Museo Querini Stampalia Venezia a cura di Babet Trevisan
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Museo Querini Stampalia Venezia a cura di Babet Trevisan
Museo Querini Stampalia Venezia a cura di Babet Trevisan Fondazione Querini Stampalia Onlus Museo Querini Stampalia Venezia Fondazione Querini Stampalia Onlus Consiglio di Presidenza Presidente Marino Cortese Direttore Enrico Zola Vice presidente Antonio Foscari Marigusta Lazzari Consiglieri Giovanni Castellani Davide Croff Irene Favaretto Revisori dei conti Roberto Parro Giancarlo Tomasin Ente tutore Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti Leopoldo Mazzarolli, Presidente Circolo Queriniano Comune di Venezia Consorzio Venezia Nuova Fondazione ENI Enrico Mattei Fondazione di Venezia FURLA S.p.a. Insula S.p.a. Ministero per i Beni e le Attività Culturali Provincia di Venezia Regione del Veneto Rubelli S.p.a. SIPCAM S.p.a. Federico Acerboni Andrea Bellemo Gabriella Berardi Tiziana Bottecchia Lucia Marina Broccato Marcellino Busato Cristina Celegon Barbara Colli Elisabetta Dal Carlo Dora De Diana Massimo Donaggio Antonio Fancello Neda Furlan Angelo Mini Angela Munari Barbara Poli Barbara Rossi Marta Savaris Babet Trevisan Anna Francesca Valcanover Chiara Bertola Monica Bertello Sara Bossi Alessandra Breda Anna Fantelli Elisa Ghisu Alessandro Marinello Alvise Rabitti Giovanni Rosa Geraldine Testa Onorato Zustovi a cura di Babet Trevisan testi di Enrico Zola Babet Trevisan schede di Tiziana Bottecchia (TB) Elisabetta Dal Carlo (EDC) Dora De Diana (DDD) Babet Trevisan (BT) referenze fotografiche Joerg P. Anders. ©2005. Foto Scala, Firenze/ BPK Andrea Avezzù Cameraphoto Arte Francesco Castagna Attilio Maranzano ORCH_Chemollo fototeca Gabriella Berardi Marcellino Busato bibliografia essenziale Barbara Colli progetto grafico Studio Camuffo indice dei nomi Cristina Celegon impaginazione Karin Pulejo, Studio Camuffo Grafiche Vianello ISBN: 978-88-7200-321-3 coordinamento editoriale Marigusta Lazzari Iniziativa realizzata con il contributo della Regione del Veneto, ai sensi della L.R. n. 50/1984, art. 44 Le attività della Fondazione Querini Stampalia sono sostenute da: Silvia De March Laura Pertot Silvia Zanrosso in copertina: Giovanni Bellini, La Presentazione di Gesù al Tempio, particolare Copyright © 2010 Vianello Libri, Ponzano (Tv) Copyright © 2010 Fondazione Scientifica Querini Stampalia onlus, Venezia la Fondazione è a disposizione per eventuali crediti fotografici non indicati Gentili visitatori, ho il piacere di presentare la guida breve al nostro Museo, pensata per accompagnarvi nella visita, ma anche come ricordo dei percorsi museali. Da molti anni sentivamo il bisogno di uno strumento come questo; il catalogo del Museo fu pubblicato nell’ormai lontano 1979 ed è di difficile reperimento. Inoltre, nel corso degli anni, varie scoperte d’archivio o ricerche iconografiche hanno condotto al cambiamento di attribuzione e datazione dei dipinti della collezione di famiglia e di questo, come anche dei molti altri cambiamenti architettonici della Fondazione e dei nuovi servizi al pubblico, volevamo dare notizia in un’unica pubblicazione. Il volume non sostituisce il catalogo scientifico, ma è una guida completa, se pur breve e divulgativa, a quello che riteniamo maggiormente interessante del nostro patrimonio. Ci è caro dedicare questa nuova opera alla memoria del nostro Fondatore, Giovanni Querini Stampalia, scomparso 140 anni or sono, il 25 maggio 1869. Potrete così girare per le sale del Palazzo virtualmente accompagnati dai nostri conservatori, autori dei vari testi, che hanno cercato di rendere piacevole la descrizione degli ambienti e che hanno voluto, inoltre, offrirvi alcune curiosità non solo sulle opere esposte, ma anche sulla vita della Serenissima. Le piantine vi aiuteranno nel percorso allestitivo, che vi porterà in un viaggio nel tempo: dalla casa settecentesca dei Querini Stampalia, con la sua biblioteca al primo piano, e la dimora storica al secondo piano, all’architettura contemporanea di Carlo Scarpa, Valeriano Pastor e Mario Botta. Vi auguro una buona visita. Marino Cortese Presidente della Fondazione Querini Stampalia Venezia, 25 maggio 2009 Il senso del sostegno offerto alla Fondazione Querini Stampalia per pubblicare la guida alle collezioni della sua celebre Pinacoteca va al di là del ruolo istituzionale ricoperto dalla Regione nel promuovere il sistema dei nostri musei, privati o pubblici che siano, attraverso quanto dispone la legge regionale 5 settembre 1984 n. 50 “Norme in materia di musei, biblioteche e archivi di enti locali o di interesse locale”. Il fatto è che il momento della pubblicazione di un volume che illustri il complesso di un’istituzione culturale, sia dal punto di vista storico sin dalla sua fondazione sia per i beni in essa conservati, rappresenta un impegno importante nei confronti del pubblico e, soprattutto, un segno di grande attenzione nei suoi confronti al fine di rendergli amichevolmente accessibile l’incontro con il museo. Come viene concepito questo strumento di comunicazione (e di una comunicazione che deve essere qualcosa di più rispetto ad un catalogo scientifico, la cui redazione è prevalentemente orientata alla consultazione da parte di studiosi) costituisce, per questo motivo, un elemento di valutazione del raggiungimento di standard di qualità gestionali. Non a caso, infatti, all’interno del noto documento di indirizzo emanato nel 2001 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali per indicare i criteri tecnicoscientifici e gli standard di sviluppo e di funzionamento dei musei, l’ambito VII, dedicato ai “Rapporti del museo con il pubblico e relativi servizi”, invita a predisporre una serie di strumenti per favorire la lettura critica delle opere presentate e, tra questi, le guide brevi e il catalogo scientifico. Ci ha onorato il fatto che la Fondazione abbia chiesto alla Regione di essere partner istituzionale nella realizzazione di quest’opera. Lo abbiamo colto come un segnale di attenzione rispetto alla nostra missione, tesa ad avvicinare, attraverso iniziative differenziate, il pubblico, sia locale sia turistico, alla conoscenza del ricco patrimonio culturale conservato negli oltre trecento musei del Veneto. La qualità della pubblicazione si coglie ampiamente non solo nel rigore scientifico dei testi e del progetto culturale ad essa sottesi, ma anche nella ricchezza delle immagini che avranno il compito di restituire la memoria delle emozioni che ogni visitatore proverà nell’entrare nella casa del conte Giovanni, ultimo discendente della famiglia patrizia dei Querini Stampalia, ritrovando il sapiente equilibrio tra una dimensione spaziale e percettiva rimasta domestica e una godibilità pensata secondo i più moderni parametri della fruizione museale di qualità. Angelo Tabaro Segretario Regionale Cultura Regione del Veneto Sommario 11 33 La Fondazione Querini Stampalia Enrico Zola Restauri e allestimenti storici del Museo Babet Trevisan 43 53 59 69 79 87 95 105 113 123 129 135 141 149 157 163 171 IL MUSEO I. Portego II. Sala Giovanni Bellini III. Sala delle tavole IV. Sala della Maniera V. Sala della musica VI. Sala dei ritratti VII. Salotto Giuseppe Jappelli VIII. Sala Ottocento IX. Scene di vita veneziana X. Studiolo XI. Camera da letto XII. Boudoir XIII. Salotto rosso XIV. Salotto verde XV. Sala degli stucchi XVI. Sala da pranzo XVII. Sala mitologica 183 A rea C arlo S carpa 1 97 199 203 Restauri e benefattori dal 1980 Indice dei nomi Bibliografia essenziale La Fondazione Querini Stampalia Il Conte Giovanni (1799-1869), ultimo discendente dei Querini del ramo Stampalia, lasciò in eredità nel 1868 alla sua Venezia tutti i suoi averi: lo storico palazzo di famiglia, terre, case, libri, quadri, mobili, oggetti d’arte, monete, stampe. Con l’estinzione dei Querini e il conseguente passaggio a Fondazione di tutto il patrimonio, si è realizzato un raro esempio di conservazione dei beni di una famiglia di antichissime e nobili origini. La famiglia Querini, annoverata tra le dodici casate apostoliche, le più insigni fondatrici della città lagunare, faceva parte dei governanti, del patriziato, cioè di coloro che occuparono ereditariamente l’area del potere. La partecipazione nel 1310 di Marco Querini alla drammatica congiura ordita da Bajamonte Tiepolo contro il doge Pietro Gradenigo segnò la loro storia, macchiando il nome della casata, che venne esclusa per sempre dal dogado. Nel XIV secolo Zuanne Querini riuscì ad acquistare l’isola di Astipalea nell’Egeo e da questo feudo deriva il titolo di Stampalia, titolo che solo nel 1808 venne usato da Alvise Querini alla corte napoleonica di Milano per distinguersi da un suo omonimo, l’ambasciatore del Regno di Sardegna. Da allora il doppio cognome è rimasto ad indicare prima la famiglia, oggi la Fondazione. Nel secondo Settecento, il patriziato veneziano appariva suddiviso – di fatto se non di diritto – in tre fasce “sociali”: i “grandi”, con il massimo delle disponibilità economiche e quindi con le maggiori disponibilità di gestione del governo; i “quarantiotti” mediani di facoltà economiche e mediani di potere; i “barnaboti”, decisamente più poveri di sostanze e decisamente poveri di potere pur se appartenenti anch’essi al corpo sovrano e sedenti in Maggior Consiglio. Pittore veneto Giovanni Querini Stampalia 11 la fondazione querini stampalia I Querini di Santa Maria Formosa facevano parte dei “grandi” e con la generazione che si era dipartita da Zuanne Carlo (fratello del celebre cardinale Angelo Maria) entrarono nel gruppo di coloro che di fatto guidavano il Governo della Serenissima. Erano di Santa Maria Formosa perché nel Cinquecento i Querini costruirono in quel luogo, dove già possedevano nel Trecento alcune case, un palazzo ispirato all’architettura di Mauro Coducci, architetto che a Venezia aveva già progettato diverse opere come Ca’ Vendramin Calergi, la chiesa di San Zaccaria, la chiesa di San Giovanni Evangelista (Scuola Grande), la chiesa di Santa Maria della Visitazione (Pietà), la chiesa di Santa Maria Formosa. Come indicato nel testamento del fondatore questo Palazzo è tuttora la sede della Fondazione omonima che vi ha allestito la Biblioteca al primo piano, già appartamento del Conte Giovanni, il Museo al secondo piano, che era stato sede patriarcale nella prima metà dell’Ottocento, e un’area per esposizioni al terzo. I L PA L A Z Z O Un documento del 1514 ci attesta l’inizio dei lavori per la realizzazione del nuovo Palazzo commissionato da Nicolò Querini (1442 circa - post 1514). I lavori intrapresi da Nicolò proseguirono con il nipote Francesco (1503 circa - 1554) che per circa un trentennio registrò nella sua contabilità numerose “spese fatte per la chaxa dove si abita”. Gli interventi riguardarono sia la sistemazione degli interni, come nella “chamera granda”, sia quella del prospetto sul campiello, probabilmente conclusasi nel 1524 con la messa in opera di due balconate ai “pergoli”. Tra il 1515 e 1528 sono indicati infatti nei registri di spesa lavori di ampliamento, riparazione e abbellimento del Palazzo, da cui si evince che Palma il Vecchio, e dopo la sua morte la sua bottega, e segnatamente Bonifacio de’ Pitati intrattennero continuamente rapporti professionali con la famiglia. Il crescente prestigio dei Querini nei primi decenni del Cinquecento, spinse la famiglia a realizzare nella dimora una nuova serie di migliorie, tuttavia le scelte operate negli anni dai diversi committenti manifestano la mancanza di un progetto unitario di trasformazione, abbellimento e aggiornamento della dimora e sottolineano un modo di procedere per aggregazioni, attraverso una successione di interventi parziali decisi secondo una logica di “diligente economia”. Il Palazzo di residenza crebbe, si sviluppò, si riarticolò e si abbellì nel tempo con annessioni di proprietà contigue e sopraelevazioni, venne diviso in appartamenti e a volte venne parzialmente affittato. I documenti d’archivio non riportano novità di rilievo fino al 1614 quando Zuanfrancesco (1554-1621) decise di acquistare da un suo lontano parente una casa da stazio identificabile con l’edificio preesistente all’odierna ala orientale del Palazzo, cioè quella direttamente prospiciente il campo di Santa Maria Formosa. Venne effettuato un ulteriore acquisto a confine nel 1654 (edificio tutt’ora esistente dirimpetto al Palazzo, sull’altra riva del rio) e tra il 1660 e il 1710 è probabile che siano avvenute delle risistemazioni e l’unificazione delle due antiche case da stazio cinquecentesche. Mediante un ponte aereo a cavallo del rio, il Palazzo venne collegato alla casa antistante sul campo, e questa direttamente alla chiesa parrocchiale, alla quale dunque nel Settecento la famiglia accedeva direttamente da casa senza uscire in campo. Un vero rinnovamento radicale del Palazzo si svolse tuttavia solo nella seconda metà del Settecento, in occasione del matrimonio tra Alvise (1758-1834), uno dei figli di Zuanne, e Maria Teresa Lippomano. Vennero modificati gli spazi interni, ridotte le 13 la fondazione querini stampalia dimensioni delle sale, commissionati nuovi cicli pittorici, ma non venne alterata la cinquecentesca facciata esterna. In un momento di declino della città aggiornamenti e novità infatti potevano coinvolgere i luoghi del privato uso quotidiano ma non l’immagine esterna di una dimora patrizia. Nel 1788 Andrea Querini (1710-1795) e suo figlio Zuanne (17331793) stipularono un contratto con il proto Antonio Solari per l’ingrandimento e il restauro di Palazzo Querini Stampalia. Il cantiere venne affidato prima ad Antonio Solari e poi a Girolamo Vianello mentre per la realizzazione dei nuovi decori vennero chiamati Jacopo e Vincenzo Guarana, Davide Rossi, l’ornatista Giuseppe Bernardino Bison, il doratore Domenico Sartori e i fratelli stuccatori Giuseppe e Pietro Castelli. Dal 20 maggio 1835 al 1° giugno 1850 il secondo piano dell’edificio venne affittato al patriarca Jacopo Monico. Il 3 agosto 1849 il Palazzo fu saccheggiato da parte dei patrioti del Circolo Italiano. L’assalto avvenne perché si era diffusa la voce, priva di fondamento, che il patriarca Jacopo Monico avesse sottoscritto una petizione per la resa agli austriaci. Mobili, libri, monete, medaglie e altri oggetti preziosi vennero gettati in canale con un un danno per Giovanni di 100.000 lire austriache di allora. Nel 1869 il Palazzo di famiglia divenne la sede della Fondazione istituita allo scopo di conservare e valorizzare le sue raccolte artistiche e bibliografiche, insieme con tutti i suoi averi e di promuovere “il culto dei buoni studj, e delle utili discipline”. Tra il 1959 e il 1963 l’architetto Carlo Scarpa eseguì al piano terra, per volontà di Giuseppe Mazzariol (Venezia, 1922-1989), allora direttore della Fondazione, e Gino Luzzatto (Padova, 1878 - Venezia, 1964) allora presidente, un celebre restauro: la realizzazione di una sala, utilizzata per mostre e conferenze e un piccolo giardino interno, chiuso tra mura, con una vera da pozzo, un leone gotico e due fontane che portano il murmure dell’acqua in questo silenzioso angolo veneziano. Una ulteriore riqualificazione della sede nasce alla fine del 1993, quando Giorgio Busetto ed Egle Trincanato, al tempo rispettivamente direttore e presidente della Fondazione, affidano l’incarico all’architetto ticinese Mario Botta di procedere ad un articolato progetto di restauro. Botta, molto legato alla Fondazione, decide di donare il suo progetto: come molti studenti passava intere giornate in Biblioteca e i relatori della sua tesi furono Carlo Scarpa e Giuseppe Mazzariol. L’intervento di Botta definisce un rinnovamento profondo della sede, spostando l’entrata al Palazzo da campiello Querini a campo Santa Maria Formosa. Mentre con il restauro del sottotetto e del terzo piano sono stati ricavati degli uffici e un’area per mostre e seminari, al piano terra sono stati creati spazi per un insieme di funzioni a servizio del pubblico: bookshop, caffetteria, guardaroba, sale da bagno, un’area per ospitare i bambini e infine un auditorium che si configura come prosecuzione dell’ingresso alla Fondazione. Le differenti funzioni della Fondazione trovano un elemento unificatore nella corte dedicata a Giuseppe Mazzariol, che si apre inattesa e riscatta gli spazi compressi dei locali attigui, ridotti in altezza per portare il pavimento a una quota di sicurezza rispetto all’escursione media di marea. La continuità spaziale è resa grazie all’impiego degli stessi materiali usati nel bookshop, nella caffetteria e nelle altre sale collocate al piano terra. Confinante con la corte l’auditorium con 132 posti a sedere su poltroncine in pelle nera, dotato delle tecnologie più avanzate, di cabine di regia e traduzione simultanea. Alcuni importanti interventi a Palazzo sono stati eseguiti anche dal 1982 al 1997 dall’architetto Valeriano Pastor. Il segno più visibile è la scala, che costituisce oggi la principale uscita di emergenza pagina seguente: Carlo Scarpa Giardino 17 Carlo Scarpa La “Fondamenta” Valeriano Pastor Portone di sicurezza L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A del Palazzo. Costruita ex novo, al posto di una scala di servizio ottocentesca, con gradini in pietra artificiale prefabbricati, comprende anche piccoli ambienti per bagni e depositi, e si conclude all’ultimo piano con l’accesso a un’altana. Il rivestimento, che si affaccia su una piccola corte, è in legno e le finestre sono degli oblò. Al pianoterra, nella corte adiacente al giardino, Pastor ha disegnato un varco di uscita sul muro perimetrale. Il portone di legno e metallo, con il monogramma QS (Querini Stampalia) inserito nell’arco di pietra, dialoga con il cancello scarpiano posto sull’altro lato della calle. Problemi di raccordo e di fruizione di fondamentale importanza vengono risolti da Pastor con un ponte aereo di collegamento tra il Palazzo sede e la palazzina posta al di là del giardino e con la trave parete in Museo, realizzata insieme all’ingegnere Walter Gobbetto, in seguito anche progettista del nuovo deposito librario. Dal 1997 la facciata cinquecentesca del Palazzo è stata arricchita da un’installazione di neon. Si tratta dell’opera La Materia dell’Ornamento di Joseph Kosuth eseguita per il progetto “Sarajevo 2000” e costituita da dodici frasi tratte dal libro Le pietre di Venezia di John Ruskin. IL MUSEO Le nozze tra Francesco Querini (1503 circa - 1554) e Paola Priuli, celebrate nell’aprile del 1528, sono considerate l’evento che ha dato inizio alle vicende di committenza artistica della casata. A questa data il pittore della famiglia è Jacopo Palma il Vecchio e a lui verranno commissionati i ritratti degli sposi, oggi esposti in Museo. Importante fonte di notizie su commissioni ed esecuzioni è il Libro di spese di Francesco, dove sono registrati i costi per lavori di ampliamento, riparazione e abbellimento del Palazzo. Mario Botta Scala c Mario Botta Auditorium G. Piamonte 19 L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A Tra le commissioni compaiono le pitture di Palma nella “camera d’oro”. Il 30 luglio 1528 Palma muore e nell’inventario steso alla sua morte, dove si legge la descrizione sommaria dei dipinti allora presenti nello studio, sono elencati cinque quadri a lui commissionati da Francesco. Da qui nasce la quadreria queriniana. Difficile, allo stato attuale degli studi e dei documenti reperiti, dare informazioni altrettanto certe sulla storia successiva della raccolta per oltre un secolo e mezzo, anche se la presenza di ritratti rimanda con sicurezza a Marco Vecellio, chiamato nel tardo Cinquecento a effigiare in una serie di ritratti ideali il casato, e a Sebastiano Bombelli, che celebra, un secolo dopo, Gerolamo in vesti da procuratore e il fratello Polo. Nel Seicento infatti la famiglia raggiunge un elevato grado di ricchezza e potenza, assume una maggiore visibilità e si fanno più frequenti gli episodi celebrativi. Gerolamo (1648-1709) e Polo (1654-1728) acquistano le procuratorie straordinarie di San Marco, rispettivamente de citra il primo e de ultra il secondo. L’udinese Bombelli, pittore di crescente successo che sarà chiamato anche a Palazzo Ducale, viene incaricato di eseguire due grandi ritratti a figura intera di Gerolamo e di Polo, e altri quattro ritratti degli stessi di dimensioni più piccole. A maggior gloria della casata, l’avvento al soglio ducale del doge Silvestro Valier e della moglie Elisabetta Querini (1630 circa - 1709) viene immortalato in due ritratti da Nicolò Cassana nel 1694. Gli anni a cavallo tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento vedono alcuni episodi significativi riferiti a interessanti gruppi di opere. Tra questi, per arredare il “cameron della galleria”, destinato a funzioni di rappresentanza, sette busti marmorei tradizionalmente attribuiti a Orazio Marinali e noti come Bravi, oggi ritenuti sculture di Michele Fabris detto l’Ongaro e raffiguranti filosofi, un giovane allievo e una coppia di santi. Tra le opere riconoscibili del “cameron della galleria” vi è il 21 la fondazione querini stampalia soffitto di Sebastiano Ricci con l’Allegoria del giorno, probabilmente commissionato per celebrare il matrimonio di Zuanne Carlo (1681-1763) con Chiara Tron nel 1702. Il Settecento si pone