1 ii allegoria delle ande: il carnevale di oruro 1986

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1 ii allegoria delle ande: il carnevale di oruro 1986
II
ALLEGORIA DELLE ANDE: IL CARNEVALE DI ORURO 1986
1
L'opposizione verticale tra Madonna/Lucifero (tra l' "alto" ed il "basso") si
cambia in "incontro" sul piano della superficie, che é quello della vita
reale. Per questo i minatori, abitanti del mondo oscuro e sottorraneo,
possono uscire alla luce del giorno ed acquisire diritti di cittadinanza.
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1.- Quadri antichi dell' Altopiano boliviano
"...anche se organizzati, i miei viaggi di
ricerca tra questi mondi antichi sono
abbandonati soprattutto alle occasioni.
...silenzio, parole, ambiente, espressioni
di volti, studi di fossili, di costumi,
delimitazione di zone geografiche ed
osservazione di paesaggi sono sempre
un domandare alla terra, alle cose ed
agli uomini realizzazioni di umanitá."
1.1- Da Oruro verso Chipaya
La corporatura piccola e snella gli permette di muoversi tra gli arbusti di t'
ola senza richiamare l' attenzione dallo stagno antistante. Curvo su se stesso,
avanza a corti passi sostenendo il fucile da caccia con lo sguardo fisso all'
acqua. Anche la sabbia gli é amica. Arrivato a cento metri, appoggiandosi a
un cumulo di terra, si mette in posizione di tiro. Allo sparo risponde un batter
d' ali ed un andirivieni impazzito: le due anatre selvatiche vanno da una parte
all' altra dello stagno, muovendosi ora in linea retta ora in giri concentrici,
nel tentativo di liberarsi dall' acqua, troppo poca per essere la loro salvezza.
José ha bisogno di un' altra pallottola e frettolosamente ritorna alla jeep.
I due animali si sono accorti della mia presenza e stranamente sono lí, fermi
a pochi metri. Mi sorprende il loro atteggiamento, con lo sguardo fisso su di
me. Posso distinguere i colori delle loro ali: un bruno oscuro, incorniciato da
una striscia violacea. Un senso di indecisione, che é miscuglio di
colpevolezza e di soddisfazione, mi divide tra il perché della sosta e la
compassione per le vittime. Ricaricato il fucile, José corre dall' altra parte
dello stagno, indifferente alla mia presenza. Le anatre sono sempre lí,
sorprese dal presentimento dell' ineluttabile. Senza compiere altri
movimenti, alzano la testa in una attesa che sembra voler essere confronto di
lotta. Ancora uno sparo e nuovamente un picchiar d' ali; una si gira
rapidamente su se stessa e si allunga tutta sull' acqua mentre l' altra ha preso
il volo.
Le onde arrivano increspandosi e trasportando quel corpo ferito a morte.
Non é prudente allungarsi per prenderlo perché i miei piedi giá affondano
nel terreno bagnato. L' anitra viene alla riva mostrando il petto bianco e
come dondolandosi nell' acqua bassa. Nell' occhio, poco a poco, si specchia
la vita di questo cielo d' Altopiano, pieno di sole; poi, un colore vitreo lo
copre tutto. L' anitra viene con noi alla jeep. Le sue ali, penzolanti dalla
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mano di José, si muovono inermi e piene di vento.
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L' Altopiano mi sorprende nuovamente per la presenza di laghi, piccoli e
grandi, e per il susseguirsi di stagni. L' azzurro delle loro acque appare piú
intenso per il biancore della terra intrisa di salnitro che allontanandosi dalla
riva si mescola con il giallo dell' erba bassa, seccata dal vento e dal sole.
Anche la paja brava é attanagliata dalla sabbia. I cespugli si stendono
intermittenti fino all' orizzonte alternandosi con le macchie di verde scuro
della t' ola. Paja brava e t' ola sono l' unica vegetazione che attornia le dune,
sparse qua e lá, testimoniando la precarietá della vita d' Altopiano in questi
mesi invernali. Il paesaggio, peró, é sempre maestoso. Le cime appaiono
lontane e solitarie senza delineare una catena montuosa; qui le Ande sono
Altopiano e le cime ne rappresentano il punto piú alto. Solo la strada, che si
allunga sull' orizzonte, dá profonditá a quest' insieme di cielo e terra.
Da Corque -una popolazione abbastanza numerosa, con infrastruttura
scolastica, civile e sanitaria- andiamo verso Huachacalla. In Corque
abbiamo passato la notte, dopo cinque ore di viaggio dalla cittá di Oruro. Di
buon mattino abbiamo ripreso il nostro correre in jeep e, avvicinandoci a
Huachacalla ammiriamo, bianche e solenni, le grandi vette andine:
Chukchiri, Tatasabaya e Sajama. A nord si puó distinguere Llallagua, la
montagna famosa non tanto per la sua bellezza quanto per la sua storia di
minatori. Sulla strada di terra battuta e coperta di sabbia, ondulata dal vento,
non notiamo la presenza dell' uomo. In Opoqueri, paesetto a metá cammino
tra Corque e Huachacalla, poche persone radunate nella piazza,
diffondevano allegria festeggiando Santiago, loro patrono. I ballerini si
muovevano davanti alla banda dei musici danzando le note della morenada.
Le distanze e le caratteristiche degli insediamenti umani dimostrano che l '
ecologia dell ' Altopiano piú che ad un modello regionale unico obbedisce a
una sovrapposizione di modelli discontinui tra loro. Le case, fuori dell'
abitato, sono poche ed adibite come posti di servizio, dove si fermano le
corriere ed i camion che vanno da Oruro a Huachacalla e di lí al Cile.
Huachacalla deve essere stata una cittadina importante anche nei tempi
passati. La sua architettura, pur dimessa, ripete quella dei grandi centri. A
prima vista é difficile trovare ragioni per giustificare la continua presenza
dell' uomo in questa regione di tundra; solamente il sale, che copre le grandi
lagune, ed il fiume Lauca, con le sue possibilitá agricole, possono in parte
spiegarle. Adesso Huachacalla é soprattutto posto avanzato della Bolivia
verso la frontiera.
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Nella casa di Chino, che é un unico e grande stanzone fatto di adobes, provo
una sensazione di vittoria che, al momento, é gratitudine verso Mario Chino,
catechista della comunitá cattolica di Chipaya, il quale ci ha messo a
disposizione questo tetto. Il freddo mi fa pensare a piú disagiate circostanze
qualora non avessimo usufruito della sua ospitalitá. Conosce da qualche
mese il mio nome che ripete facendolo precedere sempre dal nominativo di
hermano (fratello); anche i riferimenti alla comunitá chipaya sono espressi
con la stessa parola; il che é una maniera semplice e diretta di metterci a
nostro agio.
Dopo l' esperienza vissuta, mi sento un naufrago che ha raggiunto la sponda
di un deserto di sabbia. La sconfitta di questo viaggio sarebbe stata la
seconda impossibilitá di raggiungere Chipaya. La prima l' attribuii agli
imprevisti dovuti alla stagione delle piogge. Il Lauca, divisione tra la zona
aymara e chipaya, carico d' acqua, aveva interrotto il nostro cammino a venti
chilometri dalla méta prefissa. Era Aprile e la pampa si mostrava come un
soffice manto di verde dove, in lontananza, si potevano vedere i tetti conici
delle prime haciendas -case dove si custodiscono gli animali da pascolo-,
mentre alcuni Chipaya, che costruivano sbarramenti nella riva opposta del
fiume, non rispondevano ai nostri richiami. Ancora una volta, dopo quattro
mesi, eravamo davanti al Lauca attraversato da poveri rivoli d' acqua. Io e
José commentavamo, sorridendo tra noi, il progetto di ritorno alle nostre
case in Cochabamba. Esaminando la soliditá del letto del fiume con sorpresa
scoprimmo verso il centro banchi di sabbie mobili. Si risolse di cercare un
altro guado. Il vento ci buttava davanti nuvoloni di sabbia che ci impedivano
di indovinare un cammino piú o meno sicuro. A momenti la jeep girava
rapidamente su se stessa e con difficoltá potevamo superare altri ostacoli,
sempre invisibili.
L' obiettivo immediato era quello di trovare persone che conoscessero quei
luoghi. Ma l' inverno dell' Altopiano, che non cambia di cielo, sferza la terra
con il vento spingendo pastori e greggi verso altri pascoli, cosicché anche le
poche case erano state abbandonate. Ci circondava un paesaggio lunare che
dava una sensazione di vuoto. Ritornavamo verso Huachacalla quando nelle
vicinanze di Escara ci imbattemmo in un uomo ed una donna che vagavano
tra gli sterpi con i loro pochi animali. Ci informarono che un camion era
transitato per lí tre giorni prima e che loro stessi avevano passato il fiume
nella mattinata. Si riprese il cammino verso Chipaya preoccupati di non
allontanarci da un' immaginaria linea che ci era stata descritta con ampi gesti
di braccia verso il sud. Le difficoltá di prima che si presentavano ancora; e
finalmente ci trovammo sul Lauca in un punto piú a ovest. Il guado era
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indicato da rami di t' ola ma José volle provarne la soliditá per cui a piedi con l' acqua molto fredda di certo!- raggiunse l' altra sponda e di lí mi fece
cenno di passare con la jeep.
Essere stati naufraghi della sabbia dá una sensazione strana. Lí, le difficoltá
si presentavano sempre ingannevoli e mai determinanti. Ti invitavano e
scoraggiavano nello stesso tempo ed in modo tale che sembravano voler
essere misura della precarietá della vita. Adesso, l' ospitalitá di Mario Chino
vuole offrire sicurezza pensando forse all' esperienza, che abbiamo vissuto.
1.2- Una societá solitaria e remota
Scrivere da Chipaya puó essere un atto di coraggio come di tradimento. Le
due anatre selvatiche, ferme nell' acqua, il colpo d' arma da fuoco, le ferite, l'
attesa di un confronto definitivo, la morte o la fortuita libertá sono immagini
che applico come sequenza di fatti, lontani e vicini, alle vicissitudini dei
Chipaya. Il loro paese é senza dubbio un insediamento di difesa e per questo
arrivarci in jeep, anche se con intenzioni di pace, é una violazione: un
rompere una logica territoriale, costruita su sbarramenti naturali e sulla paura
dell' incognito.
Chipaya mi apparve nelle prime ore del tramonto. La vidi, un insieme
compatta di case e di tetti, ora attorniata di polvere ora immersa in un colore
rossastro ora avvolta nel giallore della pampa. L' aumentare e diminuire del
vento permetteva anche momenti di cielo terso che non davano peró nessuna
sensazione di quiete. Siamo entrati, poi, in un andirivieni di case. La piazza,
la scuola e la chiesa, anche se integrate nell' insieme, non fanno parte dello
schema architettonico originario. Solo il campanile, come linea ideale nella
verticalitá, conferisce unitá all' habitat. Le case con le porte verso Oriente,
sono raggruppate in numero di quattro o cinque attorno ad uno spazio che é
piazza per poche famiglie. L' architettura delle case é di tipo rettangolare o
rotondo. Il primo é comune a quasi tutto l' Altopiano, che identifico a un
modello aymara, ed il secondo a un modello chipaya. Soprattutto quest'
ultimo gode della peculiaritá della presenza del fuoco, acceso per terra a un
passo dall' unica porta della costruzione. Il semicerchio del fondo, che é un
rialzo di adobes, funge da letto; tra questo e la porta c' é uno spazio per
scaldarsi e che serve anche di passaggio. Nell' alto un raggio di luce, che
esce da un pertugio del tetto e che nelle ore del giorno fende la penombra,
articolando ideali livelli di esistenza.
