Museo Querini Stampalia Venezia a cura di Babet Trevisan

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Museo Querini Stampalia Venezia a cura di Babet Trevisan
Museo Querini Stampalia
Venezia
a cura di
Babet Trevisan
Fondazione Querini Stampalia
Onlus
Museo Querini Stampalia
Venezia
Fondazione Querini Stampalia
Onlus
Consiglio di Presidenza
Presidente
Marino Cortese
Direttore
Enrico Zola
Vice presidente
Antonio Foscari
Marigusta Lazzari
Consiglieri
Giovanni Castellani
Davide Croff
Irene Favaretto
Revisori dei conti
Roberto Parro
Giancarlo Tomasin
Ente tutore
Istituto Veneto di Scienze
Lettere ed Arti
Leopoldo Mazzarolli, Presidente
Circolo Queriniano
Comune di Venezia
Consorzio Venezia Nuova
Fondazione ENI Enrico Mattei
Fondazione di Venezia
FURLA S.p.a.
Insula S.p.a.
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Provincia di Venezia
Regione del Veneto
Rubelli S.p.a.
SIPCAM S.p.a.
Federico Acerboni
Andrea Bellemo
Gabriella Berardi
Tiziana Bottecchia
Lucia Marina Broccato
Marcellino Busato
Cristina Celegon
Barbara Colli
Elisabetta Dal Carlo
Dora De Diana
Massimo Donaggio
Antonio Fancello
Neda Furlan
Angelo Mini
Angela Munari
Barbara Poli
Barbara Rossi
Marta Savaris
Babet Trevisan
Anna Francesca Valcanover
Chiara Bertola
Monica Bertello
Sara Bossi
Alessandra Breda
Anna Fantelli
Elisa Ghisu
Alessandro Marinello
Alvise Rabitti
Giovanni Rosa
Geraldine Testa
Onorato Zustovi
a cura di
Babet Trevisan
testi di
Enrico Zola
Babet Trevisan
schede di
Tiziana Bottecchia (TB)
Elisabetta Dal Carlo (EDC)
Dora De Diana (DDD)
Babet Trevisan (BT)
referenze fotografiche
Joerg P. Anders. ©2005. Foto Scala, Firenze/
BPK
Andrea Avezzù
Cameraphoto Arte
Francesco Castagna
Attilio Maranzano
ORCH_Chemollo
fototeca
Gabriella Berardi
Marcellino Busato
bibliografia essenziale
Barbara Colli
progetto grafico
Studio Camuffo
indice dei nomi
Cristina Celegon
impaginazione
Karin Pulejo, Studio Camuffo
Grafiche Vianello
ISBN: 978-88-7200-321-3
coordinamento editoriale
Marigusta Lazzari
Iniziativa realizzata con il contributo
della Regione del Veneto,
ai sensi della L.R. n. 50/1984, art. 44
Le attività della Fondazione Querini Stampalia
sono sostenute da:
Silvia De March
Laura Pertot
Silvia Zanrosso
in copertina:
Giovanni Bellini, La Presentazione di Gesù
al Tempio, particolare
Copyright © 2010 Vianello Libri, Ponzano (Tv)
Copyright © 2010 Fondazione Scientifica
Querini Stampalia onlus, Venezia
la Fondazione è a disposizione
per eventuali crediti fotografici non indicati
Gentili visitatori,
ho il piacere di presentare la guida breve al nostro Museo, pensata per
accompagnarvi nella visita, ma anche come ricordo dei percorsi museali.
Da molti anni sentivamo il bisogno di uno strumento come questo; il catalogo del Museo fu pubblicato nell’ormai lontano 1979 ed è di difficile reperimento. Inoltre, nel corso degli anni, varie scoperte d’archivio o ricerche
iconografiche hanno condotto al cambiamento di attribuzione e datazione
dei dipinti della collezione di famiglia e di questo, come anche dei molti
altri cambiamenti architettonici della Fondazione e dei nuovi servizi al
pubblico, volevamo dare notizia in un’unica pubblicazione. Il volume non
sostituisce il catalogo scientifico, ma è una guida completa, se pur breve
e divulgativa, a quello che riteniamo maggiormente interessante del nostro patrimonio. Ci è caro dedicare questa nuova opera alla memoria del
nostro Fondatore, Giovanni Querini Stampalia, scomparso 140 anni or
sono, il 25 maggio 1869.
Potrete così girare per le sale del Palazzo virtualmente accompagnati dai
nostri conservatori, autori dei vari testi, che hanno cercato di rendere piacevole la descrizione degli ambienti e che hanno voluto, inoltre, offrirvi alcune curiosità non solo sulle opere esposte, ma anche sulla vita della Serenissima. Le piantine vi aiuteranno nel percorso allestitivo, che vi porterà in
un viaggio nel tempo: dalla casa settecentesca dei Querini Stampalia, con
la sua biblioteca al primo piano, e la dimora storica al secondo piano, all’architettura contemporanea di Carlo Scarpa, Valeriano Pastor e Mario Botta.
