si invita alla lettura del dialogo fra
l’elfo Finrod e l’umana Halet, nel volume L’anello di Morgoth in Storia della Terra di Mezzo.
I nani, che appaiono anche nell’Edda poetica e nell’Edda di Snorri, sono
creature litiche di bassa statura legate alla roccia e alla terra, elementi ctoni le gati a questi elementi. Secondo le fonti nacquero nella terra e nel fango come
vermi dalle carni putrefatte di Ymir e dopo che gli dèi donarono loro l’intelletto,
abitavano il sottosuolo ed erano abilissimi nel lavorare i metalli e nell’artigianato (www.bifrost.it). Le loro ridotte dimensioni vengono viste come «la volgarizzazione folklorica di un tema eterno che la dottrina paracelsiana dell’homunculus aveva largamente diffuso negli ambienti colti, homunculus “incastrato” nel
liquore spermatico, poi incastrato nell’uovo filosofico degli Alchimisti» e parte
sempre da una fantasia dell’inghiottimento (Durand, 1972, p. 213). L’accento è
stato posto anche sullo schema freudiano che, richiamato dalla bassa statura
di questi esseri, vede in essi la minimizzazione del capo, ossia, della virilità. E
difatti, il folklore pone enfasi su questo “piccolo mondo domestico” e su «queste figurine ridotte piene di gentilezza e di delicatezza» (Durand, 1972, pp.
213-215). La concezione dei nani di Arda rifugge quasi totalmente da questo
archetipo. Se è pur vero che, come nel mito, essi nacquero dalla terra, fu per
precisa volontà del Vala Aulë, sul permesso di Eru Ilúvatar, che essi presero
vita. E se l’immagine lillipuziana dei nani descritta da Durand può richiamare lo
schema freudiano della minimizzazione della virilità, i Nani di Arda sono tutt’altro che figurine gentili e delicate, ricalcate sui dvergar della tradizione norrena i
quali sostenevano la volta del cielo e sulla cui descrizione fisica poco ci è pervenuto e il più delle volte, questo materiale ci ha fornito descrizioni che hanno
creato confusione con altre specie mitologiche come i troll e gli stessi jǫtnar.
Ne Il Silmarillion vengono descritti come genti forti, resistenti e longeve, grandi
lavoratori, guerrieri, commercianti e forgiatori di metalli, che abitano soprattutto
le impervie montagne del continente, metafora, all’interno dell’opera, dell’uomo economico legato ai soldi (Manni, 2002, p. 143).
4.10. Gli Hobbit
Gli Hobbit sono figure che non trovano corrispettivo in alcun corpus mitologico poiché sono stati creati appositamente da Tolkien per i racconti che narrava ai figli, modellati sull’Inghilterra rurale del Warwickshire degli anni Dieci
(Manni, 2002, 153). Sono creature schive, riservate e pragmatiche, dal forte
senso d’identità che all’interno dell’opera rappresentano «l’aspetto domestico,
affettuoso, giocoso, a volte meschino, comunque legato a una vita quotidiana
di tipo piccolo – borghese e contemporanea e non medievaleggiante» (Manni,
2002, pp. 142). Vengono considerati alla stregua di bambini da tutte le altre
razze, sia per la loro tarda venuta sia a causa della loro prolungata adolescen za, sia a causa del loro atteggiamento “da sempliciotti” (Manni, 2002, p. 147).
Alcuni hanno rilevato un parallelo con gli yeomen, villici inglesi del Medioevo
che appoggiavano il re quando strettamente necessario (Manni, 2002, p. 143),
altri vi hanno rilevato l’idea cristiana della persona scartata (in particolare Gollum), da cui nessuno si aspetta nulla ma che la Provvidenza utilizza per i propri scopi in modo assolutamente imprevedibile e fuori dagli schemi (Manni,
2002, p.146), altri ancora hanno trovato un’analogia con gli oppressi del libro
di Ernst Jügner, Il trattato del ribelle, che, ignorati dai potenti, sono riusciti a
penetrare gli ingranaggi del potere e a disfarli (Manni, 2002, p. 149).
