1 ii allegoria delle ande: il carnevale di oruro 1986
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1 ii allegoria delle ande: il carnevale di oruro 1986
II ALLEGORIA DELLE ANDE: IL CARNEVALE DI ORURO 1986 1 L'opposizione verticale tra Madonna/Lucifero (tra l' "alto" ed il "basso") si cambia in "incontro" sul piano della superficie, che é quello della vita reale. Per questo i minatori, abitanti del mondo oscuro e sottorraneo, possono uscire alla luce del giorno ed acquisire diritti di cittadinanza. 2 1.- Quadri antichi dell' Altopiano boliviano "...anche se organizzati, i miei viaggi di ricerca tra questi mondi antichi sono abbandonati soprattutto alle occasioni. ...silenzio, parole, ambiente, espressioni di volti, studi di fossili, di costumi, delimitazione di zone geografiche ed osservazione di paesaggi sono sempre un domandare alla terra, alle cose ed agli uomini realizzazioni di umanitá." 1.1- Da Oruro verso Chipaya La corporatura piccola e snella gli permette di muoversi tra gli arbusti di t' ola senza richiamare l' attenzione dallo stagno antistante. Curvo su se stesso, avanza a corti passi sostenendo il fucile da caccia con lo sguardo fisso all' acqua. Anche la sabbia gli é amica. Arrivato a cento metri, appoggiandosi a un cumulo di terra, si mette in posizione di tiro. Allo sparo risponde un batter d' ali ed un andirivieni impazzito: le due anatre selvatiche vanno da una parte all' altra dello stagno, muovendosi ora in linea retta ora in giri concentrici, nel tentativo di liberarsi dall' acqua, troppo poca per essere la loro salvezza. José ha bisogno di un' altra pallottola e frettolosamente ritorna alla jeep. I due animali si sono accorti della mia presenza e stranamente sono lí, fermi a pochi metri. Mi sorprende il loro atteggiamento, con lo sguardo fisso su di me. Posso distinguere i colori delle loro ali: un bruno oscuro, incorniciato da una striscia violacea. Un senso di indecisione, che é miscuglio di colpevolezza e di soddisfazione, mi divide tra il perché della sosta e la compassione per le vittime. Ricaricato il fucile, José corre dall' altra parte dello stagno, indifferente alla mia presenza. Le anatre sono sempre lí, sorprese dal presentimento dell' ineluttabile. Senza compiere altri movimenti, alzano la testa in una attesa che sembra voler essere confronto di lotta. Ancora uno sparo e nuovamente un picchiar d' ali; una si gira rapidamente su se stessa e si allunga tutta sull' acqua mentre l' altra ha preso il volo. Le onde arrivano increspandosi e trasportando quel corpo ferito a morte. Non é prudente allungarsi per prenderlo perché i miei piedi giá affondano nel terreno bagnato. L' anitra viene alla riva mostrando il petto bianco e come dondolandosi nell' acqua bassa. Nell' occhio, poco a poco, si specchia la vita di questo cielo d' Altopiano, pieno di sole; poi, un colore vitreo lo copre tutto. L' anitra viene con noi alla jeep. Le sue ali, penzolanti dalla 3 mano di José, si muovono inermi e piene di vento. %%% L' Altopiano mi sorprende nuovamente per la presenza di laghi, piccoli e grandi, e per il susseguirsi di stagni. L' azzurro delle loro acque appare piú intenso per il biancore della terra intrisa di salnitro che allontanandosi dalla riva si mescola con il giallo dell' erba bassa, seccata dal vento e dal sole. Anche la paja brava é attanagliata dalla sabbia. I cespugli si stendono intermittenti fino all' orizzonte alternandosi con le macchie di verde scuro della t' ola. Paja brava e t' ola sono l' unica vegetazione che attornia le dune, sparse qua e lá, testimoniando la precarietá della vita d' Altopiano in questi mesi invernali. Il paesaggio, peró, é sempre maestoso. Le cime appaiono lontane e solitarie senza delineare una catena montuosa; qui le Ande sono Altopiano e le cime ne rappresentano il punto piú alto. Solo la strada, che si allunga sull' orizzonte, dá profonditá a quest' insieme di cielo e terra. Da Corque -una popolazione abbastanza numerosa, con infrastruttura scolastica, civile e sanitaria- andiamo verso Huachacalla. In Corque abbiamo passato la notte, dopo cinque ore di viaggio dalla cittá di Oruro. Di buon mattino abbiamo ripreso il nostro correre in jeep e, avvicinandoci a Huachacalla ammiriamo, bianche e solenni, le grandi vette andine: Chukchiri, Tatasabaya e Sajama. A nord si puó distinguere Llallagua, la montagna famosa non tanto per la sua bellezza quanto per la sua storia di minatori. Sulla strada di terra battuta e coperta di sabbia, ondulata dal vento, non notiamo la presenza dell' uomo. In Opoqueri, paesetto a metá cammino tra Corque e Huachacalla, poche persone radunate nella piazza, diffondevano allegria festeggiando Santiago, loro patrono. I ballerini si muovevano davanti alla banda dei musici danzando le note della morenada. Le distanze e le caratteristiche degli insediamenti umani dimostrano che l ' ecologia dell ' Altopiano piú che ad un modello regionale unico obbedisce a una sovrapposizione di modelli discontinui tra loro. Le case, fuori dell' abitato, sono poche ed adibite come posti di servizio, dove si fermano le corriere ed i camion che vanno da Oruro a Huachacalla e di lí al Cile. Huachacalla deve essere stata una cittadina importante anche nei tempi passati. La sua architettura, pur dimessa, ripete quella dei grandi centri. A prima vista é difficile trovare ragioni per giustificare la continua presenza dell' uomo in questa regione di tundra; solamente il sale, che copre le grandi lagune, ed il fiume Lauca, con le sue possibilitá agricole, possono in parte spiegarle. Adesso Huachacalla é soprattutto posto avanzato della Bolivia verso la frontiera. 4 %%% Nella casa di Chino, che é un unico e grande stanzone fatto di adobes, provo una sensazione di vittoria che, al momento, é gratitudine verso Mario Chino, catechista della comunitá cattolica di Chipaya, il quale ci ha messo a disposizione questo tetto. Il freddo mi fa pensare a piú disagiate circostanze qualora non avessimo usufruito della sua ospitalitá. Conosce da qualche mese il mio nome che ripete facendolo precedere sempre dal nominativo di hermano (fratello); anche i riferimenti alla comunitá chipaya sono espressi con la stessa parola; il che é una maniera semplice e diretta di metterci a nostro agio. Dopo l' esperienza vissuta, mi sento un naufrago che ha raggiunto la sponda di un deserto di sabbia. La sconfitta di questo viaggio sarebbe stata la seconda impossibilitá di raggiungere Chipaya. La prima l' attribuii agli imprevisti dovuti alla stagione delle piogge. Il Lauca, divisione tra la zona aymara e chipaya, carico d' acqua, aveva interrotto il nostro cammino a venti chilometri dalla méta prefissa. Era Aprile e la pampa si mostrava come un soffice manto di verde dove, in lontananza, si potevano vedere i tetti conici delle prime haciendas -case dove si custodiscono gli animali da pascolo-, mentre alcuni Chipaya, che costruivano sbarramenti nella riva opposta del fiume, non rispondevano ai nostri richiami. Ancora una volta, dopo quattro mesi, eravamo davanti al Lauca attraversato da poveri rivoli d' acqua. Io e José commentavamo, sorridendo tra noi, il progetto di ritorno alle nostre case in Cochabamba. Esaminando la soliditá del letto del fiume con sorpresa scoprimmo verso il centro banchi di sabbie mobili. Si risolse di cercare un altro guado. Il vento ci buttava davanti nuvoloni di sabbia che ci impedivano di indovinare un cammino piú o meno sicuro. A momenti la jeep girava rapidamente su se stessa e con difficoltá potevamo superare altri ostacoli, sempre invisibili. L' obiettivo immediato era quello di trovare persone che conoscessero quei luoghi. Ma l' inverno dell' Altopiano, che non cambia di cielo, sferza la terra con il vento spingendo pastori e greggi verso altri pascoli, cosicché anche le poche case erano state abbandonate. Ci circondava un paesaggio lunare che dava una sensazione di vuoto. Ritornavamo verso Huachacalla quando nelle vicinanze di Escara ci imbattemmo in un uomo ed una donna che vagavano tra gli sterpi con i loro pochi animali. Ci informarono che un camion era transitato per lí tre giorni prima e che loro stessi avevano passato il fiume nella mattinata. Si riprese il cammino verso Chipaya preoccupati di non allontanarci da un' immaginaria linea che ci era stata descritta con ampi gesti di braccia verso il sud. Le difficoltá di prima che si presentavano ancora; e finalmente ci trovammo sul Lauca in un punto piú a ovest. Il guado era 5 indicato da rami di t' ola ma José volle provarne la soliditá per cui a piedi con l' acqua molto fredda di certo!- raggiunse l' altra sponda e di lí mi fece cenno di passare con la jeep. Essere stati naufraghi della sabbia dá una sensazione strana. Lí, le difficoltá si presentavano sempre ingannevoli e mai determinanti. Ti invitavano e scoraggiavano nello stesso tempo ed in modo tale che sembravano voler essere misura della precarietá della vita. Adesso, l' ospitalitá di Mario Chino vuole offrire sicurezza pensando forse all' esperienza, che abbiamo vissuto. 1.2- Una societá solitaria e remota Scrivere da Chipaya puó essere un atto di coraggio come di tradimento. Le due anatre selvatiche, ferme nell' acqua, il colpo d' arma da fuoco, le ferite, l' attesa di un confronto definitivo, la morte o la fortuita libertá sono immagini che applico come sequenza di fatti, lontani e vicini, alle vicissitudini dei Chipaya. Il loro paese é senza dubbio un insediamento di difesa e per questo arrivarci in jeep, anche se con intenzioni di pace, é una violazione: un rompere una logica territoriale, costruita su sbarramenti naturali e sulla paura dell' incognito. Chipaya mi apparve nelle prime ore del tramonto. La vidi, un insieme compatta di case e di tetti, ora attorniata di polvere ora immersa in un colore rossastro ora avvolta nel giallore della pampa. L' aumentare e diminuire del vento permetteva anche momenti di cielo terso che non davano peró nessuna sensazione di quiete. Siamo entrati, poi, in un andirivieni di case. La piazza, la scuola e la chiesa, anche se integrate nell' insieme, non fanno parte dello schema architettonico originario. Solo il campanile, come linea ideale nella verticalitá, conferisce unitá all' habitat. Le case con le porte verso Oriente, sono raggruppate in numero di quattro o cinque attorno ad uno spazio che é piazza per poche famiglie. L' architettura delle case é di tipo rettangolare o rotondo. Il primo é comune a quasi tutto l' Altopiano, che identifico a un modello aymara, ed il secondo a un modello chipaya. Soprattutto quest' ultimo gode della peculiaritá della presenza del fuoco, acceso per terra a un passo dall' unica porta della costruzione. Il semicerchio del fondo, che é un rialzo di adobes, funge da letto; tra questo e la porta c' é uno spazio per scaldarsi e che serve anche di passaggio. Nell' alto un raggio di luce, che esce da un pertugio del tetto e che nelle ore del giorno fende la penombra, articolando ideali livelli di esistenza. Ció che osservo mi infonde un senso di umanitá semplice e profonda. Le donne sono accovacciate sul letto. La piú anziana, che é la madre della famiglia, dirige i gesti di tutti: non parla, non sorride e rimane immobile. Pur 6 conversando con Mario Chino ed altre persone, entrate nel frattempo, la mia attenzione é fissa sulle acconciature femminili. I capelli sono raccolti in tante trecce che cadono su tutta la circonferenza della testa. Sono sottilissime e ricamano motivi geometrici; sulla fronte, un monile d' argento o un fiore definisce lo status civile di ciascuna, sposata o nubile. Il corpo é avvolto in una tunica color marrone, tessuta a mano. La cintura