Vi auguro una buona visita.
Marino Cortese
Presidente della Fondazione Querini Stampalia
Venezia, 25 maggio 2009
Il senso del sostegno offerto alla Fondazione Querini Stampalia per pubblicare la guida alle collezioni della sua celebre Pinacoteca va al di là del
ruolo istituzionale ricoperto dalla Regione nel promuovere il sistema dei
nostri musei, privati o pubblici che siano, attraverso quanto dispone la
legge regionale 5 settembre 1984 n. 50 “Norme in materia di musei, biblioteche e archivi di enti locali o di interesse locale”. Il fatto è che il momento
della pubblicazione di un volume che illustri il complesso di un’istituzione
culturale, sia dal punto di vista storico sin dalla sua fondazione sia per
i beni in essa conservati, rappresenta un impegno importante nei confronti del pubblico e, soprattutto, un segno di grande attenzione nei suoi
confronti al fine di rendergli amichevolmente accessibile l’incontro con il
museo. Come viene concepito questo strumento di comunicazione (e di
una comunicazione che deve essere qualcosa di più rispetto ad un catalogo
scientifico, la cui redazione è prevalentemente orientata alla consultazione
da parte di studiosi) costituisce, per questo motivo, un elemento di valutazione del raggiungimento di standard di qualità gestionali. Non a caso,
infatti, all’interno del noto documento di indirizzo emanato nel 2001 dal
Ministero per i Beni e le Attività culturali per indicare i criteri tecnicoscientifici e gli standard di sviluppo e di funzionamento dei musei, l’ambito
VII, dedicato ai “Rapporti del museo con il pubblico e relativi servizi”,
invita a predisporre una serie di strumenti per favorire la lettura critica
delle opere presentate e, tra questi, le guide brevi e il catalogo scientifico.
Ci ha onorato il fatto che la Fondazione abbia chiesto alla Regione di essere partner istituzionale nella realizzazione di quest’opera. Lo abbiamo
colto come un segnale di attenzione rispetto alla nostra missione, tesa ad
avvicinare, attraverso iniziative differenziate, il pubblico, sia locale sia turistico, alla conoscenza del ricco patrimonio culturale conservato negli oltre
trecento musei del Veneto. La qualità della pubblicazione si coglie ampiamente non solo nel rigore scientifico dei testi e del progetto culturale ad essa
sottesi, ma anche nella ricchezza delle immagini che avranno il compito di
restituire la memoria delle emozioni che ogni visitatore proverà nell’entrare nella casa del conte Giovanni, ultimo discendente della famiglia patrizia
dei Querini Stampalia, ritrovando il sapiente equilibrio tra una dimensione spaziale e percettiva rimasta domestica e una godibilità pensata secondo
i più moderni parametri della fruizione museale di qualità.
Angelo Tabaro
Segretario Regionale Cultura
Regione del Veneto
Sommario
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La Fondazione Querini Stampalia
Enrico Zola
Restauri e allestimenti storici del Museo
Babet Trevisan
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53
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79
87
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105
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IL MUSEO
I. Portego
II. Sala Giovanni Bellini
III. Sala delle tavole
IV. Sala della Maniera
V. Sala della musica
VI. Sala dei ritratti
VII. Salotto Giuseppe Jappelli
VIII. Sala Ottocento
IX. Scene di vita veneziana
X. Studiolo
XI. Camera da letto
XII. Boudoir
XIII. Salotto rosso
XIV. Salotto verde
XV. Sala degli stucchi
XVI. Sala da pranzo
XVII. Sala mitologica
183
A rea C arlo S carpa
1 97
199
203 Restauri e benefattori dal 1980
Indice dei nomi
Bibliografia essenziale
La Fondazione Querini Stampalia
Il Conte Giovanni (1799-1869), ultimo discendente dei Querini
del ramo Stampalia, lasciò in eredità nel 1868 alla sua Venezia
tutti i suoi averi: lo storico palazzo di famiglia, terre, case, libri,
quadri, mobili, oggetti d’arte, monete, stampe. Con l’estinzione
dei Querini e il conseguente passaggio a Fondazione di tutto il
patrimonio, si è realizzato un raro esempio di conservazione dei
beni di una famiglia di antichissime e nobili origini. La famiglia
Querini, annoverata tra le dodici casate apostoliche, le più insigni
fondatrici della città lagunare, faceva parte dei governanti, del
patriziato, cioè di coloro che occuparono ereditariamente l’area
del potere. La partecipazione nel 1310 di Marco Querini alla
drammatica congiura ordita da Bajamonte Tiepolo contro il doge
Pietro Gradenigo segnò la loro storia, macchiando il nome della
casata, che venne esclusa per sempre dal dogado.