come un periodo particolarmente felice per i Querini: annoverati tra i più ricchi esponenti della società veneziana e diventati tra i maggiori proprietari fondiari dello stato, parteciparono attivamente alle vicende della vita pubblica. In questo secolo tre Querini diventano procuratori di San Marco, Polo e i suoi due figli Zuan Francesco e Zuanne Carlo; ma chi assurgerà a più alti onori sarà il secondogenito di Polo, Gerolamo, prelato di gran rango dell’ordine benedettino, col nome di Angelo Maria (1680-1755), il personaggio più ragguardevole nella storia della famiglia. Uomo di grande ingegno e vivace figura di intellettuale, arcivescovo di Corfù e poi vescovo di Brescia, prefetto della Vaticana e fondatore della grande Biblioteca Queriniana a Brescia, ebbe anche statura internazionale per i suoi rapporti con uomini come Voltaire, Newton e Montesquieu, capace come fu di inserirsi nel più vasto dibattito dell’illuminismo europeo. Letterato, traduttore, collezionista ed editore, oltre che teologo, era un vanto di Venezia, tanto da venir annoverato tra i “sommi tre geni patrizi”, unitamente al doge Marco Foscarini e all’abate filosofo Antonio Conti. Altro illustre membro della casata è Andrea (1710-1795). Influente senatore della Dominante, mecenate protettore di Carlo Goldoni e Pietro Longhi, a lui si deve la committenza di due dei nuclei più significativi della collezione. Longhi intorno al 1750 dipinse per Andrea la scena d’interno con la Lezione di geografia, tra il 1755 e il 1757 la serie dei Sette Sacramenti, destinati ad arredare la camera da letto, nel 1761 la Frateria di Venezia e nel 1762 il Casotto del leone, opere che fanno parte delle quindici tele dell’artista che appartengono all’asse ereditario. Sempre per Andrea lavora nel 1782 nella casa dominicale ai Santi Quaranta a Treviso, Gabriel Bella, un pittore minore. Il Museo conserva sessantasette tele di quest’artista che fa rivivere feste popolari, balli, teatri, cerimonie ufficiali della Repubblica, in parte provenienti dalla casa dominicale, in parte dalla famiglia Giustinian. Figura chiave in seno alla casata è stata quella di Alvise, nipote prediletto di Andrea e padre del conte Giovanni. Dal 1795 al 1797 visse a Parigi come ultimo ambasciatore della Serenissima Repubblica in Francia. A lui si deve l’acquisto del prezioso servizio in porcellana di Sèvres che arreda la sala da pranzo. La storia della Dominante, della famiglia e del patrimonio continuano a procedere insieme. Dalla metà del Settecento la morsa dei debiti attanaglia il patrimonio queriniano divenendo pesantissima a fine secolo. Nel primo Ottocento ne consegue un’ampia manovra di disinvestimenti tale da spingere Alvise e i suoi tre fratelli a decidere di rendere disponibile per la vendita persino la biblioteca e la galleria, che la tradizione familiare voleva custodite integre e, per quanto possibile, regolarmente accresciute. A causa del collasso economico e sociale della nobiltà veneziana alla caduta della Repubblica, il mercato risultava invaso da libri e opere d’arte e non interessato alla gran parte dei beni Querini. Diversamente, anche queste raccolte, oggi di pubblico uso, sarebbero state disperse come tante altre biblioteche e collezioni d’arte di cui era ricchissima la città. Dal terzo decennio dell’Ottocento si affaccia sulla scena Giovanni, “padre” della Fondazione intitolata al nome della famiglia Querini Stampalia. Uomo di difficile carattere, ma ottimo amministratore e collezionista attento, ebbe in sorte alcune sottrazioni durante il saccheggio del suo Palazzo nel 1849, compensate dalle eredità Lippomano, Garzoni e Polcastro, che contribuirono all’incremento delle raccolte d’arte. Oggi il Museo si propone al pubblico come una dimora storica che conserva l’atmosfera di un tempo, aprendo tuttavia le porte pagina precedente: Palazzo Querini Stampalia, installazione di Joseph Kosuth La Materia dell’Ornamento 23 L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A ad iniziative, concerti ed esposizioni sia di arte antica che di arte contemporanea. Dal 1996 si organizzano ogni fine settimana, in collaborazione con la Scuola di Musica antica di Venezia, e di recente anche con la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, quattro concerti di musica antica. Dal 2004, con il sostegno della Regione del Veneto, si realizza il progetto “Conservare il futuro”. Questa iniziativa vuole essere una sfida coraggiosa che implica il confronto con un passato da tutelare e un futuro da progettare. Gli artisti, con la loro sensibilità, vengono invitati a dialogare con le opere del passato. Hanno già esposto in Museo: Elisabetta Di Maggio, Remo Salvadori, Giuseppe Caccavale, Georges Adéagbo, Stefano Arienti, Maria Morganti, Mariateresa Sartori. Una nuova iniziativa è “Ospiti illustri. Capolavori dai maggiori musei del mondo alla Querini Stampalia” che prevede di esporre nelle sale del Museo un capolavoro proveniente da altre Istituzioni o collezioni private. Sono già stati esposti: Il riposo durante la fuga in Egitto di Jacopo Bassano di proprietà della Biblioteca Ambrosiana di Milano e la Medusa di Gian Lorenzo Bernini dei Musei Capitolini di Roma. L A BIBLIOTECA La Biblioteca trae origine anch’essa dalla donazione dell’intero patrimonio culturale dell’antica famiglia Querini alla città e “all’uso pubblico”, e nei suoi oltre centotrenta anni di vita essa è divenuta la “biblioteca dei veneziani”, frequentata da un pubblico eterogeneo di lettori, studenti, studiosi, sia italiani che stranieri, e comuni cittadini, che utilizzano le diverse sezioni delle raccolte bibliografiche. Biblioteca Giuseppe Caccavale Corallo Remo Salvadori Nel momento 25 L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A Collocata al primo piano del Palazzo sede, nelle stesse stanze abitate dagli ultimi membri della famiglia e dallo stesso fondatore, le sale della Biblioteca mettono a disposizione dei lettori oltre 32.000 volumi collocati a scaffale aperto e circa 400 periodici correnti, affiancando agli arredi in legno scolpito, voluti dal bibliotecario Arnaldo Segarizzi nei primi anni del Novecento, tavoli e scaffali di design moderno. L’intero patrimonio bibliografico, costituito da oltre 340.000 volumi, si articola nei fondi storici della biblioteca di famiglia e nelle raccolte moderne andatesi organizzando dal 1869, anno della costituzione della Fondazione Querini Stampalia. Non vi è un dato cronologico sicuro sul primo formarsi della biblioteca di famiglia, anche se certamente esso va ricercato nella raccolta di memorie domestiche, e precisamente nei manoscritti dove ricorre il nome del casato; a questo nucleo più antico si aggiungono nel corso di sette secoli altri manoscritti e documenti relativi alle attività e agli interessi dei membri della famiglia. Fa parte sempre del fondo storico la considerevole collezione di libri a stampa dalla fine del Quattrocento all’Ottocento, composta di circa 42.000 esemplari, 3.000 incisioni e oltre 350 carte geografiche e antichi mappali. I documenti più antichi sono carte e manoscritti membranacei quali l’importantissimo Capitulare nauticum (XIII-XVI secolo), la Promissio contra maleficia (XIV secolo), le Favole esopiane (XIV secolo), il codicetto con i Privilegi dei veneziani in Siria (XIII-XIV secolo), il Libro del Sarto (XVI secolo) e varie Commissioni ducali. Tra i più appassionati raccoglitori di libri della famiglia sono da ricordare: il cardinale Angelo Maria Querini (1680-1755) amico e corrispondente degli uomini più in vista del suo tempo, tra i quali Federico II di Prussia e Voltaire; Andrea Querini (1710-1795), “ragguardevole amatore e protettor delle lettere”, come ebbe a chiamarlo il Cesarotti e infine Alvise Querini (1758-1834), Biblioteca 27 la fondazione querini stampalia padre del fondatore, la cui passione per la musica si tradusse nell’odierno fondo di opere musicali a stampa, tra cui 450 libretti d’opera, di balli e cantate, della fine del Settecento e inizi dell’Ottocento. Non va dimenticato che le collezioni della famiglia, così come l’archivio, si arricchirono anche dei testi confluiti nella biblioteca familiare attraverso i legami matrimoniali o ereditari con altre nobili famiglie veneziane, quali, fra altri, i Tron, i Mocenigo, i Dolfin, i Contarini e i Lippomano. Notevole rilevanza per lo studio del patriziato veneziano, nella sua conduzione della politica e degli affari, detiene l’archivio della famiglia. L’Archivio privato si compone di 120 buste contenenti documenti, lettere e disegni dal XVI secolo al 1869, esso è completamente riordinato e descritto nell’Inventario edito nel 1987. La fase moderna della storia della Biblioteca prende avvio con il conte Giovanni (1799-1869). Giurista ed economista, con spiccata vocazione per le scienze fisiche, matematiche e naturali, inventore e imprenditore spregiudicato rispetto al periodo storico e alla struttura della società a lui contemporanea, lascia, di questa sua inclinazione, larga traccia nelle collezioni librarie che cura e riordina continuando i cataloghi iniziati dai predecessori e colmando, ove possibile, le lacune. Alla sua morte egli lascia in dono a Venezia il suo patrimonio per istituire una Fondazione “... atta a promuovere il culto dei buoni studj, e delle utili discipline” indicandone così la vocazione, che nel tempo si è mantenuta, di biblioteca di carattere generale pur con alcune peculiarità e specializzazioni. Nel suo testamento stabilisce fra l’altro che la Biblioteca dovrà rimanere aperta “... in tutti quei giorni, ed ore in cui le Biblioteche pubbliche sono chiuse, e la sera specialmente per comodo degli studiosi”. Questo dettato testamentario ancora vigente garantisce un’apertura giornaliera di ben quattordici ore e la possibilità di usufruire delle sale di lettura e delle raccolte anche la domenica e nelle festività, nel dettato del principio di sussidiarietà che dovrebbe contraddistinguere l’offerta culturale di una città. Il fondo moderno a stampa, costituitosi quindi a partire dal 1869, anno dell’apertura al pubblico della Biblioteca, comprende oggi oltre 250.000 volumi e viene incrementato annualmente secondo una politica delle acquisizioni che tiene conto della complessità ereditata dal testamento del fondatore e cerca di rispondere alle esigenze che la sua tradizione, la sua storia e la sua mission attuale le richiedono. Gli stessi bibliotecari chiamati a dirigerla hanno cercato di mantenersi il più possibile fedeli al dettato testamentario e alla tradizione della famiglia Querini. Il primo fu Gustavo Adolfo Ungher “... mio vecchio maestro e distinto filologo”, dal Conte Giovanni indicato nel testamento come bibliotecario della nascitura Fondazione. Leonardo Perosa (bibliotecario dal 1880 al 1904), diede ordine al ricco settore dei manoscritti. Il suo Catalogo dei codici manoscritti della Biblioteca Querini Stampalia (luglio 1883), integrato dal Repertorio delle persone, dei luoghi e delle cose più notevoli contenute nei codici mss. della Biblioteca Querini Stampalia (1884), è tuttora in uso. Arnaldo Segarizzi (bibliotecario dal 1905 al 1924) applicò le più recenti acquisizioni della scienza biblioteconomica dando inizio ad un nuovo catalogo per il quale utilizzò schede di formato internazionale; realizzò poi uno tra i primi esempi in Italia di catalogo per soggetti che alla fine fuse, in un’unica serie alfabetica, con le schede per autore dando forma al catalogo dizionario, tuttora in uso, che rispecchiava l’idea di una biblioteca attenta alle esigenze di tutti i propri utenti, e non solo dei più dotti. Manlio Dazzi (direttore dal 1926 al 1957) curò appassionatamente lo sviluppo delle varie discipline bibliografiche, con 29 la fondazione querini stampalia particolare riguardo (era uomo di lettere e fine poeta) a quelle umanistiche, e rese la Fondazione un centro vivacissimo di cultura letteraria, artistica e civile. Giuseppe Mazzariol (direttore dal 1957 al 1974) ha dato all’Istituto la sua vitalità odierna “... ritenendo che una biblioteca per essere viva debba assolvere prima di tutto ad una funzione di promozione culturale e civica”. Giorgio Busetto (direttore dal 1984 al 2004) nei venti anni di direzione ha impresso il volto odierno della Biblioteca: la ristrutturazione dello scaffale aperto nel 1987; l’adesione, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, al Servizio Bibliotecario Nazionale e al suo catalogo nazionale; la messa a disposizione del pubblico di tecnologie informatiche; la riapertura dell’Emeroteca con oltre 350 periodici correnti direttamente utilizzati dall’utenza; le sale di lettura e gli orari di apertura aumentati; i nuovi depositi librari interni ed esterni. Linee di intervento che, con rinnovata attenzione alla salvaguardia e alla riproposta del ruolo che la Fondazione ha avuto sin dal primo Novecento in Venezia e nel mondo e in ossequio alla vocazione espressa dalle volontà del Fondatore, si legano senza soluzione di continuità con l’opera dei predecessori. Negli ultimi decenni del secolo scorso ha trovato sistematicità e struttura la molteplice rete di relazioni intessute dalla Fondazione con altre istituzioni culturali di ambito locale e nazionale. Dal 1982 infatti una convenzione con il Comune di Venezia riconosce formalmente alla Querini Stampalia quel ruolo di Biblioteca civica che ricopre nei fatti fin dall’inizio del Novecento, quando il Consiglio di Presidenza deliberò di trasformare il Gabinetto di Lettura in una Biblioteca aperta ad una più ampia cerchia di lettori e in particolare agli studenti. Sempre dalla fine degli anni Ottanta la Biblioteca entra nel Polo veneziano di SBN, Servizio Bibliotecario Nazionale, e rende disponibili nel catalogo collettivo nazionale, consultabile attraverso Internet, le informazioni relative alle proprie acquisizioni. Decennale anche la collaborazione con le amministrazioni regionale e provinciale: nel 1998 la Regione del Veneto istituisce presso la Fondazione la Biblioteca regionale specializzata in materia di archivi e biblioteche, che la Biblioteca seguita a implementare con l’acquisto di repertori, periodici e monografie. La Biblioteca inoltre aderisce al Sistema Bibliotecario Museale della Provincia di Venezia. Enrico Zola Direttore della Fondazione Querini Stampalia 31 Restauri e allestimenti storici del Museo Dopo la morte di Giovanni, avvenuta il 5 maggio 1868, la collezione di famiglia venne immediatamente ripensata in termini museali. Nel 1872 i tre curatori della Fondazione: Roberto Boldù (che aveva da poco sostituito il senatore Agostino Sagredo), Giacinto Namias e Giambattista Lucietti decisero di trasferire parte del patrimonio artistico al secondo piano del Palazzo e di aprire al pubblico per la prima volta la Galleria rendendola accessibile gratuitamente un giorno alla settimana. Lo spazio espositivo comprendeva venti sale di media grandezza e un ampio salone nel quale venne esposta su un mobile la Pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari insieme al busto del cardinale Angelo Maria Querini di Giacomo Cassetti, ai sette busti dell’Ongaro e ai quattro globi. Una sala fu destinata esclusivamente a quadri acquistati dopo la nascita della Fondazione – Giovanni Barbarigo libera Maria, regina d’Ungheria di Raffaele Giannetti, Interno della chiesa di San Zaccaria di Federico Moia, Sacco del palazzo Querini nel 1849 di Luigi Rossi, Ultimo addio a Jacopo Foscari di Giulio Carlini, Agostino Sagredo di Luigi Viviani, La villa Querini Polcastro a Loreggia di Marianna Marin –, una dedicata alle “memorie Querini”, mentre le altre furono allestite prevalentemente in modo tematico (ritratti, ritratti di famiglia, opere mitologiche, opere a carattere religioso, paesaggi) o con i dipinti di un singolo artista (Pietro Longhi, Gabriel Bella, Palma il Giovane). Tutti gli ambienti esponevano un numero cospicuo di opere: quadri, sculture, incisioni, miniature, arazzi e diverse tipologie di oggetti di famiglia: porcellane di Sèvres, album con intarsiature in madreperla, una bussola, antichi calamai in bronzo, sigilli, una Facciata di Palazzo Querini Stampalia, primi Novecento 33 Portego, allestimento 1934 R ESTAU R I E A L L EST I M E N T I STOR ICI DEL M USEO tabacchiera con mosaico di Roma, modellini di cannone, un bassorilievo in marmo raffigurante un filosofo, un dito in marmo di una statua greca, scodellini turchi, un antico vaso in vetro, due piatti giapponesi, un turcasso veneto con frecce, antichi bottoni veneziani, strumenti musicali, una camicia a rete di filo di rame, chicchere in legno e un taccuino turco. Negli anni successivi il Museo fu interessato da numerosi interventi di restauro e continui allestimenti condizionati in buona parte dagli eventi bellici del periodo, che ne determinarono anche la chiusura e lo smantellamento quasi completo. Durante la prima guerra mondiale infatti la Galleria venne chiusa al pubblico e, per una maggiore sicurezza, buona parte dei dipinti fu portata al piano terra in casse di ferro zincato e una parte trasferita fuori città. Subito dopo il conflitto bellico, il Museo si trovava in uno “stato miserando” talmente preoccupante che Angelo Scrinzi, uno dei più stimati cultori veneziani dell’arte, aveva più volte proposto di trasferire la collezione al Museo Correr di Venezia. A queste affermazioni aveva risposto pubblicamente anche Giulio Lorenzetti sostenendo che trasferire la collezione in altra sede avrebbe significato dimenticare la storia e privare le opere di quella particolare atmosfera che lega gli oggetti al palazzo che li custodisce e alla famiglia che li ha posseduti: “annullare questi piccoli centri d’arte, queste piccole oasi di bellezza, che ancora sopravvivono nel gran naufragio di cose e di memorie del passato, è un gran male: tanto più quando, come nel caso della Querini Stampalia si ha la fortuna di possedere vecchi mobili deliziosi, arazzi, suppellettili originali, alcuni dei quali sono dei veri gioielli…”. Fortunatamente, nonostante la Fondazione si trovasse ancora in ristrettezze economiche, nel 1925 la Galleria venne riaperta al pubblico e per l’occasione fu studiato e realizzato un nuovo allestimento a cura di Giovanni Bordiga e Angelo Alessandri. I curatori, per ricreare l’atmosfera della casa di famiglia, decisero Sala dei ritratti, allestimento 1967 35 R estauri e allestimenti storici del M useo di non esporre i mobili e le tele moderne ovvero tutto ciò che era giunto in Fondazione o che era stato acquistato dopo la morte del conte Giovanni. Bordiga così racconta il loro lavoro: “Siamo stati qui, noi due vecchi amici, lunghe mattine d’inverno, a far aprire nuove finestre, abbattere pareti, schiudere passaggi, togliere e collocare cornici, ritogliere e ricollocare, ornare e disornare; l’elenco non conta. Soli non eravamo; se una galleria rimane per lungo tempo chiusa al pubblico e soltanto qualche devoto ricercatore vi passi, allora sembra che le figure create dai pittori non stiano più fisse dentro le proprie cornici, come quando i visitatori si affollano loro d’intorno e i guardiani vegliano da presso; ma esse scendono, si muovono, rompono il silenzio del luogo, si dicono cose, si raccontano vicende che non dicono a tutti e riempiono di vita strana la apparente solitudine. Così la nostra dimora quasi quotidiana nelle sale abbandonate e fredde, dove noi eravamo le sole persone reali, aveva fatto nostra confidente e collaboratrice tutta quell’altra gente trasformata dall’arte in realtà ideale… […]. Allontanato dalle sale ogni soverchio di pompa, tolto quel troppo di artificio che spesso hanno le cose ufficialmente numerate, regolarmente catalogate, rigorosamente conservate; dato alla casa, fin dove era possibile, l’aspetto che essa aveva quando vi abitava il nobile signore e che Egli desiderava conservato dopo la sua morte, noi, colla nostra modesta e materiale fatica, abbiamo voluto soltanto fedelmente servire e fedelmente ricordare la semplicità della vita di Lui”. La lunga citazione vale a dar conto tanto della personalità di Bordiga, allora presidente della Fondazione, insigne matematico ma nel contempo anima di tutte le iniziative dell’arte in Venezia, dalla Biennale all’Istituto superiore di Architettura, quanto dei criteri seguiti nell’allestimento, dove il rapporto ancora romantico con le opere giustifica una certa disinvoltura nel murare e nello smurare dentro al Palazzo rinascimentale. L’allestimento del 1925 venne qualche anno più tardi rivisto dal nuovo direttore della Fondazione Manlio Dazzi. Nel 1934 Dazzi iniziò il lavoro in Museo con la volontà di risistemare solo alcune sale affinché queste potessero risultare più adatte alle “riunioni culturali” che la Fondazione stava organizzando, ma presto il suo coinvolgimento fu totale ed egli ripensò completamente l’allestimento della Galleria. Dazzi, prima di iniziare l’impresa, si consultò con Moschini che gli consigliò di diradare l’esposizione e riordinare radicalmente la quadreria. Con questo intervento numerose opere vennero spostate da una sala all’altra, centonovantadue furono collocate nelle sale di lettura della biblioteca e circa quarantacinque vennero riposte nei depositi. Vennero valorizzati gli arredi, quasi completamente assenti nell’allestimento precedente. Furono esposti anche modelli di artiglieria, armi e, all’interno