Ció che osservo mi infonde un senso di umanitá semplice e profonda. Le
donne sono accovacciate sul letto. La piú anziana, che é la madre della
famiglia, dirige i gesti di tutti: non parla, non sorride e rimane immobile. Pur
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conversando con Mario Chino ed altre persone, entrate nel frattempo, la mia
attenzione é fissa sulle acconciature femminili. I capelli sono raccolti in tante
trecce che cadono su tutta la circonferenza della testa. Sono sottilissime e
ricamano motivi geometrici; sulla fronte, un monile d' argento o un fiore
definisce lo status civile di ciascuna, sposata o nubile. Il corpo é avvolto in
una tunica color marrone, tessuta a mano. La cintura ai fianchi la divide in
due: ampia sul petto e piú stretta nella parte inferiore. Le braccia provocano
movenze di pieghe senza scomporre la loro immagine ieratica ed umile. All'
imbrunire nella casa aymara -anche questa di Mario Chino-, seduti su due
letti d' ospedale, portati qui anni fa da un missionario cattolico, la medesima
donna ci serve un piatto di quinoa. Le sue ginocchia toccano la terra battuta e
mantiene la faccia sempre rivolta alla parete in modo che noi mangiamo
senza essere visti anche se osservati. Terminata la porzione, senza far parola
ne allunga un' altra. Accettiamo. Aspetta ancora un poco e silenziosa esce
preoccupata solo di chiudere la porta nel modo piú conveniente. Io e José ci
guardiamo, ammutoliti dalla nobiltá e semplicitá dei gesti. Sparisce nel buio,
animato dal vento che fa tremolare la luce delle candele, appoggiate su una
finestra e su un ammasso di adobes.
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Trattenendo le mani sotto il poncho, entra Mario Chino, accompagnato da
alcune persone. Si avvicina al registratore e si siede sul mio stesso letto,
mentre gli altri rimangono in piedi. Non ho voglia di parlare, immerso come
sono in riflessioni sull' umanitá femminile chipaya, ma devo farlo perché
cosí era stato deciso. Mario ci parla dell' organizzazione e storia della
comunitá. Afferma di non conoscere a fondo gli usi e costumi dei Chipaya
perché di famiglia "convertita" alla vita dei catechisti. Il suo schema di vita
individuale e familiare si basa esclusivamente sulla Bibbia. Valorizza peró l'
organizzazione comunitaria dei Chipaya, divisa in due ayllu: manansaya "quello di sopra"- e aransaya -"quello di sotto"-. La divisione é marcata da
una linea ideale che separa le case, mantenendo come punto di riferimento il
campanile della chiesa. Gli ayllu hanno cappelle distinte e la chiesa, comune
ai due, serve per le feste piú importanti: solamente in queste circonstanze si
puó infrangere il tabú della separazione di habitat.
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...ancor oggi esprimono la loro opposizione, dicendosi: uomini del momento del
amanecer, nati agli albori dell' umanitá, e no-gente in rifiuto alle civiltá che volevano
e vogliono sottometterli.
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La famiglia "ampia" é la base del ayllu, ben distinta dalla famiglia
monocellulare. La lingua, propria dei Chipaya, é indicata come puquina,
potendosi essi esprimere anche in aymara ed in castellano. L' attivitá
economica si basa sulla coltivazione della quinoa, l' allevamento di pecore,
lama e sulla pesca. La reazione verso gli Aymara é espressa in questi
termini: "siamo stati scacciati dalle nostre terre dagli Aymara, che non ci
permettevano di pescare, di cacciare finicotteri, anatre selvatiche e altri
animali degli stagni".
Niente é piú pregnante di vita dei tanti silenzi di Mario Chino, silenzi che
coprono vicissitudini, passate e presenti dei Chipaya. Il non-detto é la
decisione, ormai abituale, di non ripercorrere fatti dolorosi della sua
"nazione" come anche un non voler dare connotazioni dirette e specifiche ad
un nemico che non é e non fu mai unico. Quello che gli antropologi
definiscono il "mistero uru-chipaya" racchiude sia lo sconosciuto sulle loro
origini sia l' imprecisato della loro storia e modalitá culturali di
sopravvivenza in un contesto tanto ostile. Di fatto, essi sono un' isola etnicoculturale dell' Altopiano: lingua, caratteristiche razziali, modalitá di vita,
organizzazione socio-economica li distinguono dalle popolazioni vicine con
eccezione degli Uru, con i quali hanno molte affinitá e per questo considerati
parte di loro. Dire Uru-Chipaya é affermare senza dubbio l' autoctonia piú
antica di queste terre.
L' espressione contro gli Aymara, riferita da Mario Chino nella forma e
significato che si ritrovano nelle fonti del secolo XVII, testimonia un "testo"
di tradizione orale che si é mantenuto con poche varianti per quattro secoli.
Infatti, anche se organizzati, i miei viaggi di ricerca in questi mondi antichi
sono abbandonati soprattutto alle occasioni. Anche José che é guida,
interprete, meccanico di spedizione é parte delle mie osservazioni. Lui, pur
essendo uomo di cittá, si muove con naturalezza in queste sovrapposizioni di
culture. Forse molto dei mondi antichi é andato perduto, ma essi sono ancora
la base della vita socio-culturale dell' Altopiano. Le diverse occasioni
permettono di scoprire momenti e fatti di questa articolazione di elementi
con provenienze diverse e che acquistano sapore di civiltá specifiche. Cosí
silenzi, parole, ambienti, espressioni di volti, ritrovamenti di fossili,
descrizioni di costumi, delimitazioni di zone geografiche ed osservazioni di
paesaggi diventano anche un domandare alla terra, alle cose ed alle persone
cammini di realizzazioni di umanitá.
1.3- Tra mondi antichi e differenti
Kala-Kala. Mai avrei pensato che una montagna di rocce con davanti un
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accavallarsi di sassi, piccoli e grandi, mi desse l' impressione di un habitat
umano. Sparsi fazzoletti di terra coltivata, alcuni animali, lama e pecore che
pascolano, e un poco di prato naturale mi offrono la realtá di un ambiente
domestico. L' immaginazione di oggi corrisponde ad una realtá antica. Due
grotte, incavate e ripulite dal vento, portano i segni della presenza dell'
uomo. Sospese a due metri d' altezza, hanno una profonditá, larghezza ed
altezza per poter albergare una diecina di persone. La parte piú protetta dalle
intemperie é adornata da disegni di "llamas, vicuñas, cóndores, pumas y
cabras, éstas últimas con artos cuernos", dice il campesino che ci
accompagna.
Un posto di residenza, di difesa, di attivitá di caccia, pesca e pastorizia. A
pochi chilometri un calvario, che é una collina sassosa con giochi d' acqua
ai suoi piedi. Spontaneamente stabilisco una relazione tra i due luoghi,
separati tra loro dal pueblo di Sepulturas. L' insediamento umano, la
trasformazione della collina in calvario, dal quale si spazia sulla pianura
antistante, mi fa pensare a una tradizione di venerazione verso ció che i
nostri antenati avrebbero potuto essere e fare. L' intuizione prende corpo
allorché pur con le poche indicazioni si riflette sulle epoche di formazione
dell' Altopiano, che contemplo nella parte centrale, piú vicina al lago Poopó.
Gli archeologi e geologi sostengono che nel pleistocene l' Altopiano era un
immenso bacino d' acqua, esteso tra le due Cordigliere delle Ande: la
Cordigliera Occidentale, che rimane parallela al Pacifico, e la Cordigliera
Reale, quella che separandosi in Vilconata (Perú) si addentra nel territorio
boliviano per ricongiungersi ancora nel Nord-Argentina. Una superficie di
200.000 chilometri quadrati che, per successivi movimenti tettonici e per
evaporazione naturale, si sarebbe ristretta alle fosse piú profonde, quali il
Titicaca e Poopó, unite tra loro dal Desaguadero; al contrario, la regione di
Lípez si sarebbe trasformata negli attuali laghi salati di Uyuni e di Coipasa,
piú a Nord.
Il lento ritirarsi delle acque lasciava scoperte zone di terra dove si
individuarono i primi habitat dell' uomo. La stessa massa d' acqua mitiga i
rigori del freddo per cui l' Altopiano accolse, verso gli anni 12.000 avanti
Cristo, le successive migrazioni asiatiche che, provenienti dallo stretto di
Bering, scesero per i sentieri delle Ande verso il Sud del continente.
Arrivarono anche migrazioni via mare, e cioé dal Pacifico, e l' eterogeneitá
delle razze fu caratteristica dell' Altopiano. Una volta, peró, che le
popolazioni si stabilivano nel territorio, due modelli di sussistenza erano loro
possibili: essere cacciatori-pescatori o agricoltori-pescatori. La prima
tradizione prese consistenza nella parte sud e cioé nelle propaggini del lago
Poopó, la seconda al nord presso il lago Titicaca. Ma definendo le due
attivitá come cultura dell' acqua e cultura agricola, esclusive tra loro, un' altra
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articolazione territoriale dell' Altopiano é pensabile: non in una divisione tra
nord e sud ma in una linea trasversale dal Poopó al Titicaca, unita dal
Desaguadero. Su una sponda vivono gli Uru, rappresentanti della cultura
lacustre, e sull' altra gli Aymara di cultura agricola. Le due etnie, lontane e
vicine tra loro, avrebbero vissuto sempre in un latente conflitto.
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Gli Uru vivono ormai isolati ed accantonati in pochi luoghi di rifugio. Li
incontriamo presso il lago Poopó, denominati Moratos, in Chipaya e nelle
acque peruviane del Titicaca. Quest' ultimi mantengono ancora modalitá di
vita che hanno riscontri nelle fonti coloniali dei secoli XVI e XVII. Vivono
su isole fluttuanti, fatte di giunchi di totora. Case, pochi metri di terra
trasportata dalle vicine sponde che offrono loro pochi prodotti agricoli, e
viottoli di comunicazione tra le abitazioni manifestano una architettura d'
acqua assai efficace. La loro alimentazione si compone soprattutto di pesca.
Le fonti coloniali, in special modo quelle religiose, vista la loro resistenza ad
accettare il Cristianesimo, li descrissero come "selvaggi" per eccellenza,
nemici di qualsiasi contatto con altre genti ed irraggiungibili nelle loro
fortezze di giunchi. Passavano la vita nell' acqua ed allorché stavano nella
terra ferma, dormivano in tane ricavate nel sottosuolo. Parlavano una loro
lingua ma sapevano esprimersi in aymara.
Dalle indicazioni, sopra descritte, possiamo rilevare le seguenti
caratteristiche della societá uru rispetto a quella aymara: erano disprezzati
dalle popolazioni vicine perché ritenuti di condizione inferiore; dovevano
nascondersi e come difesa adottarono la negazione delle relazioni con gli
"altri", ma per necessitá di comunicazione accettarono l' imposizione della
lingua aymara. Al tramonto della loro identitá di "nazione", fedeli sempre al
sistema di vita nell' acqua anche se ormai viventi nella terra ferma, i Moratos
del lago Poopó ancor oggi esprimono la loro opposizione, dicendosi: uomini
del momento del amanecer, nati agli albori dell' umanitá, e no-gente in
rifiuto alle civiltá che volevano e vogliono sottometterli.
Il gruppo chipaya é il piú numeroso. Lí, essi si denominano "uomini dell'
acqua" -Jas shoni- e hanno potuto sopravvivere grazie all' attivitá di
pescatori, cacciatori, pastori ed agricoltori di quinoa. Per vincere le
resistenze del suolo, dovute al salnitro che si propaga dal lago Coipasa e
dalle lagune di Huachacalla, hanno programmato l' uso dell' acqua dolce, che
offre il Lauca. Per questo, mantenendo la divisione territoriale degli
ayllu,con due reti autonome di canali che iniziano nel Lauca, provocano
secondo le necessitá agricole, di pastorizia e di allevamento di maiali
acquatici, periodiche alluvioni nei rispettivi terreni. Ma tra loro non nasce
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nemmeno la t' ola per cui le ritualitá domestiche piú importanti sono: far
legna, raccogliendo arbusti a venti chilometri di distanza e in territorio
aymara, e procurarsi acqua dolce nel Lauca. La comunitá di 930 individui si
é troppo ingrandita rispetto alle possibilitá di sussistenza offerte dal suolo. La
presenza della scuola, i frequenti contatti con l' esterno, le migrazioni
periodiche per procurarsi denaro nelle haciendas del vicino Cile, hanno
introdotto elementi di modernizzazione. L' opposizione interna degli ayllu si
é trasformata ora in opposizione di religione: maggioranza protestante l' uno
e maggioranza cattolica l' altro. Nei due casi la razionalitá della nuova etica
integra le angustie attuali in una ideologia di rifiuto degli usi del passato,
allontanando ambedue dai modelli tradizionali della loro comunitá. Mario
Chino mi parla dei progetti di cercare nuove terre, perché disposti ad andare
anche verso l' ignoto pur di lasciare il loro rifugio.