Nel XIV secolo Zuanne Querini riuscì ad acquistare l’isola di
Astipalea nell’Egeo e da questo feudo deriva il titolo di Stampalia,
titolo che solo nel 1808 venne usato da Alvise Querini alla corte
napoleonica di Milano per distinguersi da un suo omonimo, l’ambasciatore del Regno di Sardegna. Da allora il doppio cognome è
rimasto ad indicare prima la famiglia, oggi la Fondazione.
Nel secondo Settecento, il patriziato veneziano appariva suddiviso – di fatto se non di diritto – in tre fasce “sociali”: i “grandi”, con
il massimo delle disponibilità economiche e quindi con le maggiori disponibilità di gestione del governo; i “quarantiotti” mediani
di facoltà economiche e mediani di potere; i “barnaboti”, decisamente più poveri di sostanze e decisamente poveri di potere pur
se appartenenti anch’essi al corpo sovrano e sedenti in Maggior
Consiglio.
Pittore veneto
Giovanni Querini Stampalia
11
la fondazione querini stampalia
I Querini di Santa Maria Formosa facevano parte dei “grandi” e
con la generazione che si era dipartita da Zuanne Carlo (fratello
del celebre cardinale Angelo Maria) entrarono nel gruppo di coloro che di fatto guidavano il Governo della Serenissima. Erano
di Santa Maria Formosa perché nel Cinquecento i Querini costruirono in quel luogo, dove già possedevano nel Trecento alcune
case, un palazzo ispirato all’architettura di Mauro Coducci, architetto che a Venezia aveva già progettato diverse opere come Ca’
Vendramin Calergi, la chiesa di San Zaccaria, la chiesa di San
Giovanni Evangelista (Scuola Grande), la chiesa di Santa Maria
della Visitazione (Pietà), la chiesa di Santa Maria Formosa.
Come indicato nel testamento del fondatore questo Palazzo è tuttora la sede della Fondazione omonima che vi ha allestito la Biblioteca al primo piano, già appartamento del Conte Giovanni,
il Museo al secondo piano, che era stato sede patriarcale nella
prima metà dell’Ottocento, e un’area per esposizioni al terzo.
I L PA L A Z Z O
Un documento del 1514 ci attesta l’inizio dei lavori per la realizzazione del nuovo Palazzo commissionato da Nicolò Querini (1442
circa - post 1514). I lavori intrapresi da Nicolò proseguirono con il
nipote Francesco (1503 circa - 1554) che per circa un trentennio
registrò nella sua contabilità numerose “spese fatte per la chaxa
dove si abita”.
Gli interventi riguardarono sia la sistemazione degli interni, come
nella “chamera granda”, sia quella del prospetto sul campiello,
probabilmente conclusasi nel 1524 con la messa in opera di due
balconate ai “pergoli”.
Tra il 1515 e 1528 sono indicati infatti nei registri di spesa lavori
di ampliamento, riparazione e abbellimento del Palazzo, da cui
si evince che Palma il Vecchio, e dopo la sua morte la sua bottega, e segnatamente Bonifacio de’ Pitati intrattennero continuamente rapporti professionali con la famiglia.
Il crescente prestigio dei Querini nei primi decenni del Cinquecento, spinse la famiglia a realizzare nella dimora una nuova serie di migliorie, tuttavia le scelte operate negli anni dai diversi
committenti manifestano la mancanza di un progetto unitario
di trasformazione, abbellimento e aggiornamento della dimora e
sottolineano un modo di procedere per aggregazioni, attraverso
una successione di interventi parziali decisi secondo una logica di
“diligente economia”.
Il Palazzo di residenza crebbe, si sviluppò, si riarticolò e si abbellì
nel tempo con annessioni di proprietà contigue e sopraelevazioni, venne diviso in appartamenti e a volte venne parzialmente
affittato.
I documenti d’archivio non riportano novità di rilievo fino al 1614
quando Zuanfrancesco (1554-1621) decise di acquistare da un suo
lontano parente una casa da stazio identificabile con l’edificio
preesistente all’odierna ala orientale del Palazzo, cioè quella direttamente prospiciente il campo di Santa Maria Formosa.
Venne effettuato un ulteriore acquisto a confine nel 1654 (edificio
tutt’ora esistente dirimpetto al Palazzo, sull’altra riva del rio) e tra
il 1660 e il 1710 è probabile che siano avvenute delle risistemazioni
e l’unificazione delle due antiche case da stazio cinquecentesche.
Mediante un ponte aereo a cavallo del rio, il Palazzo venne collegato alla casa antistante sul campo, e questa direttamente alla
chiesa parrocchiale, alla quale dunque nel Settecento la famiglia
accedeva direttamente da casa senza uscire in campo.
Un vero rinnovamento radicale del Palazzo si svolse tuttavia solo
nella seconda metà del Settecento, in occasione del matrimonio
tra Alvise (1758-1834), uno dei figli di Zuanne, e Maria Teresa Lippomano. Vennero modificati gli spazi interni, ridotte le
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la fondazione querini stampalia
dimensioni delle sale, commissionati nuovi cicli pittorici, ma non
venne alterata la cinquecentesca facciata esterna. In un momento di declino della città aggiornamenti e novità infatti potevano
coinvolgere i luoghi del privato uso quotidiano ma non l’immagine esterna di una dimora patrizia.