ai fianchi la divide in due: ampia sul petto e piú stretta nella parte inferiore. Le braccia provocano movenze di pieghe senza scomporre la loro immagine ieratica ed umile. All' imbrunire nella casa aymara -anche questa di Mario Chino-, seduti su due letti d' ospedale, portati qui anni fa da un missionario cattolico, la medesima donna ci serve un piatto di quinoa. Le sue ginocchia toccano la terra battuta e mantiene la faccia sempre rivolta alla parete in modo che noi mangiamo senza essere visti anche se osservati. Terminata la porzione, senza far parola ne allunga un' altra. Accettiamo. Aspetta ancora un poco e silenziosa esce preoccupata solo di chiudere la porta nel modo piú conveniente. Io e José ci guardiamo, ammutoliti dalla nobiltá e semplicitá dei gesti. Sparisce nel buio, animato dal vento che fa tremolare la luce delle candele, appoggiate su una finestra e su un ammasso di adobes. %%% Trattenendo le mani sotto il poncho, entra Mario Chino, accompagnato da alcune persone. Si avvicina al registratore e si siede sul mio stesso letto, mentre gli altri rimangono in piedi. Non ho voglia di parlare, immerso come sono in riflessioni sull' umanitá femminile chipaya, ma devo farlo perché cosí era stato deciso. Mario ci parla dell' organizzazione e storia della comunitá. Afferma di non conoscere a fondo gli usi e costumi dei Chipaya perché di famiglia "convertita" alla vita dei catechisti. Il suo schema di vita individuale e familiare si basa esclusivamente sulla Bibbia. Valorizza peró l' organizzazione comunitaria dei Chipaya, divisa in due ayllu: manansaya "quello di sopra"- e aransaya -"quello di sotto"-. La divisione é marcata da una linea ideale che separa le case, mantenendo come punto di riferimento il campanile della chiesa. Gli ayllu hanno cappelle distinte e la chiesa, comune ai due, serve per le feste piú importanti: solamente in queste circonstanze si puó infrangere il tabú della separazione di habitat. 7 ...ancor oggi esprimono la loro opposizione, dicendosi: uomini del momento del amanecer, nati agli albori dell' umanitá, e no-gente in rifiuto alle civiltá che volevano e vogliono sottometterli. 8 La famiglia "ampia" é la base del ayllu, ben distinta dalla famiglia monocellulare. La lingua, propria dei Chipaya, é indicata come puquina, potendosi essi esprimere anche in aymara ed in castellano. L' attivitá economica si basa sulla coltivazione della quinoa, l' allevamento di pecore, lama e sulla pesca. La reazione verso gli Aymara é espressa in questi termini: "siamo stati scacciati dalle nostre terre dagli Aymara, che non ci permettevano di pescare, di cacciare finicotteri, anatre selvatiche e altri animali degli stagni". Niente é piú pregnante di vita dei tanti silenzi di Mario Chino, silenzi che coprono vicissitudini, passate e presenti dei Chipaya. Il non-detto é la decisione, ormai abituale, di non ripercorrere fatti dolorosi della sua "nazione" come anche un non voler dare connotazioni dirette e specifiche ad un nemico che non é e non fu mai unico. Quello che gli antropologi definiscono il "mistero uru-chipaya" racchiude sia lo sconosciuto sulle loro origini sia l' imprecisato della loro storia e modalitá culturali di sopravvivenza in un contesto tanto ostile. Di fatto, essi sono un' isola etnicoculturale dell' Altopiano: lingua, caratteristiche razziali, modalitá di vita, organizzazione socio-economica li distinguono dalle popolazioni vicine con eccezione degli Uru, con i quali hanno molte affinitá e per questo considerati parte di loro. Dire Uru-Chipaya é affermare senza dubbio l' autoctonia piú antica di queste terre. L' espressione contro gli Aymara, riferita da Mario Chino nella forma e significato che si ritrovano nelle fonti del secolo XVII, testimonia un "testo" di tradizione orale che si é mantenuto con poche varianti per quattro secoli. Infatti, anche se organizzati, i miei viaggi di ricerca in questi mondi antichi sono abbandonati soprattutto alle occasioni. Anche José che é guida, interprete, meccanico di spedizione é parte delle mie osservazioni. Lui, pur essendo uomo di cittá, si muove con naturalezza in queste sovrapposizioni di culture. Forse molto dei mondi antichi é andato perduto, ma essi sono ancora la base della vita socio-culturale dell' Altopiano. Le diverse occasioni permettono di scoprire momenti e fatti di questa articolazione di elementi con provenienze diverse e che acquistano sapore di civiltá specifiche. Cosí silenzi, parole, ambienti, espressioni di volti, ritrovamenti di fossili, descrizioni di costumi, delimitazioni di zone geografiche ed osservazioni di paesaggi diventano anche un domandare alla terra, alle cose ed alle persone cammini di realizzazioni di umanitá. 1.3- Tra mondi antichi e differenti Kala-Kala. Mai avrei pensato che una montagna di rocce con davanti un 9 accavallarsi di sassi, piccoli e grandi, mi desse l' impressione di un habitat umano. Sparsi fazzoletti di terra coltivata, alcuni animali, lama e pecore che pascolano, e un poco di prato naturale mi offrono la realtá di un ambiente domestico. L' immaginazione di oggi corrisponde ad una realtá antica. Due grotte, incavate e ripulite dal vento, portano i segni della presenza dell' uomo. Sospese a due metri d' altezza, hanno una profonditá, larghezza ed altezza per poter albergare una diecina di persone. La parte piú protetta dalle intemperie é adornata da disegni di "llamas, vicuñas, cóndores, pumas y cabras, éstas últimas con artos cuernos", dice il campesino che ci accompagna. Un posto di residenza, di difesa, di attivitá di caccia, pesca e pastorizia. A pochi chilometri un calvario, che é una collina sassosa con giochi d' acqua ai suoi piedi. Spontaneamente stabilisco una relazione tra i due luoghi, separati tra loro dal pueblo di Sepulturas. L' insediamento umano, la trasformazione della collina in calvario, dal quale si spazia sulla pianura antistante, mi fa pensare a una tradizione di venerazione verso ció che i nostri antenati avrebbero potuto essere e fare. L' intuizione prende corpo allorché pur con le poche indicazioni si riflette sulle epoche di formazione dell' Altopiano, che contemplo nella parte centrale, piú vicina al lago Poopó. Gli archeologi e geologi sostengono che nel pleistocene l' Altopiano era un immenso bacino d' acqua, esteso tra le due Cordigliere delle Ande: la Cordigliera Occidentale, che rimane parallela al Pacifico, e la Cordigliera Reale, quella che separandosi in Vilconata (Perú) si addentra nel territorio boliviano per ricongiungersi ancora nel Nord-Argentina. Una superficie di 200.000 chilometri quadrati che, per successivi movimenti tettonici e per evaporazione naturale, si sarebbe ristretta alle fosse piú profonde, quali il Titicaca e Poopó, unite tra loro dal Desaguadero; al contrario, la regione di Lípez si sarebbe trasformata negli attuali laghi salati di Uyuni e di Coipasa, piú a Nord. Il lento ritirarsi delle acque lasciava scoperte zone di terra dove si individuarono i primi habitat dell' uomo. La stessa massa d' acqua mitiga i rigori del freddo per cui l' Altopiano accolse, verso gli anni 12.000 avanti Cristo, le successive migrazioni asiatiche che, provenienti dallo stretto di Bering, scesero per i sentieri delle Ande verso il Sud del continente. Arrivarono anche migrazioni via mare, e cioé dal Pacifico, e l' eterogeneitá delle razze fu caratteristica dell' Altopiano. Una volta, peró, che le popolazioni si stabilivano nel territorio, due modelli di sussistenza erano loro possibili: essere cacciatori-pescatori o agricoltori-pescatori. La prima tradizione prese consistenza nella parte sud e cioé nelle propaggini del lago Poopó, la seconda al nord presso il lago Titicaca. Ma definendo le due attivitá come cultura dell' acqua e cultura agricola, esclusive tra loro, un' altra 10 articolazione territoriale dell' Altopiano é pensabile: non in una divisione tra nord e sud ma in una linea trasversale dal Poopó al Titicaca, unita dal Desaguadero. Su una sponda vivono gli Uru, rappresentanti della cultura lacustre, e sull' altra gli Aymara di cultura agricola. Le due etnie, lontane e vicine tra loro, avrebbero vissuto sempre in un latente conflitto. %%% Gli Uru vivono ormai isolati ed accantonati in pochi luoghi di rifugio. Li incontriamo presso il lago Poopó, denominati Moratos, in Chipaya e nelle acque peruviane del Titicaca. Quest' ultimi mantengono ancora modalitá di vita che hanno riscontri nelle fonti coloniali dei secoli XVI e XVII. Vivono su isole fluttuanti, fatte di giunchi di totora. Case, pochi metri di terra trasportata dalle vicine sponde che offrono loro pochi prodotti agricoli, e viottoli di comunicazione tra le abitazioni manifestano una architettura d' acqua assai efficace. La loro alimentazione si compone soprattutto di pesca. Le fonti coloniali, in special modo quelle religiose, vista la loro resistenza ad accettare il Cristianesimo, li descrissero come "selvaggi" per eccellenza, nemici di qualsiasi contatto con altre genti ed irraggiungibili nelle loro fortezze di giunchi. Passavano la vita nell' acqua ed allorché stavano nella terra ferma, dormivano in tane ricavate nel sottosuolo. Parlavano una loro lingua ma sapevano esprimersi in aymara. Dalle indicazioni, sopra descritte, possiamo rilevare le seguenti caratteristiche della societá uru rispetto a quella aymara: erano disprezzati dalle popolazioni vicine perché ritenuti di condizione inferiore; dovevano nascondersi e come difesa adottarono la negazione delle relazioni con gli "altri", ma per necessitá di comunicazione accettarono l' imposizione della lingua aymara. Al tramonto della loro identitá di "nazione", fedeli sempre al sistema di vita nell' acqua anche se ormai viventi nella terra ferma, i Moratos del lago Poopó ancor oggi esprimono la loro opposizione, dicendosi: uomini del momento del amanecer, nati agli albori dell' umanitá, e no-gente in rifiuto alle civiltá che volevano e vogliono sottometterli. Il gruppo chipaya é il piú numeroso. Lí, essi si denominano "uomini dell' acqua" -Jas shoni- e hanno potuto sopravvivere grazie all' attivitá di pescatori, cacciatori, pastori ed agricoltori di quinoa. Per vincere le resistenze del suolo, dovute al salnitro che si propaga dal lago Coipasa e dalle lagune di Huachacalla, hanno programmato l' uso dell' acqua dolce, che offre il Lauca. Per questo, mantenendo la divisione territoriale degli ayllu,con due reti autonome di canali che iniziano nel Lauca, provocano secondo le necessitá agricole, di pastorizia e di allevamento di maiali acquatici, periodiche alluvioni nei rispettivi terreni. Ma tra loro non nasce 11 nemmeno la t' ola per cui le ritualitá domestiche piú importanti sono: far legna, raccogliendo arbusti a venti chilometri di distanza e in territorio aymara, e procurarsi acqua dolce nel Lauca. La comunitá di 930 individui si é troppo ingrandita rispetto alle possibilitá di sussistenza offerte dal suolo. La presenza della scuola, i frequenti contatti con l' esterno, le migrazioni periodiche per procurarsi denaro nelle haciendas del vicino Cile, hanno introdotto elementi di modernizzazione. L' opposizione interna degli ayllu si é trasformata ora in opposizione di religione: maggioranza protestante l' uno e maggioranza cattolica l' altro. Nei due casi la razionalitá della nuova etica integra le angustie attuali in una ideologia di rifiuto degli usi del passato, allontanando ambedue dai modelli tradizionali della loro comunitá. Mario Chino mi parla dei progetti di cercare nuove terre, perché disposti ad andare anche verso l' ignoto pur di lasciare il loro rifugio. %%% Chipaya non é denominazione uru. Li chiamarono cosí gli