di vetrine, furono collocati il servizio da tavola di Sèvres, alcuni oggetti personali, piccole sculture, miniature, bronzi, pezzi di archeologia, ceramica, servizi orientali e biscuit. Dazzi desiderò arricchire l’esposizione con il raffinato salotto pompeiano dello Jappelli che si trovava in soffitta e acquistò sul mercato antiquario la splendida tappezzeria di lampasso per il riallestimento del salotto rosso. Tutti i lavori si svolsero in un periodo brevissimo: gli interventi murari iniziarono a fine febbraio, il riallestimento cominciò il 18 aprile e il 12 maggio 1934 il Museo era pronto per essere riaperto al pubblico. Durante la sua direzione Manlio Dazzi intervenne costantemente nell’allestimento, ma il nuovo pericolo bellico lo obbligò a richiudere la Galleria, a mettere al riparo le opere più significative e a smantellare numerose sale. Finalmente, l’8 giugno 1946 la Fondazione riaprì il Museo con un allestimento diverso che aveva richiesto numerosi ed impegnativi interventi di restauro sia dell’edificio che delle opere d’arte, degli arredi e delle suppellettili di pregio. Solo negli anni Novanta il Museo venne dotato di impianto elettrico e di impianto di climatizzazione. pagine seguenti: Camera da letto, allestimento 1941 Sala da pranzo, allestimento 1941 37 39 R ESTAU R I E A L L EST I M E N T I STOR ICI DEL M USEO Nell’esecuzione dei numerosi interventi tecnici la Fondazione dovette tener conto delle nuove norme sulla sicurezza dei luoghi aperti al pubblico che contribuirono a sminuire la qualità estetica dell’esposizione museale. Nel 1998, grazie alla generosità del Comitato Francese per la Salvaguardia di Venezia, sì è potuto avviare in Museo un progetto di restauro degli affreschi e degli stucchi (portego e camera da letto) per continuare poi, nel 2000 con risorse della Soprintendenza (sala da pranzo e sala mitologica), e nel 2005 con l’aiuto della Presidenza del Consiglio dei Ministri con fondi dell’otto per mille dell’IRPEF (le sale lungo il canale, la sala Ottocento, la sala con le scene di vita veneziana e lo studiolo con i paesaggi di Marco Ricci). Questi ultimi interventi di restauro hanno costituito l’occasione per ripensare l’allestimento ricreando l’atmosfera dell’antica dimora veneziana del Settecento senza rinunciare alla veridicità storica. Il progetto di restauro diretto da Mario Gemin e quello di riallestimento curato da Chiara Bertola hanno cercato di conciliare le esigenze storico-artistiche con quelle museografiche e di tutela per garantire, da un lato, l’esposizione e la conservazione delle opere più significative della collezione, e dall’altro, la migliore fruizione possibile senza tuttavia rinunciare a quella suggestiva atmosfera tanto cara a Giovanni Querini. Babet Trevisan Responsabile del Museo 41 I. Portego Il portego, ingresso originale alla dimora storica, è una delle sale più caratteristiche del palazzo veneziano. La concezione del monumentale ambiente risale all’impianto compositivo della casa-fondaco medievale: residenza e azienda insieme. Il portego era luogo di rappresentanza, di feste e ricevimenti, ma anche spazio dove mostrare ai clienti i campioni delle merci. Il salone che, al piano terreno, collegava l’ingresso dall’acqua con quello da terra, si ripeteva uguale ai piani superiori con funzioni di disobbligo e raccordo per le stanze che vi si affacciavano, ed era leggibile sulla facciata principale in corrispondenza della finestratura polifora. Nel Settecento si assiste a Venezia alla revisione e modifica delle strutture interne dei palazzi nonché al moltiplicarsi di imprese decorative secondo il nuovo gusto neoclassico. Nel 1790, in occasione del matrimonio celebrato tra Alvise e Maria Teresa Lippomano, genitori di Giovanni, anche Palazzo Querini Stampalia fu ristrutturato in senso “moderno”. Il cantiere venne affidato al proto Antonio Solari e successivamente a Girolamo Vianello mentre, per la realizzazione dei nuovi decori, vennero chiamati Jacopo Guarana, l’ornatista Giuseppe Bernardino Bison, il doratore Domenico Sartori e i fratelli stuccatori Giuseppe e Pietro Castelli. Le numerose sale affrescate da Jacopo Guarana (Venezia, 17201808) al secondo piano del Palazzo costituiscono uno tra i più vasti cicli d’affreschi dell’artista. Il Guarana raffigura nel plafond centrale del soffitto l’Allegoria dell’Aurora affiancata da finti monocromi raffiguranti putti allusivi alle Arti (Architettura, Scultura, Musica e Pittura), altre Allegorie e due lunette con Leda e Danae. 43 pagina precedente: Lampadario “Rezzonico” Jacopo Guarana Allegoria dell’Aurora, particolare I. PORTEGO Il Guarana, con sorprendente disinvoltura, abbandona i suoi modi abituali, legati alla cultura tardo-barocca, per accordarsi alle raffinate ambientazioni classicheggianti e per adottare un nuovo risalto disegnativo nelle figure, che rimpiccioliscono, pur inserite, ancora, nel filone culturale tardo tiepolesco. Nell’ottagono centrale Aurora, coronata di rose e posta alla guida del carro del Sole, è accompagnata dalla Stella del mattino, figura femminile dalle cui lacrime ha origine la rugiada. Questo soggetto, ricorrente nelle camere da letto e nelle sale a carattere più intimo, richiama l’idea dello scorrere del tempo e rimanda alla meditazione sul significato della vita e sul suo evolversi. L’apparato decorativo va interpretato come un messaggio di buon auspicio per gli sposi novelli e per tutta la famiglia. Alle pareti le raffinate soluzioni degli ornati a stucco su sfondo verde dei fratelli Giuseppe (1755-1822) e Pietro Castelli alternano eleganti candelabre parietali a medaglioni sopra porta con testine virili di profilo, diverse tra loro, e nastri svolazzanti. Scandiscono invece gli spazi affrescati del soffitto gli stucchi raffiguranti fiori e ripetute immagini di soli e stelle, quasi a voler sottolineare nuovamente, come nell’affresco, lo scandire del tempo. Disposti su mensole lungo le pareti sono collocati i busti in marmo di alcuni Filosofi, di san Giovanni Evangelista, di san Giovanni Battista e di un Giovane allievo, opere di Michele Fabris detto l’Ongaro (Bratislava, 1644 circa - Venezia, 1684) insieme al busto del cardinale Angelo Maria Querini di Giacomo Cassetti (notizie 1682-1757). I sette busti erano tradizionalmente noti come Bravi, con riferimento alle famigerate guardie di Francesco Querini e venivano attribuiti ad Orazio Marinali. Solo di recente le sculture sono state restituite all’Ongaro, uno dei maggiori protagonisti della scultura veneta della seconda metà del Seicento. I Filosofi costituiscono una sorta di “ritratti immaginari”. Giacomo Cassetti Angelo Maria Querini Michele Fabris detto l’Ongaro Filosofo 45 I. PORTEGO San Giovanni Evangelista ha il volto angelico di un adolescente e lunghi capelli a boccoli sulle spalle, mentre san Giovanni Battista è raffigurato come eremita coperto da una pelle d’animale, dal cui risvolto fuoriesce il vello, il viso incorniciato da lunghi capelli dritti, da baffi e da una barba rada. I dati relativi alla committenza delle sculture non ci sono noti ma pare difficile non collegarli a Gerolamo e Polo Querini e a quell’Accademia dei Paragonisti, aperta nella seconda metà del Seicento nel loro Palazzo, sotto la protezione dei due futuri procuratori, dove venivano discusse “le più nobili questioni erudite”. Nel lato verso il giardino sono visibili il Globo celeste e il Globo terrestre di Willem Blaeu (Alkmaar, 1571 - Amsterdam, 1638) fondatore di uno dei più grandi laboratori cartografici olandesi. Il globo celeste serviva a rappresentare la superficie concava del cielo con le sue costellazioni, mentre quello terrestre la superficie della terra, con i mari, le isole, i fiumi, i laghi e le città. Il sontuoso lampadario “Rezzonico” in vetro di Murano dalla ricca festosità policroma e fiorita è composto da una struttura metallica rivestita di vetro soffiato e da un ricco apparato decorativo di fiori e foglie in vetro incolore e colorato. Questa tipologia di lampadario chiamato “ciocca” (mazzo di fiori), è documentata sin dal quarto decennio del Settecento come opera del vetraio muranese Giuseppe Briati (Venezia, 16851772) ed era stato ideato come la risposta veneziana ai lampadari boemi. (BT) Willem Blaeu Globo celeste 47 I. PORTEGO Il terrazzo alla veneziana è frutto della genialità dei popoli latini, capaci di sfruttare i poveri elementi a loro disposizione per creare un prodotto di pregevole valore artistico. Questo tipo di pavimentazione, di origine molto antica, trovò la sua compiutezza formale a Venezia, dove nel 1586 sorse “l’Arte dè Terrazzeri” e la prima regolamentazione scritta delle regole costruttive. Originariamente in calce, ora anche in cemento, il terrazzo alla veneziana ha subito numerose e continue evoluzioni nel corso dei secoli, adattandosi ai gusti di ogni epoca. Portego 49 51 II. Sala Giovanni Bellini La tavola, di cui non si conosce la provenienza e l’esatta data d’ingresso nella collezione di famiglia, è indicata come opera di Andrea Mantegna da una iscrizione in caratteri corsivi, probabilmente settecenteschi, collocata sul retro del dipinto. L’opera ha conosciuto negli anni una vicenda critica piuttosto complessa fino a quando nel 1916 Berenson l’attribuì definitivamente a Giovanni Bellini (Venezia, 1438/1440 circa - 1516), confermato da quasi tutta la critica successiva. La Presentazione di Gesù al Tempio, collocata su un cavalletto in legno disegnato da Carlo Scarpa (Venezia, 1906 - Sendai, 1978), raffigura il momento saliente dell’episodio evangelico in cui si narra che Giuseppe e Maria, compiuti i quaranta giorni dal parto, secondo la legge ebraica presentano il loro primogenito al Tempio di Gerusalemme per consacrarlo a Dio. Nel Tempio li accoglie il vecchio e giusto Simeone, che rappresenta simbolicamente il passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento. La scena si svolge all’interno di un grande Tempio, che il Bellini si limita ad accennare con il ripiano marmoreo in primo piano. I personaggi sono ritratti a mezzobusto su uno sfondo scuro, come in alcune lastre tombali romane, e si appoggiano alla finta cornice di marmo che rappresenta l’altare dove sacro e terreno si incontrano. Il davanzale dietro il quale si svolge il cerimoniale liturgico, assai umanizzato, può anche essere letto come prefigurazione del sepolcro cui è destinato Cristo. Al centro dell’immagine c’è Maria, che ha tra le braccia il Bambino e lo porge a Simeone. Il vecchio profeta, con una lunga e folta barba bianca, ha lo sguardo leggermente inclinato in segno di rispetto e adorazione. 53 pagine precedenti: Giovanni Bellini Presentazione di Gesù al Tempio Giovanni Bellini Presentazione di Gesù al Tempio, retro II. S A L A G I O VA N N I B E L L I N I La Madre, con un lungo velo bianco sulla fronte che scende fino a nasconderle i capelli, è assorta in un pensiero intimo e stringe tra le braccia il Figlio che non vuole lasciare al Suo destino di Passione e di Morte. Al centro della scena, in secondo piano, Giuseppe assiste muto all’evento e rappresenta l’uomo davanti al mistero; nella sua figura è stato riconosciuto da taluni critici Jacopo Bellini, il padre di Giovanni. Assistono all’episodio evangelico altri personaggi: ai lati, in secondo piano, sono stati identificati Nicolosia Bellini ed Andrea Mantegna, la sorella e il cognato di Giovanni, che si erano sposati qualche anno prima (1453). Sul lato sinistro, in primo piano, il pittore ha raffigurato un’altra giovane donna, forse Ginevra, sua moglie, o Anna, sua madre; e sul lato destro Giovanni esegue quello che sembra essere il suo autoritratto. Il giovane guarda verso lo spettatore, quasi ad invitarlo all’interno della scena, dove sembra che divino e umano non abbiano confine: le figure sporgono dalla cornice verso chi le osserva, e questi entra nel dipinto attraversando il finto parapetto. La tavolozza ricca di sfumature di rosso, l’uso di brillanti ed intensi colori dai forti contrasti, il ricorso a una luce che arriva contemporaneamente dal basso e dall’alto manifestano la straordinaria esperienza vissuta dal pittore nella sua città natale, Venezia. Una somiglianza piuttosto stretta pone questa tavola in relazione con l’analogo soggetto dipinto dal cognato Andrea Mantegna nel 1454-1455. La Presentazione di Gesù al Tempio del Mantegna, oggi conservata alla Gemäldegalerie di Berlino, ha infatti il medesimo impianto e in parte gli stessi attori dell’opera del Bellini. Nel 1880 circa la tavola di Giovanni Bellini fu affidata per un restauro a Placido Fabris, pittore, restauratore e copista bellunese dell’Ottocento. Fabris, pur essendo un buon conoscitore delle tecniche pittoriche Andrea Mantegna Presentazione di Gesù al Tempio Berlino, Gemäldegalerie 55 Giovanni Bellini Presentazione di Gesù al Tempio, fasi del restauro eseguito nel 1949 II. S A L A G I O VA N N I B E L L I N I antiche, nei suoi interventi di restauro preferì sempre utilizzare un metodo di lavoro largamente empirico e approssimativo, poco rispettoso dell’originale. Anche nel dipinto queriniano l’artista intervenne nelle forme e nei colori con veri e propri rifacimenti, tanto da rendere impossibile il riconoscimento di qualsiasi precedente pennellata. Dopo il suo intervento Maria appariva con una veste dalle maniche viola e un mantello blu con rovescio verde. Talune teste avevano perduto in parte i caratteri originali, specialmente la Madonna, il Gran Sacerdote e le figure dietro di lui; certi panneggi invece, come quello di san Giuseppe, erano stati adeguati al gusto del suo tempo. Nel 1949 la tavola fu affidata a Mauro Pelliccioli per un nuovo intervento di restauro che permise di riportare finalmente alla luce il capolavoro del Bellini sottolineandone definitivamente la paternità. (BT) In passato tutti i neonati venivano avvolti nelle fasce come piccole mummie, con qualche rara eccezione, come il caso dei bimbi spartani, che si narra non venissero né fasciati, né cullati. In generale in tutto il mondo antico le fasce, insieme al latte, erano il simbolo dei neonati. La fasciatura era ritenuta utile a modellare il corpo del bambino, per riportare alla normalità le parti del corpo che si fossero deformate durante il parto o per risistemare un membro dislocato; inoltre la si credeva efficace a prevenire una cattiva posizione, proteggendo le ossa fragili dei neonati e dei lattanti da una crescita disordinata. Giovanni Bellini Presentazione di Gesù al Tempio, particolari 57 III. Sala delle tavole L’affresco Coppia di amorini con corone d’alloro, una cornice in marmorino e riquadri policromi con decorazioni in stucco bianco di manifattura veneziana della seconda metà del XVIII secolo, decorano il soffitto della stanza, che ospita antiche tavole e interessanti pitture di ambito giorgionesco. Attribuita all’ultimo grande esponente del Gotico Internazionale a Venezia Michele Giambono (Venezia, notizie 1420-1462) è la tempera su tavola, di proprietà dell’IRE (Istituzioni di Ricovero e di Educazione) di Venezia e in deposito nel Museo della Fondazione, Crocifissione, degli anni 1420-30, dove allo sfarzo dei colori e degli ori si accompagna una dolorosa espressività. La tipologia del Cristo, incoronato di spine e dal volto reclinato di tre quarti, rimane uno dei temi prediletti del pittore, il quale, seppur attento ai problemi formali del Rinascimento, non abbandonò mai il fasto decorativo, coloristico e lineare del tardo gotico. Al centro della parete è esposta la tavola più antica della collezione, Incoronazione della Vergine, di Donato (notizie 1344-1382/88) e Catarino (notizie 1362-1382), firmata e datata 1382. L’opera rientra nella tradizione neobizantina inaugurata da Paolo Veneziano. L’accentuazione bizantina è portata all’estremo, tanto che le vesti della Madonna, del Cristo e degli angeli, sembrano lavorate in sottili smalti cloisonnés, per le fitte lumeggiature dorate. Donato e Catarino hanno lavorato insieme anche per la Croce, oggi perduta, nella chiesa di Sant’Agnese a Venezia. Pittore legato alla famiglia Querini era il bergamasco Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio (Serina, 1480 circa - Venezia, 1528), che si stabilì a Venezia nel 1510. Qui aderì alla nuova maniera inaugurata da Giorgione, considerato alla metà del 59 pagina precedente: Donato e Catarino Incoronazione della Vergine, particolare III. Michele Giambono Crocifissione Donato e Catarino Incoronazione della Vergine S A L A D E L L E T AV O L E Cinquecento il creatore dello stile moderno in pittura. Per “messere Francesco Querini” Palma dipinse cinque opere, commissionate a breve distanza di tempo, che si trovavano ancora nella bottega dell’artista alla sua morte, avvenuta il 30 luglio 1528. Le due sacre conversazioni qui esposte provengono da tale nucleo di opere. Madonna con due sante, san Francesco e san Pietro presenta il caratteristico schema compositivo serrato e quasi in rilievo del maestro, mentre l’eccessiva particolareggiatura e la pesantezza del drappeggio conducono alla sua bottega. Riferita sempre all’ambito della bottega è Madonna con santa Caterina, san Francesco, san Giovanni Battista e san Nicola. Palma aveva avviato infatti una delle più affermate botteghe veneziane, portata avanti poi da Bonifacio de’ Pitati. Entrambi gli artisti avevano trovato nelle sacre conversazioni uno dei temi a loro più congeniali, come in questo quadro dove la Vergine con il Bambino emerge con sorprendente forza in un atteggiamento pieno di tenerezza e solennità. La larga campitura dei colori accesi e l’intonazione reale della luce ricordano la mano di Palma, mentre si può intravedere il segno di Bonifacio nella pennellata più sciolta e nella figura di santa Caterina, motivo ricorrente nei dipinti di questo pittore. Partecipano alla medesima poetica delle opere palmesche altri dipinti coevi, o di pochi anni posteriori, della collezione come la Giuditta di Vincenzo Catena e la Sacra Conversazione di Polidoro da Lanciano. Giuditta di Vincenzo Catena (Venezia, 1470/80-1531), del 1517 circa, è un esempio di bella pittura neoclassica del primo Cinquecento veneziano, dallo stile composto e classicamente tornito. Ritenuta di Giorgione o della sua scuola negli inventari ottocenteschi del Museo, l’opera venne attribuita a Palma il Vecchio e infine a Catena. Quest’ultimo è considerato il vero pittore ritrattista della generazione giorgionesca. La modella riprodotta in Giuditta impersona, con minime variazioni, il tipo femminile di Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio Madonna con due sante, san Francesco e san Pietro 61 III. 63 S A L A D E L L E T AV O L E pagina precedente: Polidoro di Mastro Renzo da Lanciano Sacra Conversazione III. S A L A D E L L E T AV O L E molte effigi di sante. Se il dipinto è in qualche misura autobiografico, si può identificare la donna con Rosa da Scardona, la nuova “màmola”, la concubina del pittore destinata ad essere modella ideale. Il capo di Oloferne è quello di un uomo rimasto vittima del dolce ma temibile inganno amoroso e si può avanzare l’ipotesi che si tratti di un autoritratto del Catena. Un dipinto semiprivato, forse una “poesia” in cui il pittore canta la donna amata. Dell’artista abruzzese Polidoro di Mastro Renzo da Lanciano (Lanciano, 1510/15 - Venezia, 1565), attivo a Venezia nell’ambito tizianesco verso la metà del Cinquecento, è la Sacra Conversazione del 1540 circa. Ancor giovane, Polidoro partì nel 1536 da Lanciano per andare a cercare fortuna nella città lagunare, dove lavoravano artisti come Tiziano, Veronese e Tintoretto. In questa tela, che rivela l’eleganza e le forme del manierismo tosco-romano con la vivace cromia tutta veneziana, il pittore si distacca in parte dal cono d’ombra proiettato da Tiziano, rivelandosi compagno di strada di Schiavone, di Bassano o del giovane Tintoretto. Tra le finestre Madonna col Bambino di Bernardo Strozzi (Genova, 1581/82 - Venezia, 1644). La tela, attribuita negli antichi inventari a Rubens, fa parte della cospicua produzione di opere di committenza privata realizzate dal pittore negli ultimi anni di attività veneziana. Nonostante il soggetto devozionale, Strozzi propone in questo dipinto, con un’interpretazione personalissima del colore veneziano, una figura femminile tipicamente barocca dalla folta chioma sciolta sulle spalle, le labbra colorite e la veste rossa. Maria sorregge in braccio il Bambino e il suo sguardo velato di malinconia, che prefigura il sacrificio divino, sembra essere l’unica connotazione di Madonna. Sopra le porte i ritratti di Nicolò Querini e di Francesco Querini di Marco Vecellio (Pieve di Cadore, 1545 - Venezia, 1611). Le due tele fanno parte di una serie di dodici ritratti in memoriam a mezza Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio e bottega Madonna con santa Caterina, san Francesco, san Giovanni Battista e san Nicola Bernardo Strozzi Madonna col Bambino 65 Vincenzo Catena Giuditta III. S A L A D E L L E T AV O L E figura di esponenti illustri del casato dei Querini Stampalia, effigiati su sfondi destinati ad accogliere le scritte e le piatte architetture allusive. Oggi se ne conservano solo sei. Di carattere celebrativo, i ritratti sono stati tagliati ai margini per figurare da elemento decorativo sopra le porte di alcune sale del Palazzo. (EDC) La spada è l’emblema delle virtù cristiane tradizionalmente attribuite a Giuditta. L’arma catalizza in modo magnetico l’intera composizione, creando un sapiente contrasto materico con la morbidezza dell’incarnato della donna. Nelle decorazioni dei pomi delle spade si nascondono precisi messaggi. La spada della nostra Giuditta presenta delle connotazioni araldiche nel profilo a tre barre verticali, ripetuto al centro dell’elso e dell’impugnatura. Il motivo richiama le tre catene pendenti nell’originario stemma dei Catena e rappresenta un indice di nobiltà. 