Nel 1788 Andrea Querini (1710-1795) e suo figlio Zuanne (17331793) stipularono un contratto con il proto Antonio Solari per
l’ingrandimento e il restauro di Palazzo Querini Stampalia. Il
cantiere venne affidato prima ad Antonio Solari e poi a Girolamo Vianello mentre per la realizzazione dei nuovi decori vennero chiamati Jacopo e Vincenzo Guarana, Davide Rossi,
l’ornatista Giuseppe Bernardino Bison, il doratore Domenico Sartori e i fratelli stuccatori Giuseppe e Pietro Castelli.
Dal 20 maggio 1835 al 1° giugno 1850 il secondo piano dell’edificio venne affittato al patriarca Jacopo Monico.
Il 3 agosto 1849 il Palazzo fu saccheggiato da parte dei patrioti del Circolo Italiano. L’assalto avvenne perché si era diffusa la
voce, priva di fondamento, che il patriarca Jacopo Monico avesse
sottoscritto una petizione per la resa agli austriaci.
Mobili, libri, monete, medaglie e altri oggetti preziosi vennero
gettati in canale con un un danno per Giovanni di 100.000 lire
austriache di allora.
Nel 1869 il Palazzo di famiglia divenne la sede della Fondazione
istituita allo scopo di conservare e valorizzare le sue raccolte artistiche e bibliografiche, insieme con tutti i suoi averi e di promuovere “il culto dei buoni studj, e delle utili discipline”.
Tra il 1959 e il 1963 l’architetto Carlo Scarpa eseguì al piano
terra, per volontà di Giuseppe Mazzariol (Venezia, 1922-1989),
allora direttore della Fondazione, e Gino Luzzatto (Padova, 1878
- Venezia, 1964) allora presidente, un celebre restauro: la realizzazione di una sala, utilizzata per mostre e conferenze e un piccolo
giardino interno, chiuso tra mura, con una vera da pozzo, un
leone gotico e due fontane che portano il murmure dell’acqua in
questo silenzioso angolo veneziano.
Una ulteriore riqualificazione della sede nasce alla fine del 1993,
quando Giorgio Busetto ed Egle Trincanato, al tempo rispettivamente direttore e presidente della Fondazione, affidano l’incarico
all’architetto ticinese Mario Botta di procedere ad un articolato
progetto di restauro. Botta, molto legato alla Fondazione, decide
di donare il suo progetto: come molti studenti passava intere giornate in Biblioteca e i relatori della sua tesi furono Carlo Scarpa e
Giuseppe Mazzariol.
L’intervento di Botta definisce un rinnovamento profondo della
sede, spostando l’entrata al Palazzo da campiello Querini a campo Santa Maria Formosa. Mentre con il restauro del sottotetto e
del terzo piano sono stati ricavati degli uffici e un’area per mostre
e seminari, al piano terra sono stati creati spazi per un insieme
di funzioni a servizio del pubblico: bookshop, caffetteria, guardaroba, sale da bagno, un’area per ospitare i bambini e infine un
auditorium che si configura come prosecuzione dell’ingresso alla
Fondazione.
Le differenti funzioni della Fondazione trovano un elemento unificatore nella corte dedicata a Giuseppe Mazzariol, che si apre
inattesa e riscatta gli spazi compressi dei locali attigui, ridotti in
altezza per portare il pavimento a una quota di sicurezza rispetto all’escursione media di marea. La continuità spaziale è resa
grazie all’impiego degli stessi materiali usati nel bookshop, nella
caffetteria e nelle altre sale collocate al piano terra. Confinante
con la corte l’auditorium con 132 posti a sedere su poltroncine in
pelle nera, dotato delle tecnologie più avanzate, di cabine di regia
e traduzione simultanea.
Alcuni importanti interventi a Palazzo sono stati eseguiti anche dal
1982 al 1997 dall’architetto Valeriano Pastor. Il segno più visibile è la scala, che costituisce oggi la principale uscita di emergenza
pagina seguente: Carlo Scarpa
Giardino
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Carlo Scarpa
La “Fondamenta”
Valeriano Pastor
Portone di sicurezza
L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A
del Palazzo. Costruita ex novo, al posto di una scala di servizio
ottocentesca, con gradini in pietra artificiale prefabbricati, comprende anche piccoli ambienti per bagni e depositi, e si conclude
all’ultimo piano con l’accesso a un’altana. Il rivestimento, che si
affaccia su una piccola corte, è in legno e le finestre sono degli
oblò. Al pianoterra, nella corte adiacente al giardino, Pastor ha
disegnato un varco di uscita sul muro perimetrale. Il portone di
legno e metallo, con il monogramma QS (Querini Stampalia) inserito nell’arco di pietra, dialoga con il cancello scarpiano posto
sull’altro lato della calle. Problemi di raccordo e di fruizione di
fondamentale importanza vengono risolti da Pastor con un ponte
aereo di collegamento tra il Palazzo sede e la palazzina posta al di
là del giardino e con la trave parete in Museo, realizzata insieme
all’ingegnere Walter Gobbetto, in seguito anche progettista del
nuovo deposito librario.