Aymara per la ch' ipa, che era la corda di paja brava disseccata, con la quale legavano i tetti delle case, fatti con lo stesso materiale. Anche l' organizzazione socioeconomica in ayllu indica l' assunzione di modelli della societá aymara. Chipaya, pertanto rappresenta un' acculturazione delle Ande, anteriore all' acculturazione occidentale che si é fatta presente con forza -pur essendo essi giá cristiani- negli ultimi anni. L' alternativa alla cultura dell' acqua venne dallo sviluppo di quella agricola, rappresentata dagli Aymara. La presenza di questa tradizione nell' Altopiano ha riscontri nella documentazione archeologica in Wiscachani (7000 anni avanti Cristo), in Chiripa, luogo piú vicino al Titicaca (1200 anni avanti Cristo) e in Tihuanaco, continuazione di ambedue fino al 1200 anni dopo Cristo. Possiamo ancora contemplare le rovine di questa cittá templare. Situata a 20 chilometri dal Titicaca, essa si trova al centro di una spianata che rappresenta un tipico microclima agricolo. La specializzazione del suolo, in quanto a caratteristiche di prodotti della terra, é l' elemento determinante dell' organizzazione sociale delle Ande. L' Altopiano, spazio senza limiti naturali di separazione, ha vissuto sempre il problema della razionalizzazione del territorio. É per tale ragione lo schema dei modelli ripetitivi, che si giustappongono come unitá di coltivazioni diverse, manterrá intatte le differenze etniche pur nell' insieme delle relazioni di dominio, imposte da Tihuanaco. I segni del potere di questa cittá-stato si esprimono nella concentrazione di persone riunite nel suo habitat, nei simboli religiosi, civili, amministrativi e nella specializzazione delle attivitá economiche. L' interpretazione del mondo dell' Altopiano si incentró in Tihuanaco: immagini di Viracocha -dei dominatori del tempo e dell' eternitá-; simboli di fertilitá -serpenti, vipere, 12 rospi-; divisioni di status sociale tra le persone -templi, recinti, severe maschere pietrificate come differenze d' umanitá-, e rappresentazioni di dei, legate al potere della vita che si esprimeva in segni fallici. Si tratta di una cosmogonia di cielo, terra e sottosuolo, che é stata disciplinata dalla logica delle austere gerarchie aymara. In seguito alla decadenza di Tihuanaco e dopo l' esperienza dei "regni aymara" che duró tre secoli, si sovrapposero i segni della presenza incaica. La supremazia quechua, proveniente dalla parte peruviana della Ande, riarticolerá un' ideologia di potere nell' immagine del sole. Appropriandosi degli antichi cammini di Tihuanaco imperiale, integrerá anche la sua simbologia. Sulle differenze, si stabilirá un' unitá: gli Inca, vincitori delle popolazioni dell' Altopiano, manterranno la legittimazione gerarchica e la prerogativa dinastica con riferimento al lago Titicaca. Lontano dalle rovine dell' antica metropoli, esiste il nuovo Tihuanaco. Le pietre, le rappresentazioni simboliche e le statue antiche formano parte della costruzione della chiesa che domina il territorio circostante. Un nuovo volto dell' Altopiano che aggiunge all' antico quello occidentale-moderno. 1.4- Perché vivere sotto terra Da Chipaya -"dalla fine del mondo", come dice José- ritorniamo verso Oruro. Ripercorriamo in senso contrario la strada di prima. Un' unica strada, dove peró risulta differente l' andare ed il tornare. Adesso non é piú un addentrarsi in una successione di situazioni sempre nuove ma un incontrarsi con immagini in stridente contrasto tra loro. Congiungendo poli di storia, a volte divergenti, la strada piú che amalgamarli li ammucchia. Il ragazzo, che abbiamo accolto nella jeep, ci descrive i panorami che sfilano davanti a noi. L' incredibile é che lá, dove io percepisco il vuoto, egli racconta situazioni di vita. All' altezza di Llallagua ci parla di Pumiri, la cittá incantata. Lá, nella notte, si ascoltano rintocchi di campane d' oro. Si vedono anche statue d' argento. Se qualcuno vorrá impossessarsene le troverá troppo pesanti. Deciderá di ritornare la notte dopo, ma al posto delle statue incontrerá cumuli di pietre. Nel buio si vedranno anche gomitoli di lana di vigogna; egli cercherá aiuto per raccoglierli e la sorpresa del ritorno sará la loro scomparsa. Il ragazzo indica con le mani le coordinate spaziali della possibile ubicazione della cittá. Ci parla anche della cittá di Cáceres, sempre della provincia di Carangas, della quale peró non da riferimenti geografici: una cittá distrutta da Santiago Apostolo. La vicenda si svolse cosí. Santiago, cavalcando il suo bianco cavallo, ed il cacique di Sabaya andavano a messa. Ma per le lunghe 13 distanze arrivarono in ritardo, precisamente quando la messa stava per finire. Il cacique, indignato, uccise il sacerdote che non aveva voluto aspettarlo. Santiago, ricomposti i pezzi della vittima, affrontó il cacique e l' ammazzó. E per castigo fece sparire anche la cittá di Cáceres. Il ragazzo, sempre in maniera sicura, spiega come si cacciano le pernici -una aveva attraversato la strada a dieci metri dalla jeep scomparendo velocemente tra la t' ola- senza far uso del fucile. Si deve essere in due o piú persone che si dispongono a triangolo. Avvistata la pernice, i cacciatori devono provocarla a volare ed al terzo volo, l' animale sará incapace di riprendere quota e cosí sará facile preda. Il dialogo é mantenuto da José. Io ascolto e piú che a situazioni concrete penso a relazioni di societá che si risolvono sempre nell' opposizione tra la cultura popolare, intrisa di vita rurale-indigena, e la cultura occidentale, legata alla modernitá ed al contesto urbano. Le mie riflessioni si articolano in quest' ordine: la vita indigena si svolge generalmente di notte; i suoi personaggi hanno sempre la peggio; le vicende umane sono in relazione per lo piú con la ricchezza dell' oro e dell' argento che concludono sempre in una successione tra bramosia di possesso e frustrazione per la sua perdita. Lo strano per me é il mondo, nel quale si svolgono tali vicende: un mondo sacrale dove i santi della tradizione europea hanno cambiato le loro connotazioni specifiche. I piú eminenti tra costoro: Santiago apostolo (San Giacomo) é un santo vendicativo e fazioso; Sant' Andrea, protettore dei ladri e, a volte anche demonio, patrono della pioggia. %%% Il ragazzo scende in Opoqueri. Con i soldi nella mano dice di voler pagare il passaggio. José rifiuta e lo ringrazia per la compagnia. Io non riesco a parlare. Mi ha impressionato la sua faccia che, a dispetto della sua gioventú, é dura e silente. Ha parlato un linguaggio scarno e senza enfasi. Anche le risposte alle nostre domande erano puntuali e telegrafiche come per dire: a buon intenditor poche parole. La comunicazione era data dal linguaggio, ma la sensazione era che lui parlasse da un' altra sponda di civiltá. Visto dalla strada, l' Altopiano non é piú una societá di pastori e di agricoltori con destini separati. I mondi antichi si sono accomunati, unendo parte delle proprie peculiaritá nel tentativo di opporre resistenza al mondo occidentale. Cosí come l' oro e l' argento si sono inabissati anche la vita indigena opera soprattutto di notte, lontana dall' ufficialitá della societá; e nella sua scia anche gli eroi sono scesi a vivere nelle viscere delle terra. 14 Lí, essi si denominano "uomini dell' acqua" -Jas shoni- e hanno potuto sopravvivere grazie all' attivitá di pescatori, cacciatori, pastori ed agricoltori di quinoa. 15 In Pisac (Perú) ho visto disegnata sui vestiti degli indigeni la morte di Túpac Amaru. Tirato da quattro cavalli che andavano in direzioni opposte, il suo corpo fu squartato vivo. La terra accolse le sue membra e da quel momento i suoi resti non furono vicende di un corpo umano ma situazioni di vita indigena. Cosí i miti delle origini della cosmovisione incaica integrano nella loro narrazione anche gli eroi che ne segnarono la fine come societá autonoma. Inkarrí -nome composto di inca e rey- é il dio che soffre e che ha sostituito Manco Cápac, il dio iniziatore del regno del Cusco. Una della versioni orali, raccolte da José María Arguedas nella parte peruviana delle Ande, cosí riferisce le vicissitudini del dio: "I wamanis, le montagne, sono i secondi dei. Essi proteggono l' uomo, da essi nasce l' acqua che rende possibile la vita. Il primo dio é Incarrí, figlio del sole, nato da una donna selvaggia, creatore di tutto ció che esiste sulla terra. Egli legó il sole sulla cima del monte Osgonta e rinchiuse il vento per concludere la sua opera di creazione. Poi, decise di fondare la cittá (Puquio...). Inkarrí fu imprigionato dal re spagnolo, fu torturato a Cusco. La testa di Inkarrí é viva ed il suo corpo si sta ricomponendo sotto terra. Ma non ha potere, le sue leggi non si rispettano, e non si obbedisce alla sua volontá. Quando il corpo di Inkarrí sará completamente ricomposto, egli ritornerá ed in quel giorno ci sará il giudizio finale. Per il fatto che Inkarrí si trova nel Cusco, gli uccelli della costa cantano: Al Cusco, il re; al Cusco andate." Entriamo in Oruro sul far della sera. Una cittá lontana e vicina, ma sempre condizionante le tante realtá dell' Altopiano che ho osservato. La sua denominazione é parola uru e significa "luce". Ritorno alle immagini cittadine consuete alla mia vita quotidiana. Domani, io e José, ritorneremo a Cochabamba, allontanandoci da queste regioni di remota umanitá. Scrivendo mi assale il desiderio di voler ripercorrere nuovamente la strada verso Chipaya. La mia impressione é che scrivere ció che ho vissuto in altri 16 contesti di vita sará sempre trascrizione lontana ed artificiale. Perché non parli? La domanda é di José. Lui solo puó capire i miei silenzi. Insieme abbiamo vissuto questi giorni d' Altopiano e lui piú di me si é inserito nelle varie situazioni. Ripete: "mi llajta es bella". Io raccolgo solo frammenti. "Ti ricordi, gli rispondo, quel raggio di luce che fendeva la penombra della casa di Mario Chino? Esso rischiarava il fuoco, le donne che preparavano la nostra colazione, noi uomini in attesa del cafecito y pancito ed i bambini stesi sul letto di adobes. Fuori era freddo, ma intorno a quel raggio abbiamo costruito momenti di vita. La casa chipaya era quel raggio di luce! E perché non credere, allora, che la divinitá -il dios rayo- é nato nel cuore degli uomini non per paura ma per ringraziamento delle belle sorprese che le cose del mondo sanno donarci?" 2. "Dei" e destini di societá nello spazio urbano di Oruro Nella provincia peruviana degli Uru, a due ore di jeep dal Cusco e a sette dal Titicaca, due denominazioni di paese tramandano la tragedia indigena, causata dalle miniere coloniali. Da tutto l' impero si raccoglieva gente per lavorare nella mit' a di Potosí. Il luogo di raduno fu chiamato Huaccaypata, che significa "luogo del pianto". Da qui gli indigeni, incolonnati e a volte legati tra loro con corde, partivano per un viaggio senza speranza. A pochi chilometri da Huaccay-pata un altro paese: Cusi-pata, "luogo dell' allegria". Lí, i reduci delle miniere, liberati dalle corde, potevano riabbracciare i loro familiari e riprendere le loro strade verso i propri ayllu. Ieri sera, quando entrai in Oruro, la cittá era buia e deserta. Poche e disarticolate luci si spargevano sulle colline e nella pianura, disegnando le propaggini ultime del territorio urbano. Mi muovevo nella penombra e solo i fari della jeep mostravano squarci di vita notturna. Il freddo castigava i corpi; i poveri camminavano coperti di squallore mentre i passi incerti di un ubriaco scrivevano la sua solitudine. Ogni quadro dipingeva vite differenti che mi passavano davanti mute e chiuse in se stesse: corpi staccati dalla loro umanitá ed umanitá avulsa dalla vita cittadina. 