Conclusioni
Non sarebbe giusto discutere in questa sede se Tolkien sia riuscito o no
nel suo progetto di regalare all’Inghilterra una propria mitologia, tuttavia è
possibile individuare in queste opere il riflesso dei cambiamenti storici conseguenti alla seconda guerra mondiale. In questa luce è possibile cogliere
anche la somiglianza che le opere narrative pubblicate in quel periodo presentano: 1984 di G. Orwell, Il Signore delle mosche di W. Golding, Re in
eterno di T.H. White, Questa orribile forza di C.S. Lewis sono tutte opere
che hanno in comune una visione di una realtà che non è, perdonando il
gioco di parole, reale ma rielaborata alla luce delle recenti vicende storiche. Si possono scorgere, infatti, i campi di battaglia delle Fiandre nelle Paludi Morte ne Le due torri, così come si possono individuare le camere di
tortura all’interno dei lager tedeschi o dei gulag russi in 1984. L’universo
tolkeniano, così come parecchie delle altre opere letterarie pubblicate durante il secondo dopoguerra, manifesta il desiderio di spiegare ma, soprattutto, di rielaborare la visione e la natura del Male (Manni, 2002, pp. 289292) tentando, in un certo qual modo, di esorcizzarlo. Ed è proprio questa
una delle funzioni del mito: spiegare l’inspiegabile utilizzando immagini appartenenti ad un repertorio riconoscibile e consolidato. Tornando ad Arda e
ai suoi abitanti, troviamo un repertorio di immagini che si è fortemente con-
solidato nel corso dei secoli: dall’epica omerica e carolingia all’esegesi biblica e al ciclo bretone si giunge alla trasmissione di una serie di valori tramite le azioni dei personaggi e le loro conseguenze (Manni, 2002, pp. 163166). L’impatto culturale che le opere di Tolkien hanno avuto sul grande
pubblico è innegabile, un impatto talmente forte da sfociare nel fenomeno
oggi definito fandom: una sottocultura formata dalla comunità di appassionati che condividono un interesse comune in un qualche fenomeno culturale. Parola macedonia composta dai termini fan (dall’inglese fanatic, “appassionato”) e dom (suffisso che indica il dominio su un territorio, come in
kingdom, “regno”), il fenomeno del fandom si è ingrandito a macchia d’olio
soprattutto grazie ad internet, che ha permesso l’incontro di decine e decine di appassionati sui forum online e sui vari social network, sfociando nella creazione di vere e proprie comunità, seppur virtuali. Innumerevoli sono i
MUD (Multi User Dungeons) e RPG (Role – Playing Game) ambientati nella Terra di Mezzo diffusi in rete. La pagina facebook dedicata a Tolkien possiede più di 170.000 iscritti e, sempre sul social network, è possibile trovare
numerosissimi gruppi dedicati alle opere. Non solo: i romanzi di Tolkien
sono riusciti ad influenzare anche l’industria dei giochi di ruolo; si pensi soltanto al popolare gioco di ruolo Dungeon and Dragons e a quanto questo si
ispiri all’universo di Arda, traendo da esso nomi, razze ed ambientazioni o
al gioco di carte collezionabili “Magic” oppure ai giochi da tavolo o a quelli
di miniature. Anche l’industria videoludica, cavalcando l’enorme successo
degli adattamenti cinematografici di Peter Jackson, è stata influenzata dall’universo di Tolkien. Oltre ai videogiochi espressamente ambientati nella
Terra di Mezzo, molti titoli richiamano l’ambiente, le razze e le atmosfere di
Arda. Tra questi citiamo Final Fantasy IV, Ultima, Baldur's Gate, Ever Quest, la saga di The Elder Scrolls, RuneScape, Neverwinter Nights, e la saga
di World of Warcraft. L’enorme popolarità della saga non si è però arrestata, ed ha influenzato numerose opere fantasy durante gli anni Sessanta.
Ricordiamo qui il già citato Ciclo di Shannara di Terry Brooks, il Ciclo di
Earthsea di Ursula Le Guin, La saga della Riftwar di Raymond E. Feist, La
saga dei Belgariad di David Eddings, Le cronache di Thomas Covenant
l'incredulo di Stephen R. Donaldson e il ciclo di La ruota del tempo di Ro-
bert Jordan, Gormenghast di Mervyn Peake e Il serpente Ouroboros di E.
