gli occhi dei bambini

Transcript

gli occhi dei bambini
SOCIETÀ
P A G I N A
3
PRIMOPIANO
IL SETTIMANALE DELLA DIOCESI DI COMO - 23 GENNAIO 2010
Morte e distruzione ad Haiti,
il Paese più povero delle
Americhe, dove il 12 gennaio
la terra ha tremato 4 volte, con
un terremoto del 7° grado
della scala Richter che ha
colpito la zona meridionale
della capitale Port-au-Prince.
Sbriciolati migliaia di edifici,
il palazzo presidenziale, quello
dell’Onu, alcuni ospedali,
danneggiata la cattedrale. Le
stime parlano di 50.000100.000 morti e 3 milioni di
persone coinvolte. Tra le
vittime del terremoto anche
mons. Joseph Serge Miot,
arcivescovo metropolita di
Port-au-Prince (Haiti).
Benedetto XVI, al termine
dell’udienza generale del 13
gennaio, ha lanciato un
appello alla “solidarietà” e al
“sostegno” della comunità
internazionale in favore della
“drammatica situazione in cui
si trova Haiti”. Il Papa ha
assicurato che la Chiesa
cattolica “non mancherà di
attivarsi immediatamente
tramite le sue Istituzioni
caritative per venire incontro
ai bisogni più immediati della
popolazione”. Ad Haiti vivono
circa 9 milioni di abitanti
(oltre la metà guadagna meno
di 1 dollaro al giorno), di cui
2,3 milioni nella capitale.
Nonostante le esportazioni di
zucchero, caffè, banane e
mango, è uno dei Paesi più
poveri e arretrati del mondo.
La disoccupazione colpisce
oltre il 60% della popolazione.
È spesso al centro del passaggio di uragani che provocano
centinaia o migliaia di morti.
TERREMOTO AD HAITI
GLI OCCHI DEI
BAMBINI
U
n dramma nel dramma: è quello dei bambini di Haiti ai quali
il terremoto ha tolto
tutto. Neanche gli orfanotrofi sono rimasti in piedi,
per questo, in Italia, il presidente della Commissione per le
adozioni internazionali (Cai)
Carlo Giovanardi ha parlato di
un grande piano di adozioni,
successivo ad un censimento
che serva a capire quanti sono
i bambini sopravvissuti ad
Haiti dopo il sisma e soprattutto quanti di essi siano rimasti
completamente soli al mondo.
L’Italia è pronta a fare la sua
parte: Giovanardi ha, infatti,
annunciato l’arrivo di un milione di euro dai fondi destinati
alle adozioni internazionali.
Non per tutti i bambini abbandonati, però, è ipotizzabile l’adozione; per alcuni l’affido sembra
la strada migliore.
“Il bambino abbandonato non
deve stare in un Paese se non
c’è la prospettiva che questo
piccolo possa essere accolto
come un figlio”, sostiene il presidente dell’Associazione “Amici
dei bambini”, Marco Griffini.
Il problema, però, è “stabilire se
effettivamente questi bambini
sono abbandonati”. In questo
senso, “si debbono verificare le
cifre impressionanti che circo-
lano”. C’è, poi, “la grande preoccupazione di rintracciare questi bambini e di come metterli
in sicurezza. Se non è possibile
accoglierli in modo sicuro ad
Haiti, bisogna spostarli”. In una
riunione sull’emergenza, che si
è svolta il 18 gennaio, è venuta
un’idea: “Chiedere alle navi da
crociera Costa di metterne
qualcuna a disposizione per creare dei campi provvisori per
mettere in sicurezza i bambini”.
All’emergenza si aggiunge un
problema “caratteristico di
Haiti”, con la presenza, “già prima del dramma, di istituti con
cinquecento/seicento bambini.
Sono realtà – sottolinea il pre-
sidente di Aibi - che non troviamo in nessuna altra parte del
mondo. Una delle idee che stiamo valutando è l’affido internazionale”. Si tratterebbe, chiarisce Griffini, di “recuperare i
bambini abbandonati e portarli in Italia, sotto la garanzia di
enti come il nostro, che si fanno carico della temporaneità
dell’affido: risolta l’emergenza
e rintracciati i parenti, il bambino tornerebbe ad Haiti”. Per
quanto riguarda le adozioni internazionali, “è possibile quando il bambino è dichiarato abbandonato e non so chi è in grado, in questo momento, ad Haiti
di decidere sull’abbandono del
minore, anche perché è difficile
verificare che non ci sia un parente in vita da qualche parte.
Diverso il discorso per i bambini che si trovavano negli istituti e già dichiarati abbandonati”. Tante famiglie italiane si
dicono disponibili ad accogliere: “Quelle che non hanno già
fatto richiesta di adozione internazionale – evidenzia il presidente di Aibi – possono pensare all’affido internazionale. Anche noi siamo subissati di telefonate di famiglie che si rendono disponibili ad accogliere”.
a cura di GIGLIOLA ALFARO
TREMA UN’ALTRA TERRA...