17 Peró niente mi é piú gratificante del sole di questa mattina e dell' aria fresca che mi batte in faccia. Sono le nove. Da mezz' ora cammino per le strade del centro-cittá. Dalla piazza centrale vado verso la periferia. Mi fermo nella Ranchería, piena di vita e di mercato tra poveri e indigeni. La gente vive nascostamente l' attesa del Carnevale. I gesti delle persone sono ancora quelli abituali e, piú che i preparativi immediati, fervono gli stati d' animo. Avvolta in quest' aura pensosa, Oruro mi appare cittá vicina e non molto dissimile dai mondi antichi del suo retroterra. I fatti dei prossimi giorni l' immergono nella memoria ancestrale che ha i suoi inizi tra loro. Ma, inoltrandomi sempre piú nella periferia, scopro anche le contraddizioni. La stessa architettura della cittá, parte a ridosso delle colline e parte stesa nella pianura aperta su tutto l' Altopiano, ne fa un agglomerato umano occasionale nel territorio. Anche le due piazze, quella centrale e la Ranchería, rappresentano due anime diverse: una articola i lineamenti urbani, l' altra, umile e nascosta, ne ritrae gli inizi che furono, poi, abbandonati in funzione di una maggiore affermazione di dominio. 2.1- Modelli contrastanti di societá A nessun ricercatore sará successo di parlare contemporaneamente con due interlocutori tanto distinti: un impresario e un venditore ambulante. Le circostanze furono queste. Scendevo dalla miniera San José allorché l' impresario mi offrí un passaggio nella sua macchina e per facilitare il nostro dialogo si fermó nella Ranchería. Lí, a pochi passi da noi, il venditore ambulante al quale non interessava vendere caramelle e dolci; ascoltava il nostro dialogo, che non interruppe né condizionó. L' impresario mi ha dato informazioni che corrispondono ai dati socioeconomici ufficiali e notizie storiche che possono essere facilmente desunte da un qualsiasi manuale scolastico. In ogni modo ebbi la conferma che Oruro é una cittá d' Altopiano che vive -anche se impoverita dalla congiuntura sfavorevole del mercato internazionale dello stagno- ancora sui minerali. Esiste, poi, una consolidata industria di alimentari e l' incontenibile settore terziario, legato agli uffici pubblici ed alle attivitá di Stato. Un volto moderno che soavizza gli inizi della cittá. Oruro, infatti, nacque come "accampamento" di lavoro. Gli Spagnoli, che venivano dal Perú, si stabilirono nel 1535 in Paria. E, scoperte le ricchezze minerarie, vi si trasferirono fondando la cittá con i nomi di "San Miguel de Oruro" e di "La muy noble y real Villa de San Felipe de Austria"; si fortificó in seguito per esigenze di comunicazione tra Potosí-La Paz-Lima e per consolidare le relazioni di conquista sulle valli e territori orientali della Bolivia. Con la presenza occidentale le terre dell' Altopiano furono governate dalla logica 18 mercantilista -valore delle cose, delle istituzioni e delle persone, misurato sul valore dell' oro-, che richiamó militari, commercianti ed avventurieri. L' oro e l' argento articolarono la societá: banchieri, monopolisti del mercato del mercurio, portato dall' Europa e che serviva a depurare i minerali, usurai, aguzzini, maggiordomi, agenti di cambio e, negli strati inferiori della popolazione, i minatori. Chiuso il quaderno di appunti, ringrazio l' impresario. Anche il venditore ambulante si allontana, ma improvvisamente retrocede. "La veritá é, mi dice calcando la voce, che non esistono operai e poveri ma Aymara, Quechua e Uru. Con la venuta dei bianchi, noi siamo stati condannati ai sotterranei della vita sociale: haciendas agricole e mit' a nelle miniere. I solchi e le gallerie hanno tessuto la nostra storia". Accavalla parole ed espressioni che mi inchiodano nel silenzio. Gesta, eroi ed avvenimenti hanno la forza delle profonditá del mare delle quali vedo solo lo spumeggiare delle onde: flussi del mondo "di sotto" che non vuole essere storia solo di loro. Terminata la recita del dramma, si allontana e, andando, mi saluta con un movimento della mano. Mi é impossibile ridire le vicissitudini che ha proclamato. Posso ritrascriverle scomponendole in quadri di storia, piú o meno usuali alla mia mente. Le miniere non furono solo storia di lavoro disumano ma anche ricettacolo di impetrazione agli dei antichi, che convocavano alla rivolta. Giá nei primi anni della Colonia (1560-72) un movimento di insurrezione, denominato Taki Oncoy (malattia del canto), si sviluppó in tutto l' Altopiano centrale con modalitá di sacrifici alle Huaca -tombe degli antenati-, dove si inscrissero azioni liturgiche di danza. Si concluse con l' uccisione del giovane Inca Túpac Amaru, che viveva nella ultima difesa del suo impero, Vilcabamba. Pur essendo egli, piú che l' ispiratore, il punto di riferimento ideologico della rivolta, fu giustiziato in Cusco nell' anno 1572. Un' altra insurrezione indigena si manifestó nel 1590; fu denominata Muru Oncoy (malattia delle macchie), perché dovuta a un' epidemia che si era sviluppata soprattutto tra gli autoctoni e che fu interpretata dagli stessi come castigo per aver abbandonato i riti tradizionali. All' incitamento dei sacerdoti, che predicavano il ritorno agli dei antichi, rispose la repressione coloniale che intevenne attraverso l' istituzione religiosa cristiana. Sará la "lotta contro le idolatrie" dei secoli XVII e XVIII, che spezzerá profondamente il coordinamento culturale delle Ande, rendendo difficile una reazione comune contro l' impero coloniale. Questa avverrá negli anni 177082. La parte peruviana sará guidata da José Gabriel Condorcanqui che, avendo assunto il nome dell' ultimo Inca ucciso, é conosciuto come Túpac Amaru; e nella parte boliviana da Tomás Katari. Costui incominció l' 19 insurrezione condannando gli abusi e reclamando per sé la nomina di capo degli indigeni. Fu giudicato ribelle ed ucciso, nel 1781. Continuarono la lotta i fratelli di lui, Damaso e Nicola, ai quali si aggiunse Giuliano Apaza, che specificó gli obiettivi della guerra assumendo il nome di Túpac denominazione di re inca- e Katari - cognome del cacique ucciso-. Gli eroi accerchiarono il Cusco, Oruro e La Paz con il proposito di distruggere i centri di potere coloniale dell' Altopiano; e, sconfitti, furono giustiziati. Túpac Katari fu squartato vivo, come Túpac Amaru. Era l' anno 1782. Piú vicino ai nostri giorni, un altro eroe: Pablo Zárate Willka. Intorno all' anno 1870, furono emanate dal governo boliviano leggi che permettevano di usurpare le terre delle comunitá indigene. La controversia duró fino a che il partido indio coglierá l' occasione di inserirsi nella guerra civile del 1899, provocata da proposte di Stato "federalista" o di Stato "centralista". Pablo Zárate appoggió la causa federalista, propugnata dai liberali contro i conservatori; e la sua partecipazione fu determinante per la vittoria del generale José Manuel Pando. Ma allorché costui fu proclamato presidente della nazione disconobbe le esigenze per le quali Aymara e Quechua avevano lottato, come anche abbandonó la prospettiva federalista. Si pretese, poi, giudicare Pablo Zárate Willka (Willka é parola aymara che significa "capo"), laeder della strategia indigena, per fatti di guerra. Subí il carcere ed in circostanze che dimostravano la complicitá del governo, fu ucciso quando dal carcere di Oruro veniva trasferito a un tribunale di La Paz. Pablo Zárate era stato proclamato "il presidente Willka" dalle etnie dell' Altopiano. Come e dove decifrare le intenzioni di questa storia: un ravvivare glorie del passato? Una proposta di rivincita? Piú che una risposta forse un altro interrogativo: perché ricchezza e povertá hanno vissuto, e vivono, tanto vicine tra loro? Sicuramente la provocazione del venditore ambulante non sará mai accolta. Le civiltá delle Ande hanno lottato per dare esistenza alla loro societá; il non-senso, al quale le abbiamo obbligate, é specchio del nonsenso della nostra storia. 2.2- Oruro: cittá della "memoria ancestrale" Le armi hanno sempre una logica di confronto; ed il parlare solo dei fatti di guerra significa non dare importanza a processi ed a pratiche sociali che, lenti e profondi, hanno costruito nell' Altopiano una patria comune latinoamericana. Il Carnevale di Oruro rappresenta uno di questi aspetti, dove tra le opposizioni sono nati punti di incontro tra civiltá tanto distinte tra loro. Nel linguaggio della festa, pertanto, Oruro non é piú la cittá colonialeoccidentale ma soprattutto una realtá originaria dell' Altopiano. Infatti, la leggenda del Dio Wari, sulla quale si fondano le origini di Oruro, coincide 20 con le prime vicende degli Uru. Wari, il dio della forza, era un mostro che dormiva nelle cavitá della Cordigliera di fronte al mare. Un giorno risplendette il sole che sorgeva dalla parte contraria, illuminando tutto l' Altopiano. Il sole, che era il dio Pachamaj, lucente e benefattore, operava attraverso la figlia Aurora. Il dio Wari volle impossessarsi di lei ed intraprese la lotta contro il sole. Dalle sue caverne lanció fumo e fuoco volendo nascondere i benefici della luce. Il sole, piú forte, poté riapparire e con i suoi raggi allontanó le tenebre. Wari, sconfitto, ritornó a rinchiudersi negli antri delle Ande facendo conoscere la sua collera con terremoti e rumori cavernosi. Perduta la lotta con il sole, Wari volle castigare la gente che adorava il suo nemico. E questa era il popolo degli Uru. Un popolo di agricoltori che offriva i frutti della terra al dio sole e che in suo onore sacrificava lama; per venerarlo gli Uru orientavano le porte delle loro case verso il sole nascente e tutto il giorno vivevano con lui. Ma l'agricoltura dell' Altopiano era povera rispetto a quella delle Valli; e Wari si ingegnó per convincere gli Uru sulle diseguaglianze. Gli Uru si lasciarono ingannare dai ragionamenti di Wari e cosí l' avarizia, l' odio e tante altre perversitá divisero le persone; come anche intrighi, malattie, lotte intestine e pestilenze di animali si impossessarono dell' Altopiano. La vita comunitaria ed individuale diventó impossibile. Peró nel momento piú grave di tale situazione apparve una bella ñusta che parló agli Uru sul loro passato e sulla pace che avevano goduto. La tranquillitá ritornó a regnare tra loro. Le nuove circostanze fecero esplodere ancora l' ira di Wari, deciso ormai a distruggere gli Uru. Mandó dal Sud una spaventosa vipera che, trascinandosi, si avvicinava alla cittá tra fiamme e fuoco. La salvezza venne dalla ñusta che con una spada affrontó il mostro: l' ammazzó ed il suo corpo si ridusse a rocce e rupi, quelle che ancor oggi circondano la cittá di Oruro. Dopo un poco di tranquillitá, Wari inventó un' altra minaccia: dal Nord un rospo, grande e pancione, con un' enorme bocca, si avvicinava alla cittá. Per fortuna la buona ñusta riapparve sulla cima del monte di "Piè del gallo" e da lí con una fionda ammazzó l' animale che si cambió in roccia. Wari, ancora una volta beffato, ritornó all' attacco e dalla parte Est della cittá invió una grande lucertola: avanzava come un dragone tra il fuoco e tra le pietre che muoveva con la coda. La ñusta protettrice si fece presente tagliandole la testa con una spada. Dal sangue dell' animale si formó un lago mentre il suo corpo rimase pietrificato. Come ultima vendetta contro gli Uru, Wari fece uscire dalla bocca della gran lucertola uccisa migliaia di formiche che invasero la pianura avanzando verso la cittá. Improvvisamente si presentó la ñusta che, volteggiando la sua fionda, lanció pietre contro le formiche 21 ammucchiandole in posti che si cambiarono in monticelli di