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Chipaya non é denominazione uru. Li chiamarono cosí gli Aymara per la ch'
ipa, che era la corda di paja brava disseccata, con la quale legavano i tetti
delle case, fatti con lo stesso materiale. Anche l' organizzazione socioeconomica in ayllu indica l' assunzione di modelli della societá aymara.
Chipaya, pertanto rappresenta un' acculturazione delle Ande, anteriore all'
acculturazione occidentale che si é fatta presente con forza -pur essendo essi
giá cristiani- negli ultimi anni. L' alternativa alla cultura dell' acqua venne
dallo sviluppo di quella agricola, rappresentata dagli Aymara. La presenza di
questa tradizione nell' Altopiano ha riscontri nella documentazione
archeologica in Wiscachani (7000 anni avanti Cristo), in Chiripa, luogo piú
vicino al Titicaca (1200 anni avanti Cristo) e in Tihuanaco, continuazione di
ambedue fino al 1200 anni dopo Cristo. Possiamo ancora contemplare le
rovine di questa cittá templare. Situata a 20 chilometri dal Titicaca, essa si
trova al centro di una spianata che rappresenta un tipico microclima agricolo.
La specializzazione del suolo, in quanto a caratteristiche di prodotti della
terra, é l' elemento determinante dell' organizzazione sociale delle Ande. L'
Altopiano, spazio senza limiti naturali di separazione, ha vissuto sempre il
problema della razionalizzazione del territorio. É per tale ragione lo schema
dei modelli ripetitivi, che si giustappongono come unitá di coltivazioni
diverse, manterrá intatte le differenze etniche pur nell' insieme delle relazioni
di dominio, imposte da Tihuanaco.
I segni del potere di questa cittá-stato si esprimono nella concentrazione di
persone riunite nel suo habitat, nei simboli religiosi, civili, amministrativi e
nella specializzazione delle attivitá economiche. L' interpretazione del
mondo dell' Altopiano si incentró in Tihuanaco: immagini di Viracocha -dei
dominatori del tempo e dell' eternitá-; simboli di fertilitá -serpenti, vipere,
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rospi-; divisioni di status sociale tra le persone -templi, recinti, severe
maschere pietrificate come differenze d' umanitá-, e rappresentazioni di dei,
legate al potere della vita che si esprimeva in segni fallici. Si tratta di una
cosmogonia di cielo, terra e sottosuolo, che é stata disciplinata dalla logica
delle austere gerarchie aymara.
In seguito alla decadenza di Tihuanaco e dopo l' esperienza dei "regni
aymara" che duró tre secoli, si sovrapposero i segni della presenza incaica.
La supremazia quechua, proveniente dalla parte peruviana della Ande,
riarticolerá un' ideologia di potere nell' immagine del sole. Appropriandosi
degli antichi cammini di Tihuanaco imperiale, integrerá anche la sua
simbologia. Sulle differenze, si stabilirá un' unitá: gli Inca, vincitori delle
popolazioni dell' Altopiano, manterranno la legittimazione gerarchica e la
prerogativa dinastica con riferimento al lago Titicaca. Lontano dalle rovine
dell' antica metropoli, esiste il nuovo Tihuanaco. Le pietre, le
rappresentazioni simboliche e le statue antiche formano parte della
costruzione della chiesa che domina il territorio circostante. Un nuovo volto
dell' Altopiano che aggiunge all' antico quello occidentale-moderno.
1.4- Perché vivere sotto terra
Da Chipaya -"dalla fine del mondo", come dice José- ritorniamo verso
Oruro. Ripercorriamo in senso contrario la strada di prima. Un' unica strada,
dove peró risulta differente l' andare ed il tornare. Adesso non é piú un
addentrarsi in una successione di situazioni sempre nuove ma un incontrarsi
con immagini in stridente contrasto tra loro. Congiungendo poli di storia, a
volte divergenti, la strada piú che amalgamarli li ammucchia.
Il ragazzo, che abbiamo accolto nella jeep, ci descrive i panorami che sfilano
davanti a noi. L' incredibile é che lá, dove io percepisco il vuoto, egli
racconta situazioni di vita. All' altezza di Llallagua ci parla di Pumiri, la cittá
incantata. Lá, nella notte, si ascoltano rintocchi di campane d' oro. Si vedono
anche statue d' argento. Se qualcuno vorrá impossessarsene le troverá troppo
pesanti. Deciderá di ritornare la notte dopo, ma al posto delle statue
incontrerá cumuli di pietre. Nel buio si vedranno anche gomitoli di lana di
vigogna; egli cercherá aiuto per raccoglierli e la sorpresa del ritorno sará la
loro scomparsa. Il ragazzo indica con le mani le coordinate spaziali della
possibile ubicazione della cittá.
Ci parla anche della cittá di Cáceres, sempre della provincia di Carangas,
della quale peró non da riferimenti geografici: una cittá distrutta da Santiago
Apostolo. La vicenda si svolse cosí. Santiago, cavalcando il suo bianco
cavallo, ed il cacique di Sabaya andavano a messa. Ma per le lunghe
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distanze arrivarono in ritardo, precisamente quando la messa stava per finire.
Il cacique, indignato, uccise il sacerdote che non aveva voluto aspettarlo.
Santiago, ricomposti i pezzi della vittima, affrontó il cacique e l' ammazzó. E
per castigo fece sparire anche la cittá di Cáceres. Il ragazzo, sempre in
maniera sicura, spiega come si cacciano le pernici -una aveva attraversato la
strada a dieci metri dalla jeep scomparendo velocemente tra la t' ola- senza
far uso del fucile. Si deve essere in due o piú persone che si dispongono a
triangolo. Avvistata la pernice, i cacciatori devono provocarla a volare ed al
terzo volo, l' animale sará incapace di riprendere quota e cosí sará facile
preda.
Il dialogo é mantenuto da José. Io ascolto e piú che a situazioni concrete
penso a relazioni di societá che si risolvono sempre nell' opposizione tra la
cultura popolare, intrisa di vita rurale-indigena, e la cultura occidentale,
legata alla modernitá ed al contesto urbano. Le mie riflessioni si articolano in
quest' ordine: la vita indigena si svolge generalmente di notte; i suoi
personaggi hanno sempre la peggio; le vicende umane sono in relazione per
lo piú con la ricchezza dell' oro e dell' argento che concludono sempre in una
successione tra bramosia di possesso e frustrazione per la sua perdita. Lo
strano per me é il mondo, nel quale si svolgono tali vicende: un mondo
sacrale dove i santi della tradizione europea hanno cambiato le loro
connotazioni specifiche. I piú eminenti tra costoro: Santiago apostolo (San
Giacomo) é un santo vendicativo e fazioso; Sant' Andrea, protettore dei ladri
e, a volte anche demonio, patrono della pioggia.
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Il ragazzo scende in Opoqueri. Con i soldi nella mano dice di voler pagare il
passaggio. José rifiuta e lo ringrazia per la compagnia. Io non riesco a
parlare. Mi ha impressionato la sua faccia che, a dispetto della sua gioventú,
é dura e silente. Ha parlato un linguaggio scarno e senza enfasi. Anche le
risposte alle nostre domande erano puntuali e telegrafiche come per dire: a
buon intenditor poche parole. La comunicazione era data dal linguaggio, ma
la sensazione era che lui parlasse da un' altra sponda di civiltá. Visto dalla
strada, l' Altopiano non é piú una societá di pastori e di agricoltori con
destini separati. I mondi antichi si sono accomunati, unendo parte delle
proprie peculiaritá nel tentativo di opporre resistenza al mondo occidentale.
Cosí come l' oro e l' argento si sono inabissati anche la vita indigena opera
soprattutto di notte, lontana dall' ufficialitá della societá; e nella sua scia
anche gli eroi sono scesi a vivere nelle viscere delle terra.
14
Lí, essi si denominano "uomini dell' acqua" -Jas shoni- e hanno potuto
sopravvivere grazie all' attivitá di pescatori, cacciatori, pastori ed agricoltori
di quinoa.
15
In Pisac (Perú) ho visto disegnata sui vestiti degli indigeni la morte di Túpac
Amaru. Tirato da quattro cavalli che andavano in direzioni opposte, il suo
corpo fu squartato vivo. La terra accolse le sue membra e da quel momento i
suoi resti non furono vicende di un corpo umano ma situazioni di vita
indigena. Cosí i miti delle origini della cosmovisione incaica integrano nella
loro narrazione anche gli eroi che ne segnarono la fine come societá
autonoma. Inkarrí -nome composto di inca e rey- é il dio che soffre e che ha
sostituito Manco Cápac, il dio iniziatore del regno del Cusco. Una della
versioni orali, raccolte da José María Arguedas nella parte peruviana delle
Ande, cosí riferisce le vicissitudini del dio:
"I wamanis, le montagne, sono i
secondi dei. Essi proteggono l' uomo,
da essi nasce l' acqua che rende
possibile la vita. Il primo dio é Incarrí,
figlio del sole, nato da una donna
selvaggia, creatore di tutto ció che
esiste sulla terra. Egli legó il sole sulla
cima del monte Osgonta e rinchiuse il
vento per concludere la sua opera di
creazione. Poi, decise di fondare la cittá
(Puquio...). Inkarrí fu imprigionato dal
re spagnolo, fu torturato a Cusco. La
testa di Inkarrí é viva ed il suo corpo si
sta ricomponendo sotto terra. Ma non
ha potere, le sue leggi non si rispettano,
e non si obbedisce alla sua volontá.
Quando il corpo di Inkarrí sará
completamente
ricomposto,
egli
ritornerá ed in quel giorno ci sará il
giudizio finale. Per il fatto che Inkarrí
si trova nel Cusco, gli uccelli della
costa cantano: Al Cusco, il re; al Cusco
andate."
Entriamo in Oruro sul far della sera. Una cittá lontana e vicina, ma sempre
condizionante le tante realtá dell' Altopiano che ho osservato. La sua
denominazione é parola uru e significa "luce". Ritorno alle immagini
cittadine consuete alla mia vita quotidiana. Domani, io e José, ritorneremo a
Cochabamba, allontanandoci da queste regioni di remota umanitá. Scrivendo
mi assale il desiderio di voler ripercorrere nuovamente la strada verso
Chipaya. La mia impressione é che scrivere ció che ho vissuto in altri
16
contesti di vita sará sempre trascrizione lontana ed artificiale. Perché non
parli? La domanda é di José. Lui solo puó capire i miei silenzi. Insieme
abbiamo vissuto questi giorni d' Altopiano e lui piú di me si é inserito nelle
varie situazioni. Ripete: "mi llajta es bella". Io raccolgo solo frammenti. "Ti
ricordi, gli rispondo, quel raggio di luce che fendeva la penombra della casa
di Mario Chino? Esso rischiarava il fuoco, le donne che preparavano la
nostra colazione, noi uomini in attesa del cafecito y pancito ed i bambini
stesi sul letto di adobes. Fuori era freddo, ma intorno a quel raggio abbiamo
costruito momenti di vita. La casa chipaya era quel raggio di luce! E perché
non credere, allora, che la divinitá -il dios rayo- é nato nel cuore degli
uomini non per paura ma per ringraziamento delle belle sorprese che le cose
del mondo sanno donarci?"
2. "Dei" e destini di societá nello spazio urbano di Oruro
Nella provincia peruviana degli Uru, a
due ore di jeep dal Cusco e a sette dal
Titicaca, due denominazioni di paese
tramandano la tragedia indigena,
causata dalle miniere coloniali.
Da tutto l' impero si raccoglieva gente
per lavorare nella mit' a di Potosí. Il
luogo di raduno fu chiamato Huaccaypata, che significa "luogo del pianto".
Da qui gli indigeni, incolonnati e a
volte legati tra loro con corde,
partivano per un viaggio senza
speranza. A pochi chilometri da
Huaccay-pata un altro paese: Cusi-pata,
"luogo dell' allegria". Lí, i reduci delle
miniere, liberati dalle corde, potevano
riabbracciare i loro familiari e
riprendere le loro strade verso i propri
ayllu.
Ieri sera, quando entrai in Oruro, la cittá era buia e deserta. Poche e
disarticolate luci si spargevano sulle colline e nella pianura, disegnando le
propaggini ultime del territorio urbano. Mi muovevo nella penombra e solo i
fari della jeep mostravano squarci di vita notturna. Il freddo castigava i corpi;
i poveri camminavano coperti di squallore mentre i passi incerti di un
ubriaco scrivevano la sua solitudine. Ogni quadro dipingeva vite differenti
che mi passavano davanti mute e chiuse in se stesse: corpi staccati dalla loro
umanitá ed umanitá avulsa dalla vita cittadina.