67 IV. Sala della Maniera Sono qui esposte La conversione di san Paolo di Andrea Medulich detto lo Schiavone (Zara 1510/15 - Venezia 1563) e le tele, tutte provenienti dal lascito familiare, dipinte da Jacopo Negretti detto Palma il Giovane (Venezia, 1548-1628), uno dei maggiori e più prolifici protagonisti del Manierismo veneziano. L’opera dello Schiavone, una delle figure più significative dell’arte veneta del Cinquecento, è considerata un capolavoro del manierismo veneziano per il suo straordinario dinamismo compositivo. Il dipinto si ispira al cartone di Raffaello per uno degli arazzi della Sistina La conversione di San Paolo, cartone presente nella città lagunare a Palazzo Grimani nel 1521. Nell’impennarsi dei cavalli si leggono echi del Pordenone, che rappresentava, nel mondo pittorico veneziano di quegli anni, una brillante moda culturale. Un Pordenone, però, sempre filtrato dallo studio del Parmigianino, le cui raffinate eleganze ritornano anche in quest’opera dalla pennellata fluida e cromaticamente esuberante. Alle altre pareti le tele di Palma il Giovane, costituiscono un corpus completo della produzione di piccole dimensioni dell’artista. L’Autoritratto, di cui si conserva un disegno a penna alla Pierpont Morgan Library di New York, fu eseguito dall’artista intorno al 1606-1608. Palma si rappresenta leggermente di tre quarti su uno sfondo nero dove la luce proviene sia dal bel volto di uomo maturo che dal collo della camicia chiara. In questo dipinto, così come nei suoi rari esempi di ritrattistica, vi è una spontaneità e una semplicità narrativa non comuni; anche in questo caso l’umanità dello sguardo è resa con insolita bravura. La tela San Nicola di Bari dota le tre fanciulle, una delle migliori opere 69 pagina precedente: Jacopo Negretti detto Palma il Giovane Assunzione della Vergine, particolare Andrea Medulich detto lo Schiavone La conversione di san Paolo I V. SALA DELLA MANIER A datata al 1624 e quindi ascrivibile all’ultima produzione dell’artista, narra di un miracolo di san Nicola ad un vecchio che, per mancanza di denaro, stava per avviare alla prostituzione le tre figlie. Palma rappresenta l’episodio con grande attenzione alla psicologia dei personaggi: stravolge gli schemi dell’iconografia tradizionale che voleva le tre sorelle coricate nello stesso letto, mentre la mezzana fugge spaventata dal santo. La scena vede in primo piano le tre giovani intente a discutere tra loro in modo concitato; il padre invece è in secondo piano, seduto al tavolo e illuminato da una fioca candela. Sullo sfondo nero appare il santo, attraverso una finestrella con una grolla d’oro tra le mani; la tavolozza cromatica fa intuire l’intimità e la discrezione della composizione pittorica. Molto più di maniera e legato alle influenze tizianesche è l’Ecce Homo tanto che per molto tempo non è stato considerato autografo del pittore. La composizione sembra riprendere uno schema caro al Palma in numerose altre tele a destinazione privata, imperniate su un forte contrasto chiaroscurale, ove la figura centrale del Cristo sofferente con la corona di spine, le mani legate e la verga del flagello, è illuminata in modo particolare e sembra emergere dall’ombra opaca dello sfondo dove si intravedono i volti di due personaggi barbuti. Tra le finestre è collocata l’Assunzione della Vergine, un modelletto che l’artista eseguì per il soffitto della Sala dell’Albergo della Scuola di Santa Maria della Giustizia e di San Gerolamo a Venezia (ora Ateneo Veneto). Quella tela purtroppo nel 1825 andò quasi completamente distrutta, e se ne conservano solo due frammenti: gli Apostoli intorno al sepolcro di Maria, ora all’Hermitage di San Pietroburgo, e Adamo ed Eva, in una collezione privata milanese. Iconograficamente l’opera ricorda l’Assunzione della Vergine, secondo lo schema tizianesco e il Paradiso, tema ripreso dal Tintoretto. Jacopo Palma il Giovane, chiamato così per distinguersi dal prozio Jacopo Palma il Vecchio, artista anch’esso presente nel Museo, Jacopo Negretti detto Palma il Giovane Autoritratto Jacopo Negretti detto Palma il Giovane Assunzione della Vergine 71 I V. Il termine sfera armillare prende il nome dal latino armilla che significa anello: questo strumento, usato fin dall’antichità in astronomia, è composto da diversi cerchi che rappresentano l’equatore celeste, l’eclittica, il coluro dei solstizi e degli equinozi della sfera celeste. Console con piano in scagliola Sfera armillare SALA DELLA MANIER A è uno dei personaggi più controversi della storia dell’arte. Artista dalla produzione feconda, dopo un breve periodo giovanile a Roma, dove si affranca dalla pittura dei tre grandi cinquecenteschi, Tiziano, Tintoretto e Veronese, spenderà tutta la sua attività nella città lagunare, ove conquisterà fama e onori, e verrà considerato protagonista assoluto nel panorama pittorico veneziano. Lavoratore instancabile, svolge un’intensa produzione per chiese, ordini monastici e confraternite, e ottiene importanti commissioni pubbliche come quelle per Palazzo Ducale. Il soffitto della sala si compone di riquadri angolari in marmorino policromo ornati a grottesca tra cui spiccano due decorazioni, color ocra, che rappresentano dei cuori trafitti. Al centro l’ovale, affrescato da Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808) nella seconda metà del Settecento, presenta Diana adagiata su di una nube, avvolta da un drappo bianco, armata di arco e frecce con la fronte cinta da una mezzaluna e accompagnata da un putto alato. Sul tavolo è posta una sfera armillare in legno, cartone e carta stampata, all’interno della quale sono visibili il sole e la luna in ferro, mentre i cerchi in cartone riportano il ciclo dei mesi e le grandi costellazioni. L’arredo si completa con una coppia di mensole e una console in noce databili al XVIII secolo. La console è sormontata da un piano in scagliola Carpi, della fine del Seicento. Il piano del tavolo è decorato in bianco su fondo nero e nel rosone centrale è rappresentata una scena bucolica. Una fascia a girali con medaglioni che raffigurano paesaggi, putti, delfini, uccelli e satiri completa la decorazione. (DDD) 73 I V. SALA DELLA MANIER A L’arte della scagliola si diffonde in Italia alla fine del Cinquecento e si afferma poi con lo stile Barocco durante l’intero arco del Seicento e del Settecento. La scagliola, un impasto di gesso a cui viene aggiunta della colla da falegname e pigmenti per le varie colorazioni, viene utilizzata come sostituta di materiali quali il marmo e le pietre dure. In seguito, grazie all’abilità creativa di ingegnosi artigiani, la scagliola diviene un nuovo tipo di decorazione pregiata. Alla fine del Cinquecento i migliori artigiani provenivano dagli Appennini emiliani (in particolare dalla zona di Carpi) e dalla Germania. Sala della Maniera pagina seguente: Pietro Longhi Caccia allo smergo, particolare 75 77 V. Sala della musica Uno dei nuclei più significativi della collezione è costituito da trenta piccole tele dell’artista veneziano Pietro Longhi (Venezia, 1701-1786). Quindici opere erano di proprietà della famiglia, commissionate per lo più da Andrea Querini, mentre le altre quindici sono di provenienza Donà delle Rose. Le quindici tele Donà delle Rose furono acquistate da un consorzio, che le salvò da una sicura dispersione, cui parteciparono la Fondazione Querini Stampalia, l’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, la Cassa di Risparmio di Venezia e il Banco San Marco e furono collocate in deposito permanente nel Museo della Fondazione. In questa sala è presente la serie della Caccia in valle insieme a numerose scene di vita veneziana dove gli aspetti più curiosi sono sempre raffigurati con straordinaria grazia: chiacchiere di salotto, intimità di famiglia, divertimenti e danze, maschere e gentiluomini, dame e cavalieri, contadini e isolane, giochi e mestieri, scherzi d’amore, giocolieri e ciarlatani, indovini e cantastorie, acrobati e astrologi. La Caccia in valle, concepita originariamente per palazzo Barbarigo a Santa Maria Zobenigo a Venezia, dove restano visibili sulle pareti le cornici a stucco che custodivano i dipinti, costituisce uno dei cicli più celebri dell’artista. Verso il 1765-70 Longhi eseguì per la famiglia Barbarigo queste sette piccole tele con la raffigurazione dell’Arrivo del signore, la Preparazione dei fucili, la Preparazione delle munizioni, il Sorteggio dei cacciatori, la Partenza per la caccia, la Posta in botte e il Conteggio della cacciagione. Il carattere estremamente realistico delle rappresentazioni, i 79 pagina precedente: Pietro Longhi Lezione di geografia V. SALA DELLA MUSICA numerosi disegni preparatori conservati, l’aderenza al vero, l’attenzione scrupolosa ai dettagli e alle tecniche utilizzate, lasciano supporre la partecipazione di Longhi alle battute di caccia insieme al suo committente. Uno dei momenti più alti del ciclo è l’Arrivo del signore: Gregorio Barbarigo quasi cinquantenne con sguardo distaccato, portamento da sovrano e abbigliamento da città giunge nella valle. Subito i contadini si inginocchiano dinanzi a lui e baciano un lembo della veste patrizia quasi a voler rimarcare la distanza tra le due classi sociali. La scena è ambientata al tramonto in una fredda sera d’autunno e il paesaggio è solo accennato con il “casone” nella sinistra e con straordinari effetti di luce e colori all’orizzonte che caratterizzano il panorama lagunare. Non meno significativa la Posta in botte con la cacciagione in primo piano, lo scorcio dell’uomo accovacciato, forse intento a nascondere sotto la giacca una preda approfittando della disattenzione del cacciatore, e più lontano il saettare degli uccelli e l’annuncio del nuovo giorno che indica la fine dell’avventura. Il tiratore entra nella botte, una sorta di tino a tronco di cono con intorno delle zolle erbose che la rendono simile ad un’isoletta e aspetta le prede che nel frattempo vengono richiamate dalle anatre, in legno dipinto ad olio, che sono state posizionate dal cacciatore intorno al promontorio “tombolo”. La Caccia allo smergo è uno dei più celebri dipinti di Longhi sia per la particolarità del tema, sia per la felice resa del paesaggio lagunare veneto. Questa caccia, piuttosto singolare, era molto amata dalla gioventù patrizia e ancora in uso nel Settecento come prova di abilità. Il nobile, in elegante tenuta da caccia con giubba rossa si disponeva a prua della “ballottina” e con arco e “balotta” in mano, ossia una pallina di terracotta, si apprestava a colpire lo smergo, tra tutti gli uccelli quello più difficile da cacciare, resistentissimo e, anche se ferito, capace di nuotare a lungo sott’acqua. Pietro Longhi Arrivo del signore Posta in botte Preparazione dei fucili Conteggio della cacciagione 81 Pietro Longhi Caccia allo smergo V. SALA DELLA MUSICA Nelle altre scene di genere presenti nella sala il pittore non tralascia di analizzare nessun aspetto della società; entra nelle case popolari, nei salotti delle residenze patrizie (Lezione di geografia, Famiglia Sagredo, Famiglia Michiel), nelle osterie (Contadini all’osteria), nelle case da gioco (Ridotto) ed esce nei campi, nelle piazze e nelle calli di Venezia (Mondo novo, Casotto del leone) e persino in campagna (Filatrice, Filatrici, Contadina addormentata, Furlana) riuscendo a cogliere l’atmosfera dei luoghi, le abitudini, i costumi e lo stato d’animo della gente, immortalando il tutto con un’estrema raffinatezza d’influenza quasi francese. In ogni scena, con un’apparente semplicità, Longhi riduce i paesaggi e gli ambienti a qualche accenno quasi simbolico mentre evidenzia e valorizza i gesti, le espressioni, gli atteggiamenti, i movimenti e il carattere dei suoi personaggi con l’utilizzo di una tavolozza dai colori densi, caldi ed eleganti. È la stessa lunghezza d’onda delle rappresentazioni teatrali di Carlo Goldoni, suo caro amico che incontra e frequenta nel Palazzo queriniano: luogo che grazie ad Andrea Querini, favorisce la loro colta amicizia, lo studio e il divertimento. Sono esposti anche Le tentazioni di sant’Antonio e la Frateria di Venezia che, illustrando i ventidue ordini religiosi che avevano sede a Venezia nel 1761, costituisce un vero e proprio manifesto politico del tempo dove i personaggi sono ritratti con una satira particolarmente pungente. Nella sala sono presenti numerosi strumenti musicali della famiglia, alcuni a corda altri a fiato. Tra i più interessanti vanno ricordati i due violini attribuiti al primo grande costruttore di strumenti operante nella città lagunare Martinus Kaiser (Füssen, 1642 circa - ?, 1695 circa) ritenuto il caposcuola della liuteria veneziana e i due archetti per violino attribuiti a Carlo Tononi (Bologna, 1675 - Venezia, 1730). Il Tononi usava siglare le sue opere con un marchio a fuoco in negativo Pietro Longhi Mondo novo Pietro Longhi Casotto del leone 83 V. SALA DELLA MUSICA (il nome appare chiaro e tutto intorno bruciato) in due diversi punti: sulle fasce, vicino al bottone, e sul fondo, sotto la nocetta così come evidenziato sui due archi di questa collezione. Del Tononi esistono solamente tre archi; il terzo si trova nella collezione inglese Albert Cooper. Di notevole interesse anche la ribalta con alzata collocata tra le finestre, in legno e radica di noce, della prima metà del XVIII secolo. Si tratta di un raffinato mobile composto di due corpi separati da elementi dorati e torniti a forma di cipolla, impiallacciato in bellissima radica di noce e impreziosito da graziose rifiniture dorate, che accendono la patina del bureau-trumeau. Durante i ricevimenti questo tipo di mobile veniva lasciato aperto per svelare le collezioni di statuine inserite negli appositi scomparti, un teatrino tutto veneziano. (BT) Il 26 agosto 1740 Cecilia, sorella del senatore Andrea, scrive al padre procuratore Giovanni: “...Raccomando a V.E. la mia spinetina, se mai potese farmela agiustare; e mi farebbe un gran favore poi a mandarmela, con il libro delli minuetti, acciò non mi dimentichi quello che ho imparato...”. Martinus Kaiser Violini VI. Sala dei ritratti La ritrattistica familiare è un ambito di primaria importanza nella storia della collezione. Era infatti uso comune per le famiglie nobili veneziane commissionare ritratti: alcuni avevano una funzione domestica ed erano di piccole dimensioni, altri venivano richiesti con l’intento di celebrare un momento importante per la vita dell’effigiato e della comunità familiare. Sebastiano Bombelli (Udine, 1635 - Venezia, 1719), uno dei più famosi ritrattisti della nobiltà lagunare, eseguì per i Querini alcuni ritratti di famiglia. Il ritratto di Gerolamo Querini, realizzato con probabilità prima che il Querini fosse nominato procuratore e quindi prima dell’aprile 1669, raffigura il giovane a mezzo busto con una lunga parrucca nera che gli copre le spalle. La figura si staglia su un fondo scuro e viene rischiarata soltanto dal candore del viso e dall’elegante jabot di pizzo bianco della camicia. Gerolamo viene ritratto dal Bombelli anche più tardi, intorno al 1684, quando l’artista lo dipinge come un uomo maturo, a mezzo busto e di tre quarti, vestito con una giacca da casa damascata con inserti in velluto. Dello stesso periodo sono anche i ritratti di Polo Querini, fratello più giovane di Gerolamo. Il ritratto di Polo Querini a mezzo busto, databile tra il 1675 e il 1680 lo rappresenta in una dimensione domestica, iscritto in un ovale con una elegante veste da camera che cela una fine camicia di seta bianca. In questo dipinto il pittore rivela la sua grande capacità nel rendere le caratteristiche psicologiche dell’effigiato. Più di maniera, dai colori smaglianti, appare il ritratto di Polo Querini di grandi dimensioni, databile dopo il 1680, periodo in 87 VI. SA L A DEI R I TR AT T I cui Polo Querini acquista la carica straordinaria di procuratore de ultra. L’uso di toni accesi e di una pennellata densa per gli abiti fa propendere gli studi più recenti a ritenere che quest’opera sia stata realizzata dal Bombelli con il contributo di uno dei suoi allievi migliori, Vittore Ghislandi, più conosciuto con il nome d’arte di Fra’ Galgario. Un altro allievo del Bombelli è Nicolò Cassana (Venezia, 1659 - Londra, 1714), anch’esso presente in sala con due tele, realizzate intorno al 1694 per celebrare la salita al soglio dogale del doge Silvestro Valier e di sua moglie Elisabetta Querini Valier. Al Cassana vennero commissionati, secondo l’uso, due ritratti di piccole dimensioni in pendant: nel ritratto del Doge Silvestro Valier il Cassana dipinge l’anziano con in testa la “zoggia” ovvero il corno dogale, chiamato così perché, alla sommità, vi era sempre una grande pietra preziosa, e con una sontuosa stola di ermellino che gli copre le spalle e lascia intravedere una veste riccamente adornata. Il pittore, pur manifestando la sua provenienza dai Tenebrosi, dipinge la composizione con toni più chiari, mettendo in risalto l’atteggiamento psicologico dell’effigiato. Nel ritratto della Dogaressa Elisabetta Querini Valier il volto dell’anziana nobile sembra mancare di qualsiasi espressione, quasi che l’opulenza dell’abito e dei gioielli annientino qualsiasi spirito vitale. L’abito, l’acconciatura e i gioielli sono resi con grande attenzione: la donna indossa il corno abbellito da perle, il manto di broccato con preziosi inserti in oro e bordato di pelliccia e porta al collo una lunga collana che finisce con una grande croce di diamanti, la toilette è completata dalla preziosa cintura. Nicolò Cassana è il maggiore di una famiglia di pittori veneziani. A bottega dal padre, Giovanni Francesco di origini genovesi, si forma sulla pittura di Bernardo Strozzi e, in seguito, verrà influenzato dalla corrente dei Tenebrosi. Ormai famoso in tutta Italia, si trasferisce in Inghilterra dove diventa noto presso la nobiltà e la monarchia inglese, anche per la produzione, assieme a Sebastiano pagina precedente: Sebastiano Bombelli Gerolamo Querini Sebastiano Bombelli Polo Querini VI. SA L A DEI R I TR AT T I Ricci e al di lui nipote Marco, di numerosi falsi d’autore spacciandoli per opere di Tiziano, Tintoretto e altri grandi pittori veneti. Interessanti i due ritratti di Luca Giordano (Napoli, 1634-1705): il migliore dal punto di vista stilistico è Filosofo, già conosciuto in passato come Leucippo, per il riferimento ad alcuni caratteri greci che appaiono nello sfondo del quadro. L’opera va collocata nel periodo giovanile di Giordano quando era molto forte l’influsso del suo maestro, il pittore spagnolo Giuseppe Ribera conosciuto come lo Spagnoletto. Il personaggio, di cui non si rileva alcun attributo iconografico è seduto accanto al tavolo in una stanza disadorna, ha i vestiti sgualciti e lo sguardo triste; solo il berretto da casa e la pergamena in mano gli conferiscono un’aria più dignitosa. Eraclito, che in passato era stato identificato come Democrito, probabilmente per l’attributo della sfera terrestre, è immortalato in una stanza molto scura, rischiarata soltanto dai carteggi e dal globo terrestre posto sul tavolo. Luca Giordano è uno dei pittori più prolifici del suo secolo, detto anche Luca Fapresto per la grande capacità esecutiva; conosceva tutta la pittura del suo tempo e del Cinquecento e riusciva a riprodurre a memoria anche artisti stranieri come Rubens e Rembrandt. Nel dipinto giovanile di Girolamo Forabosco (Venezia, 1605 - Padova, 1679) Gentildonna la figura riprende la tipica composizione tizianesca, rendendola alla moda del Seicento; la donna, con i capelli bruni raccolti in maniera semplice e ornati da un gioiello di granati, è vestita di scuro con un ampio mantello di pizzo che ne copre le spalle e parte del sontuoso abito a vita alta arricchito anch’esso da merletti. Si possono ammirare un monetiere da tavolo in legno ebanizzato e intarsiato in avorio a dodici cassetti con motivi decorativi a grottesca, e un orologio da mensola e fastigio in bronzo, tartaruga e ottone databile al XVIII secolo che riprende il decoro tipico di Charles André Boulle, ebanista alla corte del Re Sole. (DDD) Girolamo Forabosco Gentildonna Orologio da mensola Monetiere 91 VI. SA L A DEI R I TR AT T I L’incoronazione a dogaressa di Elisabetta Querini Valier fu un fatto del tutto eccezionale, perché severamente vietata dalle leggi della Repubblica di Venezia. Silvestro Valier infatti volle celebrare la sua salita al soglio dogale anche con la cerimonia di incoronazione della moglie, non preoccupandosi del decreto del Maggior Consiglio del 10 gennaio 1645 che recita: “In ogni tempo e a venire sia proibito il farsi l’incoronazione de le Dogaresse, come attione non necessaria et poco aggiustata a la moderation del Governo”. Nicolò Cassana Doge Silvestro Valier Nicolò Cassana Dogaressa Elisabetta Querini