arena. La ñusta per scongiurare altri pericoli agli Uru, inchiodó nella testa della gran lucertola una croce di legno, che da quel momento allontanó la collera di Wari, permettendo che il sole brillasse sempre sulla cittá. Gli Uru ritornarono cosí alla loro vita di pace. 2.3- "Dei" ed opposizioni di societá nello spazio urbano La lotta del dio Wari per la conquista di Aurora, figlia del sole, é narrazione cosmogonica della opposizione tra notte e giorno. Su questo nucleo orginario le successive trasformazioni del mito riflettono le tappe storiche dell' Altopiano, articolando soprattutto opposizioni di societá. La traiettoria degli dei diventa traiettoria stessa della societá che va dal momento uru al momento coloniale. La opposizione ultima sará socio-economica: dimensione di una economia urbano-mercantile di fronte alla tradizione agricola aymara e incaica. Dagli albori della storia ai nostri giorni ci sono state tramandate le vicissitudini di dei, di uomini e di cose in una successione di quadri d' azione. Wari, sconfitto, dovette ridursi ad essere "tenebre" mentre Inti -sole- brilló nel cielo; la mediatrice dell' opposizione fu la ñusta. Wari, identificato con la societá uru, che perse di fronte agli Inca, seguí le vicissitudini del suo popolo. La gerarchia ideologica incaica, infatti, si articolava partendo dal sole, per cui il dio finí nelle profonditá della terra. I Mallku, che erano le divinitá agricole aymara, non furono tolti dal piano orizzontale perché legati alla terra; essi furono solamente umiliati dall' alto a rimanere senza poteri specifici. Pertanto, il mito di Wari articola nella seguente maniera l' universo cosmogonico di Oruro: SOLE MALLKU ÑUSTA MALLKU WARI La figura della ñusta, immagine ideologica piú che una deitá religiosa -la ñusta era sposa dell' Inca-, copre gli spazi che il sincretismo preispanico 22 attribuisce alla Pachamama cosí come Supay si sovrappone a Wari. Nell' universo culturale popolare di Oruro, la Pachamama conserva ancor oggi una posizione preminente nell' orizzontalitá, corteggiata sempre dai Mallku agricoli; Supay, al contrario, deitá dei monti, proibita dall' ufficialitá religiosa della Colonia, é identificato con il diavolo e collocato sotto terra. Il sincretismo popolare di Oruro mantiene intatte a livello religioso le denominazioni delle Ande e del mondo occidentale, organizzandole in due schemi, autonomi e complementari: CRISTO MALLKU INTI VERGINE PACHAMAMA DIAVOLO SUPAY MALLKU A nostro parere peró le relazioni tra i punti cardinali -gli assi verticale e orizzontale- anche nella loro versione indigena non corrispondono al nucleo originario della cosmovisione ancestrale. Piú adeguata al mondo agricolo, ed anteriore alla stessa concezione incaica, ci sembra una organizzazione di diagonali in superfice, che sottolineano caratteristiche di territorio e che rispettano l' ubicazione dei Mallku. FORMICHE MONTI ACQUA ROSPO PIANURA ACQUA VIPERA FORMICHE Le strutture delle relazioni di superfice articolano le caratteristiche del territorio di Oruro -monti, pianura, acqua- con le caratteristiche produttive dello stesso. Qui, la coordinata "vipera--rospo" si oppone alla coordinata "formiche" per essere quest' ultime solo animali di terra mentre gli altri mantengono una convivenza con l' acqua. Ma le reciprocitá, in quanto relazione tra le opposizioni, si dá per la differenza interna ad ogni 23 coordinata, dove uno stesso elemento diventa qualitativamente diverso dall' altro: l' acqua é "acqua fredda" ed "acqua calda", come i monti sono "monte ricco" e "monte povero". Le opposizioni risultano essere allora tra "monte ricco" e "acqua calda" contro "monte povero" e "acqua fredda". Sappiamo, infatti, che dove c' é acqua calda esistono minerali e dove c' é acqua fredda anche la possibilitá di agricoltura. La Pachamama, rappresentata dall' acqua, si trova in posizione centrale nella orizzontalitá ed é, pertanto, mediatrice di fertilitá per l' agricoltura e per le miniere. Se peró esplicitiamo le caratteristiche di posizione tra monti, pianura e acqua otteniamo la ritrascrizione dei piani ecologici della cosmovisione delle Ande: i monti (hanan pacha): alto; la pianura (uku pacha): mediano; e l' acqua (urin pacha): sotto. L' universo cristiano ha assunto le medesime posizioni nelle relazioni tra i punti cardinali, integrando il modello delle diagonali di superfice, rappresentate dai Mallku. FORMICHE MALLKU VIPERA CRISTO VERGINE DIAVOLO INTI ROSPO PACHAMAMA SUPAY MALLKU FORMICHE Il risultato é che nella cosmovisione sincretica di Oruro, l' universo indigeno si é integrato a quello occidentale. La particolaritá che risalta é la complementarietá tra attivitá agricola ed attivitá di estrazione dei minerali. Si dimostra anche che i momenti di crisi di societá sono sempre fertili di riflessioni sul passato e sulle prospettive del futuro. Cosí sul finire del secolo XVIII, la diminuzione del valore commerciale dei minerali fece apprezzare l' attivitá agricola per fondare una diversa autonomia economica della cittá. Integrare i due aspetti é stato sempre difficile ma proprio questo si presentava come ineluttabile destino di Oruro. La prospettiva economica peró non sarebbe stata possibile senza la complementarietá delle diverse societá: quella delle Ande e quella occidentale. Il punto di incontro fu la Vergine Maria, che coprí gli spazi della Pachamama: fertilitá della terra e fertilitá delle miniere. 24 2.4- Nuove mediazioni I miei informatori risultano essere quasi sempre persone del popolo. Nelle strade e nelle piazze incontro soprattutto loro che, affannati e preoccupati, si preparano ai prossimi avvenimenti. Altre persone: impresari, intellettuali e gente dell' amministrazione pubblica e privata, li trovo maggiormente nei rispettivi uffici di lavoro. Anch' essi partecipano al Carnevale ma non lo preparano. L' aspettativa del popolo obbedisce alla programmazione di sempre. L' insieme dei riti, credenze e costumi si impongono come momento sacrale, giustificato nel nome della Vergine che esprime caratteristiche di vita personale, della cittá e del lavoro. Tutti gli elementi e fatti storici, anche i piú conflittuali, acquistano attualitá cosicché il sincretismo popolare mi appare come uno spazio di apertura alla comprensione della vita concreta di oggi. Solo in questo modo le contraddizioni possono trovare un' elaborazione globale. Oruro e la cultura latinoamericana, in generale, hanno qui il loro cammino privilegiato di formazione, sempre organizzato intorno a immagini sacre. La religiositá popolare ha creato gli spazi d' incontro, che sono livelli di transculturazione tra mondo indigeno e mondo occidentale. Pachamama e la Vergine Maria. La Vergine Maria, come figura femminile, incontró nell' Altopiano una tradizione molto favorevole alla sua identitá con la Pachamama. La cultura religiosa pre-incaica, infatti, aveva costruito nel lago Titicaca un microcosmo simbolico intorno a deitá femminili. Le stesse caratteristiche di religiositá furono attribuite alla Vergine. Cosí il contesto del santuario del Titicaca nei suoi aspetti geografici -pianura, monti ed acquatrovarono riscontro in Oruro ed il santuario mariano ripeteva quello giá esistente -santuario di Copacabana- sul Titicaca. L' elaborazione teologica dette importanza all' attributo della Vergine di essere "pietra preziosa", allo stesso tempo che le sue viscere diventarono simbolo di maternitá e di fertilitá. Per questo la iconografia coloniale disegnerá "i monti ricchi" -con presenza di minerali- integrandovi sempre l' immagine della Vergine. Socavón di Oruro: incontro di opposizioni. Il Socavón é il santuario costruito ai piedi della 25 miniera di Pie de gallo. La sua ubicazione, centrale nella cittá, é la rappresentazione ideale del punto d' incontro tra le opposizioni degli assi verticale e orizzontale dell' universo religioso popolare di Oruro. La tripartizione spaziale occidentale dell' asse verticale ("alto": cielo; "mediano": terra; e "sotto": inferno) fu adattata anche alle circostanze di lavoro. Le gallerie dei minerali furono identificate con la morte; ed alla Vergine, mediatrice della vita, si canalizzarono spiccate attitudini devozionali. Il minerale divenne ambiguo per la sua stessa preziositá: se é ricchezza per alcuni, é tragedia per altri. Nel tempo coloniale, la condanna al lavoro forzato delle miniere fu solo per gli indigeni; ed essi, pur essendo la fonte del benessere della cittá, furono esclusi dai diritti civili. La contrapposizione tra Vergine/Diavolo serví per determinare i loro diritti di "liberazione", che essi identificarono nella figura della Madonna. Infatti, il diavolo con la denominazione di Supay, continuó a vivere "nel basso", dentro la miniera. Per ammansire la sua forza ammaliatrice, fu dichiarato protettore dei minerali. Dalla sua bontá o odio, ancor oggi, dipendono gli esiti o le tragedie nel sottosuolo. Vergine della Candelaria: Vergine del Socavón. Il santuario del Socavón, una caverna nella montagna di Pie de gallo, é luce e oscuritá, quindi spazio di mediazione tra il mondo sotterraneo e la superfice. Lí si é creato un luogo di culto alla Vergine come passaggio dalla fertilitá dei beni delle miniere a quelli agricoli. La Vergine é, infatti, dichiarata nel Carnevale protettrice dei minatori, con il titolo di Vergine della Candelaria. La trasposizione temporale -la festa della Candelaria cade nel calendario cristiano il due di Febbraio- ai giorni del Carnevale, in Oruro, fu giustificata dalle seguenti tradizioni. Chiru-Chiru era un benefico malfattore che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Non si 26 conosceva il suo nascondiglio. E non vedendolo per le strade, i poveri cercarono informazioni di lui; e lo trovarono morto nella caverna di Pie de gallo. Nel posto d' onore della sua tana risplendeva un' immagine della Vergine della Candelaria. Il luogo divenne presto luogo di preghiere alla Candelaria per il fatto che, si seppe in seguito, Chiru-Chiru, ferito da una pugnalata mortale, fu aiutato dalla stessa Vergine a ritornare al suo nascondiglio. Cosí il popolo, secondo la tradizione iniziata da ChiruChiru, continuó a venerare la Vergine nel Socavón. Un' altra tradizione riferisce l' assassinio di un uomo di vita signorile, conosciuto con il nome di Nina-Nina, ma che in realtá era Anselmo Bellarmino. Questi si sarebbe innamorato di una donna indigena il cui padre si opponeva al matrimonio. Il sabato di Carnevale, i fidanzati decisero di fuggire, peró furono raggiunti dal padre della giovane, che piantó una spada nel cuore di Nina-Nina. Padre e figlia sparirono nell' oscuritá, lasciando moribondo nella strada il povero innamorato. Per fortuna passó di lí una donna che lo soccorse portandolo ad un ospedale, dove morí con gli aiuti della santa religione. Quella donna benefattrice era la Vergine Maria che contraccambió la devozione del Nina-Nina il quale, ogni sabato, accendeva una candela davanti alla sua immagine, esposta nel Socavón della miniera di Pie de gallo. La caverna del Socavón diventó, pertanto, luogo di venerazione alla Vergine del Socavón. 2.5- Una grande allegoria: provocazione ed invocazione Il Carnevale non é la festa di un giorno ma un ciclo feste che, rompendo gli aspetti usuali della vita quotidiana, invoca il ristabilimento di un ordine sociale, antico ed ideale, dove le contraddizioni tra mondi distinti si dissolvono a favore di uno spazio di vita comune, che é Oruro. Solamente la festa carnevalesca -gioco di gesti, di parole, di maschere, di balli, di azionipuó invadere la totalitá delle attivitá e della dimensione urbana introducendovi un' organizzazione differente. 