17
Peró niente mi é piú gratificante del sole di questa mattina e dell' aria fresca
che mi batte in faccia. Sono le nove. Da mezz' ora cammino per le strade del
centro-cittá. Dalla piazza centrale vado verso la periferia. Mi fermo nella
Ranchería, piena di vita e di mercato tra poveri e indigeni. La gente vive
nascostamente l' attesa del Carnevale. I gesti delle persone sono ancora quelli
abituali e, piú che i preparativi immediati, fervono gli stati d' animo. Avvolta
in quest' aura pensosa, Oruro mi appare cittá vicina e non molto dissimile dai
mondi antichi del suo retroterra. I fatti dei prossimi giorni l' immergono nella
memoria ancestrale che ha i suoi inizi tra loro. Ma, inoltrandomi sempre piú
nella periferia, scopro anche le contraddizioni. La stessa architettura della
cittá, parte a ridosso delle colline e parte stesa nella pianura aperta su tutto l'
Altopiano, ne fa un agglomerato umano occasionale nel territorio. Anche le
due piazze, quella centrale e la Ranchería, rappresentano due anime diverse:
una articola i lineamenti urbani, l' altra, umile e nascosta, ne ritrae gli inizi
che furono, poi, abbandonati in funzione di una maggiore affermazione di
dominio.
2.1- Modelli contrastanti di societá
A nessun ricercatore sará successo di parlare contemporaneamente con due
interlocutori tanto distinti: un impresario e un venditore ambulante. Le
circostanze furono queste. Scendevo dalla miniera San José allorché l'
impresario mi offrí un passaggio nella sua macchina e per facilitare il nostro
dialogo si fermó nella Ranchería. Lí, a pochi passi da noi, il venditore
ambulante al quale non interessava vendere caramelle e dolci; ascoltava il
nostro dialogo, che non interruppe né condizionó.
L' impresario mi ha dato informazioni che corrispondono ai dati socioeconomici ufficiali e notizie storiche che possono essere facilmente desunte
da un qualsiasi manuale scolastico. In ogni modo ebbi la conferma che
Oruro é una cittá d' Altopiano che vive -anche se impoverita dalla
congiuntura sfavorevole del mercato internazionale dello stagno- ancora sui
minerali. Esiste, poi, una consolidata industria di alimentari e l' incontenibile
settore terziario, legato agli uffici pubblici ed alle attivitá di Stato. Un volto
moderno che soavizza gli inizi della cittá. Oruro, infatti, nacque come
"accampamento" di lavoro. Gli Spagnoli, che venivano dal Perú, si
stabilirono nel 1535 in Paria. E, scoperte le ricchezze minerarie, vi si
trasferirono fondando la cittá con i nomi di "San Miguel de Oruro" e di "La
muy noble y real Villa de San Felipe de Austria"; si fortificó in seguito per
esigenze di comunicazione tra Potosí-La Paz-Lima e per consolidare le
relazioni di conquista sulle valli e territori orientali della Bolivia. Con la
presenza occidentale le terre dell' Altopiano furono governate dalla logica
18
mercantilista -valore delle cose, delle istituzioni e delle persone, misurato sul
valore dell' oro-, che richiamó militari, commercianti ed avventurieri. L' oro
e l' argento articolarono la societá: banchieri, monopolisti del mercato del
mercurio, portato dall' Europa e che serviva a depurare i minerali, usurai,
aguzzini, maggiordomi, agenti di cambio e, negli strati inferiori della
popolazione, i minatori.
Chiuso il quaderno di appunti, ringrazio l' impresario. Anche il venditore
ambulante si allontana, ma improvvisamente retrocede. "La veritá é, mi dice
calcando la voce, che non esistono operai e poveri ma Aymara, Quechua e
Uru. Con la venuta dei bianchi, noi siamo stati condannati ai sotterranei della
vita sociale: haciendas agricole e mit' a nelle miniere. I solchi e le gallerie
hanno tessuto la nostra storia". Accavalla parole ed espressioni che mi
inchiodano nel silenzio. Gesta, eroi ed avvenimenti hanno la forza delle
profonditá del mare delle quali vedo solo lo spumeggiare delle onde: flussi
del mondo "di sotto" che non vuole essere storia solo di loro. Terminata la
recita del dramma, si allontana e, andando, mi saluta con un movimento
della mano. Mi é impossibile ridire le vicissitudini che ha proclamato. Posso
ritrascriverle scomponendole in quadri di storia, piú o meno usuali alla mia
mente.
Le miniere non furono solo storia di lavoro disumano ma anche ricettacolo
di impetrazione agli dei antichi, che convocavano alla rivolta. Giá nei primi
anni della Colonia (1560-72) un movimento di insurrezione, denominato
Taki Oncoy (malattia del canto), si sviluppó in tutto l' Altopiano centrale con
modalitá di sacrifici alle Huaca -tombe degli antenati-, dove si inscrissero
azioni liturgiche di danza. Si concluse con l' uccisione del giovane Inca
Túpac Amaru, che viveva nella ultima difesa del suo impero, Vilcabamba.
Pur essendo egli, piú che l' ispiratore, il punto di riferimento ideologico della
rivolta, fu giustiziato in Cusco nell' anno 1572. Un' altra insurrezione
indigena si manifestó nel 1590; fu denominata Muru Oncoy (malattia delle
macchie), perché dovuta a un' epidemia che si era sviluppata soprattutto tra
gli autoctoni e che fu interpretata dagli stessi come castigo per aver
abbandonato i riti tradizionali. All' incitamento dei sacerdoti, che
predicavano il ritorno agli dei antichi, rispose la repressione coloniale che
intevenne attraverso l' istituzione religiosa cristiana.
Sará la "lotta contro le idolatrie" dei secoli XVII e XVIII, che spezzerá
profondamente il coordinamento culturale delle Ande, rendendo difficile una
reazione comune contro l' impero coloniale. Questa avverrá negli anni 177082. La parte peruviana sará guidata da José Gabriel Condorcanqui che,
avendo assunto il nome dell' ultimo Inca ucciso, é conosciuto come Túpac
Amaru; e nella parte boliviana da Tomás Katari. Costui incominció l'
19
insurrezione condannando gli abusi e reclamando per sé la nomina di capo
degli indigeni. Fu giudicato ribelle ed ucciso, nel 1781. Continuarono la lotta
i fratelli di lui, Damaso e Nicola, ai quali si aggiunse Giuliano Apaza, che
specificó gli obiettivi della guerra assumendo il nome di Túpac denominazione di re inca- e Katari - cognome del cacique ucciso-. Gli eroi
accerchiarono il Cusco, Oruro e La Paz con il proposito di distruggere i
centri di potere coloniale dell' Altopiano; e, sconfitti, furono giustiziati.
Túpac Katari fu squartato vivo, come Túpac Amaru. Era l' anno 1782.
Piú vicino ai nostri giorni, un altro eroe: Pablo Zárate Willka. Intorno all'
anno 1870, furono emanate dal governo boliviano leggi che permettevano di
usurpare le terre delle comunitá indigene. La controversia duró fino a che il
partido indio coglierá l' occasione di inserirsi nella guerra civile del 1899,
provocata da proposte di Stato "federalista" o di Stato "centralista". Pablo
Zárate appoggió la causa federalista, propugnata dai liberali contro i
conservatori; e la sua partecipazione fu determinante per la vittoria del
generale José Manuel Pando. Ma allorché costui fu proclamato presidente
della nazione disconobbe le esigenze per le quali Aymara e Quechua
avevano lottato, come anche abbandonó la prospettiva federalista. Si pretese,
poi, giudicare Pablo Zárate Willka (Willka é parola aymara che significa
"capo"), laeder della strategia indigena, per fatti di guerra. Subí il carcere
ed in circostanze che dimostravano la complicitá del governo, fu ucciso
quando dal carcere di Oruro veniva trasferito a un tribunale di La Paz. Pablo
Zárate era stato proclamato "il presidente Willka" dalle etnie dell' Altopiano.
Come e dove decifrare le intenzioni di questa storia: un ravvivare glorie del
passato? Una proposta di rivincita? Piú che una risposta forse un altro
interrogativo: perché ricchezza e povertá hanno vissuto, e vivono, tanto
vicine tra loro? Sicuramente la provocazione del venditore ambulante non
sará mai accolta. Le civiltá delle Ande hanno lottato per dare esistenza alla
loro societá; il non-senso, al quale le abbiamo obbligate, é specchio del nonsenso della nostra storia.
2.2- Oruro: cittá della "memoria ancestrale"
Le armi hanno sempre una logica di confronto; ed il parlare solo dei fatti di
guerra significa non dare importanza a processi ed a pratiche sociali che,
lenti e profondi, hanno costruito nell' Altopiano una patria comune latinoamericana. Il Carnevale di Oruro rappresenta uno di questi aspetti, dove tra
le opposizioni sono nati punti di incontro tra civiltá tanto distinte tra loro.
Nel linguaggio della festa, pertanto, Oruro non é piú la cittá colonialeoccidentale ma soprattutto una realtá originaria dell' Altopiano. Infatti, la
leggenda del Dio Wari, sulla quale si fondano le origini di Oruro, coincide
20
con le prime vicende degli Uru.
Wari, il dio della forza, era un mostro che dormiva nelle cavitá della
Cordigliera di fronte al mare. Un giorno risplendette il sole che sorgeva dalla
parte contraria, illuminando tutto l' Altopiano. Il sole, che era il dio
Pachamaj, lucente e benefattore, operava attraverso la figlia Aurora. Il dio
Wari volle impossessarsi di lei ed intraprese la lotta contro il sole. Dalle sue
caverne lanció fumo e fuoco volendo nascondere i benefici della luce. Il sole,
piú forte, poté riapparire e con i suoi raggi allontanó le tenebre. Wari,
sconfitto, ritornó a rinchiudersi negli antri delle Ande facendo conoscere la
sua collera con terremoti e rumori cavernosi.
Perduta la lotta con il sole, Wari volle castigare la gente che adorava il suo
nemico. E questa era il popolo degli Uru. Un popolo di agricoltori che
offriva i frutti della terra al dio sole e che in suo onore sacrificava lama; per
venerarlo gli Uru orientavano le porte delle loro case verso il sole nascente e
tutto il giorno vivevano con lui. Ma l'agricoltura dell' Altopiano era povera
rispetto a quella delle Valli; e Wari si ingegnó per convincere gli Uru sulle
diseguaglianze. Gli Uru si lasciarono ingannare dai ragionamenti di Wari e
cosí l' avarizia, l' odio e tante altre perversitá divisero le persone; come anche
intrighi, malattie, lotte intestine e pestilenze di animali si impossessarono
dell' Altopiano. La vita comunitaria ed individuale diventó impossibile. Peró
nel momento piú grave di tale situazione apparve una bella ñusta che parló
agli Uru sul loro passato e sulla pace che avevano goduto. La tranquillitá
ritornó a regnare tra loro.
Le nuove circostanze fecero esplodere ancora l' ira di Wari, deciso ormai a
distruggere gli Uru. Mandó dal Sud una spaventosa vipera che,
trascinandosi, si avvicinava alla cittá tra fiamme e fuoco. La salvezza venne
dalla ñusta che con una spada affrontó il mostro: l' ammazzó ed il suo corpo
si ridusse a rocce e rupi, quelle che ancor oggi circondano la cittá di Oruro.
Dopo un poco di tranquillitá, Wari inventó un' altra minaccia: dal Nord un
rospo, grande e pancione, con un' enorme bocca, si avvicinava alla cittá. Per
fortuna la buona ñusta riapparve sulla cima del monte di "Piè del gallo" e da
lí con una fionda ammazzó l' animale che si cambió in roccia. Wari, ancora
una volta beffato, ritornó all' attacco e dalla parte Est della cittá invió una
grande lucertola: avanzava come un dragone tra il fuoco e tra le pietre che
muoveva con la coda. La ñusta protettrice si fece presente tagliandole la
testa con una spada. Dal sangue dell' animale si formó un lago mentre il suo
corpo rimase pietrificato. Come ultima vendetta contro gli Uru, Wari fece
uscire dalla bocca della gran lucertola uccisa migliaia di formiche che
invasero la pianura avanzando verso la cittá. Improvvisamente si presentó la
ñusta che, volteggiando la sua fionda, lanció pietre contro le formiche
21
ammucchiandole in posti che si cambiarono in monticelli di arena. La ñusta
per scongiurare altri pericoli agli Uru, inchiodó nella testa della gran
lucertola una croce di legno, che da quel momento allontanó la collera di
Wari, permettendo che il sole brillasse sempre sulla cittá. Gli Uru
ritornarono cosí alla loro vita di pace.