R. Eddison ed infine la recente saga di G. Martin Le cronache del ghiaccio
e del fuoco. Anche il mondo della musica è stato parecchio influenzato dalla Terra di Mezzo e dalle sue vicende: i Blind Guardian, che hanno composto un intero concept album ispirato a Il Silmarillion intitolato Nightfall in
Middle-Earth dai titoli come The Curse of Fëanor, Into The Storm, Noldor e Mirror Mirror (in riferimento allo specchio di Galadriel) e la canzone
The Bard’s Song; i Marillion, che scelsero inizialmente il nome di Silmarillion, accorciandolo in seguito all'azione legale del Tolkien Estate; gli Ainur,
gruppo italiano che ha composto tre album ispirati a Il Silmarillion (From
Ancient Times, Children of Hurin e Lay of Leithian); i Battlelore, I Cirith Ungol, i Gorgoroth, gli Amon Amarth, i Galadhrim; e poi ancora la canzone
dei Led Zeppelin Misty Mountain Hop contiene riferimenti a Lo Hobbit
come The Ballad of Bilbo Baggins di Leonard Nimoy; la canzone dei Pink
Floyd The gnome, è ispirata alle vicende di Bilbo e a Frodo Baggins e questo solo per citare alcuni esempi poiché numerosissime sono le band e i
compositori, soprattutto in Scandinavia, che si ispirano all’universo di Arda
per le proprie composizioni e per i propri nomi.
Accanto al fandom vi è poi un altro fenomeno di costume strettamente collegato che è quello del cosplay: un’altra parola macedonia formata dai termini inglesi costume e play e che indica la pratica di indossare un costume
e di impersonare, sia nell’aspetto sia nel comportamento, un personaggio
riconoscibile in un determinato ambito. Il fenomeno ha avuto origine in
Giappone a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta e si è diffuso in tutto il
mondo; solitamente viene registrato in occasione di particolari eventi come
convegni, conventions e fiere dedicati al mondo dei fumetti, della televisione, del cinema, dei videogiochi e degli anime, come il San Diego ComicCon International, il Napoli ComiCon, il Lucca Comics & Games e anche il
Torino Comics, il primo a venire istituito in Italia. Durante queste fiere non è
raro imbattersi in uno o più Gandalf, qualche Legolas qua e là o di incontrare i temibili Uruk-hai.
Riferimenti bibliografici
Birgit Sawyer (2000), The Viking-Age Rune-Stones, Oxford, Oxford University Press.
Bonato Laura (1998), Trapianti, sesso, angosce. Leggende metropolitane
in Italia, Roma, Meltemi.
Brunetti Giuseppe (2003), Beowulf, Roma, Carocci.
Byock Jesse L. (2005), The prose Edda, London, Penguin Books.
Carpenter Humphrey (2002), J. R. R. Tolkien: la biografia, Roma, Fanucci,
trad. it. di J. R. R. Tolkien: a biography, New York, Harper Collins, 1977.
Chiesa Isnardi Gianna (1977), Storie e leggende del Nord, Milano, Rusconi.
Chiesa Isnardi Gianna (1991), I miti nordici, Milano, Longanesi
Comparetti Domenico (1891), Il Kalevala o la poesia tradizionale dei Finni:
studio storico critico sulle origini delle grandi epopee nazionali, Roma, Reale Accademia dei Lincei.
Colombo Eduardo (2009), Lo spazio politico dell’anarchia, Milano, Eleuthera, trad. it. di L’espace politique de l’anarchie, Lyon, Atelier de création libertaire, 2008.
Comba Enrico (1997), voce Leggenda, in Fabietti U. e Remotti F. (a cura
di), Dizionario di antropologia, Bologna, Zanichelli, pp. 411-412.
Demandt Alexander (2003), I celti, Bologna, Il Mulino, traduzione italiana di
Die Kelten, München, C. H. Beck, 1998.
Durand Gilbert (1972), Le strutture antropologiche dell’Immaginario, Bari,
Dedalo, trad. it. di Les structures anthropologiques de l’Immaginaire, Paris,
Presses Universitaires de France, 1963.
Engels Friedrich (2003), Antidühring: la scienza sovvertita dal signor Dühring, Milano, Lotta Comunista Edizioni, trad. it. di Herrn Eugen Dühring's
Umwälzung der Wissenschaft, Leipzig, Druck and Verlag (1878).
Eliade Mircea ( a cura di) (1995), Enciclopedia delle Religioni, Lo studio
delle religioni, Jaca Book, Milano, vol. 5, trad. it di The encyclopedia of religion, New York, MacmillanPublishers, 1989.
Giansanti Dario (2008), Il Kalevala: Poema della natura e della parola
creatrice, “Minas Tirith”, n. 22, pp.65-106.