27 La disorganizzazione, che é reazione ai modelli stabiliti, si manifesta come provocazione. Le tante contraddizioni cittadine affiorano attraverso una dinamica di trasgressione pubblica: nelle strade, piazze e chiese il popolo mette alla luce del giorno il desiderio di nuova vita. La provocazione si sparge su tutto e soltanto la ritualitá puó diminuirla offrendo momenti ed eventi di catarsi collettiva tra le opposizioni: rafforzare nell' alto (hanan pacha) la legittimazione di una societá cristiana (peró, sempre in pericolo di staccarsi dalle esigenza della vita dei fedeli per cambiarsi in "religione di Stato"), nel mediano (uku pacha) le contraddizioni istituzionali della vita quotidiana e nel basso (urin pacha) l' esistenza di un mondo sfruttato e lontano dalla comunitá civile. Dai "vinti" viene il coraggio della provocazione che ripropone un mondo antico mediatizzandolo attraverso la figura della Vergine del Socavón. I "vinti", infatti, non si identificano con l' ufficialitá della cittá. E in questi giorni i luoghi di potere rimangono in silenzio, rifiutati dall' emergenza popolare. Si attualizzano anche gli antichi riti. La festa della Vergine della Candelaria, il due di Febbraio, é la piú vicina a quella agricola dei "germogli delle coltivazioni", che si celebra nell' Altopiano. La previsione della ricchezza dei frutti della terra permette ristabilire relazioni di intercambio tra i gruppi sociali: tra gli ayllu e tra i piani ecologici primordiali. Perció il Carnevale é innanzitutto venerazione alla terra ed ai suoi cicli di fertilitá, che si riproducono secondo il mito dell' eterno ritorno, segnato dalle stagioni le quali segnano relazioni specifiche anche tra le persone. I cicli della vita nel loro rapporto di uomo/donna si articolano attraverso l' allegoria. Cosí le opposizioni: terra/acqua, monti/pianura, superfice/sottosuolo acquisiscono la stessa valenza di fertilitá dell' opposizione uomo/donna. Il Socavón assume queste relazioni e le raffigura nell' immagine della Vergine: potere autosufficiente e creatore della vita. L' elaborazione teologica affermava:"Dio é fecondatore della Vergine come il sole é fecondatore della terra". Ció che é espresso in termini religiosi e cosmici ha anche il suo riferimento alla situazione del Socavón: sui pendii, arsi dal sole, della montagna vivono innumerevoli lucertole. La credenza popolare afferma che succhiare il sangue di questi animali provoca gioventú cosí come punzecchiare una persona con la pagliuzza, che la lucertola ha trattenuto in bocca e l' ha depositata su una pietra, é talismano di innamoramento e di fertilitá sessuale. Infatti, é Amaru, il serpente protettore, colui che unisce tra loro i piani ecologici e li rende fertili per le connessioni d' acqua. La grande allegoria di Oruro si snoda, perció, in questa circolaritá: la Pachamama é fertilitá della terra, i Mallku la proteggono -loro sono il limite cittadino tra ostilitá e 28 sicurezza- e Amaru é il fecondatore in quanto dispensatore dell' acqua. Ma la partecipazione alla festa raccoglie motivazioni ed obiettivi soprattutto familiari. Qui la dimensione della fertilitá é legata a desideri di benessere, di prestigio e di sicurezza di vita, come anche a gratitudine per un dono ricevuto. É il caso, che mi viene dichiarato dal responsabile del gruppo dei danzatori "inca" che compariranno nel Carnevale e saranno il riferimento piú specifico al mondo ancestrale. É un minatore che, nonostante la sua modesta economia, si é assunto l' incarico di spendere affinché la sua festa sia la festa di tutti. "La vita dei minatori, mi dice, é vita da pazzi. Scendono nelle gallerie masticando coca e bevendo alcool. Arrivati nei sotterranei, lottiamo contro le pareti di terra; allorché le trivelle incontrano resistenza usiamo dinamite. Uno scoppio di dinamite andato male fa saltare le cervella. Moriamo per disattenzione, dicono quelli dell' impresa. Uno di questi scoppi di dinamite mi seppellí sotto un cumulo di terra. Lá sotto piansi e promisi alla Vergine una festa di Carnevale. I miei figli non volevano che mi mettessi in queste spese, ma io ho voluto mantenere la promessa; e cosí gli Inca saranno i ballerini che danzeranno per me alla Vergine". Posso visitare la sua casa, allestita giá ad oratorio. Nella stanza principale si erge una grande statua della Vergine, con candele accese ai suoi piedi e circondata da simboli di sole e ñusta; nella stanza vicina, un crocifisso con pochi fiori davanti e senza altra coreografia specifica. La Vergine é nuovamente Pachamama, figura centrale nelle opposizioni, che specificano contrari per dare fertilitá e provocare un' attitudine devozionale: ringraziare é sempre desiderio di vivere ancora. In un momento di riflessione, che mi allontana dal suo parlare, il minatore mi interrompe affermando che tutto questo lo fa perché é cattolico e non perché minatore. Acconsento con il silenzio. Insieme beviamo alcool dopo averne offerto un poco alla Pachamama, facendolo scorrere al suolo. Il suo volto si illumina di un sorriso perché ho pregato con lui. Cosí ballare per la Vergine, spandere alcool, proclamare che San Giuseppe é "la Vergine San Giuseppe" sono gesti e parole di un' unica sequenza di invocazioni. La casa del minatore descrive un quadro di relazioni: uomo/donna, uomo/fiori, donna/sole, uomo/luna, che sono opposizioni e simboli nati nell' universo sessuale. Un' irriverente archeologia dell' inconscio? Quando ritrascriviamo itinerari di cielo, desiderio e limite formano il nostro mistero. Anche il Carnevale, mascherato di allegorie, é proposta ed apertura ad una storia, che non abbiamo mai pienamente vissuto. 29 3. Il tempo del Carnevale "Per tutto il tempo del Carnevale ci siamo sentiti amici di molte persone sconosciute; segretamente ci siamo comunicati orizzonti di umanitá nuova; orizzonti piú vicini alla terra, alle ricchezze dei monti, al lavoro ed ai progetti di essere pellegrini nei differenti cammini della vita, senza separazioni e senza conflitti." 3.1- I preparativi La prima domenica dopo Ognissanti, si compie il primo convito o promessa alla Madonna del Socavón di ballare per tre anni in suo onore. Davanti al "Calvario", nella piazza antistante il santuario, si preparano posti di vendita. Giá sono stati nominati i pasantes; loro sono incaricati di organizzare i rispettivi gruppi di danzatori e di finanziare le spese necessarie. A tal fine fanno il rodeo: inviare un regalo agli amici in cambio di cooperazione e sollecitandoli a preparare la coreografia della festa: archi, carri ornati di oggetti preziosi ed altre cose. Dopo questo primo convito o promessa, ogni domenica si fanno le prove: i danzatori si esercitano nel ballo per le strade della cittá, accompagnati da bande musicali, al tempo che nella piazza del Socavón si realizza il mercato delle Alasitas con vendite di dolciumi e di alcoolici, di scambi di beni in natura e culto all' Ekeko, dio dell' abbondanza. La veglia alla Vergine si ripeterá ogni settimana fino al Carnevale. Saranno programmati anche atti devozionali con canti e preghiere. Al suono delle bande musicali si mastica coca, condividendo liquori e sigarette. I fondi che si raccolgono sono destinati alle spese. La penultima domenica prima della Quaresima -i quaranta giorni che preparano alla Santa Pasqua- si realizza il secondo convito. I danzatori, divisi in gruppi, vanno al Socavón secondo un ordine prestabilito; e dalla mattina alla sera ripetono ritmi di passi e di musica. Il Giovedí della stessa settimana, all' ora del tramonto, tutta la cittá si aggruppa in posti specifici. Dimenticati i centri della cittá, che sono luoghi del potere civile, si valorizzano i luoghi popolari: il mercato, la Ranchería e le strade circonvicine. Ritualizzando l' abbondanza, il popolo vive l' effervescenza dei suoi costumi e modalitá di vita. Per tutta la notte nel 30 mercato centrale, in una linea di solidarietá con la ch' alla fatta nelle gallerie delle miniere, ci si diverte, si mangia, si ascolta musica, con gesti che infrangono le barriere di classe e che fanno emergere amicizie prima nascoste. 3.2- Attori occulti e intenzioni manifeste Questo Venerdí é anche il giorno degli ultimi preparativi. Gli artigiani di via La Paz -la strada vicina alla Ranchería- danno gli ultimi ritocchi alle maschere e rifiniscono i costumi delle danze. Questi artigiani non lavorano solo per il Carnevale. Le loro botteghe sono affollate di angeli, di sacri cuori, di croci e di altri oggetti religiosi. Le maschere dei diavoli, dei morenos e di altri gruppi di ballerini convivono con le immagini cristiane in una mescolanza di profano e di sacro. Soltanto l' intelligenza popolare assegna ad ognuna la sua forma integrandola in uno stesso universo culturale. Gli artigiani, infatti, non stanno nelle loro botteghe solo per impegni di lavoro. Hanno coscienza del proprio ruolo sociale, che é quello di dar vita alla memoria ancestrale. La loro specializzazione artistica piú che dalla bravura in sé, é giustificata dalla tradizione familiare e dal tempo di vita che hanno trascorso in Oruro. Dialogano con le maschere: sul come dare loro un supplemento di bellezza che migliori l' immagine del personaggio il quale andrá per le strade e per le piazze. I bambini ed i ragazzi non partecipano a queste preoccupazioni: fabbricare e far vivere le maschere richiedono iniziazione. Dopo si va tutti al mercato. Lí, la ricchezza é ostentazione di oggetti preziosi d' argento, di frutta tropicale delle Valli e di quella piú rara dell' Altopiano. Nel mercato e nei suoi dintorni si gioca alla fortuna, mentre giradischi e registratori diffondono musica autoctona e di altre provenienze. Non é facile muoversi tra tanta gente, ma é bello sparire nell' allegria della festa. Il luogo dell' abbondanza ha radici ed aspetti solamente popolari, come popolari sono le vie degli artigiani che mantengono una relazione ideale con il Socavón ed il Calvario; l' uno e l' altro adagiati sulle collina di Pie de gallo. La strada che unisce il santuario con la cittá attraversa i quartieri periferici, toccando la piazza principale, dalla quale si puó ritornare al punto di partenza: una circolaritá territoriale che é complemento della dimensione religiosa e civile dello spazio urbano. Sui marciapiedi delle strade sono stati organizzati posti di osservazione e per questo sono state erette alte gradinate di legno. L' attenzione e la preoccupazione delle persone per scegliere il posto di osservazione indicano che la sfilata incomincerá in un quartiere di minatori e terminerá nel Socavón. I ballerini, per le loro promesse e conviti, giá hanno chiesto solidarietá alla 31 Vergine. In questa maniera le azioni, molteplici e variate nella loro intenzionalitá, scandiscono il gioco profondo della festa. Sono i minatori, infatti, coloro che articoleranno i ritmi e l' ordine di apparizione dei distinti gruppi di danzatori. Essi saranno i diavoli, guidati da Lucifero e accompagnati da Supay (adesso China Supay per i suoi tratti femminili e maschili insieme). Ma é San Michele Arcangelo colui che dirigerá i passi di tutti. I minatori sono giá usciti dalle gallerie della miniera e la notizia crea disordine. La loro audacia si visualizza come disordine e solamente San Michele Arcangelo ristabilisce l'ordine dell' universo culturale cristiano. L'opposizione verticale tra Madonna/Lucifero (tra l' "alto" ed il "basso") si cambia in "incontro" sul piano della superficie, che é quello della vita reale. Per questo i minatori, abitanti del mondo oscuro e sottorraneo, possono uscire alla luce del giorno ed acquisire diritti di cittadinanza. Adesso i minatori possono scendere nella piazza principale proclamando che la fertilitá dei minerali, attivitá del mondo sotterraneo, é in reciprocitá con la pianura e, quindi, integratrice delle strutture sociali della cittá di Oruro. La dialettica di "alto/basso" é, allo stesso tempo, opposizione tra societá e tra classi sociali, che é dinamica della vita insieme. Dietro ai diavoli si organizzano gli altri gruppi di danzatori che, con i loro costumi e balli, ricordano le caratteristiche e le sofferenze dei mondi sfruttati: Morenos, Tinku, Inca, Caporales, Tarabuqueños, P' unchay ed altri. L' ironia unisce ora padroni e servi; la musica, coordinando passi e gesti, disegna pezzi di memoria collettiva che, anche se infranta, é presente nella sua globalitá. 