2.3- "Dei" ed opposizioni di societá nello spazio urbano
La lotta del dio Wari per la conquista di Aurora, figlia del sole, é narrazione
cosmogonica della opposizione tra notte e giorno. Su questo nucleo
orginario le successive trasformazioni del mito riflettono le tappe storiche
dell' Altopiano, articolando soprattutto opposizioni di societá. La traiettoria
degli dei diventa traiettoria stessa della societá che va dal momento uru al
momento coloniale. La opposizione ultima sará socio-economica:
dimensione di una economia urbano-mercantile di fronte alla tradizione
agricola aymara e incaica. Dagli albori della storia ai nostri giorni ci sono
state tramandate le vicissitudini di dei, di uomini e di cose in una successione
di quadri d' azione.
Wari, sconfitto, dovette ridursi ad essere "tenebre" mentre Inti -sole- brilló
nel cielo; la mediatrice dell' opposizione fu la ñusta. Wari, identificato con la
societá uru, che perse di fronte agli Inca, seguí le vicissitudini del suo
popolo. La gerarchia ideologica incaica, infatti, si articolava partendo dal
sole, per cui il dio finí nelle profonditá della terra. I Mallku, che erano le
divinitá agricole aymara, non furono tolti dal piano orizzontale perché legati
alla terra; essi furono solamente umiliati dall' alto a rimanere senza poteri
specifici. Pertanto, il mito di Wari articola nella seguente maniera l' universo
cosmogonico di Oruro:
SOLE
MALLKU
ÑUSTA
MALLKU
WARI
La figura della ñusta, immagine ideologica piú che una deitá religiosa -la
ñusta era sposa dell' Inca-, copre gli spazi che il sincretismo preispanico
22
attribuisce alla Pachamama cosí come Supay si sovrappone a Wari. Nell'
universo culturale popolare di Oruro, la Pachamama conserva ancor oggi
una posizione preminente nell' orizzontalitá, corteggiata sempre dai Mallku
agricoli; Supay, al contrario, deitá dei monti, proibita dall' ufficialitá
religiosa della Colonia, é identificato con il diavolo e collocato sotto terra. Il
sincretismo popolare di Oruro mantiene intatte a livello religioso le
denominazioni delle Ande e del mondo occidentale, organizzandole in due
schemi, autonomi e complementari:
CRISTO
MALLKU
INTI
VERGINE
PACHAMAMA
DIAVOLO
SUPAY
MALLKU
A nostro parere peró le relazioni tra i punti cardinali -gli assi verticale e
orizzontale- anche nella loro versione indigena non corrispondono al nucleo
originario della cosmovisione ancestrale. Piú adeguata al mondo agricolo, ed
anteriore alla stessa concezione incaica, ci sembra una organizzazione di
diagonali in superfice, che sottolineano caratteristiche di territorio e che
rispettano l' ubicazione dei Mallku.
FORMICHE
MONTI ACQUA
ROSPO
PIANURA ACQUA
VIPERA
FORMICHE
Le strutture delle relazioni di superfice articolano le caratteristiche del
territorio di Oruro -monti, pianura, acqua- con le caratteristiche produttive
dello stesso. Qui, la coordinata "vipera--rospo" si oppone alla coordinata
"formiche" per essere quest' ultime solo animali di terra mentre gli altri
mantengono una convivenza con l' acqua. Ma le reciprocitá, in quanto
relazione tra le opposizioni, si dá per la differenza interna ad ogni
23
coordinata, dove uno stesso elemento diventa qualitativamente diverso dall'
altro: l' acqua é "acqua fredda" ed "acqua calda", come i monti sono "monte
ricco" e "monte povero". Le opposizioni risultano essere allora tra "monte
ricco" e "acqua calda" contro "monte povero" e "acqua fredda". Sappiamo,
infatti, che dove c' é acqua calda esistono minerali e dove c' é acqua fredda
anche la possibilitá di agricoltura. La Pachamama, rappresentata dall' acqua,
si trova in posizione centrale nella orizzontalitá ed é, pertanto, mediatrice di
fertilitá per l' agricoltura e per le miniere.
Se peró esplicitiamo le caratteristiche di posizione tra monti, pianura e acqua
otteniamo la ritrascrizione dei piani ecologici della cosmovisione delle
Ande: i monti (hanan pacha): alto; la pianura (uku pacha): mediano; e l'
acqua (urin pacha): sotto. L' universo cristiano ha assunto le medesime
posizioni nelle relazioni tra i punti cardinali, integrando il modello delle
diagonali di superfice, rappresentate dai Mallku.
FORMICHE
MALLKU
VIPERA
CRISTO
VERGINE
DIAVOLO
INTI
ROSPO
PACHAMAMA
SUPAY
MALLKU
FORMICHE
Il risultato é che nella cosmovisione sincretica di Oruro, l' universo indigeno
si é integrato a quello occidentale. La particolaritá che risalta é la
complementarietá tra attivitá agricola ed attivitá di estrazione dei minerali. Si
dimostra anche che i momenti di crisi di societá sono sempre fertili di
riflessioni sul passato e sulle prospettive del futuro. Cosí sul finire del secolo
XVIII, la diminuzione del valore commerciale dei minerali fece apprezzare l'
attivitá agricola per fondare una diversa autonomia economica della cittá.
Integrare i due aspetti é stato sempre difficile ma proprio questo si
presentava come ineluttabile destino di Oruro. La prospettiva economica
peró non sarebbe stata possibile senza la complementarietá delle diverse
societá: quella delle Ande e quella occidentale. Il punto di incontro fu la
Vergine Maria, che coprí gli spazi della Pachamama: fertilitá della terra e
fertilitá delle miniere.
24
2.4- Nuove mediazioni
I miei informatori risultano essere quasi sempre persone del popolo. Nelle
strade e nelle piazze incontro soprattutto loro che, affannati e preoccupati, si
preparano ai prossimi avvenimenti. Altre persone: impresari, intellettuali e
gente dell' amministrazione pubblica e privata, li trovo maggiormente nei
rispettivi uffici di lavoro. Anch' essi partecipano al Carnevale ma non lo
preparano. L' aspettativa del popolo obbedisce alla programmazione di
sempre. L' insieme dei riti, credenze e costumi si impongono come momento
sacrale, giustificato nel nome della Vergine che esprime caratteristiche di
vita personale, della cittá e del lavoro. Tutti gli elementi e fatti storici, anche
i piú conflittuali, acquistano attualitá cosicché il sincretismo popolare mi
appare come uno spazio di apertura alla comprensione della vita concreta di
oggi. Solo in questo modo le contraddizioni possono trovare un'
elaborazione globale. Oruro e la cultura latinoamericana, in generale, hanno
qui il loro cammino privilegiato di formazione, sempre organizzato intorno a
immagini sacre. La religiositá popolare ha creato gli spazi d' incontro, che
sono livelli di transculturazione tra mondo indigeno e mondo occidentale.
Pachamama e la Vergine Maria. La Vergine
Maria, come figura femminile, incontró nell'
Altopiano una tradizione molto favorevole alla
sua identitá con la Pachamama. La cultura
religiosa pre-incaica, infatti, aveva costruito nel
lago Titicaca un microcosmo simbolico intorno a
deitá femminili. Le stesse caratteristiche di
religiositá furono attribuite alla Vergine. Cosí il
contesto del santuario del Titicaca nei suoi
aspetti geografici -pianura, monti ed acquatrovarono riscontro in Oruro ed il santuario
mariano ripeteva quello giá esistente -santuario
di Copacabana- sul Titicaca. L' elaborazione
teologica dette importanza all' attributo della
Vergine di essere "pietra preziosa", allo stesso
tempo che le sue viscere diventarono simbolo di
maternitá e di fertilitá. Per questo la iconografia
coloniale disegnerá "i monti ricchi" -con
presenza di minerali- integrandovi sempre l'
immagine della Vergine.
Socavón di Oruro: incontro di opposizioni. Il
Socavón é il santuario costruito ai piedi della
25
miniera di Pie de gallo. La sua ubicazione,
centrale nella cittá, é la rappresentazione ideale
del punto d' incontro tra le opposizioni degli assi
verticale e orizzontale dell' universo religioso
popolare di Oruro. La tripartizione spaziale
occidentale dell' asse verticale ("alto": cielo;
"mediano": terra; e "sotto": inferno) fu adattata
anche alle circostanze di lavoro. Le gallerie dei
minerali furono identificate con la morte; ed alla
Vergine, mediatrice della vita, si canalizzarono
spiccate attitudini devozionali. Il minerale
divenne ambiguo per la sua stessa preziositá: se
é ricchezza per alcuni, é tragedia per altri. Nel
tempo coloniale, la condanna al lavoro forzato
delle miniere fu solo per gli indigeni; ed essi, pur
essendo la fonte del benessere della cittá, furono
esclusi dai diritti civili. La contrapposizione tra
Vergine/Diavolo serví per determinare i loro
diritti di "liberazione", che essi identificarono
nella figura della Madonna. Infatti, il diavolo
con la denominazione di Supay, continuó a
vivere "nel basso", dentro la miniera. Per
ammansire la sua forza ammaliatrice, fu
dichiarato protettore dei minerali. Dalla sua
bontá o odio, ancor oggi, dipendono gli esiti o le
tragedie nel sottosuolo.
Vergine della Candelaria: Vergine del
Socavón. Il santuario del Socavón, una caverna
nella montagna di Pie de gallo, é luce e oscuritá,
quindi spazio di mediazione tra il mondo
sotterraneo e la superfice. Lí si é creato un luogo
di culto alla Vergine come passaggio dalla
fertilitá dei beni delle miniere a quelli agricoli.
La Vergine é, infatti, dichiarata nel Carnevale
protettrice dei minatori, con il titolo di Vergine
della Candelaria. La trasposizione temporale -la
festa della Candelaria cade nel calendario
cristiano il due di Febbraio- ai giorni del
Carnevale, in Oruro, fu giustificata dalle
seguenti tradizioni.
Chiru-Chiru era un benefico malfattore che
rubava ai ricchi per dare ai poveri. Non si
26
conosceva il suo nascondiglio. E non vedendolo
per le strade, i poveri cercarono informazioni di
lui; e lo trovarono morto nella caverna di Pie de
gallo. Nel posto d' onore della sua tana
risplendeva un' immagine della Vergine della
Candelaria. Il luogo divenne presto luogo di
preghiere alla Candelaria per il fatto che, si
seppe in seguito, Chiru-Chiru, ferito da una
pugnalata mortale, fu aiutato dalla stessa
Vergine a ritornare al suo nascondiglio. Cosí il
popolo, secondo la tradizione iniziata da ChiruChiru, continuó a venerare la Vergine nel
Socavón.
Un' altra tradizione riferisce l' assassinio di un
uomo di vita signorile, conosciuto con il nome di
Nina-Nina, ma che in realtá era Anselmo
Bellarmino. Questi si sarebbe innamorato di una
donna indigena il cui padre si opponeva al
matrimonio. Il sabato di Carnevale, i fidanzati
decisero di fuggire, peró furono raggiunti dal
padre della giovane, che piantó una spada nel
cuore di Nina-Nina. Padre e figlia sparirono nell'
oscuritá, lasciando moribondo nella strada il
povero innamorato. Per fortuna passó di lí una
donna che lo soccorse portandolo ad un ospedale,
dove morí con gli aiuti della santa religione.
Quella donna benefattrice era la Vergine Maria
che contraccambió la devozione del Nina-Nina il
quale, ogni sabato, accendeva una candela
davanti alla sua immagine, esposta nel Socavón
della miniera di Pie de gallo. La caverna del
Socavón diventó, pertanto, luogo di venerazione
alla Vergine del Socavón.
2.5- Una grande allegoria: provocazione ed invocazione
Il Carnevale non é la festa di un giorno ma un ciclo feste che, rompendo gli
aspetti usuali della vita quotidiana, invoca il ristabilimento di un ordine
sociale, antico ed ideale, dove le contraddizioni tra mondi distinti si
dissolvono a favore di uno spazio di vita comune, che é Oruro. Solamente la
festa carnevalesca -gioco di gesti, di parole, di maschere, di balli, di azionipuó invadere la totalitá delle attivitá e della dimensione urbana
introducendovi un' organizzazione differente.