Grimaldi Piercarlo (1993), Il calendario rituale contadino: il tempo della festa e del lavoro fra tradizione e complessità sociale, Milano, FrancoAngeli.
Jackson Rosemary (1986), Il fantastico: la letteratura della trasgressione,
Napoli, Tullio Pironti Editore, trad. it. di The Literature of Subversion, York,
Methuen& Co., 1981.
Lévi-Strauss Claude (1995), Mito e significato: cinque conversazioni radiofoniche, Milano, Il saggiatore, traduzione italiana di Myth and meaning,
United Kingdom, Routledge&Kegan Paul (1978).
Lönnrot Elias (1910), Kalevala, su www.bifrost.it, trad. it. di Kalevala, taikka
vanhoja Karjalan runoja Suomen kansan muinosista ajoista, Helsinki, Suomalaisen Kirjalli suuden Seura(1835).
Manni Franco (2002), Introduzione a Tolkien, Milano, Simonelli Editore.
Marazzi Ugo (1984), Testi dello sciamanesimo: siberiano e centroasiatico,
Torino, Unione tipografico-editrice torinese.
Munch Peter A. (1926), Norse Mythology, Legends of Gods and Heroes in
the Revision of Magnus Olsen, New York, The American – Scandivian
Foundation, trad. en. of Nordmændenes Ældste Gude-og Heltesagn,
Christiania, J. Dahl (1847).
Orchard, Andy (1997), Dictionary of Norse Myth and Legend, London, Cassell.
Propp Vladimir J. (1949), Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Einaudi, trad. it. di Istoričeskie korni volšebnoy skazki, Leningrad, Edizione
dell’Università Statale di Leningrado dell’ordine di Lenin, 1946.
Propp Vladimir J. (1966), Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, trad. it. di
Morfologiija skazki, Leningrado, Academia,1928.
Rolleston Thomas (2010), Myths and Legends of the Celtic Race, Digireads.com Publishing su www.digireads.it .
Sanders Andrew (2001), Storia della letteratura inglese, Perugia,
Mondadori Università, trad. it. di The short Oxford History of English Literature, Oxford, Oxford University Press, 2000.
Thompson Stith (1967), La fiaba nella tradizione popolare, Milano, Il Saggiatore, trad. it. di The Folktale, Los Angeles, Holt Rinehart & Winston,
1946.
Todorov Tzvetan (1985), La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, trad.it.
di Introduction à la littérature fantastique, Paris, Editions du Seuil, 1970.
Tolkien John R. R. (1989), Lo Hobbit, Milano, Adelphi, trad. it. di The Hobbit, Boston, Houghton Mifflin 1938.
Tolkien John R. R., Tolkien Christopher e Carpenter Humphrey (a cura di)
(1990), La realtà in trasparenza : lettere 1914-1973, Milano, Rusconi, trad.
it. di The letters of J. R. R. Tolkien, London, George Allen & Unwin Publishers, 1981.
Tolkien John R.R. (2000a), Il Medioevo e il Fantastico, Milano-Trento, Luni
Editrice, trad. it. di The Monsters and the Critics and Other Essays, London, George Allen & Unwin Publishers, 1983.
Tolkien John R.R. (2000b), Il Signore degli Anelli, Milano, Mondolibri, trad.
it. di The Lord of the Rings, London, George Allen & Unwin Publishers,
1966.
Tolkien John R.R. (2001), Racconti Incompiuti, Milano, Mondolibri, trad. it.
di Unfinished Tales of Númenor and Middle-earth, London, George Allen &
Unwin Publishers, 1980.
Tolkien John R.R. (2004), Il Silmarillion, Milano, Bompiani, trad. it. di The
Silmarillion, London, George Allen & Unwin Publishers, 1977.
Tolkien John R.R. (2009), I figli di Húrin, Milano, Bompiani, trad. it. di Narn I
Chîn Húrin. The Tale of the Children of Húrin, New York, Harper & Collins,
2007.
Wolfram Herwig (2005), I Germani, Bologna, Il Mulino, trad. it. di Die Germanen, München (1995).
Sitografia
www.bifrost.it
www.bracegirdle.it
www.britannia.com
www.christerhamp.se
www.fabbricantidiuniversi.it
www.google.it
www.gutenberg.org
www.ilfossodihelm.it
www.inghilterra.cc
www.lefantasiedisteo.it
www.oxforddictionaries.com
www.signoredeglianelli.org
www.treccani.it
www.tolkien.it