3.3- Sabato: "entrata" del Carnevale Abbiamo scelto la piazza centrale come punto di osservazione. I lati delle strade, che la delimitano, sono affollati di gente, seduta sulle scalinate di legno. Le finestre degli uffici di fronte sono un susseguirsi di volti ed uno spingersi per guardare. La piazza é multitudine di persone ed é impossibile mettere ordine. La festa é giá iniziata; e la partecipazione diretta é una sua caratteristica. Si continua a vendere cose mangerecce, dovunque si tira acqua e la gente si muove in tutte le direzioni. Quelli di Tarabuco, avvolti nei loro tipici ponchos, si avvicinano per vendere oggetti artigianali. Ed anche noi organizziamo la nostra festa mangiando, bevendo e chiacchierando in un' atmosfera di allegria e solidarietá. Non ci sono segni particolari che condizionino le nostre azioni; e cosí tutti siamo attori. Sono le nove di mattina e, conversando, l' attesa é soprattutto per i Diavoli, Tinku, Tobas e Inca. Ogni persona si é identificata con i propri eroi che rappresentano uno specifico status sociale perché immedesimarsi con un gruppo di danzanti é anche un prepararci alla nostra danza. La piazza 32 adesso impone le sue ritualitá e norme di comportamento che sono percepite e condivise in maniera spontanea. La musica viene dal fondo della piazza. Si occupano istintivamente i propri posti di osservazione per ammirare ed applaudire. Carri abbelliti di argenti come offerta. Preceduti da bande musicali si avvicinano i carri adornati di cose preziose: macchine, camion avanzano ricoperti di argenti, di monete e di immagini del Socavón. Gli atteggiamenti e la ritualitá dell' andare manifestano intenzioni occulte. Anche se l' organizzazione é quella di una processione alla Vergine, in realtá si procede come in una sfilata di offerte antiche: le ricchezze passano per la piazza, arrivando da tutte le regioni del impero incaico in dono alla coppia reale: al sole ed alla luna. Il significato piú profondo é precisamente questo: i frutti del lavoro agricolo e delle miniere sono presentati alle divinitá. Il sincretismo mette insieme Madonna/Inti (sole), Cielo/Averno e Nazionalitá/Stato. Lucifero: re del Carnevale. Tra scoppi e scintille di fuochi artificiali nell' asfalto, avanza il re della festa. É Lucifero che arriva in groppa a un bellissimo cavallo. La sua maschera impressiona per i tratti multicolori e per la coreografia creata dai Mallku mitici: occhi sproporzionati, corna che fendono l' aria, vipere, rospi ed un mantello di porpora che gli copre tutto il corpo. Passa urlando e guardando in ogni dove. Dopo di lui, al ritmo della medesima musica, vengono i diavoli che si muovono come corte compatta. Davanti a loro, San Michele, vestito di bianco e che brandisce una spada. I suoi passi guidano i passi di tutti. Ballano correndo in doppia fila e sincronizzando il corpo con i movimenti delle braccia aperte. Gridano rrr...rrr come un khoya -il posseduto, che canta ubriaco allo "zio" della miniera che é il Supay-. La China-Supay precede il gruppo, senza avere una posizione precisa nella danza. Avanza in movenze che esagerano le sue caratteristiche di maschio-femmina; solitaria e maliziosa cerca alleanze ambigue. I Morenos: legati per sempre. Sono preceduti dai re morenos. Una leggenda e realtá di tutta l' America Latina e del mondo intero, espressione della storia di una razza: gli schiavi negri. Avanzano, pesanti di ricchezza, con una maschera immensa che scende fino a metá corpo, rotonda e rigida, che li copre fino ai piedi. I loro passi piú che un ballo sono un muoversi ritmato. I Mallku, disegnati sui loro costumi, li legano al mondo antico ed alla condizione indigena di condannati ai lavori forzati. La loro musica é una melodia, ritmata dal suono dello strumento che rappresenta il loro lavoro e che, con il movimento del braccio, fanno girare sulle le mani. I ballerini sono numerosissimi. Lo splendore dei costumi colora tutto lo spazio della piazza; 33 spariscono camminando lentamente, sepolti da sofferenze recondite. I Caporales: cosí ci maltrattavano. Si vedono prima gli aguzzini che compiono gesti di crudeltá. Il loro camminare, con passi lunghi e lanciati nell' aria, ingiganta il loro corpo. Le fruste, smisurate in lunghezza e spessore, sbattute contro l' asfalto, provocano cupi rumori. La massa viene dopo di loro, divisa in tre o quattro file di danzatori, che si contorcono sotto il peso della fatica. Mescolano passi di musica e gesti ludici. Un ballerino, fermatosi di fronte ad alcuni spettatori, si esibisce in un assolo di danza; termina piegando il corpo all' indietro, poggiandosi sulle braccia che toccano il suolo. Tra le persone si sussurra: é un omosessuale. Il proibito puó vivere apertamente solo tra gli emarginati: gli sfruttati e gli ostracizzati dalla societá partecipano con uguali diritti alla festa. Le antiche catene sono rappresentate dai sonagli ai piedi e la condanna al lavoro dalle decorazioni dei costumi. Il ballo unisce questi personaggi: gli aguzzini, preziosi nelle loro vesti, ed i servi che si muovono al ritmo delle fruste. Gli Inca: splendenti come il sole e la luna. Il gruppo avanza con i personaggi che furono i testimoni della tragedia: Inca e Spagnoli. Si vede prima Pizarro, Almagro ed il sacerdote Valverde; dopo vengono l' Inca Atahualpa ed i suoi consiglieri, con diademi di oro, e le ñusta con corone reali. Gli uni e le altre sono avvolti in un lungo ed ampio mantello. Gli strumenti musicali sono autoctoni. Calzano abarcas e portano fasce dorate, che cadono dalla cintura lungo i fianchi. Figure di sole, di luna e di altri disegni geometrici di segreti ancestrali mostrano il mondo antico, ricordando una "memoria" vicina e lontana. Cantano in quechua melodie di tristezza. Il ballo si snoda in movimenti di diademi, di corone reali e di mantelli. Andando raccontano i fatti determinanti della loro storia: confronto, lotta e spoliazione, che imposero loro gli invasori. La musica modula passi e canti di tragedia. I Tinku: uomo-terra. Il gruppo appare gridando: "io sono uomo". Sono numerosissimi ed avanzano in due file. Antecedono gli uomini e seguono le donne. I loro cappelli tipici brillano per gli specchietti che vi sono affissi. Gli uomini avanzano, retrocedono, si mettono di fronte e fanno la lotta del tinku; dopo formano un circolo intorno ad un cappello, posato per terra, e in catena circolare. Gli uni con le braccia appoggiate sulle spalle degli altri, ballano colpendo il suolo con pesanti passi. É un esercizio di guerra: dondolano il corpo sincronizzando i movimenti della testa con i piedi; insieme sono per terra disegnando con le gambe segni incomprensibili. Dopo, con le mani ferme sui fianchi, stando in ginocchio dirigono la testa a destra ed a sinistra. Si alzano, avanzano con passi rapidi e retrocedono con gesti di coraggio. 34 I Tobas: un popolo della Bolivia del Sud. L' inca Yupanki fu il conquistatore delle selve orientali della Bolivia, che erano le terre dei Tobas. Avanzano velocemente, solenni nei loro piumaggi: la gloria degli Inca si ripete. I corpi sono vestiti di soli specchi, collane e tatuaggi. La danza é un andare di agili salti, composto di movimenti di guerra e di caccia. Pujllay: come in una semina. Le vesti sono quelle di ogni giorno, punteggiate adesso dal luccichio degli specchietti che le adornano. Rilucono solo specchi e ricami: le donne hanno lunghe trecce. La musica è di charango a ritmo di un grido: huac..., cosí si ascolta. Uomini e donne avanzano in gruppi separati e con passi distinti. Incurvano il corpo con flessioni verso terra, girano su se stessi per incontrarsi, alla fine, in un faccia a faccia. La relazione piú chiara é con la terra: un gioco che ripete gesti antichi e attuali nei lavori della semina. Quelli di Tarabuco: piú autoctoni e superbi. Le cadenza dei loro passi combinano con le note di strumenti primordiali. Vestono i costumi caratteristici del loro paese che é Tarabuco. Agli uomini, il casco (imitazione dell' elmo spagnolo e con rifiniture multicolori) copre i lunghi capelli che finiscono in lunga treccia; ponchos e pantaloni bianchi sono di tessuto autoctono. I sandali che calzano hanno le suole di legno, alle quali sono inchiodati speroni di ferro. La melodia esce da una lunga quena. Arrivano in tre file e, con graduale coordinazione di ritmi; formano poi un circolo e lí la festa é tra di loro e per loro. L' entrada termina quando é giá notte. Sono passati davanti a noi attori ed azioni che hanno rievocato la memoria ancestrale. Soprattutto le diversitá delle melodie musicali, legate a societá diverse, hanno offerto motivi per pensare. Con esse anche la vita attuale ci é sembrata una storia antica dell' Altopiano e della Bolivia tutta. 3.4- Domenica e lunedí: continuitá di due giorni Domenica, di buon mattino, andiamo al Socavón. Le strade sono piene di persone, che in silenzio vanno al santuario in piccoli gruppi familiari e di amici. Alla 4.30 siamo nella piazza giá traboccante di gente. Non é facile entrare. Venditori ambulanti, danzatori, persone che si scambiano saluti e tutte le bande musicali sono lí. Quest' ultime, rivolte verso il sole che nasce, ripetono le loro melodie. Aspettiamo l' alba. Dalla croce del Calvario, il posto piú alto della geografia del luogo, osservo lo spuntare del giorno. Un colore rosso leggero si dilata nell' orizzonte, trasformandosi poi in azzurro tenue. I musici ripetono con vigore i canti e la piazza é tutto un ballo. L' annuncio degli albori del giorno ha provocato un canto di allegria che invoca 35 la Madonna come "stella del mattino" che separa il giorno dalla notte. Il gioco tra chiaro/scuro si visualizza nel Socavón, spelonca di superficie che é incontro di luce/ombra. Anche le opposizioni delle coordinate ecologiche si uniscono lí. Alla nostra destra, guardando il sole, osserviamo un' estensione d' acqua e, alla nostra sinistra, la pampa. L' una e l' altra convergono verso il mondo agricolo. La coordinata di "pianura e colline" é alle nostre spalle: é il regno dei minerali. I gruppi dei danzatori, sempre nei loro tipici vestiti peró senza maschera, entrano ed escono dalla Chiesa, unendosi al popolo. A mezzogiorno, nuovamente si danza nelle strade. Noi abbiamo ripreso il posto di osservazione del Sabato nella piazza centrale. Anche se si ripetono le danze e le melodie di ieri, oggi c' é meno formalitá e piú spensieratezza. Si vedono nuove comparse con cartelli e mimiche che denunciano le decisioni economiche del governo. Anche i diavoli, dopo aver adagiato le maschere al suolo, ballano al ritmo della cueca, ritornando poi ai passi della diablada. I danzatori entrano nella piazza secondo l' ordine inverso del giorno prima. Le caratteristiche carnevalesche e gli aspetti popolari sono di complemento alle danze. La festa proseguirá per tutta la notte nei quartieri e nei luoghi di divertimento. Il lunedí -il poco riposo della notte non ha lenito la spensieratezza e la dinamica della festa-, il popolo é ancora nel santuario del Socavón, aspettando due spettacoli: quello degli Inca e quello dei Diavoli, denominati relatos -la narrazioni-. Avranno luogo in due posti distinti. Gli Inca di fronte al Socavón ed i Diavoli sulla spianata sottostante, che é stata trasformata in anfiteatro con gradinate di legno. 