27
La disorganizzazione, che é reazione ai modelli stabiliti, si manifesta come
provocazione. Le tante contraddizioni cittadine affiorano attraverso una
dinamica di trasgressione pubblica: nelle strade, piazze e chiese il popolo
mette alla luce del giorno il desiderio di nuova vita. La provocazione si
sparge su tutto e soltanto la ritualitá puó diminuirla offrendo momenti ed
eventi di catarsi collettiva tra le opposizioni: rafforzare nell' alto (hanan
pacha) la legittimazione di una societá cristiana (peró, sempre in pericolo di
staccarsi dalle esigenza della vita dei fedeli per cambiarsi in "religione di
Stato"), nel mediano (uku pacha) le contraddizioni istituzionali della vita
quotidiana e nel basso (urin pacha) l' esistenza di un mondo sfruttato e
lontano dalla comunitá civile.
Dai "vinti" viene il coraggio della provocazione che ripropone un mondo
antico mediatizzandolo attraverso la figura della Vergine del Socavón. I
"vinti", infatti, non si identificano con l' ufficialitá della cittá. E in questi
giorni i luoghi di potere rimangono in silenzio, rifiutati dall' emergenza
popolare. Si attualizzano anche gli antichi riti. La festa della Vergine della
Candelaria, il due di Febbraio, é la piú vicina a quella agricola dei "germogli
delle coltivazioni", che si celebra nell' Altopiano. La previsione della
ricchezza dei frutti della terra permette ristabilire relazioni di intercambio tra
i gruppi sociali: tra gli ayllu e tra i piani ecologici primordiali.
Perció il Carnevale é innanzitutto venerazione alla terra ed ai suoi cicli di
fertilitá, che si riproducono secondo il mito dell' eterno ritorno, segnato dalle
stagioni le quali segnano relazioni specifiche anche tra le persone. I cicli
della vita nel loro rapporto di uomo/donna si articolano attraverso l'
allegoria.
Cosí
le
opposizioni:
terra/acqua,
monti/pianura,
superfice/sottosuolo acquisiscono la stessa valenza di fertilitá dell'
opposizione uomo/donna. Il Socavón assume queste relazioni e le raffigura
nell' immagine della Vergine: potere autosufficiente e creatore della vita. L'
elaborazione teologica affermava:"Dio é fecondatore della Vergine come il
sole é fecondatore della terra".
Ció che é espresso in termini religiosi e cosmici ha anche il suo riferimento
alla situazione del Socavón: sui pendii, arsi dal sole, della montagna vivono
innumerevoli lucertole. La credenza popolare afferma che succhiare il
sangue di questi animali provoca gioventú cosí come punzecchiare una
persona con la pagliuzza, che la lucertola ha trattenuto in bocca e l' ha
depositata su una pietra, é talismano di innamoramento e di fertilitá sessuale.
Infatti, é Amaru, il serpente protettore, colui che unisce tra loro i piani
ecologici e li rende fertili per le connessioni d' acqua. La grande allegoria di
Oruro si snoda, perció, in questa circolaritá: la Pachamama é fertilitá della
terra, i Mallku la proteggono -loro sono il limite cittadino tra ostilitá e
28
sicurezza- e Amaru é il fecondatore in quanto dispensatore dell' acqua.
Ma la partecipazione alla festa raccoglie motivazioni ed obiettivi soprattutto
familiari. Qui la dimensione della fertilitá é legata a desideri di benessere, di
prestigio e di sicurezza di vita, come anche a gratitudine per un dono
ricevuto. É il caso, che mi viene dichiarato dal responsabile del gruppo dei
danzatori "inca" che compariranno nel Carnevale e saranno il riferimento piú
specifico al mondo ancestrale. É un minatore che, nonostante la sua modesta
economia, si é assunto l' incarico di spendere affinché la sua festa sia la festa
di tutti. "La vita dei minatori, mi dice, é vita da pazzi. Scendono nelle
gallerie masticando coca e bevendo alcool. Arrivati nei sotterranei, lottiamo
contro le pareti di terra; allorché le trivelle incontrano resistenza usiamo
dinamite. Uno scoppio di dinamite andato male fa saltare le cervella.
Moriamo per disattenzione, dicono quelli dell' impresa. Uno di questi scoppi
di dinamite mi seppellí sotto un cumulo di terra. Lá sotto piansi e promisi
alla Vergine una festa di Carnevale. I miei figli non volevano che mi
mettessi in queste spese, ma io ho voluto mantenere la promessa; e cosí gli
Inca saranno i ballerini che danzeranno per me alla Vergine".
Posso visitare la sua casa, allestita giá ad oratorio. Nella stanza principale si
erge una grande statua della Vergine, con candele accese ai suoi piedi e
circondata da simboli di sole e ñusta; nella stanza vicina, un crocifisso con
pochi fiori davanti e senza altra coreografia specifica. La Vergine é
nuovamente Pachamama, figura centrale nelle opposizioni, che specificano
contrari per dare fertilitá e provocare un' attitudine devozionale: ringraziare é
sempre desiderio di vivere ancora. In un momento di riflessione, che mi
allontana dal suo parlare, il minatore mi interrompe affermando che tutto
questo lo fa perché é cattolico e non perché minatore. Acconsento con il
silenzio. Insieme beviamo alcool dopo averne offerto un poco alla
Pachamama, facendolo scorrere al suolo. Il suo volto si illumina di un
sorriso perché ho pregato con lui. Cosí ballare per la Vergine, spandere
alcool, proclamare che San Giuseppe é "la Vergine San Giuseppe" sono gesti
e parole di un' unica sequenza di invocazioni.
La casa del minatore descrive un quadro di relazioni: uomo/donna,
uomo/fiori, donna/sole, uomo/luna, che sono opposizioni e simboli nati nell'
universo sessuale. Un' irriverente archeologia dell' inconscio? Quando
ritrascriviamo itinerari di cielo, desiderio e limite formano il nostro mistero.
Anche il Carnevale, mascherato di allegorie, é proposta ed apertura ad una
storia, che non abbiamo mai pienamente vissuto.
29
3. Il tempo del Carnevale
"Per tutto il tempo del Carnevale ci
siamo sentiti amici di molte persone
sconosciute; segretamente ci siamo
comunicati orizzonti di umanitá nuova;
orizzonti piú vicini alla terra, alle
ricchezze dei monti, al lavoro ed ai
progetti di essere pellegrini nei
differenti cammini della vita, senza
separazioni e senza conflitti."
3.1- I preparativi
La prima domenica dopo Ognissanti, si compie il primo convito o promessa
alla Madonna del Socavón di ballare per tre anni in suo onore. Davanti al
"Calvario", nella piazza antistante il santuario, si preparano posti di vendita.
Giá sono stati nominati i pasantes; loro sono incaricati di organizzare i
rispettivi gruppi di danzatori e di finanziare le spese necessarie. A tal fine
fanno il rodeo: inviare un regalo agli amici in cambio di cooperazione e
sollecitandoli a preparare la coreografia della festa: archi, carri ornati di
oggetti preziosi ed altre cose.
Dopo questo primo convito o promessa, ogni domenica si fanno le prove: i
danzatori si esercitano nel ballo per le strade della cittá, accompagnati da
bande musicali, al tempo che nella piazza del Socavón si realizza il mercato
delle Alasitas con vendite di dolciumi e di alcoolici, di scambi di beni in
natura e culto all' Ekeko, dio dell' abbondanza. La veglia alla Vergine si
ripeterá ogni settimana fino al Carnevale. Saranno programmati anche atti
devozionali con canti e preghiere. Al suono delle bande musicali si mastica
coca, condividendo liquori e sigarette. I fondi che si raccolgono sono
destinati alle spese. La penultima domenica prima della Quaresima -i
quaranta giorni che preparano alla Santa Pasqua- si realizza il secondo
convito. I danzatori, divisi in gruppi, vanno al Socavón secondo un ordine
prestabilito; e dalla mattina alla sera ripetono ritmi di passi e di musica.
Il Giovedí della stessa settimana, all' ora del tramonto, tutta la cittá si
aggruppa in posti specifici. Dimenticati i centri della cittá, che sono luoghi
del potere civile, si valorizzano i luoghi popolari: il mercato, la Ranchería e
le strade circonvicine. Ritualizzando l' abbondanza, il popolo vive l'
effervescenza dei suoi costumi e modalitá di vita. Per tutta la notte nel
30
mercato centrale, in una linea di solidarietá con la ch' alla fatta nelle gallerie
delle miniere, ci si diverte, si mangia, si ascolta musica, con gesti che
infrangono le barriere di classe e che fanno emergere amicizie prima
nascoste.
3.2- Attori occulti e intenzioni manifeste
Questo Venerdí é anche il giorno degli ultimi preparativi. Gli artigiani di via
La Paz -la strada vicina alla Ranchería- danno gli ultimi ritocchi alle
maschere e rifiniscono i costumi delle danze. Questi artigiani non lavorano
solo per il Carnevale. Le loro botteghe sono affollate di angeli, di sacri cuori,
di croci e di altri oggetti religiosi. Le maschere dei diavoli, dei morenos e di
altri gruppi di ballerini convivono con le immagini cristiane in una
mescolanza di profano e di sacro. Soltanto l' intelligenza popolare assegna ad
ognuna la sua forma integrandola in uno stesso universo culturale. Gli
artigiani, infatti, non stanno nelle loro botteghe solo per impegni di lavoro.
Hanno coscienza del proprio ruolo sociale, che é quello di dar vita alla
memoria ancestrale. La loro specializzazione artistica piú che dalla bravura
in sé, é giustificata dalla tradizione familiare e dal tempo di vita che hanno
trascorso in Oruro. Dialogano con le maschere: sul come dare loro un
supplemento di bellezza che migliori l' immagine del personaggio il quale
andrá per le strade e per le piazze. I bambini ed i ragazzi non partecipano a
queste preoccupazioni: fabbricare e far vivere le maschere richiedono
iniziazione.
Dopo si va tutti al mercato. Lí, la ricchezza é ostentazione di oggetti preziosi
d' argento, di frutta tropicale delle Valli e di quella piú rara dell' Altopiano.
Nel mercato e nei suoi dintorni si gioca alla fortuna, mentre giradischi e
registratori diffondono musica autoctona e di altre provenienze. Non é facile
muoversi tra tanta gente, ma é bello sparire nell' allegria della festa. Il luogo
dell' abbondanza ha radici ed aspetti solamente popolari, come popolari sono
le vie degli artigiani che mantengono una relazione ideale con il Socavón ed
il Calvario; l' uno e l' altro adagiati sulle collina di Pie de gallo. La strada che
unisce il santuario con la cittá attraversa i quartieri periferici, toccando la
piazza principale, dalla quale si puó ritornare al punto di partenza: una
circolaritá territoriale che é complemento della dimensione religiosa e civile
dello spazio urbano. Sui marciapiedi delle strade sono stati organizzati posti
di osservazione e per questo sono state erette alte gradinate di legno. L'
attenzione e la preoccupazione delle persone per scegliere il posto di
osservazione indicano che la sfilata incomincerá in un quartiere di minatori e
terminerá nel Socavón.
I ballerini, per le loro promesse e conviti, giá hanno chiesto solidarietá alla
31
Vergine. In questa maniera le azioni, molteplici e variate nella loro
intenzionalitá, scandiscono il gioco profondo della festa. Sono i minatori,
infatti, coloro che articoleranno i ritmi e l' ordine di apparizione dei distinti
gruppi di danzatori. Essi saranno i diavoli, guidati da Lucifero e
accompagnati da Supay (adesso China Supay per i suoi tratti femminili e
maschili insieme). Ma é San Michele Arcangelo colui che dirigerá i passi di
tutti. I minatori sono giá usciti dalle gallerie della miniera e la notizia crea
disordine. La loro audacia si visualizza come disordine e solamente San
Michele Arcangelo ristabilisce l'ordine dell' universo culturale cristiano.
L'opposizione verticale tra Madonna/Lucifero (tra l' "alto" ed il "basso") si
cambia in "incontro" sul piano della superficie, che é quello della vita reale.
Per questo i minatori, abitanti del mondo oscuro e sottorraneo, possono
uscire alla luce del giorno ed acquisire diritti di cittadinanza.