Dal 1997 la facciata cinquecentesca del Palazzo è stata arricchita da un’installazione di neon. Si tratta dell’opera La Materia
dell’Ornamento di Joseph Kosuth eseguita per il progetto “Sarajevo 2000” e costituita da dodici frasi tratte dal libro Le pietre di
Venezia di John Ruskin.
IL MUSEO
Le nozze tra Francesco Querini (1503 circa - 1554) e Paola Priuli, celebrate nell’aprile del 1528, sono considerate l’evento che ha
dato inizio alle vicende di committenza artistica della casata. A
questa data il pittore della famiglia è Jacopo Palma il Vecchio
e a lui verranno commissionati i ritratti degli sposi, oggi esposti in
Museo. Importante fonte di notizie su commissioni ed esecuzioni
è il Libro di spese di Francesco, dove sono registrati i costi per lavori
di ampliamento, riparazione e abbellimento del Palazzo.
Mario Botta
Scala c
Mario Botta
Auditorium G. Piamonte
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L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A
Tra le commissioni compaiono le pitture di Palma nella “camera
d’oro”. Il 30 luglio 1528 Palma muore e nell’inventario steso alla
sua morte, dove si legge la descrizione sommaria dei dipinti allora
presenti nello studio, sono elencati cinque quadri a lui commissionati da Francesco. Da qui nasce la quadreria queriniana.
Difficile, allo stato attuale degli studi e dei documenti reperiti,
dare informazioni altrettanto certe sulla storia successiva della
raccolta per oltre un secolo e mezzo, anche se la presenza di ritratti rimanda con sicurezza a Marco Vecellio, chiamato nel
tardo Cinquecento a effigiare in una serie di ritratti ideali il casato, e a Sebastiano Bombelli, che celebra, un secolo dopo,
Gerolamo in vesti da procuratore e il fratello Polo.
Nel Seicento infatti la famiglia raggiunge un elevato grado di
ricchezza e potenza, assume una maggiore visibilità e si fanno
più frequenti gli episodi celebrativi. Gerolamo (1648-1709) e Polo
(1654-1728) acquistano le procuratorie straordinarie di San Marco, rispettivamente de citra il primo e de ultra il secondo. L’udinese
Bombelli, pittore di crescente successo che sarà chiamato anche
a Palazzo Ducale, viene incaricato di eseguire due grandi ritratti
a figura intera di Gerolamo e di Polo, e altri quattro ritratti degli
stessi di dimensioni più piccole.
A maggior gloria della casata, l’avvento al soglio ducale del doge
Silvestro Valier e della moglie Elisabetta Querini (1630 circa - 1709)
viene immortalato in due ritratti da Nicolò Cassana nel 1694.
Gli anni a cavallo tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento
vedono alcuni episodi significativi riferiti a interessanti gruppi di
opere. Tra questi, per arredare il “cameron della galleria”, destinato a funzioni di rappresentanza, sette busti marmorei tradizionalmente attribuiti a Orazio Marinali e noti come Bravi, oggi ritenuti sculture di Michele Fabris detto l’Ongaro e raffiguranti
filosofi, un giovane allievo e una coppia di santi.
Tra le opere riconoscibili del “cameron della galleria” vi è il
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la fondazione querini stampalia
soffitto di Sebastiano Ricci con l’Allegoria del giorno, probabilmente commissionato per celebrare il matrimonio di Zuanne
Carlo (1681-1763) con Chiara Tron nel 1702.
Il Settecento si pone come un periodo particolarmente felice per
i Querini: annoverati tra i più ricchi esponenti della società veneziana e diventati tra i maggiori proprietari fondiari dello stato, parteciparono attivamente alle vicende della vita pubblica. In
questo secolo tre Querini diventano procuratori di San Marco,
Polo e i suoi due figli Zuan Francesco e Zuanne Carlo; ma chi
assurgerà a più alti onori sarà il secondogenito di Polo, Gerolamo,
prelato di gran rango dell’ordine benedettino, col nome di Angelo
Maria (1680-1755), il personaggio più ragguardevole nella storia
della famiglia. Uomo di grande ingegno e vivace figura di intellettuale, arcivescovo di Corfù e poi vescovo di Brescia, prefetto
della Vaticana e fondatore della grande Biblioteca Queriniana a
Brescia, ebbe anche statura internazionale per i suoi rapporti con
uomini come Voltaire, Newton e Montesquieu, capace come fu di
inserirsi nel più vasto dibattito dell’illuminismo europeo. Letterato, traduttore, collezionista ed editore, oltre che teologo, era un
vanto di Venezia, tanto da venir annoverato tra i “sommi tre geni
patrizi”, unitamente al doge Marco Foscarini e all’abate filosofo
Antonio Conti.