3.4.1- Il relato degli Inca: le tragedie di un popolo É la declamazione teatrale di un manoscritto redatto in quechua. Si narra la fine dell' impero incaico. Gli attori sono i personaggi della tragedia. La figura centrale é, peró, il messaggero -chasqui- che é comunicazione tra i capi indigeni ed i conquistatori spagnoli. Due mondi che si confrontano ed agiscono con obiettivi contrapposti. Il messaggero disciplina e narra gli avvenimenti. Ritrascriviamo i momenti salienti, basandoci sull' edizione piú conosciuta del testo originale. Richieste di Pizarro, tradotte dal messaggero Signor Inca Atahualpa, ti dice questo il signore che comanda: é inutile che tu vaneggi in fatti 36 e che ti prolunghi in parole, che non si possono comprendere; io sono uomo ostinato e davanti a me tutti si umiliano; ti ho concesso un istante perché ti prepari e saluti questi familiari tuoi. ................................ ................................. ................................ Nella stessa maniera che con le tue mani hai umiliato tuo fratello l' Inca Huascar, cosí davanti a me ti piegherai. Maledizione di Atahualpa prima di morire Nemico con barba di wiracocha, io sono rimasto sempre al mio posto e non é mia abitudine presagire disgrazie. In questo giorno di tristezza mi porti via la vita, ma vivró nei tuoi pensieri, porterai la macchia del sangue mio eternamente; tutti i miei sudditi poseranno i loro occhi in te ed essi, miei figli, ti malediranno per ció che hai fatto. Anche l' uccello che non ha sentimenti, in ogni luogo ti augurerá disgrazie e camminerai senza riposo; feroci avversari ti distruggeranno con le loro mani e dovrai maledire per sempre la decisione irrevocabile del mio potere. ............................. ............................. 37 ............................. Pianto della ñusta Come vivremo senza l' Inca, nostro signore. É realtá o solo sogno che il grande albero é stato abbattuto? Ah! tu, Pizarro wiracocha, che hai dato morte al nostro Inca, tu morirai di triste morte. Che la tua potenza svanisca per sempre. Nemico con barba wiracocha, vivrai tra i tormenti del rimorso. Che dobbiamo fare adesso senza il nostro Inca? Tutto si oscura come nube nella bufera. .............................. .............................. ............................... 3.4.2- Il relato dei sette peccati mortali: le rotture della solidarietá Lucifero e San Michele Arcangelo rappresentano le opposizioni tra virtú e peccati, individuali e collettivi. Lucifero manda alla lotta i suoi seguaci e, all' ultimo, umiliato si inginocchia davanti a San Michele. La China Supay sará allontanata dal vivere umano peró senza essere distrutta. Edoardo Moscoso riferisce cosí gli avvenimenti, ormai parte della tradizione popolare: ............................ ............................ ............................ Rompe il silenzio la voce giustiziera mettendo paura alla turba fiera. - Dov' é il peccato della lussuria, il cui solo nome il genere umano ingiuria? - Qui c' é la lussuria. Oh angelo di luce, risponde un demonio fuggendo dalla Croce. Ritorna a chiamare il santo: La pigrizia? 38 A passi lenti arriva la pigrizia, vestita da diavolo bramoso, modello esatto dell' uomo ozioso. Alla domanda del soldato celeste si fa presente un essere grasso come un prete ............................................. ............................................. Dopo, la gola divora un salame in fretta. Dice Michele alzando il suo pugno divino: - Qui si presenti, rovinosa e felina, la invidia. Essa si avvicina paurosa a lui. ..................................... ..................................... É un triste essere maligno di sguardo basso che sporca la virtú e la morale ribassa. E si presenta subito la superbia, di broccato magnificamente vestita. - Disprezzabile sei demonio vanitoso, esclama San Michele. Avanza l' avarizia pentita. Porta, questo diavolo, un bel mantello di oro rubato, chi puó saperlo?, dall'arca di un moro. - Demonio insaziabile non hai budella, nel tuo ventre passano montagne. Sentendo questa malediazione, il perverso si abbassa a stento come un rospo. Mille voci risuonano: Attento, Michele; guarda. E si gira l' angelo...La ira lo incalza. - Vade retro satana... Dio sta con me. Si lancia nella pugna con la nemica. Quella lotta dura molto. Vincerá l' angelo? L' esito non sembra sicuro. I diavoli afferrano i loro tridenti. China-Supay lancia sibili stridenti: Arr... Arr... L' intorno é tutto un tafferuglio. 3.4.3- Cacharpaya o Addio al Socavón Dopo le rappresentazioni teatrali, verso le tre del pomeriggio, tutti i danzatori ritornano al santuario del Socavón. Ancora una volta l' attenzione della gente é su di loro. Sulla porta della chiesa, tra musica ed allegria del popolo, ogni responsabile di un gruppo di danzatori dá lo stendardo a colui che s' incaricherá dei festeggiamenti del prossimo anno. Terminata la cerimonia, 39 ordinatamente i danzatori entrano in chiesa cantando l' inno del proprio gruppo. Si fermano davanti all' altare ascoltando le raccomandazioni che rivolge loro il sacerdote. Dopo la benedizione, ognuno compie in ginocchio un giro attorno all' altare della Madonna. Uno dopo l' altro, mormorando preghiere, eseguono il rito, che finisce quando inizia la notte. Adesso scendiamo in cittá con l' impressione di aver chiuso un ciclo di feste, che ha manifestato aspetti di religiositá popolare tra balli, canti ed allegria. 3.5- Martedí: ch' alla familiare e comunitaria É il giorno della festa domestica. Dopo la catarsi collettiva, la famiglia ritrova i suoi ruoli specifici. La ritualitá controlla anche questi spazi che non sono solo spazi d' intimitá, ma anche comunitari. La successione dei fatti dei quali parleremo piú avanti, fu osservata nella casa del pasante, responsabile del gruppo dei danzatori incaici. Padri, figli e parenti si ritrovano uniti in un' azione di offerta, confermando le relazioni che, piú in lá dei legami di sangue, sanciscono anche norme di comportamento pubblico. Il momento piú importante della cerimonia si realizza intorno al sacrificio di un lama; dopo, tutti parteciperanno al pranzo che sará un condividere insieme l' offerta stessa. All' alba, le donne iniziano il lavoro di pulizia della casa. Gli uomini vanno a comprare alcoolici ed altre bevande. Il primo incontro di famiglia si realizza all' ora della colazione, fatta a base di api o di caffé, accompagnati con pane speciale. Dopo, gli uomini, i piú anziani di loro, ammazzano un lama preferibilmente maschio, bianco e di un anno di vita. Il sacrificio dell' animale é presieduto da colui che é maggiormente iniziato al rito o, in mancanza di questi, da un yatiri, espressamente invitato. Il lama é ammazzato colpito al cuore. Il sangue é raccolto in un recipiente. Nel frattempo, le donne continuano nei lavori domestici e preparano il mangiare. I bambini giocano nella strada tirandosi acqua. Gli anziani, sempre diretti dall' iniziato, purificano i vari ambienti domestici, disegnando croci agli angoli con il sangue del lama. Nel centro del cortile si prepara la mensaaltare, adornata con coriandoli, riempita di dolci e profumata di incenso. Tutta la casa é abbellita con carta multicolore. Terminata la decorazione, ogni persona é invitata a fumare ed a bere. Le donne cuociono il lama mentre gli uomini, seduti nel cortile, chiacchierano sui fatti del Carnevale o del lavoro fino alle tre del pomeriggio, momento nel quale ci si siede a tavola. Si mangia solamente carne di lama che deve essere ben condita. Il pranzo dura varie ore e dopo si va alla mensa-altare. Lí, si bruceranno le ossa; le ceneri saranno messe sotto terra in un angolo del cortile. Sempre intorno alla mensa-altare si brucia incenso, spargendo alcool per terra in venerazione 40 della Pachamama ed invocando sicurezza nel lavoro e nei viaggi. Dopo si balla e si beve fino all' ebbrezza. Anche se questo é lo stato psicofisico che si deve raggiungere, non sono ammesse esagerazioni. Il momento piú intenso del rito é l' unione tra la Pachamama, la famiglia e le preoccupazioni per il lavoro. 3.6- Domenica di Tentazione: cacharpaya intorno ai Mallku La Vergine del Socavón, Pachamama, dea della miniera e della fertilitá familiare, é complementare all' azione dei Mallku che delimitano lo spazio urbano da quello della campagna. Andare verso essa é affrontare un universo socio-culturale ed economico, sconosciuto all' uomo della cittá. Per questo i Mallku sono allo stesso tempo buoni e cattivi. Le loro immagini circondano la cittá disegnando le coordinate ancestrali: é necessario placare la loro psicologia mitica perché la cittá possa ingrandirsi e arricchirsi dei beni agricoli. Nel pomeriggio della Domenica di Tentazione -la domenica che segue al Carnevale- si fanno sacrifici in onore ai Mallku: il condor, il rospo, le formiche, la lucertola e, in special modo, la vipera. La popolazione va a Chiripujiu che é precisamente il luogo consacrato a quest' ultima. Le sue connotazioni sessuali, la sua posizione nel posto piú avanzato verso la campagna, favoriscono le piú svariate motivazioni: le persone arrivano in gruppo e con ogni tipo di locomozione. Le bande dei musici, in piedi su camion che sono stati disposti in ampio circolo, fanno risuonare nell' aria le loro note. Lí, moltitudine e melodie organizzano la festa con balli, cibi e bevande. Gli aspetti religiosi sono canalizzati verso la Vergine. La ritualitá é, in parte, simile a quella del Socavón. La vipera, pietrificata, appare sulle colline come snodandosi verso la cittá; in Chiripujiu si staglia la sua enorme bocca che é oratorio. Ci si arriva passando fra una doppia fila di venditrici di oggetti, necessari per l'offerta: incenso, alcool, rappresentazioni di petizioni -camion, case, benessere-, erbe odorose di segreti magici ed immagini di Mallku. Si vende tutto ció che serve per preparare una mensa-altare, che sará bruciata davanti alla spelonca, che é la bocca della vipera. Vedo coppie di giovani che comprano oggetti per il sacrificio. 41 La mensa-altare si prepara con alcune pietre sopra le quali si stende un fazzoletto di tela bianca. Incenso ed oggetti si bruceranno nelle vicinanze dell' oratorio. Alcune persone hanno organizzato una mensa-altare a contatto con le sembianze della vipera. Fiamme di fuoco, odore di bevande e l' ammucchiarsi delle persone non favoriscono la visibilitá. Improvvisamente le fiamme si ingigantiscono per il fatto che il fuoco é stato alimentato con benzina. La macchina fotografica deve essere usata con prudenza: il contatto con il sacro impone silenzio ed intimitá. Solamente i familiari, gli amici, i compagni di lavoro conoscono i desideri che si dicono ai Mallku. Piú facile é essere invitati a condividere l' offerta; ci si serve di un poco di tutto e si ringrazia: questi sono i gesti che esprimono solidarietá e manifestano motivazioni occulte. %%% Per tutto il tempo del Carnevale ci siamo sentiti amici di molta gente sconosciuta; segretamente ci siamo comunicati orizzonti di nuova umanitá; orizzonti piú vicini alla terra, alla ricchezza dei monti, al lavoro ed ai progetti di essere pellegrini nei differenti cammini della vita, senza separazioni e senza conflitti. San Carlos, Cochabamba, Aprile 1986. 42