Valier 93 Sala dei ritratti VII. Salotto Giuseppe Jappelli La sala è dedicata a Giuseppe Jappelli (Venezia, 1783-1852), architetto e ingegnere, massimo esponente dello stile neoclassico nel Veneto, a cui Caterina, sorella di Giovanni e moglie del conte padovano Gerolamo Polcastro, commissionò il salotto alla pompeiana. L’arredo proveniva dalla villa Polcastro di Loreggia in provincia di Padova dove Caterina soggiornò dopo la morte del marito e la vendita del palazzo di famiglia in Santa Sofia a Padova. Il salotto, in legno laccato nero con raffigurazioni dipinte a finto intarsio color noce, si compone di un divano, un tavolo con piano in radica, dieci sedie, due vetrine e una specchiera che sormonta il caminetto. Il divano, a forma di gondola, è appoggiato su quattro basi con serpenti intagliati, mentre l’imbottitura è in panno blu, rifinito in ciniglia marrone. Le sedie sono di struttura semplice con unico sostegno allo schienale e le gambe ricurve lisce. Costituiscono un esempio interessante di disegno ispirato all’antico e sono simili alla klismos chair, creata in Inghilterra alla fine del Settecento. Il tavolo con intarsi in madreperla, gambe a zampa di leone e una piccola scultura sulla base, che rappresenta un’anfora nelle spire di un serpente, nasconde un cassetto con serratura dorata a forma di testa di leone. Le due vetrine riprendono nella parte bassa la linea ricurva del divano, mentre in alto, nel punto di apertura dell’anta presentano due piccole decorazioni di metallo che riproducono i capitelli corinzi ornati da bucrani, più tipici dello stile dorico. Interessanti sono le figurine dipinte a finto intarsio, diverse l’una dall’altra, che si rincorrono da un arredo all’altro. Esse raccontano episodi mitologici dove ninfe, dee, centauri, putti e altri personaggi 95 pagina precedente: Giuseppe Jappelli Salotto alla pompeiana, particolare Salotto alla pompeiana VII. SALOTTO GIUSEPPE JAPPELLI decorano il legno laccato e sembrano ripresi dal vasellame antico. Questo salotto rivela evidenti riferimenti all’arredo originale di una sala del Caffè Pedrocchi di Padova. In una vetrina è esposta una tazzina da caffè con piattino della manifattura di Meissen, databile al 1740. La decorazione su fondo bianco presenta piccoli fiori sparsi indiani e paesaggi in miniatura entro cartigli profilati in oro. Al centro del piattino e ripetuto sul corpo della tazza, circondato da mazzolini di fiori, è dipinto lo stemma della famiglia Querini Stampalia. La tazza e il piattino, di altissima qualità, facevano parte di un cabaret di cui si conoscono oggi altri pezzi, conservati in musei e collezioni private d’Europa, probabilmente un dono di ringraziamento ad Andrea Domenico Querini da parte del principe ereditario Federico Cristiano elettore di Sassonia. Nel 1740, infatti, il figlio del re di Polonia era vissuto per sei mesi a Venezia, intrattenuto durante il suo soggiorno dal Querini, da Giulio Contarini, da Piero Correr e da Alvise Mocenigo. Sopra il tavolo trova posto una delle opere più importanti del Museo, il bozzetto in creta di Letizia Ramolino Bonaparte, realizzato dallo scultore Antonio Canova (Possagno, 1757 - Venezia, 1822). Nella produzione canoviana il bozzetto era la prima trasformazione plastica del disegno preparatorio e, nel caso della scultura queriniana, ci troviamo di fronte ad un esemplare poco deteriorato e ricco di suggestione. Letizia Bonaparte, madre di Napoleone commissionò al Canova nel 1804 un ritratto a figura intera; il bozzetto è stato realizzato in quel periodo, così come quello gemello che si trova a Possagno. La statua in marmo si trova invece nella collezione Devonshire a Chatsworth in Inghilterra. Il bozzetto fu donato dall’abate Giovanni Battista Sartori, fratellastro di Canova, al conte Giovanni Querini Stampalia. Il dipinto La partenza del Bucintoro di Antonio Stom (Venezia, notizie 1717-1734) ha avuto diverse attribuzioni, anche illustri, Antonio Canova Letizia Ramolino Bonaparte Manifattura di Meissen Tazzina con piattino 97 Antonio Stom La partenza del Bucintoro 99 VII. Memento mori, letteralmente significa “Ricordati che devi morire” ed è una famosa locuzione in lingua latina. La frase deriva da una usanza dell’antica Roma: quando un generale vincitore ritornava in città dopo una campagna bellica, doveva sfilare per le vie acclamato dalla folla in festa. Accanto a lui però c’era sempre uno schiavo che era incaricato di pronunciare questa frase per ricordargli la sua natura umana, in modo che al generale non venissero manie di grandezza. Peeter Bolckman Temporale Peeter Bolckman Caccia al cervo SALOTTO GIUSEPPE JAPPELLI come quella al Canaletto, prima di essere riconosciuto come opera dell’artista originario della Valgardena. La veduta rappresenta la partenza del doge sul Bucintoro dal bacino di San Marco nel giorno dell’Ascensione, in veneziano “Sensa”. In quel giorno veniva celebrato lo sposalizio tra la città e il mare, evento festeggiato anche ai giorni nostri. Il doge, accompagnato da un seguito di centinaia di imbarcazioni, si recava a Sant’Elena per accogliere il vescovo di Castello (dal 1451 Patriarca di Venezia) che portava con sé una bacinella di acqua benedetta, un vaso di sale e un ramo d’olivo come aspersorio. Dopo la benedizione del vescovo il doge gettava nelle acque l’anello dicendo in latino “Ti sposiamo in segno di vero e perpetuo dominio”. Ritornando in laguna il vescovo e il doge venivano accolti dall’abate del monastero di San Nicolò del Lido e in processione entravano in chiesa per assistere ad una funzione religiosa, a conclusione della quale il doge rientrava a Palazzo Ducale dove aveva luogo un banchetto pubblico a cui partecipavano anche le maestranze dell’Arsenale. Infine tre paesaggi attribuiti a Peeter Bolckman (Gorinchen, 1640 - Torino, 1710) databili al periodo in cui il pittore olandese soggiornò a Genova tra il 1670 e il 1678. Le tele, di formato verticale, permettono all’artista di distribuire le immagini in piani molteplici. Nella realizzazione dei tre paesaggi Bolckman è chiaramente influenzato da Pieter Mulier detto il Cavalier Tempesta, che probabilmente conobbe a Genova, piuttosto che dai bamboccianti. Il Temporale rappresenta la natura sconvolta dalla furia degli elementi: nubi nere si rincorrono nel cielo in tempesta, realizzato con un sapiente gioco di chiaroscuri. Al centro del dipinto l’albero spezzato dalla furia del vento, motivo che, con minime variazioni, ricorre in tutte e tre le opere queriniane e che può essere ricondotto all’usanza dell’arte fiamminga di inserire nelle opere un memento mori, un elemento iconografico che ammonisca e ricordi la brevità della vita. 101 VII. SALOTTO GIUSEPPE JAPPELLI Nella Caccia al cervo ritroviamo il paesaggio boscoso dell’artista, mentre nel Paesaggio con pastori egli ritrae una tranquilla scena bucolica, dove solo il cielo carico di nubi e l’albero in primo piano, scosso dal vento, ci riconducono alle tipiche atmosfere dell’artista. Merita attenzione anche l’opera Senza titolo - Muro #5 di Elisabetta Di Maggio (Milano 1964). Intagliando vari strati di colore in forme vegetali, tratte dagli antichi tessuti che rivestivano le sale del Palazzo, l’artista fa riemergere i colori sovrapposti dagli intonaci, evocando le memorie del passato. L’intervento è stato realizzato in occasione dell’iniziativa “Conservare il futuro” che prevede un dialogo tra gli artisti contemporanei e il Museo. (DDD) Elisabetta Di Maggio Senza titolo - Muro #5 103 VIII. Sala Ottocento La sala è dedicata alla collezione di oggetti di arte decorativa raccolta da Ada Morandi Padoan, dal marito Romano Padoan e donata dal figlio Renato al Museo. L’antiquario Romano Padoan era il proprietario dello storico negozio a San Marco “Giuseppe Dominici”, una delle mete più visitate da collezionisti e amatori d’arte di tutta una generazione di veneziani e stranieri. La collezione, esposta nella vetrina a parete, comprende porcellane, maioliche, argenti, smalti, vetri e una serie di objets de vertu che, tra Settecento e Ottocento, diventarono accessori indispensabili alla moda maschile e femminile. Particolare attenzione è stata posta nella scelta degli oggetti in porcellana. La raccolta è costituita da una campionatura delle più importanti fabbriche italiane ed europee dei secoli XVIII e XIX, con un numero consistente di tazzine e piattini. La manifattura di Meissen è presente con alcuni pezzi di alto livello qualitativo, come il gruppo L’amante scoperto su modello dello scultore Johann Joachim Kändler, che ne rivela lo spirito ironico e lievemente burlesco. Una raffinata tazza da puerpera con coperchio e piattino, contenitore che un’antica tradizione destinava al brodo ristoratore per le dame uscite dal travaglio, è ornata su fondo bianco a mazzi di fiori indiani nei colori rosso, viola, giallo, azzurro e verde. Della manifattura di Sèvres è la tazza e piattino con cartelle decorate a trionfi di gusto campestre e attributi rivoluzionari a fondo bleu céleste databile al 1793-1800. L’originalità della tazza dal semplice profilo ovoide sta nei manici, ispirati a quelli delle coppe o dei vasi antichi. Camillo Innocenti Il gioiello VIII. Il costo del tè nel Settecento era molto elevato e per questo motivo le tazze da tè erano solitamente più piccole di quelle da caffè; anche le dimensioni ridotte delle teiere nel periodo tra il 1730 e il 1770 testimoniano quanto il tè fosse all’epoca raro e costoso. Manifattura di Meissen L’amante scoperto Manifattura di Meissen Tazza da puerpera con coperchio e piattino Manifattura Ferniani, Faenza Rinfrescatoio per bottiglia Manifattura di Sèvres Tazza e piattino SALA OTTOCENTO Tra le porcellane italiane del Settecento ben rappresentata è la produzione della manifattura veneziana dei Cozzi, con chicchere e tazzine, tutte marcate con l’ancora rosso ferro. Le accompagna una teiera globulare in porcellana bianca, dalla caratteristica pasta di tonalità grigia e vetrina brillante (1765-70). La decorazione a peonie, rami fioriti e rondinelle è chiamata “blu e rosso o del Giapon” e ricorda infatti i motivi ornamentali delle porcellane giapponesi Imari. Uscite dalla stessa fabbrica sono le due tazzine alla turca da tè tipiche della produzione Cozzi, databili al 1765-90, decorate con fogliette d’oro sparse e bordi a squama verde smeraldo che richiamano i modelli di Meissen. La collezione comprende inoltre porcellane ottocentesche con esempi delle manifatture parigine dei fratelli Darte e di Dagoty, delle manifatture di Berlino e di Gotha, della fabbrica Schlaggenwald e della manifattura di Vienna. Tra le galanteries numerose sono le tabacchiere in smalto di manifattura europea. Un cenno particolare merita la tabacchiera di forma rettangolare ornata a scene galanti policrome e montata in rame dorato di probabile manifattura tedesca della seconda metà del Settecento. Alle pareti della sala sono esposti dipinti degli inizi del XX secolo. Di Camillo Innocenti (Roma, 1871-1961) è la tela Il gioiello, datata 1906. L’opera raffigura un interno di chiara luminosità a tinte grigie e verdi rese vibranti dal delicato gioco dei contrasti con la veste bianca della aggraziata figura femminile in un clima di vago dannunzianesimo. La modella di Alessandro Milesi (Venezia, 1856-1945), acquistata dalla Fondazione alla Biennale veneziana del 1910, rientra nella fortunata produzione ritrattistica dell’artista. Eseguita quasi di getto con una pennellata densa e strascicata su tonalità prevalentemente scure dove risaltano i verdi, i bianchi e i rossi dei fiori della veste, La modella rispecchia l’eleganza e lo stile inconfondibile di un’epoca. 107 VIII. SALA OTTOCENTO Di pacato realismo il ritratto di Giovanni Bordiga (Presidente della Fondazione dal 1926 al 1933) è l’opera con la quale Lino Selvatico (Padova, 1872 - Treviso, 1924) esordisce come artista alla Biennale veneziana nel 1899. Ed è proprio in questo genere che Selvatico troverà il suo punto di forza, diventando il ritrattista della società elegante, della nobiltà e della borghesia della Belle Époque veneziana. Esposta sopra il mobile con ribalta degli inizi del XIX secolo, la tempera su carta di Alberto Pasini (Busseto, 1826 - Cavoretto, 1899) Montenegrino a cavallo del 1860 circa è un modello di studio che rientra nella produzione orientalista dell’artista. Al centro della sala è presentata la cera Testa di bimbo di Medardo Rosso (Torino, 1858 - Milano, 1928). Nell’opera dello scultore si legge il senso della creatura nella sua corruttibilità e nel suo disfacimento; bambini o vecchi indagati con un realismo quasi senza compassione. Nel corridoio si ammira In porto di Guglielmo Ciardi (Venezia, 1842-1917), veduta che si inserisce tra i dipinti a soggetto paesaggistico del padre della pittura veneta di paesaggio ottocentesca. (EDC) Con la buona stagione Milesi amava passeggiare lungo le Zattere, dove tra l’altro risiedeva, fermandosi a guardare i pittori, esperti o dilettanti, che dipingevano sulla riva del Canale della Giudecca. Osservava il quadro abbozzato e non riusciva a tacere: “Vèdela, qua el dovaria far dei sfregazzi co ’na calza de seda, de quele da dona. El vien meio. E questo ghe lo dise Milesi, pitor vecio venezian”. Alessandro Milesi La modella 109 Alberto Pasini Montenegrino a cavallo Medardo Rosso Testa di bimbo VIII. Lino Selvatico Giovanni Bordiga 111 SALA OTTOCENTO Guglielmo Ciardi In porto IX. Scene di vita veneziana Quello che si ammira attraverso le tele esposte in questa sala è un vivace documentario di usi e costumi della vita pubblica veneziana ai tempi della Serenissima. I dipinti sono tutti opera di Gabriel Bella (Venezia, 1730-1799) non proprio pittore, ma decoratore e con tale mansione impiegato da Andrea Querini nella sua casa di campagna vicino a Treviso, da dove infatti queste tele provengono. Bella rappresenta le tradizionali feste del Carnevale e quelle private nell’intimità di un campiello o nell’inedito ambiente di un teatro; ma anche sagre, passeggi, regate, corsi e un matrimonio. Una buona parte dei suoi dipinti raffigura le cerimonie a cui partecipavano il doge, i magistrati e gli avvenimenti religiosi, permettendo così, a distanza di secoli, di partecipare alla quotidianità della vita durante la Repubblica. L’artista prende spunto da incisioni dei secoli XVI, XVII e XVIII, adattandole però alla sua esperienza personale e modificandole secondo quanto vedeva, per cui, paragonando le incisioni più antiche con i suoi quadri e con ciò che si vede ai nostri giorni, è possibile cogliere i cambiamenti della città nei secoli. Alcuni dei giochi descritti con il pennello dal Bella sono particolarmente singolari, altri sono molto crudeli per la sensibilità di oggi, ma all’epoca erano così famosi da attirare a Venezia i più importanti personaggi del tempo. Ci sono le cacce dei tori, uno tra gli spettacoli più frequenti in città per oltre un millennio, di cui si trovano diversi esempi nella Caccia dei tori nel cortile di Palazzo Ducale, nella Caccia dei tori alle Chiovere a San Giobbe e nel Corso dei tori e La gara delle carriole a Rialto. Altri giochi con animali si vedono nella Caccia all’orso in campo Sant’Angelo o nella Sagra della vecchia in 113 pagina precedente: Gabriel Bella La regata delle donne in Canal Grande, particolare IX. SCE N E DI V I TA V E N EZI A NA campo San Luca, dove sul palco un uomo inginocchiato cerca di catturare con i denti un’anguilla viva, immersa in una tinozza di acqua nera: le facce lorde di chi giocava suscitavano l’ilarità del pubblico. Molti dei passatempi più comuni sono riuniti nella Festa del 2 febbraio a Santa Maria Formosa, dove, oltre alla caccia al toro e all’orso, ci si può divertire a cercare altre piccole scene: l’albero della cuccagna, la rappresentazione di una tipica danza, la furlana, ma anche un gioco brutale che prevedeva di uccidere un gatto a testate e un altro ancora dove si cercava di afferrare un’oca sospesa sull’acqua scontando però la pena di un bagno in canale! Il Carnevale è rappresentato in vari dipinti tra cui I ciarlatani in Piazzetta e L’ultimo giorno di Carnevale, ma il più significativo è La festa del giovedì grasso in Piazzetta, copia di una delle Dodici Solennità dogali disegnate da Canaletto e incise da Brustolon. La scena è dominata dalla grande costruzione da cui partivano i fuochi d’artificio alla fine della festa, ma prima molti divertimenti animavano la giornata e per l’occasione venivano create apposite gradinate dove gli spettatori sedevano per godersi lo spettacolo. Nel quadro sono descritte alcune attrazioni: lo “svolo del turco”, cioè un giovane appeso per la vita che, scivolando lungo una doppia fune dalla cima del campanile fino alla loggia su cui si affaccia il doge, doveva porgergli un mazzo di fiori e una poesia, e le Forze d’Ercole dove castellani e nicolotti, le due fazioni avverse della città, si sfidavano. Il Bella dipinge molti passeggi e anche corsi, cioè l’antica abitudine che faceva riunire in un luogo molte imbarcazioni per divertimento. Si remava tutti insieme cercando di superarsi, dando prova di destrezza. Sulle fondamenta si raccoglievano numerose persone per assistere al Corso nobile da San Stae alla Croce, al Corso nel canale della Giudecca e al Corso dei Sollazzieri alle Fondamente Nuove. Tra i corsi, quello che attirava la maggiore folla era senza dubbio Il corso delle cortigiane in Rio della Sensa, non più una gara, ma una Gabriel Bella L’ultimo giorno di Carnevale Gabriel Bella Cena al teatro di San Benedetto per i Duchi del Nord 115 Gabriel Bella Il corso delle cortigiane in Rio della Sensa IX. SCE N E DI V I TA V E N EZI A NA passeggiata a filo d’acqua. Alle meretrici era stato vietato di uscire a “corsi” con l’unica eccezione di quello che andava dal Rio della Sensa a Sant’Alvise che divenne perciò il corso delle cortigiane. L’uso del regatare a Venezia è antichissimo e le prime competizioni pubbliche di cui abbiamo testimonianza risalgono al Trecento. La regata delle donne in Canal Grande è raffigurata mentre si sta superando la Punta della Dogana: le “caorline”, imbarcazioni su cui gareggiano le donne, sono accompagnate dal solito corteo di gondole col “felze” e da altre colorate e adorne. Le barche con quattro rematori in livrea e un nobile inginocchiato a prua sono le “ballottine”, qui usate come servizio d’ordine: chi intralciava il percorso ai concorrenti veniva colpito con la “balotta”, pallina di terracotta scagliata con una fionda. Tra i dipinti troviamo anche le feste dei nobili e del popolo. Ai primi erano riservati spazi lussuosi come quello che si vede nella Cena al Teatro di San Benedetto per i Duchi del Nord, dove, il 22 gennaio 1782 fu allestita, nel nuovissimo teatro di San Benedetto, una cena sontuosa per accogliere gli eredi al trono di Russia. Dai racconti di chi vi partecipò si apprende che per l’occasione il teatro fu decorato con raso celeste e argento alternato a specchi; il palcoscenico fu unito all’orchestra da un’ampia scalinata, ai lati della quale erano allineati i suonatori in elegante uniforme. L’illuminazione era affidata a migliaia di candele e la visione di quel luogo doveva essere davvero suggestiva. Dopo la cena si tolsero i tavoli e si ballò, come era di moda fare nel Settecento in molti teatri. Il popolo invece si divertiva con La festa da ballo in campiello, qui rappresentata come festa da soldo, a pagamento, al suono di violini e violoncello, c’è chi balla, chi guarda, chi beve come le donne al tavolo sulla destra o chi fuma, come l’uomo dietro di loro, e chi gioca a bocce o a tacco, tipico divertimento dei fanciulli che dovevano riuscire a lanciare il tacco di una scarpa sopra quello degli altri. Gabriel Bella La regata delle donne in Canal Grande 117 IX. Gabriel Bella Festa del 2 febbraio a Santa Maria Formosa 119 SA L A DEL L A V I TA V E N EZI A NA Gabriel Bella L’incoronazione del Doge sulla scala dei Giganti IX. SCE N E DI V I TA V E N EZI A NA Anche la vita del doge e le cerimonie politiche e religiose della città raffigurate dal Bella sono tratte dalle Solennità dogali di Canaletto e Brustolon. L’elezione del doge per opera dei Quarantuno ricorda il procedimento molto complicato messo in atto per l’elezione della maggiore carica della Serenissima. Un bambino tra gli otto e i dieci anni, destinato poi a stare alla corte del nuovo doge, doveva estrarre a sorte trenta patrizi che ne sorteggiavano altri i quali ne sceglievano ancora fino ad arrivare al numero di quarantuno. Questi ultimi eleggevano il doge con una maggioranza minima di venticinque voti. Appena avvenuta la nomina, il più anziano dei Quarantuno presentava il doge nella basilica di San Marco, così come è raffigurata nel dipinto La presentazione del nuovo doge al popolo. Al centro del dipinto si vede la preparazione del pozzetto su cui salirà il doge, mentre armati di bastone gli arsenalotti liberano il passaggio tenendo a bada la folla. Il doge andava quindi a fare Il giro della piazza in pozzetto, portato a mano da ottanta arsenalotti. Con il doge anche l’Ammiraglio, comandante supremo dell’Arsenale, che regge lo stendardo appena consegnato al Serenissimo Principe, mentre il ballottino e un parente del doge lanciano monete con il nuovo nome appena coniate sulla folla. Terminato il giro della piazza si passava a Palazzo Ducale per