Altro illustre membro della casata è Andrea (1710-1795). Influente
senatore della Dominante, mecenate protettore di Carlo Goldoni
e Pietro Longhi, a lui si deve la committenza di due dei nuclei
più significativi della collezione.
Longhi intorno al 1750 dipinse per Andrea la scena d’interno con
la Lezione di geografia, tra il 1755 e il 1757 la serie dei Sette Sacramenti,
destinati ad arredare la camera da letto, nel 1761 la Frateria di Venezia e nel 1762 il Casotto del leone, opere che fanno parte delle quindici tele dell’artista che appartengono all’asse ereditario. Sempre per
Andrea lavora nel 1782 nella casa dominicale ai Santi Quaranta
a Treviso, Gabriel Bella, un pittore minore. Il Museo conserva
sessantasette tele di quest’artista che fa rivivere feste popolari, balli, teatri, cerimonie ufficiali della Repubblica, in parte provenienti dalla casa dominicale, in parte dalla famiglia Giustinian.
Figura chiave in seno alla casata è stata quella di Alvise, nipote prediletto di Andrea e padre del conte Giovanni. Dal 1795 al
1797 visse a Parigi come ultimo ambasciatore della Serenissima
Repubblica in Francia. A lui si deve l’acquisto del prezioso servizio in porcellana di Sèvres che arreda la sala da pranzo.
La storia della Dominante, della famiglia e del patrimonio continuano a procedere insieme.
Dalla metà del Settecento la morsa dei debiti attanaglia il patrimonio queriniano divenendo pesantissima a fine secolo. Nel primo Ottocento ne consegue un’ampia manovra di disinvestimenti
tale da spingere Alvise e i suoi tre fratelli a decidere di rendere
disponibile per la vendita persino la biblioteca e la galleria, che
la tradizione familiare voleva custodite integre e, per quanto possibile, regolarmente accresciute. A causa del collasso economico
e sociale della nobiltà veneziana alla caduta della Repubblica, il
mercato risultava invaso da libri e opere d’arte e non interessato alla gran parte dei beni Querini. Diversamente, anche queste
raccolte, oggi di pubblico uso, sarebbero state disperse come tante
altre biblioteche e collezioni d’arte di cui era ricchissima la città.
Dal terzo decennio dell’Ottocento si affaccia sulla scena Giovanni, “padre” della Fondazione intitolata al nome della famiglia
Querini Stampalia. Uomo di difficile carattere, ma ottimo amministratore e collezionista attento, ebbe in sorte alcune sottrazioni durante il saccheggio del suo Palazzo nel 1849, compensate
dalle eredità Lippomano, Garzoni e Polcastro, che contribuirono
all’incremento delle raccolte d’arte.
Oggi il Museo si propone al pubblico come una dimora storica
che conserva l’atmosfera di un tempo, aprendo tuttavia le porte
pagina precedente: Palazzo Querini Stampalia,
installazione di Joseph Kosuth
La Materia dell’Ornamento
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L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A
ad iniziative, concerti ed esposizioni sia di arte antica che di arte
contemporanea.
Dal 1996 si organizzano ogni fine settimana, in collaborazione
con la Scuola di Musica antica di Venezia, e di recente anche con
la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, quattro concerti di
musica antica.
Dal 2004, con il sostegno della Regione del Veneto, si realizza
il progetto “Conservare il futuro”. Questa iniziativa vuole essere
una sfida coraggiosa che implica il confronto con un passato da
tutelare e un futuro da progettare. Gli artisti, con la loro sensibilità, vengono invitati a dialogare con le opere del passato. Hanno
già esposto in Museo: Elisabetta Di Maggio, Remo Salvadori,
Giuseppe Caccavale, Georges Adéagbo, Stefano Arienti, Maria
Morganti, Mariateresa Sartori.
Una nuova iniziativa è “Ospiti illustri. Capolavori dai maggiori
musei del mondo alla Querini Stampalia” che prevede di esporre
nelle sale del Museo un capolavoro proveniente da altre Istituzioni o collezioni private. Sono già stati esposti: Il riposo durante la fuga
in Egitto di Jacopo Bassano di proprietà della Biblioteca Ambrosiana di Milano e la Medusa di Gian Lorenzo Bernini dei Musei
Capitolini di Roma.
L A BIBLIOTECA
La Biblioteca trae origine anch’essa dalla donazione dell’intero patrimonio culturale dell’antica famiglia Querini alla città e
“all’uso pubblico”, e nei suoi oltre centotrenta anni di vita essa è
divenuta la “biblioteca dei veneziani”, frequentata da un pubblico
eterogeneo di lettori, studenti, studiosi, sia italiani che stranieri,
e comuni cittadini, che utilizzano le diverse sezioni delle raccolte
bibliografiche.