I
l confine fra realtà ed immaginazione si varca e, forse, si dissolve subito una volta raggiunti dalle riprese della catastrofe
di Haiti. I film di azione presentano la difficoltà di contare le
persone eliminate e l’obiettivo si posa insistentemente su corpi
dolenti feriti o su cadaveri sanguinanti, grondanti. Gangster,
federali, poliziotti, mafiosi e spacciatori, lasciano la pelle con disinvoltura e la conta si smarrisce nella ridda degli eventi. “Lord
of War” però ci porta, sapientemente, su di un altro piano,
ineludibile e scuote la coscienza per il cinismo, la mancanza di
riferimenti che, almeno lontanamente, ricordino qualche principio etico che sorregge ciascuno e la comunità che abita. Lo stesso
pregevole “Il Signore degli anelli”, con tutto il suo portato simbolico
e costruttivo per la persona umana, abbonda in corpi devastati,
stragi, uccisioni, crolli… il nostro sentire però lo ritiene una valvola
di scarico, uno sfiatatoio e quasi, a visione avvenuta, ci sentiamo
liberati, dimentichiamo l’orrore della guerra e ricordiamo solo la
barca che Frodo calca e si allontana là, dove tutti, finalmente in
pace e pacificati, ci ritroveremo. La realtà ci colpisce solo di striscio,
mentre la fantasia può volare e colorarsi lietamente.
Il confine però rimane: le notti sono tranquille e i pasti assaporati.
Il confine invece non solo si sfilaccia ma letteralmente salta e
scompare quando la realtà di Haiti penetra nel nostro universo
mentale e immaginifico: realtà nuda, non finzione da studios
hollywoodiani. La distruzione, le macerie, i cumuli di corpi devastati ed abbandonati, suscitano un rigetto di nausea e di impotenza. Il pensiero è immediato: potrei, da un momento all’altro,
trovarmi anch’io nella stessa, identica, situazione. Allora trema
un’altra terra. La terra del mio io trema e si apre nella scossa
sussultoria, nel panico.
Quanto, io e noi abbiamo costruito nella storia, lascia solo
calcinacci, voragini, odori nauseabondi, pericoli di epidemie spietate. Le antiche Cronache narrano l’orrore della peste, quella de-
scritta da Manzoni e vissuta in
prima persona dai miei confratelli carmelitani milanesi, risparmiati dal contagio ma, consapevolmente offertisi per soccorrere
gli appestati, certi, agendo così,
di contare le loro, personali, ore
di vita.
Perché non si misero in salvo?
Per la stessa ragione per cui oggi
i volontari accorrono, pur sapendo che le scosse non sono finite e
che pericoli di ogni genere sono
in agguato per ghermire la loro
vita.
La solidarietà, quando è in gioco
la realtà, diviene la forma storica, tangibile, della speranza, di
quella tensione che lega persona
a persona in una relazione che,
unica, rimane e che unica, per chi
crede, passa per il Cristo Crocifisso che portò nel suo stesso corpo di carne ogni possibile devastazione.
Il ribrezzo allora cede il posto alla
pietà, il cumulo di cadaveri, siano essi ad Auschwitz, nei gulag,
o ad Haiti, gridano che il morto
ha lasciato il suo dono alla storia, alla vita, ha vissuto il suo
tempo con dignità, perché essere
umano e perché tale deve essere considerato.
Una fossa comune è dettata, in Haiti – non così “nell’ano del mondo” di Auschwitz o nella lordura morale dei Gulag – da necessità
igieniche, però il rimbalzo urta perché l’interrogativo preme: io così
finisco? Tutto quello che ho inseguito in vita, che ho costruito, che
ho preso e ho donato, tutto, integralmente, viene buttato in un buco
e ricoperto da qualche palata di terriccio?
In fine che cosa rimane?
La relazione persona-persona, quel canale che tutti dobbiamo attraversare per conoscere noi stessi e diventare “grandi”, abbandonando le spoglie del bambino e mostrandoci adulti consapevoli.
Questa dimensione è imprescindibile ed è di tutti (o di tutti deve
essere) al di là del colore, della nazionalità, della bellezza e dell’efficienza. Edith Stein lo visse sulla sua stessa pelle e l’indicò come
la porta del XX secolo che si apriva nelle antiche mura del Castello
Interiore di Teresa di Gesù, che, fino ad allora, conosceva solo la
porta dell’orazione. Porta moderna, varco senza soglia, libero, che
solo consente di aprirsi ad un’altra relazione e la fonda, quella che
silente attende di liberare la sua luce dentro di noi: lo stesso Creatore in attesa che si percepisca il suo Amore e gli sia dia risposta.
Chi, non credente, entra in relazione con gli altri e li soccorre, come
ammirati possiamo constatare in questi giorni ad Haiti, forse non
lo sa ma è già all’interno di questa relazione costruttiva ed eterna,
è già nel Castello, è nel vivo della relazione con Dio che lo attende.
Chi, credente, entra in relazione con gli altri e con Dio, trasfigura il
cumulo di corpi devastati, la ributtante fossa, in una delle dimore
più sontuose del Castello, perché il Cristo stesso accoglie chi, come
lui, passò per l’orrore.
Nulla è perduto, l’apertura della persona all’Infinito, a Dio, permane e canta, nella morte, il grido di trionfo sulla morte, perché è
sconfitta ed è divenuta incontro con il Risorto.
CRISTIANA DOBNER, carmelitana scalza