L’incoronazione del doge sulla scala dei Giganti, dove sulla sommità della scala attorniato dai Quarantuno il doge faceva giuramento e veniva incoronato con il corno ducale. (TB) A Venezia la maschera si portava anche in occasioni diverse dal Carnevale, è questo il caso del Passeggio delle maschere il giorno di Santo Stefano, o del Nuovo Ridotto, qui infatti per una disposizione legislativa del 1704 solo ai nobili era concesso tener banco a viso scoperto, mentre i giocatori dovevano entrare in bautta. Gabriel Bella Sagra della vecchia in campo San Luca Gabriel Bella Nuovo ridotto 121 X. Studiolo Al centro del soffitto, affrescato alla fine del XVIII secolo con trompe-l’oeïl a motivi fitomorfici e geometrici, sono raffigurate le Tre grazie: Aglaia “splendente”, Eufrosine “gioia e letizia” e Talia “portatrice di fiori”. Alle pareti sono collocate due tele a soggetto mitologico di Federico Cervelli (Milano, 1638 circa - Venezia, ante 1712) Orfeo ed Euridice e Pan e Siringa. Il dipinto con Orfeo ed Euridice rappresenta il più noto episodio mitico legato alla figura di Orfeo. Alla morte della giovane sposa Euridice, causata dal morso di un serpente, Orfeo disperato discende nel regno dei morti per cercarla. Con il suo canto straordinario commuove le divinità degli inferi che gli concedono di risalire portando con sé la moglie a patto di non girarsi indietro a guardarla prima di aver raggiunto la soglia illuminata dalla luce del sole. Il poeta, ormai prossimo alla meta, cedendo al desiderio di rivedere la sposa si volta, Euridice sparisce per sempre ed Orfeo sconsolato è costretto a tornare da solo sulla terra. Il Cervelli interpreta con libertà il mito e, con una pennellata forte e vibrante, che caratterizza parte della sua produzione, dipinge ogni singolo elemento con attenzione ed eleganza. Orfeo viene raffigurato con il capo coronato d’alloro per alludere alla sua poesia e con uno strumento a corda nel fianco per ricordare la sua abilità nel canto. Euridice ha lunghi capelli ricci e dorati, la spalla destra scoperta e la veste trasparente e leggera ricca di drappeggi di tessuto blu che sottolineano la drammaticità della scena. Nel dipinto Pan e Siringa il tema trattato è quello del mito del dio Pan. 123 X. STUDIOLO Pan, la divinità che presiede ai boschi, alla vita agreste e pastorale si invaghisce della ninfa Siringa, ma questa, devota alla dea Artemide, rifiuta il suo corteggiamento. Pan la insegue, ma, giunta in prossimità di un fiume, la giovane rivolge una preghiera di aiuto al padre Ladone che la trasforma in canna poco prima di essere raggiunta dal dio. Pan si trova quindi a stringere tra le mani solo un giunco, e colpito dal suono provocato dal vento che scuote le canne, ne recide alcune e, legatele insieme, crea un flauto. Lo strumento musicale prese il nome di “siringa” in onore della sventurata fanciulla e sarà convenzionalmente il flauto dei pastori. Il momento raffigurato dal Cervelli è proprio quello della fuga e della metamorfosi di Siringa; Pan dall’aspetto forte, con la fronte stempiata e una folta barba ispida, afferra la giovane in fuga che manifesta nelle dita già la prima fase del mutamento. Siringa è raffigurata con la consueta sensualità del Cervelli, il panneggio delle vesti accenna alla sua corsa disperata mentre il tremolio delle canne in primo piano sottolinea la drammaticità dell’evento. Tra le finestre è esposta la ribalta con alzata in legno impiallacciato in radica di noce del XVIII secolo. Molto simile al bureau-cabinet inglese, il corpo superiore a due ante termina con il caratteristico motivo a doppia cupola. Il mobile ha la facciata e i fianchi dritti e la fronte del corpo inferiore ospita una calatoia con all’interno tiretti, vani e un ripiano scorrevole. Sopra alla ribalta è visibile Diana di Francesco Ruschi (Roma, 1610 - Venezia, 1661 circa). La dea della caccia viene raffigurata a mezza figura con il tipico attributo del crescente lunare tra i capelli e con la mano sinistra che regge un laccio annodato all’abito dal quale scende una catenella a cui è legato probabilmente un corno da caccia. La sua mano destra sorregge un tamburello che, insieme al canestro di fiori, possono essere interpretati come dei richiami alle Ninfe, le giovani fanciulle divine, compagne di Diana, che costituiscono il suo seguito. pagina precedente: Federico Cervelli Orfeo ed Euridice Federico Cervelli Pan e Siringa 125 Marco Ricci Temporale sulla valle del Piave X. STUDIOLO Tre tele di Marco Ricci (Belluno, 1676 - Venezia, 1730), che risalgono ai primi del Settecento, Temporale sulla valle del Piave, Paese rustico e la Campagna romana con rovine e un laghetto, facevano parte del patrimonio personale di Alvise e Gerolamo. Il pittore ritrae con straordinario respiro i paesaggi tanto amati: i toni bruni del colore su cui si accendono improvvise macchie di luce e il realismo nella resa delle corpose e animate macchiette e degli elementi naturalistici, testimoniano la conoscenza da parte del maestro bellunese delle opere di scuola nordica, e i suoi studi giovanili sul paesaggismo veneto del Cinquecento. In queste pagine di vita, prese dai luoghi dove il Ricci adorava soggiornare, le colline bellunesi e la valle del Piave, comincia a insinuarsi la timida presenza di antiche rovine. Con il maestro nasce nella città lagunare un paesaggio reale e naturale, fatto di campagna e di colline, di mandrie e di pastori, nel quale la natura, insieme all’uomo, diventa protagonista. Le ricerche in senso naturalistico iniziate da Marco Ricci verranno interrotte dal mito dell’Arcadia, introdotto a Venezia dallo Zuccarelli, riprese poi dai migliori vedutisti e paesisti del Settecento veneziano, Canaletto, Marieschi, Zais e Guardi. (BT) Le grazie presiedevano ai banchetti, alle danze e ad altri piacevoli eventi sociali, diffondevano gioia e amicizia tra dei e mortali e assieme alle muse cantavano e ballavano per gli dei sul monte Olimpo al suono della lira del dio Apollo. Marco Ricci Paese rustico Marco Ricci Campagna romana con rovine e un laghetto 127 XI. Camera da letto Risale all’epoca delle nozze di Alvise con la nobildonna Lippomano (1790) anche la decorazione ad affresco in stile neoclassico della camera da letto realizzata da Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808). Il soffitto è suddiviso geometricamente da finti stucchi e presenta al centro Zefiro e Flora. L’ovale è attorniato da sei scene antiche su fondo di finto marmo raffiguranti cortei, sacrifici e danze, negli angoli sono presenti quattro lunette con immagini floreali e vasi mentre la cornice colorata reca decorazioni con fiori, motivi floreali, festoni, cesti di frutta, animali, vasi e spartiti musicali. Il tema principale dell’apparato decorativo del soffitto è un chiaro augurio di felicità e fertilità agli sposi. Zefiro è il vento occidentale, il cui soffio, dolce e potente ad un tempo, ridona vita alla natura addormentata durante l’inverno. Zefiro, librato nell’aria con leggerezza e grazia, è raffigurato come un giovinetto sereno e dolce, con una veste verde intorno alla cinta, un drappo rosso sulla spalla destra e con ali di farfalla. Flora, antichissima divinità italica della primavera, dei fiori, della giovinezza, protettrice della fecondità, delle partorienti e delle unioni coniugali, è raffigurata come una fanciulla coronata di fiori, dalla lunga veste svolazzante. Tra affreschi, decori e finti stucchi risaltano nella sala gli arredi in lacca dipinta che sottolineano il gusto della famiglia nella consuetudine quotidiana. In quegli anni lo stato delle finanze dei Querini non permetteva grandi spese, e Alvise decise di conservare parte della camera da letto del padre Zuanne della metà del Settecento: otto poltrone in legno di noce intagliato e dipinto in lacca color verde chiaro e 129 XI. Per adeguare le due portacamicie, ereditate da Zuanne, allo stile degli altri arredi della camera da letto, Alvise ne fece modificare le gambe originali che vennero sostituite da sostegni rettilinei neoclassici. pagina precedente: Camera da letto Pietro Longhi Battesimo, Matrimonio, Ordine Sacro, Cresima CA M ER A DA L ET TO due portacamicie dalle forme arcuate e bombate, caratteristiche dell’ebanisteria rococò. Solo il letto e i due comodini vennero commissionati per Alvise, sempre in lacca color verde chiaro con decorazione floreale policroma, ma di stile neoclassico nella linearità della struttura e nell’ornato geometrico. Tra le due finestre una ricca console in legno laccato azzurro del 1780 circa, scolpita e intagliata a motivi vegetali policromi e medaglioni con teste virili e una specchiera argentata in vetro di Murano della fine del XVII secolo. Alla parete sono collocati i Sette Sacramenti di Pietro Longhi (Venezia, 1701-1786), così come voluto da Andrea che li commissionò all’artista. Eseguite tra il 1755 e il 1757 le tele presentano diversi stili: il Battesimo, la Cresima, la Confessione e il Matrimonio appartengono infatti ancora ad un momento chiarista del pittore segnato dall’influsso francesizzante, mentre la Comunione, l’Estrema unzione e l’Ordine Sacro si caratterizzano per l’utilizzo di una materia pittorica più sfumata e per un timbro cromatico più cupo, molto vicino allo stile rembrandtiano. Longhi, nell’esecuzione di questa serie, non si fa condizionare da Poussin e Crespi, nobili esempi che lo avevano preceduto ritraendo gli stessi soggetti, e non si lascia influenzare neppure dagli schemi imposti dalle scritture religiose ma racconta la devozione senza aspetti eroici con personaggi tratti dalla società del suo tempo. Longhi scruta e coglie la realtà con attenzione e con amorevole cura e ogni dettaglio lo aiuta a rendere più domestico l’importante momento religioso: l’indiscreta donnina che si affaccia da dietro alla colonna per assistere al battesimo, il cagnolino bianco attento a ciò che succede durante la confessione, il mendicante addormentato contro la pila dell’acqua santa mentre i due giovani si uniscono in matrimonio e lo scarno arredo della camera da letto dove il moribondo riceve l’estrema unzione. pagine seguenti: Jacopo Guarana Zefiro e Flora Lorenzo di Credi La Vergine e san Giovannino adoranti il Bambino XI. CA M ER A DA L ET TO Impreziosisce la sala il tondo di Lorenzo di Credi (Firenze, 1459?-1537) raffigurante La Vergine e san Giovannino adoranti il Bambino. L’opera è databile intorno al 1480 circa e probabilmente fu portata dall’artista stesso a Venezia tra il 1479 e il 1488 quando accompagnò nella città lagunare il Verrocchio, suo maestro. Nei personaggi il di Credi fa emergere i dolci caratteri di origine peruginesca mentre nella smaltata raffigurazione di foglie, fiori e nelle forme architettoniche della città manifesta la sua forte esperienza fiamminga nell’uso della materia pittorica. (BT) 133 XII. Boudoir Adiacente alla camera da letto privata della signora, il boudoir era un salottino intimo e grazioso dove le dame della famiglia ricevevano, sedute al tavolo della toilette, le visite di amici e fornitori. Accanto, il guardaroba con gli armadi custodiva ricche vesti e pregiati tessuti. Queste piccole stanze, come il boudoir e il cabinet de travail, rispecchiano il cambiamento di gusto per le proporzioni e l’arredamento delle abitazioni che iniziò in Francia nel Settecento all’epoca di Luigi XV. Alle imponenti e grandiose sale, si preferiscono ora ambienti intimi, più caldi, d’impronta squisitamente femminile. Le pareti della stanza sono spartite da inquadrature rettilinee di sapore neoclassico, che presentano decori a foglie in stucchi policromi su marmorino dai tenui colori pastello, della fine del XVIII secolo. Suggestive le quattro tavole di Pietro Della Vecchia (Vicenza ?, 1602/03 - Venezia, 1678) dalla pennellata irruenta, ricca di spumosità e di effetti luministici. Raffigurano Passeggiata, Concerto, Incontro e Congedo degli amanti. Le tavole facevano parte della decorazione di un cassone nuziale. Attribuiti in passato alla massima specialista olandese di pittura di fiori del Settecento Rachel Ruysch, i due rami Natura morta con frutta e scimmia e Natura morta con frutta e crostacei sono ritenuti dalla critica più recente opere di Hans van Essen (Anversa, 1587 o 1589 - Amsterdam, 1642 o 1648). Le composizioni, realizzate con grande sensibilità pittorica e pennellata rapida e brillante, sono orchestrate secondo rigorose leggi geometriche. Van Essen era solito infatti raffigurare le sue nature morte sopra un piano obliquo, spesso un tavolo, con poche suppellettili e molta frutta, 135 pagina precedente: Boudoir Pietro Della Vecchia Incontro e Passeggiata XII. BOUDOIR e illuminare le scene frontalmente, lasciando scuri i fondi. In Natura morta con fiori e scimmia la composizione presenta l’elemento obliquo e manifesta un perfetto equilibrio sottolineato dall’uccellino posato sull’orlo del bacile in ceramica di Delft ricolmo di frutta. Dell’ambito del maestro fiammingo Michael Sweerts (Bruxelles, 1618 - Goa, 1664) sono Contadina seduta con cane e Contadino seduto che beve. La fattura delle tele rivela un impasto denso, con forti contrasti luministici, ma trasparente e, a tratti, quasi porcellanoso, tipico dello stile di Sweerts, oltre a una forte introspezione psicologica che distingue la sua ritrattistica. In Due scene d’osteria l’artista olandese Bartholomeus Molenaer (Haarlem, notizie 1640-50 circa), con larga e sciolta fattura pittorica, mette in scena l’allegrezza che dà il vino. Ne traspare un senso genuino d’intimità, che è caratteristico della pittura popolare olandese del XVII secolo, a differenza di quella fiamminga dove è spesso presente un distacco dell’artista dalla scena quotidiana che dipinge. Nelle parti in chiaroscuro, gli oggetti sono studiati minuziosamente e trattati con assoluta veracità. Sopra la specchiera settecentesca, Ritratto di Caterina Contarini Querini di Alessandro Longhi (Venezia, 1733-1813). La tela appartiene a uno dei momenti più riusciti della prima maturità del pittore, caratterizzata da una felicità del colore prossima all’Amigoni e a Rosalba Carriera. I suoi personaggi non vogliono essere eroi, ma solo protagonisti del mondo contemporaneo. L’identificazione della nobildonna raffigurata con Caterina si basa sulla somiglianza con la signora ritratta in una miniatura firmata Bertaldo, che apparteneva alla collezione della famiglia, datata 1755. Anonimi nei primi inventari e in seguito creduti di Rosalba Carriera, Ritratto di vecchio e Ritratto di vecchia sono stati attribuiti a Giuseppe Nogari (Venezia, 1699-1763) dal Lorenzetti nel 1926 e tale attribuzione è stata in seguito confermata dalla critica. Michael Sweerts Contadina seduta con cane Michael Sweerts Contadino seduto che beve 137 XII. BOUDOIR La pittura del Nogari è calligrafica, levigata e leziosa e il suo caratterismo tende a forzare la fisionomia e l’espressione. Completano l’arredo del boudoir un divanetto Impero, una sedia con fascia traforata con motivo a palmetta intrecciata del 1830 circa e una specchiera settecentesca in legno laccato e dorato. (EDC) Aleggia nel boudoir lo spirito neoclassico così descritto da Spinell nel Tristan di Thomas Mann: “Ci sono periodi, in cui semplicemente non posso fare a meno dello stile impero, in cui mi è assolutamente necessario per raggiungere un modesto grado di benessere. È chiaro che ci si sente in un certo modo fra mobili comodi e morbidi fino alla lascivia, e in un altro fra questi tavoli, poltrone e drappeggi così lineari... Questa luminosità e durezza, questa semplicità fredda, aspra e questa severità riservata mi conferiscono dignità e contegno... e col tempo hanno come effetto un’intima purificazione e rigenerazione, mi elevano moralmente, non c’è dubbio...”. Thomas Mann, Tristan. Tristano, a cura di Anna Maria Giachino, Torino, Einaudi 2000, p. 41 Hans van Essen Natura morta con frutta e scimmia Giuseppe Nogari Ritratto di vecchio Ritratto di vecchia 139 XIII. Salotto rosso La sala, illuminata da un lampadario in vetro di Murano del XIX secolo, è arredata con tappezzeria di manifattura veneziana, rosso cremisi con disegni floreali beige, in raso e broccato del primo quarto del XVIII secolo, anche se la composizione con questo tipo di elementi naturalistici, il cactus, i melograni e le peonie, è d’impianto ancora seicentesco. Il soffitto è decorato da Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808) e risente del nuovo gusto classicheggiante della fine del Settecento: al centro Apollo sul carro; su quattro lunette con fondo dorato sono raffigurate Venere ed Eros, il Sacrificio a Minerva, Bacco incorona Arianna e una Scena d’Imeneo, il dio che presiedeva al matrimonio. Agli angoli medaglioni monocromi allusivi alle Arti e coppie di figure femminili con festoni di frutta e nastri. Nella sala sono presenti quattro grandi ritratti ufficiali. Nel Gerolamo Querini in abito di procuratore di San Marco di Sebastiano Bombelli (Udine, 1635 - Venezia, 1719), il personaggio appare in posa severa e rappresenta un importante caposaldo della ritrattistica aulica o di parata nella pittura veneta. Gerolamo, con indosso la toga, tipica veste rossa che tutti i procuratori portavano nelle occasioni ufficiali insieme alla cappa in velluto, è impostato con una teatralità di gesti tipicamente barocca. Quest’opera può essere datata all’indomani dell’acquisto della procuratoria da parte di Gerolamo (23 aprile 1669). Bartolomeo Nazari (Elusone, 1693 - Milano, 1758) raffigura Il Cardinale Angelo Maria Querini ed esegue l’opera nel 1727, in occasione della sua nomina. La conoscenza tra il Nazari e il Cardinale Querini avvenne forse a Roma, dove il primo si trovava temporaneamente alla scuola del Luti e del Trevisani, e il secondo fungeva 141 pagina precedente: Salotto rosso Sebastiano Bombelli Gerolamo Querini in abito di procuratore di San Marco Bartolomeo Nazari Il Cardinale Angelo Maria Querini 143 X I I I. SA LOT TO ROSSO da Consultore del Santo Uffizio. Il ritorno dei due personaggi a Venezia dovette avvenire nello stesso torno di tempo, quando Angelo Maria Querini, eletto nell’estate di quello stesso anno Vescovo di Brescia, fu nominato Cardinale a dicembre. Da questa data in poi l’artista divenne il più richiesto ritrattista ufficiale della Serenissima. Il Querini invece si trasferì a Brescia nel febbraio del 1728 e lì rimase fino alla morte erigendo tra il 1747 ed il 1750 la Biblioteca Queriniana, alla quale fece dono di circa 1500 volumi della collezione privata di famiglia. L’opera qui esposta tradisce la complessa formazione artistica del Nazari della prima maturità: se l’articolazione mossa e teatrale della figura e delle mani richiama il Bombelli, la profusione decorativa nell’ambientazione risente dell’esperienza romana. Gli altri due ritratti raffigurano Gerolamo Querini Stampalia Provveditore Generale da Mar di Fortunato Pasquetti (Venezia, 1700 circa - Portogruaro, 1773 circa) e Andrea Querini Stampalia Provveditore generale della Dalmazia e Albania di Bernardino Castelli (Pieve d’Arsiè, 1750 - Venezia, 1810). All’angolo il cantonale è un bell’esempio di lacca veneziana, ben riuscito nella sua decorazione dorata su fondo verde scuro. A Venezia, sulla scia dell’interesse europeo per l’esotico, nato verso la fine del Seicento, si sviluppò la moda della lacca cinese grazie a una categoria di artigiani, i “depentori”, che erano specializzati nell’arte della pittura e della verniciatura e che si dedicarono in particolare all’imitazione delle lacche orientali. Il vero e proprio apice di quest’arte fu raggiunto in particolare con la realizzazione, nel corso del Settecento, del mobilio per l’arredo dei palazzi di città e di campagna della nobiltà veneziana. (TB) Cantonale 145 X I I I. SA LOT TO ROSSO Tutti i possedimenti veneziani erano sotto il controllo del Provveditore Generale, cioè di un funzionario della Repubblica inviato nei territori sotto la diretta amministrazione di Venezia. I Provveditori generali erano cinque: il Provveditore Generale da Mar: responsabile generale delle province dello Stato da Mar, cioè tutte le colonie marittime, del denaro necessario al mantenimento della flotta e vice-comandante della stessa, durava in carica tre anni e risiedeva a Corfù. Il Provveditore Generale del Friuli o Luogotenente: responsabile generale delle province della Patria del Friuli, risiedeva a Udine. Il Provveditore Generale della Morea: responsabile generale delle province della Morea, risiedeva a Nauplia; il Provveditore Generale di Dalmazia: responsabile generale delle province della Dalmazia, risiedeva a Zara; il Provveditore Generale di Terraferma: responsabile generale delle province dei Dominii di Terraferma, istituito nel 1796, risiedeva a Brescia. Unica eccezione era Costantinopoli, retta dal Bailo, ambasciatore scelto tra i nobili, che doveva, per tutta la durata della sua carica biennale, risiedere in quella colonia e aveva autorità sui cittadini veneziani presenti nel territorio ad essa collegato. Fortunato Pasquetti Gerolamo Querini Stampalia Provveditore Generale da Mar 147 XIV. Salotto verde L’affresco a soffitto è opera di Jacopo Guarana (Venezia, 17201808) e raffigura al centro un’Allegoria nuziale. Intorno al soggetto principale quattro tondi con monocromi di figure danzanti e due lunette con putti; ai quattro lati corone di fiori