Biblioteca
Giuseppe Caccavale
Corallo
Remo Salvadori
Nel momento
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L A F ON DA Z ION E QU E R I N I STA M PA L I A
Collocata al primo piano del Palazzo sede, nelle stesse stanze abitate dagli ultimi membri della famiglia e dallo stesso fondatore, le
sale della Biblioteca mettono a disposizione dei lettori oltre 32.000
volumi collocati a scaffale aperto e circa 400 periodici correnti,
affiancando agli arredi in legno scolpito, voluti dal bibliotecario
Arnaldo Segarizzi nei primi anni del Novecento, tavoli e scaffali
di design moderno.
L’intero patrimonio bibliografico, costituito da oltre 340.000 volumi, si articola nei fondi storici della biblioteca di famiglia e nelle
raccolte moderne andatesi organizzando dal 1869, anno della costituzione della Fondazione Querini Stampalia.
Non vi è un dato cronologico sicuro sul primo formarsi della biblioteca di famiglia, anche se certamente esso va ricercato nella
raccolta di memorie domestiche, e precisamente nei manoscritti
dove ricorre il nome del casato; a questo nucleo più antico si aggiungono nel corso di sette secoli altri manoscritti e documenti
relativi alle attività e agli interessi dei membri della famiglia.
Fa parte sempre del fondo storico la considerevole collezione di
libri a stampa dalla fine del Quattrocento all’Ottocento, composta di circa 42.000 esemplari, 3.000 incisioni e oltre 350 carte
geografiche e antichi mappali.
I documenti più antichi sono carte e manoscritti membranacei
quali l’importantissimo Capitulare nauticum (XIII-XVI secolo), la
Promissio contra maleficia (XIV secolo), le Favole esopiane (XIV secolo), il codicetto con i Privilegi dei veneziani in Siria (XIII-XIV secolo),
il Libro del Sarto (XVI secolo) e varie Commissioni ducali.
Tra i più appassionati raccoglitori di libri della famiglia sono da ricordare: il cardinale Angelo Maria Querini (1680-1755) amico e corrispondente degli uomini più in vista del suo tempo,
tra i quali Federico II di Prussia e Voltaire; Andrea Querini
(1710-1795), “ragguardevole amatore e protettor delle lettere”, come
ebbe a chiamarlo il Cesarotti e infine Alvise Querini (1758-1834),
Biblioteca
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la fondazione querini stampalia
padre del fondatore, la cui passione per la musica si tradusse
nell’odierno fondo di opere musicali a stampa, tra cui 450 libretti
d’opera, di balli e cantate, della fine del Settecento e inizi dell’Ottocento.
Non va dimenticato che le collezioni della famiglia, così come
l’archivio, si arricchirono anche dei testi confluiti nella biblioteca
familiare attraverso i legami matrimoniali o ereditari con altre
nobili famiglie veneziane, quali, fra altri, i Tron, i Mocenigo, i
Dolfin, i Contarini e i Lippomano.
Notevole rilevanza per lo studio del patriziato veneziano, nella
sua conduzione della politica e degli affari, detiene l’archivio della
famiglia. L’Archivio privato si compone di 120 buste contenenti
documenti, lettere e disegni dal XVI secolo al 1869, esso è completamente riordinato e descritto nell’Inventario edito nel 1987.
La fase moderna della storia della Biblioteca prende avvio con il
conte Giovanni (1799-1869). Giurista ed economista, con spiccata vocazione per le scienze fisiche, matematiche e naturali, inventore e imprenditore spregiudicato rispetto al periodo storico e
alla struttura della società a lui contemporanea, lascia, di questa
sua inclinazione, larga traccia nelle collezioni librarie che cura e
riordina continuando i cataloghi iniziati dai predecessori e colmando, ove possibile, le lacune.
Alla sua morte egli lascia in dono a Venezia il suo patrimonio per
istituire una Fondazione “... atta a promuovere il culto dei buoni
studj, e delle utili discipline” indicandone così la vocazione, che
nel tempo si è mantenuta, di biblioteca di carattere generale pur
con alcune peculiarità e specializzazioni.
Nel suo testamento stabilisce fra l’altro che la Biblioteca dovrà rimanere aperta “... in tutti quei giorni, ed ore in cui le Biblioteche
pubbliche sono chiuse, e la sera specialmente per comodo degli
studiosi”. Questo dettato testamentario ancora vigente garantisce
un’apertura giornaliera di ben quattordici ore e la possibilità di
usufruire delle sale di lettura e delle raccolte anche la domenica e
nelle festività, nel dettato del principio di sussidiarietà che dovrebbe contraddistinguere l’offerta culturale di una città.