Adesso i minatori possono scendere nella piazza principale proclamando che
la fertilitá dei minerali, attivitá del mondo sotterraneo, é in reciprocitá con la
pianura e, quindi, integratrice delle strutture sociali della cittá di Oruro. La
dialettica di "alto/basso" é, allo stesso tempo, opposizione tra societá e tra
classi sociali, che é dinamica della vita insieme. Dietro ai diavoli si
organizzano gli altri gruppi di danzatori che, con i loro costumi e balli,
ricordano le caratteristiche e le sofferenze dei mondi sfruttati: Morenos,
Tinku, Inca, Caporales, Tarabuqueños, P' unchay ed altri. L' ironia unisce ora
padroni e servi; la musica, coordinando passi e gesti, disegna pezzi di
memoria collettiva che, anche se infranta, é presente nella sua globalitá.
3.3- Sabato: "entrata" del Carnevale
Abbiamo scelto la piazza centrale come punto di osservazione. I lati delle
strade, che la delimitano, sono affollati di gente, seduta sulle scalinate di
legno. Le finestre degli uffici di fronte sono un susseguirsi di volti ed uno
spingersi per guardare. La piazza é multitudine di persone ed é impossibile
mettere ordine. La festa é giá iniziata; e la partecipazione diretta é una sua
caratteristica. Si continua a vendere cose mangerecce, dovunque si tira acqua
e la gente si muove in tutte le direzioni. Quelli di Tarabuco, avvolti nei loro
tipici ponchos, si avvicinano per vendere oggetti artigianali. Ed anche noi
organizziamo la nostra festa mangiando, bevendo e chiacchierando in un'
atmosfera di allegria e solidarietá.
Non ci sono segni particolari che condizionino le nostre azioni; e cosí tutti
siamo attori. Sono le nove di mattina e, conversando, l' attesa é soprattutto
per i Diavoli, Tinku, Tobas e Inca. Ogni persona si é identificata con i propri
eroi che rappresentano uno specifico status sociale perché immedesimarsi
con un gruppo di danzanti é anche un prepararci alla nostra danza. La piazza
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adesso impone le sue ritualitá e norme di comportamento che sono percepite
e condivise in maniera spontanea. La musica viene dal fondo della piazza. Si
occupano istintivamente i propri posti di osservazione per ammirare ed
applaudire.
Carri abbelliti di argenti come offerta. Preceduti da bande musicali si
avvicinano i carri adornati di cose preziose: macchine, camion avanzano
ricoperti di argenti, di monete e di immagini del Socavón. Gli atteggiamenti
e la ritualitá dell' andare manifestano intenzioni occulte. Anche se l'
organizzazione é quella di una processione alla Vergine, in realtá si procede
come in una sfilata di offerte antiche: le ricchezze passano per la piazza,
arrivando da tutte le regioni del impero incaico in dono alla coppia reale: al
sole ed alla luna. Il significato piú profondo é precisamente questo: i frutti
del lavoro agricolo e delle miniere sono presentati alle divinitá. Il
sincretismo mette insieme Madonna/Inti (sole), Cielo/Averno e
Nazionalitá/Stato.
Lucifero: re del Carnevale. Tra scoppi e scintille di fuochi artificiali nell'
asfalto, avanza il re della festa. É Lucifero che arriva in groppa a un
bellissimo cavallo. La sua maschera impressiona per i tratti multicolori e per
la coreografia creata dai Mallku mitici: occhi sproporzionati, corna che
fendono l' aria, vipere, rospi ed un mantello di porpora che gli copre tutto il
corpo. Passa urlando e guardando in ogni dove. Dopo di lui, al ritmo della
medesima musica, vengono i diavoli che si muovono come corte compatta.
Davanti a loro, San Michele, vestito di bianco e che brandisce una spada. I
suoi passi guidano i passi di tutti. Ballano correndo in doppia fila e
sincronizzando il corpo con i movimenti delle braccia aperte. Gridano
rrr...rrr come un khoya -il posseduto, che canta ubriaco allo "zio" della
miniera che é il Supay-. La China-Supay precede il gruppo, senza avere una
posizione precisa nella danza. Avanza in movenze che esagerano le sue
caratteristiche di maschio-femmina; solitaria e maliziosa cerca alleanze
ambigue.
I Morenos: legati per sempre. Sono preceduti dai re morenos. Una
leggenda e realtá di tutta l' America Latina e del mondo intero, espressione
della storia di una razza: gli schiavi negri. Avanzano, pesanti di ricchezza,
con una maschera immensa che scende fino a metá corpo, rotonda e rigida,
che li copre fino ai piedi. I loro passi piú che un ballo sono un muoversi
ritmato. I Mallku, disegnati sui loro costumi, li legano al mondo antico ed
alla condizione indigena di condannati ai lavori forzati. La loro musica é una
melodia, ritmata dal suono dello strumento che rappresenta il loro lavoro e
che, con il movimento del braccio, fanno girare sulle le mani. I ballerini sono
numerosissimi. Lo splendore dei costumi colora tutto lo spazio della piazza;
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spariscono camminando lentamente, sepolti da sofferenze recondite.
I Caporales: cosí ci maltrattavano. Si vedono prima gli aguzzini che
compiono gesti di crudeltá. Il loro camminare, con passi lunghi e lanciati
nell' aria, ingiganta il loro corpo. Le fruste, smisurate in lunghezza e
spessore, sbattute contro l' asfalto, provocano cupi rumori. La massa viene
dopo di loro, divisa in tre o quattro file di danzatori, che si contorcono sotto
il peso della fatica. Mescolano passi di musica e gesti ludici. Un ballerino,
fermatosi di fronte ad alcuni spettatori, si esibisce in un assolo di danza;
termina piegando il corpo all' indietro, poggiandosi sulle braccia che toccano
il suolo. Tra le persone si sussurra: é un omosessuale. Il proibito puó vivere
apertamente solo tra gli emarginati: gli sfruttati e gli ostracizzati dalla societá
partecipano con uguali diritti alla festa. Le antiche catene sono rappresentate
dai sonagli ai piedi e la condanna al lavoro dalle decorazioni dei costumi. Il
ballo unisce questi personaggi: gli aguzzini, preziosi nelle loro vesti, ed i
servi che si muovono al ritmo delle fruste.
Gli Inca: splendenti come il sole e la luna. Il gruppo avanza con i
personaggi che furono i testimoni della tragedia: Inca e Spagnoli. Si vede
prima Pizarro, Almagro ed il sacerdote Valverde; dopo vengono l' Inca
Atahualpa ed i suoi consiglieri, con diademi di oro, e le ñusta con corone
reali. Gli uni e le altre sono avvolti in un lungo ed ampio mantello. Gli
strumenti musicali sono autoctoni. Calzano abarcas e portano fasce dorate,
che cadono dalla cintura lungo i fianchi. Figure di sole, di luna e di altri
disegni geometrici di segreti ancestrali mostrano il mondo antico, ricordando
una "memoria" vicina e lontana. Cantano in quechua melodie di tristezza. Il
ballo si snoda in movimenti di diademi, di corone reali e di mantelli.
Andando raccontano i fatti determinanti della loro storia: confronto, lotta e
spoliazione, che imposero loro gli invasori. La musica modula passi e canti
di tragedia.
I Tinku: uomo-terra. Il gruppo appare gridando: "io sono uomo". Sono
numerosissimi ed avanzano in due file. Antecedono gli uomini e seguono le
donne. I loro cappelli tipici brillano per gli specchietti che vi sono affissi. Gli
uomini avanzano, retrocedono, si mettono di fronte e fanno la lotta del tinku;
dopo formano un circolo intorno ad un cappello, posato per terra, e in catena
circolare. Gli uni con le braccia appoggiate sulle spalle degli altri, ballano
colpendo il suolo con pesanti passi. É un esercizio di guerra: dondolano il
corpo sincronizzando i movimenti della testa con i piedi; insieme sono per
terra disegnando con le gambe segni incomprensibili. Dopo, con le mani
ferme sui fianchi, stando in ginocchio dirigono la testa a destra ed a sinistra.
Si alzano, avanzano con passi rapidi e retrocedono con gesti di coraggio.
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I Tobas: un popolo della Bolivia del Sud. L' inca Yupanki fu il
conquistatore delle selve orientali della Bolivia, che erano le terre dei Tobas.
Avanzano velocemente, solenni nei loro piumaggi: la gloria degli Inca si
ripete. I corpi sono vestiti di soli specchi, collane e tatuaggi. La danza é un
andare di agili salti, composto di movimenti di guerra e di caccia.
Pujllay: come in una semina. Le vesti sono quelle di ogni giorno,
punteggiate adesso dal luccichio degli specchietti che le adornano. Rilucono
solo specchi e ricami: le donne hanno lunghe trecce. La musica è di
charango a ritmo di un grido: huac..., cosí si ascolta. Uomini e donne
avanzano in gruppi separati e con passi distinti. Incurvano il corpo con
flessioni verso terra, girano su se stessi per incontrarsi, alla fine, in un faccia
a faccia. La relazione piú chiara é con la terra: un gioco che ripete gesti
antichi e attuali nei lavori della semina.
Quelli di Tarabuco: piú autoctoni e superbi. Le cadenza dei loro passi
combinano con le note di strumenti primordiali. Vestono i costumi
caratteristici del loro paese che é Tarabuco. Agli uomini, il casco (imitazione
dell' elmo spagnolo e con rifiniture multicolori) copre i lunghi capelli che
finiscono in lunga treccia; ponchos e pantaloni bianchi sono di tessuto
autoctono. I sandali che calzano hanno le suole di legno, alle quali sono
inchiodati speroni di ferro. La melodia esce da una lunga quena. Arrivano in
tre file e, con graduale coordinazione di ritmi; formano poi un circolo e lí la
festa é tra di loro e per loro.
L' entrada termina quando é giá notte. Sono passati davanti a noi attori ed
azioni che hanno rievocato la memoria ancestrale. Soprattutto le diversitá
delle melodie musicali, legate a societá diverse, hanno offerto motivi per
pensare. Con esse anche la vita attuale ci é sembrata una storia antica dell'
Altopiano e della Bolivia tutta.
3.4- Domenica e lunedí: continuitá di due giorni
Domenica, di buon mattino, andiamo al Socavón. Le strade sono piene di
persone, che in silenzio vanno al santuario in piccoli gruppi familiari e di
amici. Alla 4.30 siamo nella piazza giá traboccante di gente. Non é facile
entrare. Venditori ambulanti, danzatori, persone che si scambiano saluti e
tutte le bande musicali sono lí. Quest' ultime, rivolte verso il sole che nasce,
ripetono le loro melodie. Aspettiamo l' alba. Dalla croce del Calvario, il
posto piú alto della geografia del luogo, osservo lo spuntare del giorno. Un
colore rosso leggero si dilata nell' orizzonte, trasformandosi poi in azzurro
tenue. I musici ripetono con vigore i canti e la piazza é tutto un ballo. L'
annuncio degli albori del giorno ha provocato un canto di allegria che invoca
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la Madonna come "stella del mattino" che separa il giorno dalla notte. Il
gioco tra chiaro/scuro si visualizza nel Socavón, spelonca di superficie che é
incontro di luce/ombra. Anche le opposizioni delle coordinate ecologiche si
uniscono lí. Alla nostra destra, guardando il sole, osserviamo un' estensione
d' acqua e, alla nostra sinistra, la pampa. L' una e l' altra convergono verso il
mondo agricolo. La coordinata di "pianura e colline" é alle nostre spalle: é il
regno dei minerali. I gruppi dei danzatori, sempre nei loro tipici vestiti peró
senza maschera, entrano ed escono dalla Chiesa, unendosi al popolo.
A mezzogiorno, nuovamente si danza nelle strade. Noi abbiamo ripreso il
posto di osservazione del Sabato nella piazza centrale. Anche se si ripetono
le danze e le melodie di ieri, oggi c' é meno formalitá e piú spensieratezza. Si
vedono nuove comparse con cartelli e mimiche che denunciano le decisioni
economiche del governo. Anche i diavoli, dopo aver adagiato le maschere al
suolo, ballano al ritmo della cueca, ritornando poi ai passi della diablada. I
danzatori entrano nella piazza secondo l' ordine inverso del giorno prima. Le
caratteristiche carnevalesche e gli aspetti popolari sono di complemento alle
danze. La festa proseguirá per tutta la notte nei quartieri e nei luoghi di
divertimento.