con aquile in stucco bianco. Due ritratti sono di mano di Pietro Uberti (Venezia, 1671 - Venezia o Germania, 1762) Gian Francesco Querini Procuratore di San Marco e Giovanni Querini Procuratore di San Marco. Probabilmente le tele sono state commissionate al pittore nel 1716, anno della doppia nomina a procuratore, l’ultima della famiglia. I due personaggi sono raffigurati nella rigida posa ufficiale in piedi, ma a tre quarti di busto, avvolti nella pesante veste rossa e con la lunga parrucca di moda francese ormai diffusa anche a Venezia. Il capolavoro della sala è il Ritratto di un Dolfin Procuratore e Generale da Mar, di Giambattista Tiepolo (Venezia, 1696 - Madrid, 1770). Il procuratore è un superbo esempio della ritrattistica dell’artista. Nel 1854 Giovanni Querini ereditò dalla nonna materna Cecilia Dolfin l’edificio tardo rinascimentale dei Dolfin a San Pantalon, famiglia per la quale il giovane Giambattista, alla fine degli anni Venti del Settecento, aveva lavorato alacremente dipingendo in estate gli affreschi per il palazzo patriarcale di Udine e d’inverno dieci grandi tele di storia romana per il palazzo veneziano, considerate il segno della sua raggiunta maturità artistica. Per la stessa famiglia Tiepolo aveva continuato a lavorare anche successivamente e questa tela infatti si può far risalire alla metà del Settecento. Non si può invece precisare se la persona raffigurata sia, come la maggior parte dei critici sostiene, Daniele IV Dolfin (1656-1729), Cavaliere del Senato e Capitano straordinario delle navi, mutilato 149 X I V. SALOTTO VERDE a Metellino di quattro dita di una mano, che Tiepolo sembra voler evidenziare in primo piano coperta dal guanto; o se possa essere Daniele I Dolfin, detto Nicolò (1652-1723), Generale a Palma e Procuratore de Supra, l’unico altro Dolfin a cui competono gli attributi di Generale da Mar. In ogni caso si tratta di un ritratto in memoriam, ossia commemorativo, e per celebrare il personaggio Tiepolo assegna una statura monumentale al procuratore ritratto a figura intera, usando il gradino come un piedistallo. Il personaggio è connotato dalla presenza del berretto a tagliere e del bastone di comando, che spettano ai Capitani da Mar. Dietro, due colonne e, sulla sinistra, due quinte architettoniche: la prima di un classicismo barocco che ricorda il Longhena, la seconda con elementi più rinascimentali ripresi dal Sansovino e dal Palladio. Proveniente sempre dall’eredità Dolfin anche il ritratto a figura intera di Francesco Zugno (Venezia, 1708/09-1787), allievo del Tiepolo, Il procuratore Daniele IV Dolfin, identificabile dalla scritta sul foglio che tiene in mano e dai simboli della sua carica, il cappello, il bastone e la nave sullo sfondo. I due sovrapporta Gentildonna e Imperatrice sono tradizionalmente anonimi in tutti i cataloghi e inventari della Pinacoteca. Il taglio compositivo, i particolari naturalistici, e la minuzia nell’analisi delle stoffe dei costumi sono elementi che possono condurre all’ambito di Carlo Ceresa (San Giovanni Bianco, 1609 - Bergamo, 1679), ritrattista lombardo del Seicento. Il ritratto di Gentildonna potrebbe essere quello di Maria Leopoldina d’Asburgo, seconda moglie dell’imperatore Ferdinando III d’Asburgo, simile a un altro della stessa presente al Castello di Ambras presso Innsbruck. Disposti attorno alle pareti, secondo l’uso veneziano, divani, sedie e poltroncine in legno laccato verde oliva decorati a mazzetti di fiori policromi e dorati. Una di fronte all’altra, due console con alte specchiere databili al 1780 circa, dal gusto classicheggiante: su una di queste è visibile, pagina precedente: Jacopo Guarana Allegoria nuziale Giambattista Tiepolo Ritratto di un Dolfin Procuratore e Generale da Mar Salotto verde X I V. Daniele IV Dolfin l’11 febbraio 1709 diede una grandiosa festa in onore di Federico IV di Danimarca e Norvegia, per la quale decise di coprire tutto il cortile del palazzo di San Pantalon, costruendovi un’immensa sala in legno, ornata e ammobiliata, che univa dieci camere illuminate a giorno, e in cui si potevano ascoltare differenti concerti di musica. SALOTTO VERDE dietro la lastra, la sigla NH (per Nobil Homo), che si usava anteporre ai nomi dei nobili. La pendola da tavolo in marmo e bronzo dorato e cesellato è opera del primo decennio dell’Ottocento di Luigi Manfredini (Bologna, 1771 - Milano, 1840), firmata infatti “Manfredini orolo.re del Re a Milano”. Il quadrante è inserito in una raffigurazione del carro di Diana. Sia le figure che la biga sono tratte da un’opera simile di Guido Reni. La base in marmo è anch’essa arricchita dalle figure in bronzo dorato di tre putti alati che reggono delle ghirlande vegetali legate da nastri. La coppia di vasi in porcellana di forma ovoidale, proviene dalla Cina ed è databile intorno al primo ventennio del Settecento. I vasi, decorati da smalti policromi, presentano un ornato floreale e conservano il ricordo di una storia avvenuta quando il secondo piano di Palazzo Querini era affittato al Patriarca Jacopo Monico. Questi si era trasferito a Palazzo nel 1835, in attesa della nuova sede patriarcale alla Piazzetta dei Leoncini, accanto a Piazza San Marco. Cacciati gli austriaci nel 1848, dopo quindici mesi di Repubblica, nella città stremata da un lungo assedio corse voce che il Patriarca avesse sottoscritto una petizione per la resa agli austriaci. Il 3 agosto 1849, la fazione disposta alla resistenza ad ogni costo decise di prendere d’assalto la dimora patriarcale: mobili, oggetti preziosi, tra cui i due vasi cinesi della dinastia Qing, libri, monete e medaglie vennero buttati in canale, e i pezzi migliori, oltre a monete d’oro, furono rubati. Il Patriarca, costretto a fuggire dalla propria residenza attraverso il sistema di ponti aerei che, dal Seicento, collegavano Palazzo Querini alla chiesa di Santa Maria Formosa, riuscì a raggiungere in gondola l’isola di San Lazzaro degli Armeni, dove, a sua difesa, vennero issate le insegne dell’impero Ottomano. Non molto tempo dopo, il 24 agosto, gli austriaci tornarono a Venezia. A Palazzo Querini i cocci dei vasi ripescati dal canale vennero ricomposti pazientemente nelle forme originali. (TB) 153 X I V. SALOTTO VERDE Nell’antichità si utilizzavano come specchi piatti di terracotta su cui si versava acqua. L’immagine riflessa era però vaga e per questo egizi, greci e romani finirono col preferire le superfici ben lucidate di alcuni metalli e, soprattutto il vetro. Nelle tombe egizie sono stati ritrovati specchi fenici ottenuti con sottili lastre di vetro; una delle facce della lastra era ricoperta da piombo che, annerendo il fondo, trasformava il vetro in uno specchio. Nel Cinquecento a Venezia, dove fiorì l’arte del vetro, i soffiatori producevano specchi così belli che venivano richiesti in tutto il mondo, benché fossero molto costosi. La Serenissima emanava leggi per non permettere ai maestri veneziani di esportare in altre città la loro arte, ma dalla metà del diciassettesimo secolo i segreti giunsero in qualche modo anche a Parigi e Londra. Verso la fine del Seicento, per vincere la concorrenza, si cercarono quindi tecniche di produzione meno laboriose e più economiche. Gli specchi, che fino ad allora a causa dell’alto costo erano sempre stati di piccolo formato, per lo più da tenere in mano, cominciarono ad essere prodotti anche in grandi dimensioni e, corredati di cornice, si usarono per la decorazione delle stanze. Console con specchiera e coppia di vasi cinesi Luigi Manfredini Pendola da tavolo 155 XV. Sala degli stucchi Fin dall’XI secolo maestranze ticinesi emigrarono nei grandi centri artistici dell’Italia e del resto dell’Europa così numerose da incidere notevolmente sulla cultura figurativa di alcuni periodi. Il fenomeno presentò particolare intensità nel corso del Cinquecento e del Seicento quando si affermarono ovunque, per la loro abilità, vere e proprie “dinastie” di scultori e stuccatori che mantennero per secoli l’egemonia nell’arte plastica. Queste famiglie dominarono incontrastate a Venezia tutti i cicli stucchivi sia religiosi che civili, e i fratelli Giuseppe (1755-1822) e Pietro Castelli appartennero a una di queste, e più precisamente al ramo di Melide, vicino a Lugano. A quel tempo le famiglie erano molto numerose e, spesso, nella stessa casa più componenti apprendevano la medesima arte. Nel Settecento nei palazzi e nelle dimore della città lagunare i festoni, i trionfi, le figure nei tondi e le riquadrature geometriche in stucco legavano la narrazione alla celebrazione riportando dalla storia miti e racconti al fine di ottenere un raffinato arredamento murale, in simbiosi col pittore, con l’arazziere, con l’intagliatore del legno e l’ebanista, con l’incisore di vetri e specchi. In questa sala l’opera dello stuccatore caratterizza in modo determinante l’ambiente che diviene elegante, piacevole ed originale. Il soffitto, suddiviso geometricamente, presenta due fasce con grifoni, vasi e motivi floreali, quattro lunette rosse con stemmi e quattro coppie di putti con strumenti musicali, rose e libri. Alle pareti trofei che alludono alla caccia, alla musica, alla vita agreste, alla fortuna e all’antico. Collocati su console, due globi di Gilles Robert de Vaugondy (Parigi, 1688-1766). 157 X V. Dai celebri Diari di Marin Sanudo si apprende che nel 1525 a Palazzo fu data, dalla Compagnia della Calza dei Valorosi, di cui Francesco Querini risulta socio fondatore nel 1524, una recita della Commedia Orba di Cherea, nell’ambito dei festeggiamenti organizzati per il matrimonio di una Querini. pagina precedente: Giuseppe e Pietro Castelli Trionfo di caccia Gilles Robert de Vaugondy Globo SALA DEGLI STUCCHI La superficie dei globi, che poggiano su supporti lignei originali, è in carta disegnata in calcografia, divisa in dodici fusi e due calotte ai poli. Intorno ad essi, lungo un meridiano, corre un circolo in ottone sul quale sono disegnati i climi, le ore e i gradi di distanza dal polo. Su questo circolo ne poggia uno più piccolo, in ottone anch’esso, sul quale sono segnate le ore. De Vaugondy, raffinato esecutore di mappamondi, carte geografiche e autore di atlanti, nel 1730 divenne cartografo e geografo ufficiale del re di Francia. I gioielli della sala sono le due tavole di Jacopo Palma il Vecchio (Serina, 1480 circa - Venezia, 1528) collocate su cavalletto: ritratto di Francesco Querini e ritratto di Paola Priuli. Queste opere furono probabilmente commissionate al Palma in occasione delle nozze dei due nobili avvenute il 23 aprile 1528. Pare che Francesco Priuli, padre di Paola, avesse raccomandato il Palma al Querini, che infatti gli richiese almeno cinque dipinti. Nella tavola l’uomo è raffigurato con una mantella nera sopra un vestito azzurro e una giacca a strisce marroni e verdi. L’abito della donna doveva essere verde, ma appare ora diverso perché con gli anni il pigmento è virato sul bruno. L’architettura di sfondo di entrambi i dipinti non si collega a nessun modello dei palazzi veneziani, ma è un’ambientazione convenzionale che Palma utilizzò con lievi varianti in altri ritratti a mezza figura. Compiute solo in parte, queste due opere rivelano il procedimento del lavoro del Palma fatto di successive velature di colore, sopra la campitura larga e distesa della base, e i dettagli ricavati con la punta del pennello. Il modello a cui guarda l’artista in queste opere, anche se formalmente legato alla ritrattistica giorgionesca, è il giovane Tiziano di cui sa cogliere nel ritratto la dote introspettiva e il risalto formale del particolare analizzato dal vero. Le opere rimasero incompiute a causa dell’improvvisa morte del pittore il 30 luglio 1528. È quindi assai probabile che gli sposi abbiano richiesto ed ottenuto entrambe le opere subito dopo la morte del Palma. (BT) 159 X V. Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio Paola Priuli SALA DEGLI STUCCHI Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio Francesco Querini XVI. Sala da pranzo Decorata con gli affreschi Aurora di Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808) e Apollo e una Musa di Costantino Cedini (Padova, 1741 - Venezia, 1811) e con stucchi settecenteschi, illuminata da due eleganti lampadari in vetro di Murano, questa sala ospita parte della collezione di porcellane della famiglia. Protagonista è il prezioso servizio in porcellana di Sèvres acquistato a Parigi nel 1795-96 da Alvise Maria, ultimo ambasciatore della Serenissima Repubblica in Francia dal 1795 al 1797. Il servizio in porcellana a pasta tenera, composto da duecentoquarantaquattro pezzi e ancora oggi perfettamente intatto, presenta varietà di forme, perfetta doratura, minuziosa decorazione, colori puri e precisi, coperta limpida e brillante. Bande a bordo blu scuro, arricchite da roseaux d’oro, racchiudono riserve ornate con ramoscelli sparsi di campanule violacee e nontiscordardimé rosa, ornamento tipico nei servizi da tavola della tarda produzione settecentesca di Sèvres. Le forme del vasellame sono quelle di repertorio della manifattura e molte risalgono alla metà del Settecento. La maggior parte dei pezzi del servizio reca la marca della manifattura R.F. per République Française e la parola Sèvres, che aveva sostituito dal 1793 al 1800 la doppia L incrociata del monogramma reale. Si riscontrano inoltre diciassette sigle di pittori e doratori, tutti identificati. Sulla tavola, apparecchiata per otto persone, si possono ammirare piatti da coltello, da minestra e da antipasto, salsiere, compostiere e burriere. Fin dall’inizio della produzione di porcellana tenera, e più tardi anche di porcellana dura, i piatti da coltello vennero prodotti in gran numero dalla manifattura di Vincennes-Sèvres con le decorazioni 163 XVI. SA L A DA PR A NZO più svariate. Ogni pezzo veniva creato sia per servizi da pranzo o dessert, sia per essere venduto singolarmente. La forma dei piatti da minestra apparve per la prima volta nell’inventario della manifattura dell’ottobre 1752. Il modello del piatto da antipasto è ravier forme bateau. Per ravier si intendeva un piatto a forma di barca, che si portava in tavola con dei ravanelli o altri antipasti. Generalmente era in porcellana, faenza o vetro. Pot à jus o pot à sauce era il nome primitivo della salsiera, usata per consommé e jus de veau, nome che ha conservato per tutto il Settecento. Le salsiere in porcellana divennero oggetti di gran moda per decorare tavole illustri compresa la tavola del re. Nelle compostiere, che potevano presentare otto forme diverse, si servivano composte, frutta, dolci e creme. La coppia di burriere, dette anglais, modello tipico del periodo Luigi XVI, risponde al gusto tipico dell’epoca per lo stile inglese. Il servizio è accompagnato da figurine, gruppi e vasetti in biscuit di porcellana dura di gusto Luigi XV e Luigi XVI che ne costituiscono il surtout. Al centro della tavola viene presentato il gruppo Il trionfo della Bellezza, ideato da Louis-Simon Boizot (1743-1809) per la regina Maria Antonietta nel 1775-76, testimone prezioso dell’arte Luigi XVI a Sèvres e inno alla bellezza femminile. Lo accompagnano L’offerta all’Amore e L’offerta al Matrimonio, sempre creazioni di Boizot, seguite dall’elegante Ninfa Falconet, il cui modello è la Baigneuse, scultura in marmo di Falconet, oggi conservata al Louvre e dal 1759 riprodotta a Sèvres in biscuit. La Ninfa venne copiata dalle manifatture di Ludwigsburg, Zurigo, Copenhagen, Meissen e Berlino e il suo successo a Sèvres continua ancora oggi: la manifattura, che ne ha conservato gli stampi, la produce e la vende. Le due console settecentesche collocate ai lati del caminetto sono utilizzate come tavolini per i dessert e vi sono esposti piatti da pagina precedente: Servizio in porcellana di Sèvres Sala da pranzo Manifattura Vezzi Vaso biansato XVI. SA L A DA PR A NZO frutta, fragoliere, rinfrescatoi da gelato, vassoi con tazze da gelato e cestini da frutta. Una terza console serve come tavolo per le bevande con vari esempi di rinfrescatoi, una coppa da punch e un mortaio. Sulle mensole ancora biscuit del servizio di Alvise e figurine settecentesche delle manifatture di Nove e Vienna e un raro vaso biansato di Vezzi, ritenuto l’opera più prestigiosa della manifattura veneziana e databile al 1724-27. Il vaso presenta decorazioni in rilievo che ricordano i preziosi lavori di oreficeria, mentre la fascia centrale è ornata da fiori, libellule, uccelli e viticci dai tradizionali colori di Vezzi. Lo affiancano gruppi scultorei in porcellana bianca di Nove, periodo Antonibon (1782-1802), a soggetto bucolico. (EDC) Manifattura di Sèvres Rinfrescatoio per bottiglie da liquore, rinfrescatoio per gelato, piatto da frutta XVI. SA L A DA PR A NZO Un antico brindisi del XIV secolo suggerisce: “Chi ben beve ben dorme; Chi ben dorme mal no pensa; Chi mal no pensa mal no fa; Chi mal no fa in Paradiso va; Ora ben bevé che Paradiso averé”. Vino, pietanze, vasellame d’argento, bicchieri, trionfi ornavano le tavole dei veneziani fin dal Medioevo. In occasione dei banchetti pubblici o in particolari circostanze, i pranzi, per motivi di osservanza religiosa, si dividevano in pranzi di grasso e di magro. Le pietanze più ricercate nei banchetti di grasso consistevano in pollame e cacciagione, mentre in quelli di magro si prediligevano storioni, pesci di fiume, ostriche dell’arsenale, peoci (cozze) e rane. Sul finire del Settecento un convito si articolava in tre parti ben distinte: Ordever (hors d’oeuvre), che consisteva in tre o quattro piatti, Portade, che comprendevano dai dodici ai quattordici piatti e Portade dei frutti comprensive di latte e dolci. Manifattura di Sèvres Surtout 169 XVII. Sala mitologica Alcune delle più interessanti opere di carattere mitologico e allegorico della collezione dei Querini sono conservate in questa sala; essa evoca l’uso, tipico delle famiglie nobili veneziane, di adornare, nel XVII secolo, le loro stanze con favole e miti tratti dall’antico. Il soffitto, attribuito a Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808), presenta un rosone centrale a intonaco di calce, al centro del quale campeggia un lampadario a colonna con fiori policromi di vetro di Murano, risalente al XVIII secolo. Dal rosone partono delle fasce in marmorino bianco che spartiscono i riquadri a fondo rosa decorati a grottesche e strumenti musicali in stucco bianco. Entro due grandi ovali a fresco si fronteggiano in un monocromo grigio azzurro due divinità, da una parte Minerva, patrona delle arti e del commercio con i suoi attributi quali l’elmo, la civetta e lo scudo ornato dalla testa della gorgone Medusa e Nettuno, dio del mare, rappresentato sdraiato con il tridente e il delfino. In posizione opposta si distinguono le teste di Medusa, con la folta capigliatura di serpenti e di Ercole, con il capo coperto dalla pelle di leone. Completano la decorazione quattro esagoni dello stesso marmorino grigio azzurro ove sono rappresentati Mercurio, messaggero degli dei con il tipico cappello e i sandali alati, Esculapio, dio della medicina, ritratto come un vecchio sapiente con un bastone intorno al quale sta avvolto un serpente, Cerere dea delle messi e dell’agricoltura e un’esile figura femminile ignuda che probabilmente rappresenta la Verità. L’arredo, molto lineare, è composto da due tavoli e un salotto, tutti databili al XVIII secolo. Nella sala è conservata una delle più importanti opere di Sebastiano Ricci (Belluno, 1659 - Venezia, 1734). I Querini commissionarono al Ricci l’Allegoria del giorno tra il 1696 e il 1703, per 171 XVII. SALA MITOLOGICA abbellire il soffitto del “cameron della galleria”, una grande sala probabilmente al primo piano del Palazzo adibita a galleria d’arte dove erano esposte le tele più rappresentative della collezione familiare. Il pittore rappresenta i tre momenti del giorno: la tela principale, dalla forma rettangolare, il Meriggio, propone la lotta tra le divinità portatrici della luce e quelle alleate con le tenebre. Le prime, innondate di luce, scacciano con fasci di saette, i demoni della notte raffigurati con toni scuri e accompagnati da una civetta, animale notturno per eccellenza. Nell’Alba, di forma ovale, un giovane bruno cinto da un drappo rosso, insieme ad un piccolo putto, risveglia il mondo versando dell’acqua da un vaso, mentre un altro amorino, dai capelli biondi, sorregge la fiaccola della luce. L’ultimo ovale rappresenta la Sera, ove un giovane, con indosso un drappo ocra, lancia delle frecce appuntite nel tentativo di rimandare l’arrivo delle tenebre, aiutato da due piccoli putti, adagiati su una roccia. I corpi dei protagonisti trasmettono movimento e dinamismo all’intera composizione pittorica, evidenziandone l’apertura verso l’alto che ben si adattava all’originaria collocazione a soffitto. L’opera è sicuramente risalente al secondo periodo veneziano del Ricci e risente dell’eredità di Luca Giordano, raccolta durante la sua permanenza a Roma. Il quadro attribuito a Francesco Maffei (Vicenza, 1605 circa Padova, 1660) Milone da Crotone rappresenta una delle opere tarde del pittore databile intorno al 1657. La tela racconta un aneddoto riportato da alcuni storici antichi, tra cui Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historiae, la morte di Milone, famoso atleta della città di Crotone, vissuto nel VI