Il lunedí -il poco riposo della notte non ha lenito la spensieratezza e la
dinamica della festa-, il popolo é ancora nel santuario del Socavón,
aspettando due spettacoli: quello degli Inca e quello dei Diavoli, denominati
relatos -la narrazioni-. Avranno luogo in due posti distinti. Gli Inca di fronte
al Socavón ed i Diavoli sulla spianata sottostante, che é stata trasformata in
anfiteatro con gradinate di legno.
3.4.1- Il relato degli Inca: le tragedie di un popolo
É la declamazione teatrale di un manoscritto redatto in quechua. Si narra la
fine dell' impero incaico. Gli attori sono i personaggi della tragedia. La
figura centrale é, peró, il messaggero -chasqui- che é comunicazione tra i
capi indigeni ed i conquistatori spagnoli. Due mondi che si confrontano ed
agiscono con obiettivi contrapposti. Il messaggero disciplina e narra gli
avvenimenti. Ritrascriviamo i momenti salienti, basandoci sull' edizione piú
conosciuta del testo originale.
Richieste di Pizarro,
tradotte dal messaggero
Signor Inca Atahualpa,
ti dice questo il signore che comanda:
é inutile che tu vaneggi in fatti
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e che ti prolunghi in parole,
che non si possono comprendere;
io sono uomo ostinato
e davanti a me tutti si umiliano;
ti ho concesso un istante
perché ti prepari
e saluti
questi familiari tuoi.
................................
.................................
................................
Nella stessa maniera che con le tue mani
hai umiliato tuo fratello
l' Inca Huascar, cosí
davanti a me ti piegherai.
Maledizione di Atahualpa
prima di morire
Nemico con barba di wiracocha,
io sono rimasto sempre al mio posto
e non é mia abitudine
presagire disgrazie.
In questo giorno di tristezza
mi porti via la vita,
ma vivró nei tuoi pensieri,
porterai la macchia del sangue mio
eternamente;
tutti i miei sudditi
poseranno i loro occhi in te
ed essi, miei figli, ti malediranno
per ció che hai fatto.
Anche l' uccello che non ha
sentimenti, in ogni luogo
ti augurerá disgrazie
e camminerai senza riposo;
feroci avversari
ti distruggeranno con le loro mani
e dovrai maledire per sempre
la decisione irrevocabile
del mio potere.
.............................
.............................
37
.............................
Pianto della ñusta
Come vivremo
senza l' Inca, nostro signore.
É realtá o solo sogno
che il grande albero é stato abbattuto?
Ah! tu, Pizarro wiracocha,
che hai dato morte al nostro Inca,
tu morirai di triste morte.
Che la tua potenza
svanisca per sempre.
Nemico con barba wiracocha,
vivrai tra i tormenti del rimorso.
Che dobbiamo fare adesso
senza il nostro Inca?
Tutto si oscura
come nube nella bufera.
..............................
..............................
...............................
3.4.2- Il relato dei sette peccati mortali: le rotture della solidarietá
Lucifero e San Michele Arcangelo rappresentano le opposizioni tra virtú e
peccati, individuali e collettivi. Lucifero manda alla lotta i suoi seguaci e, all'
ultimo, umiliato si inginocchia davanti a San Michele. La China Supay sará
allontanata dal vivere umano peró senza essere distrutta. Edoardo Moscoso
riferisce cosí gli avvenimenti, ormai parte della tradizione popolare:
............................
............................
............................
Rompe il silenzio la voce giustiziera
mettendo paura alla turba fiera.
- Dov' é il peccato della lussuria,
il cui solo nome il genere umano ingiuria?
- Qui c' é la lussuria. Oh angelo di luce,
risponde un demonio fuggendo dalla Croce.
Ritorna a chiamare il santo: La pigrizia?
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A passi lenti arriva la pigrizia,
vestita da diavolo bramoso,
modello esatto dell' uomo ozioso.
Alla domanda del soldato celeste
si fa presente un essere grasso come un prete
.............................................
.............................................
Dopo, la gola divora un salame in fretta.
Dice Michele alzando il suo pugno divino:
- Qui si presenti, rovinosa e felina,
la invidia. Essa si avvicina paurosa a lui.
.....................................
.....................................
É un triste essere maligno di sguardo basso
che sporca la virtú e la morale ribassa.
E si presenta subito la superbia,
di broccato magnificamente vestita.
- Disprezzabile sei demonio vanitoso,
esclama San Michele.
Avanza l' avarizia pentita.
Porta, questo diavolo, un bel mantello di oro
rubato, chi puó saperlo?, dall'arca di un moro.
- Demonio insaziabile non hai budella,
nel tuo ventre passano montagne.
Sentendo questa malediazione, il perverso
si abbassa a stento come un rospo.
Mille voci risuonano: Attento, Michele; guarda.
E si gira l' angelo...La ira lo incalza.
- Vade retro satana... Dio sta con me.
Si lancia nella pugna con la nemica.
Quella lotta dura molto.
Vincerá l' angelo? L' esito non sembra sicuro.
I diavoli afferrano i loro tridenti.
China-Supay lancia sibili stridenti:
Arr... Arr... L' intorno é tutto un tafferuglio.
3.4.3- Cacharpaya o Addio al Socavón
Dopo le rappresentazioni teatrali, verso le tre del pomeriggio, tutti i danzatori
ritornano al santuario del Socavón. Ancora una volta l' attenzione della gente
é su di loro. Sulla porta della chiesa, tra musica ed allegria del popolo, ogni
responsabile di un gruppo di danzatori dá lo stendardo a colui che s'
incaricherá dei festeggiamenti del prossimo anno. Terminata la cerimonia,
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ordinatamente i danzatori entrano in chiesa cantando l' inno del proprio
gruppo. Si fermano davanti all' altare ascoltando le raccomandazioni che
rivolge loro il sacerdote. Dopo la benedizione, ognuno compie in ginocchio
un giro attorno all' altare della Madonna. Uno dopo l' altro, mormorando
preghiere, eseguono il rito, che finisce quando inizia la notte. Adesso
scendiamo in cittá con l' impressione di aver chiuso un ciclo di feste, che ha
manifestato aspetti di religiositá popolare tra balli, canti ed allegria.
3.5- Martedí: ch' alla familiare e comunitaria
É il giorno della festa domestica. Dopo la catarsi collettiva, la famiglia
ritrova i suoi ruoli specifici. La ritualitá controlla anche questi spazi che non
sono solo spazi d' intimitá, ma anche comunitari. La successione dei fatti dei
quali parleremo piú avanti, fu osservata nella casa del pasante, responsabile
del gruppo dei danzatori incaici. Padri, figli e parenti si ritrovano uniti in un'
azione di offerta, confermando le relazioni che, piú in lá dei legami di
sangue, sanciscono anche norme di comportamento pubblico. Il momento
piú importante della cerimonia si realizza intorno al sacrificio di un lama;
dopo, tutti parteciperanno al pranzo che sará un condividere insieme l' offerta
stessa.
All' alba, le donne iniziano il lavoro di pulizia della casa. Gli uomini vanno a
comprare alcoolici ed altre bevande. Il primo incontro di famiglia si realizza
all' ora della colazione, fatta a base di api o di caffé, accompagnati con pane
speciale. Dopo, gli uomini, i piú anziani di loro, ammazzano un lama
preferibilmente maschio, bianco e di un anno di vita. Il sacrificio dell'
animale é presieduto da colui che é maggiormente iniziato al rito o, in
mancanza di questi, da un yatiri, espressamente invitato. Il lama é
ammazzato colpito al cuore. Il sangue é raccolto in un recipiente. Nel
frattempo, le donne continuano nei lavori domestici e preparano il mangiare.
I bambini giocano nella strada tirandosi acqua. Gli anziani, sempre diretti
dall' iniziato, purificano i vari ambienti domestici, disegnando croci agli
angoli con il sangue del lama. Nel centro del cortile si prepara la mensaaltare, adornata con coriandoli, riempita di dolci e profumata di incenso.
Tutta la casa é abbellita con carta multicolore. Terminata la decorazione,
ogni persona é invitata a fumare ed a bere. Le donne cuociono il lama mentre
gli uomini, seduti nel cortile, chiacchierano sui fatti del Carnevale o del
lavoro fino alle tre del pomeriggio, momento nel quale ci si siede a tavola. Si
mangia solamente carne di lama che deve essere ben condita. Il pranzo dura
varie ore e dopo si va alla mensa-altare. Lí, si bruceranno le ossa; le ceneri
saranno messe sotto terra in un angolo del cortile. Sempre intorno alla
mensa-altare si brucia incenso, spargendo alcool per terra in venerazione
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della Pachamama ed invocando sicurezza nel lavoro e nei viaggi. Dopo si
balla e si beve fino all' ebbrezza. Anche se questo é lo stato psicofisico che si
deve raggiungere, non sono ammesse esagerazioni. Il momento piú intenso
del rito é l' unione tra la Pachamama, la famiglia e le preoccupazioni per il
lavoro.
3.6- Domenica di Tentazione: cacharpaya intorno ai Mallku
La Vergine del Socavón, Pachamama, dea della miniera e della fertilitá
familiare, é complementare all' azione dei Mallku che delimitano lo spazio
urbano da quello della campagna. Andare verso essa é affrontare un universo
socio-culturale ed economico, sconosciuto all' uomo della cittá. Per questo i
Mallku sono allo stesso tempo buoni e cattivi. Le loro immagini circondano
la cittá disegnando le coordinate ancestrali: é necessario placare la loro
psicologia mitica perché la cittá possa ingrandirsi e arricchirsi dei beni
agricoli. Nel pomeriggio della Domenica di Tentazione -la domenica che
segue al Carnevale- si fanno sacrifici in onore ai Mallku: il condor, il rospo,
le formiche, la lucertola e, in special modo, la vipera. La popolazione va a
Chiripujiu che é precisamente il luogo consacrato a quest' ultima. Le sue
connotazioni sessuali, la sua posizione nel posto piú avanzato verso la
campagna, favoriscono le piú svariate motivazioni: le persone arrivano in
gruppo e con ogni tipo di locomozione. Le bande dei musici, in piedi su
camion che sono stati disposti in ampio circolo, fanno risuonare nell' aria le
loro note. Lí, moltitudine e melodie organizzano la festa con balli, cibi e
bevande.
Gli aspetti religiosi sono canalizzati verso la Vergine. La ritualitá é, in parte,
simile a quella del Socavón. La vipera, pietrificata, appare sulle colline come
snodandosi verso la cittá; in Chiripujiu si staglia la sua enorme bocca che é
oratorio. Ci si arriva passando fra una doppia fila di venditrici di oggetti,
necessari per l'offerta: incenso, alcool, rappresentazioni di petizioni -camion,
case, benessere-, erbe odorose di segreti magici ed immagini di Mallku. Si
vende tutto ció che serve per preparare una mensa-altare, che sará bruciata
davanti alla spelonca, che é la bocca della vipera. Vedo coppie di giovani
che comprano oggetti per il sacrificio.
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La mensa-altare si prepara con alcune pietre sopra le quali si stende un
fazzoletto di tela bianca. Incenso ed oggetti si bruceranno nelle vicinanze
dell' oratorio. Alcune persone hanno organizzato una mensa-altare a contatto
con le sembianze della vipera. Fiamme di fuoco, odore di bevande e l'
ammucchiarsi delle persone non favoriscono la visibilitá. Improvvisamente
le fiamme si ingigantiscono per il fatto che il fuoco é stato alimentato con
benzina. La macchina fotografica deve essere usata con prudenza: il contatto
con il sacro impone silenzio ed intimitá. Solamente i familiari, gli amici, i
compagni di lavoro conoscono i desideri che si dicono ai Mallku. Piú facile é
essere invitati a condividere l' offerta; ci si serve di un poco di tutto e si
ringrazia: questi sono i gesti che esprimono solidarietá e manifestano
motivazioni occulte.
%%%
Per tutto il tempo del Carnevale ci siamo sentiti amici di molta gente
sconosciuta; segretamente ci siamo comunicati orizzonti di nuova umanitá;
orizzonti piú vicini alla terra, alla ricchezza dei monti, al lavoro ed ai progetti
di essere pellegrini nei differenti cammini della vita, senza separazioni e
senza conflitti.
San Carlos, Cochabamba, Aprile 1986.
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