secolo a. C., noto per la sua forza e prestanza fisica che gli valsero la vittoria in diverse discipline olimpiche. Milone, aggirandosi in un bosco vicino alla sua città, scopre una grande quercia spaccata da due cunei; decide di provare la sua forza togliendo i perni ma rimane imprigionato nel tronco, pagina precedente: Anonimo, Sibilla Eritrea Sebastiano Ricci Meriggio XVII. SALA MITOLOGICA in balia delle fiere che lo aggrediscono e lo uccidono. Nel quadro l’atleta prigioniero dell’albero è circondato da una serie di notabili e uomini in arme che rendono teatrale la scena. Milone, vestito soltanto di un drappo che ricorda i simboli di Ercole, guarda con coraggio e mestizia la piccola folla. Un altro dipinto degno di nota è Cefalo e Procri attribuito a Luca Giordano (Napoli, 1634-1705); il soggetto ebbe una discreta fortuna nel corso del XVII secolo, riprendendo il mito raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. La storia narra dell’amore coniugale del pastore Cefalo e della moglie Procri, che dopo drammatiche vicende si ricongiungono e godono dei doni che la dea Artemide ha voluto fare a Procri: un giavellotto infallibile e un cane di nome Lelapo, al quale nessuna preda può sfuggire. Il mito non ha un lieto fine: Procri, gelosa di Cefalo che alla fine di ogni partita di caccia invoca l’Aura per ringraziarla, scambiandola per una rivale in amore, segue di nascosto il marito durante la caccia e, celata dai cespugli, viene uccisa dal giavellotto infallibile. Il pittore napoletano fissa il mito in un momento felice, l’attimo in cui Procri, ricongiunta a Cefalo, gli dona il dardo e il fedele Lelapo che aveva precedentemente ricevuto in dono da Artemide. Il chiaroscuro intenso e la luminosità del volto e del braccio della giovane donna rendono l’opera uno dei migliori esempi della produzione veneziana di Luca Giordano. Curioso per il soggetto è L’uomo precipitato dai vizi di Pietro Liberi (Padova, 1614 - Venezia, 1687), di chiaro intento moraleggiante. La tela rappresenta un uomo fatto cadere dalle scale di un palazzo antico da una tornita e sfuggente Venere in primo piano e da un’altra giovane donna che gli spreme addosso un grappolo d’uva. Ai luminosi incarnati delle due fanciulle ignude fa da contrappunto un nano, scuro in volto vestito con i tipici colori del buffone che, tenendo in mano un mazzo di carte da gioco, assesta un poderoso calcio all’uomo. L’opera non riprende un vero e proprio mito Sebastiano Ricci Alba, Sera 175 XVII. SALA MITOLOGICA classico anche se tutta la critica ha riconosciuto nella giovane nuda in primo piano la figura di Venere, dea dell’amore e nell’altra figura femminile Arianna, guida di Teseo nel labirinto del Minotauro. Interessante il ciclo di dodici Sibille. Attribuite ad anonimo pittore veneto della seconda metà del Seicento, facevano parte dei beni di una villa di Lancenigo in provincia di Treviso, acquistata dai Querini alla fine del Seicento. Dalla documentazione pervenuta non è chiaro se questi quadri fossero stati portati dai Querini, oppure fossero appartenuti alla precedente proprietà. Il tema della Sibilla nel Seicento ebbe una vasta fama: le Sibille, nell’antichità erano delle vergini dotate di virtù profetica (famosa la Sibilla Delfica consacrata Indovina del Tempio di Apollo), successivamente furono accolte nella cultura cristiana come profetesse della venuta di Cristo e apparvero in diversi cicli pittorici in pendant con i profeti dell’Antico Testamento. Al di là dell’utilizzo per ampi complessi figurativi, le Sibille vengono rappresentate anche in cicli domestici e in tele di piccole dimensioni. (DDD) Il Meriggio, dal latino meridie(m) che significa mezzogiorno, è il simbolo della luce nella sua pienezza fisica e spirituale, la natura si arresta, il tempo sembra fermarsi. Sala mitologica Pietro Liberi L’uomo precipitato dai vizi 177 Francesco Maffei Milone da Crotone XVII. SALA MITOLOGICA Luca Giordano Cefalo e Procri Anonimo veneto Sibille 181 Area Carlo Scarpa Carlo Scarpa (Venezia, 1906 - Sendai, 1978) è una delle figure più interessanti della scena architettonica italiana del Novecento. Personaggio controverso, spesso osteggiato, fu intellettuale dalla personalità eclettica; coltivò i suoi interessi attraverso molteplici e assidue frequentazioni con artisti e studiosi. Importante anche la sua attività di designer per oggetti in argento e tessuti, ma soprattutto il suo ruolo di consulente artistico, dal 1933 al 1947, per la vetreria Venini di Murano: al suo personale gusto sono dovuti alcuni dei vetri più originali della storia del design. L’intervento realizzato alla Fondazione tra il 1961 e il 1963 interessa parte del piano terra del Palazzo, il giardino situato sul retro e l’antica scala principale fino al primo piano. Il progetto, destinato a rendere maggiormente fruibile quest’area, trova una soluzione ai tipici problemi lagunari dell’alta marea e dell’umidità costante, e crea uno spazio espositivo, per convegni e altre iniziative culturali. L’opera di Carlo Scarpa può ricondursi a quattro temi fondamentali: il ponte di accesso, l’ingresso e la porta d’acqua, il portego e il giardino. Con il nuovo ponte, montato in poche ore, Scarpa risolve il problema dell’angusto accesso preesistente, posto su una calle laterale, spostandolo sul fronte del Palazzo, in campiello Querini, modificando una finestra per ricavarne la porta. Il ponte è costruito principalmente in legno, con un parapetto minimale in ferro e corrimano ligneo: un arco tesissimo che riesce a superare mirabilmente il delicato tema della differenza di quota. I disegni conservati dalla Fondazione su questo tema sono numerosissimi, ma chissà quanti altri ne avrà fatti Scarpa, che, in contrasto con la 183 A R E A C A R L O S C A R PA cura maniacale che usava nello scegliere la carta da disegno, era solito usare per i suoi schizzi qualsiasi supporto gli capitasse sotto mano, compresi i pacchetti delle sue adorate Muratti. La sala a cui si accede varcando il ponte è caratterizzata dal pavimento in marmo policromo, che entra in risonanza con il soffitto in stucco rosso lucido tirato a spatola. La luce entra prepotentemente attraverso le cancellate sul canale, poste a sostituzione dell’antica porta d’acqua, indugiando sulla pavimentazione in lastre di pietra d’Istria e sulla tessitura delle pareti in mattoni. La cerniera tra l’atrio sul canale e la sala intitolata a Gino Luzzatto, già rettore dell’Università di Venezia e presidente della Fondazione dal 1950 al 1964, è rappresentata dall’involucro in cristallo e pietra d’Istria, impreziosito da un motivo a foglia d’oro, che riveste l’elemento del termosifone. Scarpa risponde così ad una questione funzionale con l’immissione di un elemento plastico. La sala Luzzatto rappresenta un’attenta rilettura del portego, che relazionava il cortile interno con il canale. L’effetto prospettico suggerito dai profili in ottone, appositamente predisposti per le esposizioni temporanee, e dalle grandi lastre di rivestimento in travertino delle pareti, è bilanciato dalle paraste luminose in vetro opacizzato e dalla partizione del pavimento in lastre di calcestruzzo lavato, scandite da una maglia modulare in pietra d’Istria. Vi è una fortissima continuità organica tra i molteplici elementi che compongono la spazialità della sala, tanto che anche la porticina laterale è appena percepibile in quanto a sua volta lastra in travertino, incernierato a scomparsa. La porta chiusa disegna una S, che ci fa pensare a una discreta firma dell’architetto. Una parete-porta in cristallo separa virtualmente il portego dal piccolo giardino, che conclude la visione prospettica assumendo il significato di un’estensione naturale della sala. Scarpa organizza questo spazio verde, delimitato da un alto muro pagine precedenti: Carlo Scarpa, Atrio e “Fondamenta” Carlo Scarpa “Fondamenta”, particolare 185 Carlo Scarpa “Edicola” copricalorifero Carlo Scarpa Aula Luzzatto, particolare A R E A C A R L O S C A R PA perimetrale, come uno dei momenti fondamentali del suo progetto di restauro. Il prato, contenuto da un muretto in calcestruzzo, si presenta sopraelevato rispetto al livello della sala Luzzatto ed è attraversato da un canale d’acqua che, partendo da una labirintica scultura in marmo, scorre sino a scendere in un gocciolatoio di pietra d’Istria posto sotto una vera da pozzo, usata come elemento decorativo. Sulla sinistra, adiacente il muro in calcestruzzo che separa il giardino dal cortile, decorato con il mosaico di Mario De Luigi, colloca una vasca d’acqua in tessere vitree e cemento, all’interno della quale ne pone una seconda di rame. Le specie botaniche selezionate dallo stesso architetto, e negli anni ripristinate, sono da considerarsi veri e propri materiali costitutivi del progetto. (TB) Carlo Scarpa Aula Luzzatto, particolare Carlo Scarpa Giardino, particolare 187 A R E A C A R L O S C A R PA Carlo Scarpa Giardino, particolari 189 191 Pagina precedente: Mario Botta Auditorium G. Piamonte Mario Botta Auditorium G. Piamonte, Particolare 193 Mario Botta Auditorium G. Piamonte I servizi: caffetteria e bookshop 195 Restauri e benefattori dal 1980 Per i restauri si ringraziano: Amici della Querini Stampalia Associazione Amici dei Musei e Monumenti Veneziani Banca Intesa Banco San Marco Mina Bianchi Cassa di Risparmio di Venezia Comitato francese per la Salvaguardia di Venezia (Solange Gaussen) Fondazione Ercole Varzi Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti Magazzini Le Printemps, Parigi Ministero per i Beni e le Attività Culturali,Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e Laguna Presidenza del Consiglio dei Ministri Regione del Veneto Save Italian Art Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Venezia Venice Committee International Fund for Monuments, Inc. Per le donazioni si ringraziano: lo straordinario numero di persone che hanno permesso la costituzione del fondo di arte contemporanea “Giuseppe Mazzariol” Ambasciata indiana a Roma Margherita Andreu Stefano Arienti Loredana Balboni Carla Bernardi Carlo Dalla Zorza Vivian Albert Daniels Eredi Da Venezia Eredi De Giudici Eugenio Da Venezia Nulla Romanidi Dazzi e Carlo Dazzi Elisabetta Di Maggio Josef Albers Foundation Galleria Michela Rizzo Joseph Kosuth Paola Levi Costantina e Franca Mariuzzo Margherita Galante Menini Maria Morganti 197 Indice dei nomi Renato Padoan Giannina Piamonte Sofia Postai Remo Salvadori Giovanni Sarpellon Mariateresa Sartori Maria Vittoria Querini Scelsi Mario Stefani Armando Tonello Italo Valenti Alberta Viola Per l’allestimento del Museo si ringraziano: Banco Popolare – gruppo bancario Cassa di Risparmio di Venezia Sonia Guetta Finzi Jesurum Mario Levi Morenos Marisa Nardini Giampaolo Nason Pauly & C.V.M. Presidenza del Consiglio dei Ministri Rubelli S.p.a. Leonardo Trevisan A Adéagbo, Georges 25 Alessandri, Angelo 35 Amigoni, Jacopo 137 Antonibon Manifattura di 167 Arienti, Stefano 25 B Barbari, Jacopo de’ 33 Barbarigo, famiglia 79 Barbarigo, Gregorio 81 Barbieri, Giovanni Francesco, v. Guercino Bassano, Jacopo 25, 65 Bella, Gabriel 23, 33, 112-116, 118-121 Bellini, Giovanni 50-57 Bellini, Jacopo 55 Bellini, Nicolosia 55 Berenson, Bernard 53 Berlino Manifattura di 107, 165 Bernini, Gian Lorenzo 25 Bertaldo, miniatore 137 Bertola, Chiara 41 Bison, Bernardino Giuseppe 14, 43 Blaeu, Willem 46-47 Boizot, Louis-Simon 165 Bolckman Peeter 100-101 Boldù, Roberto 33 Bombelli, Sebastiano 21, 86-89, 141-142, 145 Bonaparte, Letizia, v. Ramolino Bonaparte, Letizia Bordiga, Giovanni 35-36, 109-110 Botta, Mario 15, 18, 190-193 Boulle, Charles André 91 Briati, Giuseppe 47 Brustolon, Giambattista 115, 121 Busetto, Giorgio 15, 30 C Caccavale, Giuseppe 24-25 Canal, Antonio, v. Canaletto Canaletto, Antonio Canal detto Canaletto 101, 115, 121, 127 Canova, Antonio 96-97 Carlini, Giulio 33 Carriera, Rosalba 137 199 Cassana, Giovanni Francesco 89 Cassana, Nicolò 21, 89, 92 Cassetti, Giacomo 33, 44-45 Castelli, Bernardino 145 Castelli, Giuseppe 14, 43, 45, 156-158 Castelli, Pietro 14, 43, 45, 156-158 Catarino 58-60 Catena, Vincenzo 61, 65-66 il Cavalier Tempesta, Pieter Mulier 101 Cedini, Costantino 163 Ceresa, Carlo 151 Cervelli, Federico 122-125 Cesarotti, Melchiorre 27 Cherea, Francesco 158 Ciardi, Guglielmo 109, 111 Coducci, Mauro 12 Contarini Querini, Caterina 137 Contarini, Giulio 97 Conti, Antonio 22 Cooper, Albert 85 Copenaghen Manifattura di 165 Correr, Piero 97 Cozzi Manifattura di 107 Crespi, Giuseppe Maria 131 D Dagoty Manifattura di 107 Dazzi, Manlio 29, 36-37 Della Vecchia, Pietro 135-136 De Luigi, Mario 187 Di Maggio, Elisabetta 25, 102-103 Dinastia Qing 153 Donà delle Rose, famiglia 79 Dolfin, Daniele IV 149, 152 Dolfin, Daniele I 151 Dolfin Lippomano, Cecilia 149 Donato 58-60 E Essen, Hans van 135, 138 F Fabris, Michele detto l’Ongaro v. Ongaro, Michele Fabris detto l’ Fabris, Placido 55 Falconet, Étienne-Maurice 165 Federico Cristiano, elettore di Sassonia 97 Federico II, re di Prussia 27 Federico IV, re di Danimarca e Norvegia 152 Ferdinando III, imperatore del Sacro Romano Impero 151 Ferniani Manifattura di 106 Forabosco, Girolamo 90-91 Foscarini, Marco doge 22 Fra Galgario, Ghislandi Vittore detto 89 Fratelli Darte Manifattura di 107 G Gemin, Mario 41 Ghislandi, Vittore, v. Fra Galgario Giachino, Anna Maria 139 Giambono Michele 59-60 Giannetti, Raffaele 33 Giordano, Luca 91, 173, 175, 178 Giorgione 59, 61 Giustinian famiglia 23 Gobbetto, Walter 19 Goldoni, Carlo 22, 83 Gotha Manifattura di 107 Gradenigo, Pietro doge 11 Guarana, Jacopo 14, 43-45, 73, 129, 131-132, 141, 148-149, 151, 163, 171 Guarana, Vincenzo 14 Guardi, Francesco 127 I Innocenti, Camillo 104-105, 107 J Jappelli, Giuseppe 37, 94-96 K Kaiser, Martinus 83-85 Kändler, Johann Joachim 105 Kosuth, Joseph 19-20, 22 L Liberi, Pietro 175-176 Lippomano Querini Stampalia, Maria Teresa 13, 43, 129 Longhena, Baldassarre 151 Longhi, Alessandro 137 Longhi, Pietro 22, 33, 74, 76-83, 130-131 Lorenzetti, Giulio 35, 137 Lorenzo di Credi 131, 133 Lucetti, Giambattista 33 Ludwigsburg Manifattura di 165 Luigi XVI, re di Francia 165 Luti, Benedetto 141 Luzzatto, Gino 14, 185 M Maffei, Francesco 173, 178 Manfredini, Luigi 153-154 Mann, Thomas 139 Mantegna, Andrea 53-55 Maria Antonietta, regina di Francia 165 Maria Leopoldina, arciduchessa d’Austria 151 Marieschi, Michele 127 Marin, Marianna 33 Marinali, Orazio 21, 45 Mazzariol, Giuseppe 14-15, 30 Meissen Manifattura di 96-97, 105-106, 165 Medardo Rosso v. Rosso, Medardo Medulich, Andrea v. Schiavone lo Milesi, Alessandro 107-109 Milone da Crotone 173 Mocenigo, Alvise 97 Moia, Federico 33 Molenaer, Bartholomeus 137 Monico, Jacopo, patriarca dal 1827 al 1851 14, 153 Montesquieu, Charles Louis de 22 Morandi Padoan, Ada 105 Morganti, Maria 25 Moschini, Vittorio 37 Mulier, Pieter, v. il Cavalier Tempesta N Namias, Giacinto 33 Napoleone I, imperatore 97 Nazari, Bartolomeo 141-143, 145 Negretti, Jacopo, v. Palma il Giovane Negretti, Jacopo, v. Palma il Vecchio Newton, Charles 22 Nogari, Giuseppe 137-139 Nove Manifattura di 167 O Ongaro, Michele Fabris detto l’ 21, 33, 44-45 Ovidio 175 P Padoan, Renato 105 Padoan, Romano 105 Palladio, Andrea 151 Palma il Giovane, Jacopo Negretti detto 33, 64, 68-71 Palma il Vecchio, Jacopo Negretti detto 13, 19, 21, 59-61, 64, 71, 159-161 Paolo Veneziano 59 Paolo Veronese 65, 73 Parmigianino 69 Pasini Alberto 109-110 Pasquetti, Fortunato 145-146 Pastor, Valeriano 15, 18-19 Pelliccioli, Mauro 57 Perosa, Leonardo 29 Pitati, Bonifacio de’ 13, 61 Plinio il Vecchio 173 Polcastro, Gerolamo 95 Polidoro di Mastro Renzo da Lanciano 61-65 Pordenone il 69 Poussin 131 Priuli, Francesco 159 Priuli Querini, Paola 19, 159-160 Q Querini, Andrea Domenico 14, 22-23, 27, 79, 83, 85, 97, 113, 131 Querini, Angelo Maria (n. Gerolamo Guerrino) 12, 22, 27, 44-45, 141-143, 145 Querini, Cecilia 85 Querini, Francesco 12, 19, 21, 61, 158, 161 Querini Francesco Melchiorre 45 Querini, Gerolamo Domenico 21-22, 47, 86-87, 89, 141-142 Querini, Marco 11 Querini, Nicolò 12 Querini, Polo Marco 21-22, 47, 87-89 Querini, Zanachi v. Querini, Zuanne Querini, Zuan Francesco 22, 149 201 Querini, Zuanne 11 Querini Zuanne Antonio 13-14, 129-130 Querini, Zuanne Carlo 12, 22, 85, 149 Querini, Zuanfrancesco 13 Querini Stampalia, Alvise Maria 11, 13, 23, 27, 43, 127, 129-131, 163, 167 Querini Stampalia, Andrea Maria 145 Querini Stampalia, Giovanni 10-12, 14, 23, 28-29, 33, 36, 41, 43, 95, 97, 149 Querini Stampalia, Gerolamo Ludovico 127, 145-146 Querini Stampalia Polcastro, Caterina 95 Querini Valier, Elisabetta 21, 89, 92 R Raffaello Sanzio 69 Ramolino Bonaparte, Letizia 96-97 Reni, Guido 153 Rembrandt 91 Ribera, Giuseppe, v. Spagnoletto Ricci, Marco 41, 91, 126-127 Ricci, Sebastiano 22, 89, 91, 171-174 Rossi, Davide 14 Rossi, Luigi 33 Rosso, Medardo 109-110 Rubens, Pieter Paul 65, 91 Ruschi, Francesco 125 Ruskin, John 19 Ruysch, Rachel 135 S Sagredo, Agostino 33 Salvadori Remo 24-25 Sansovino, Jacopo Tatti detto il 151 Sanudo, Marin 158 Sartori, Domenico 14, 43 Sartori, Giovanni Battista 97 Sartori, Mariateresa 25 Scardona, Rosa da 65 Scarpa, Carlo 14-18, 53, 180-189 Schiavone, Andrea Medulich detto lo 65, 69-70 Schlaggenwald Manifattura di 107 Scrinzi, Angelo 35 Segarizzi, Arnaldo 27, 29 Selvatico, Lino 109-110 Bibliografia essenziale Sèvres Manifattura di 105-106, 162-169 Solari, Antonio 14, 43 Spagnoletto, Giuseppe Ribera detto 91 Spinell 139 Stom, Antonio 97-99 Strozzi, Bernardo 64-65, 89 Sweerts, Michael 136-137 Carlo Scarpa alla Querini Stampalia. Disegni inediti, a cura di M. Mazza, Venezia, Il Cardo, 1996 T Tatti, Jacopo detto il Sansovino v. Sansovino Tiepolo, Bajamonte 11 Tiepolo, Giambattista 149-151 Tintoretto 65, 71, 73, 91 Tintoretto, Jacopo v. Tintoretto Tononi, Carlo 83, 85 Trevisani, Francesco 141 Trincanato, Egle Renata 15 Tron, Chiara 22 Carlo Scarpa: l’opera e la sua conservazione. Giornate di studio alla Fondazione Querini Stampalia, VII.2004, a cura di M. Manzelle, Mendrisio, Mendrisio Academy press, 2005 U Uberti, Pietro 149 Ungher, Gustavo Adolfo 29 V Valier, Silvestro 21, 89, 92 Vaugondy, Gilles Robert de 157-159 Vecellio, Marco 21, 65, 67 Vecellio, Tiziano 65, 73, 91, 159 Venini S.p.A. 183 Verrocchio, Andrea 133 Vezzi Manifattura di 166-167 Vianello, Girolamo 14, 43 Vienna Manifattura di 107, 167 Vincennes-Sèvres Manifattura di 163 Viviani, Luigi 33 Voltaire 22, 27 Z Zais, Giuseppe 127 Zuccarelli, Francesco 127 Zugno, Francesco 151 Zurigo Manifattura di 165 Carlo Scarpa: l’opera e la sua conservazione. Giornate di studio alla Fondazione Querini Stampalia, I.1998/III.2000, a cura di M. Manzelle, Milano, Skira, 2002 Cento scene di vita veneziana. Pietro Longhi e Gabriel Bella alla Querini Stampalia, a cura di G. Busetto, Venezia Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1995 Dei ed eroi del Barocco veneziano. Dal Padovanino a Luca Giordano e Sebastiano Ricci, a cura di G. Busetto, Catania, Maimone, 2004 Donazione Eugenio Da Venezia. Le recenti acquisizioni, a cura di E. Dal Carlo, Venezia, Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1994 Eugenio Da Venezia. La donazione alla Querini Stampalia, Milano, Electa, 1990 A. Fancello, Per un profilo di Giovanni Querini Stampalia. Tesi di laurea, relatore G. Pizzamiglio, [S.l., s.n., 2003] Fondazione scientifica Querini Stampalia, Archivio privato della famiglia Querini Stampalia. Inventario, a cura di D. V. Carini Venturini, R. Zago, Venezia, Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1987 Fondazione scientifica Querini Stampalia, Gli arredi della Fondazione Querini Stampalia, [testi E. Dal Carlo, Venezia, Fondazione Querini Stampalia, 2005] Fondazione scientifica Querini Stampalia, Catalogo del fondo cartografico queriniano, a cura di G. Mazzariol, Venezia, Lombroso, 1959 203 Fondazione scientifica Querini Stampalia, Catalogo della pinacoteca della Fondazione scientifica Querini Stampalia, a cura di M. Dazzi e E. Merkel, prefazione di R. Pallucchini, Vicenza, Neri Pozza, 1979 Fondazione scientifica Querini Stampalia, Il libro dei Querini nel Settecento, nota introduttiva, catalogo e appendice documentaria a cura di G. Busetto, Venezia, Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1973 Fondazione scientifica Querini Stampalia, La Presentazione di Gesù al Tempio di Giovanni Bellini, [testi B. Trevisan, Venezia, Fondazione Querini Stampalia, 2007] Giuseppe Mazzariol: 50 artisti a Venezia, a cura di C. Bertola, Milano, Electa, 1992 Mario Botta. Luce e gravità. Architetture 19932003, a cura di G. Cappellato, Bologna, Compositori, 2003 Nella casa di un uomo prudente. Carlo Goldoni in visita alla famiglia Querini, a cura di M. Lazzari, Venezia, Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1993 Le porcellane dei Querini Stampalia, a cura di E. Dal Carlo, [Venezia], Fondazione Querini Stampalia, 2002 Le porcellane dell’ambasciatore, a cura di E. Dal Carlo, Venezia, Arsenale, 1998 I Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia nel settecento veneziano, a cura di G. Busetto, M. Gambier, Venezia, Fondazione scientifica Querini Stampalia, 1987 Valeriano Pastor alla Querini Stampalia, a cura di M. Michelotto Pastor, L. Taddei, [scritti di M. Folin…et al.], Padova, Il Poligrafo, 2000 Finito di stampare nel mese di gennaio 2010 nello stabilimento delle Grafiche Vianello Ponzano, Treviso