Il fondo moderno a stampa, costituitosi quindi a partire dal 1869,
anno dell’apertura al pubblico della Biblioteca, comprende oggi
oltre 250.000 volumi e viene incrementato annualmente secondo
una politica delle acquisizioni che tiene conto della complessità
ereditata dal testamento del fondatore e cerca di rispondere alle
esigenze che la sua tradizione, la sua storia e la sua mission attuale
le richiedono.
Gli stessi bibliotecari chiamati a dirigerla hanno cercato di mantenersi il più possibile fedeli al dettato testamentario e alla tradizione della famiglia Querini.
Il primo fu Gustavo Adolfo Ungher “... mio vecchio maestro
e distinto filologo”, dal Conte Giovanni indicato nel testamento
come bibliotecario della nascitura Fondazione.
Leonardo Perosa (bibliotecario dal 1880 al 1904), diede ordine
al ricco settore dei manoscritti. Il suo Catalogo dei codici manoscritti
della Biblioteca Querini Stampalia (luglio 1883), integrato dal Repertorio delle persone, dei luoghi e delle cose più notevoli contenute nei codici mss.
della Biblioteca Querini Stampalia (1884), è tuttora in uso.
Arnaldo Segarizzi (bibliotecario dal 1905 al 1924) applicò
le più recenti acquisizioni della scienza biblioteconomica dando inizio ad un nuovo catalogo per il quale utilizzò schede di
formato internazionale; realizzò poi uno tra i primi esempi in
Italia di catalogo per soggetti che alla fine fuse, in un’unica
serie alfabetica, con le schede per autore dando forma al catalogo dizionario, tuttora in uso, che rispecchiava l’idea di una
biblioteca attenta alle esigenze di tutti i propri utenti, e non
solo dei più dotti.
Manlio Dazzi (direttore dal 1926 al 1957) curò appassionatamente lo sviluppo delle varie discipline bibliografiche, con
29
la fondazione querini stampalia
particolare riguardo (era uomo di lettere e fine poeta) a quelle
umanistiche, e rese la Fondazione un centro vivacissimo di cultura letteraria, artistica e civile.
Giuseppe Mazzariol (direttore dal 1957 al 1974) ha dato
all’Istituto la sua vitalità odierna “... ritenendo che una biblioteca
per essere viva debba assolvere prima di tutto ad una funzione di
promozione culturale e civica”.
Giorgio Busetto (direttore dal 1984 al 2004) nei venti anni di
direzione ha impresso il volto odierno della Biblioteca: la ristrutturazione dello scaffale aperto nel 1987; l’adesione, alla fine degli
anni Ottanta del secolo scorso, al Servizio Bibliotecario Nazionale e al suo catalogo nazionale; la messa a disposizione del pubblico
di tecnologie informatiche; la riapertura dell’Emeroteca con oltre
350 periodici correnti direttamente utilizzati dall’utenza; le sale
di lettura e gli orari di apertura aumentati; i nuovi depositi librari
interni ed esterni.
Linee di intervento che, con rinnovata attenzione alla salvaguardia e alla riproposta del ruolo che la Fondazione ha avuto sin
dal primo Novecento in Venezia e nel mondo e in ossequio alla
vocazione espressa dalle volontà del Fondatore, si legano senza
soluzione di continuità con l’opera dei predecessori.
Negli ultimi decenni del secolo scorso ha trovato sistematicità e
struttura la molteplice rete di relazioni intessute dalla Fondazione
con altre istituzioni culturali di ambito locale e nazionale.
Dal 1982 infatti una convenzione con il Comune di Venezia riconosce formalmente alla Querini Stampalia quel ruolo di Biblioteca civica che ricopre nei fatti fin dall’inizio del Novecento, quando il Consiglio di Presidenza deliberò di trasformare il Gabinetto
di Lettura in una Biblioteca aperta ad una più ampia cerchia di
lettori e in particolare agli studenti.
Sempre dalla fine degli anni Ottanta la Biblioteca entra nel Polo
veneziano di SBN, Servizio Bibliotecario Nazionale, e rende
disponibili nel catalogo collettivo nazionale, consultabile attraverso Internet, le informazioni relative alle proprie acquisizioni.
Decennale anche la collaborazione con le amministrazioni regionale e provinciale: nel 1998 la Regione del Veneto istituisce presso la Fondazione la Biblioteca regionale specializzata in materia
di archivi e biblioteche, che la Biblioteca seguita a implementare
con l’acquisto di repertori, periodici e monografie. La Biblioteca
inoltre aderisce al Sistema Bibliotecario Museale della Provincia
di Venezia.
Enrico Zola
Direttore della Fondazione Querini Stampalia
31
Restauri e allestimenti storici
del Museo
Dopo la morte di Giovanni, avvenuta il 5 maggio 1868, la collezione di famiglia venne immediatamente ripensata in termini museali.
Nel 1872 i tre curatori della Fondazione: Roberto Boldù (che aveva
da poco sostituito il senatore Agostino Sagredo), Giacinto Namias
e Giambattista Lucietti decisero di trasferire parte del patrimonio
artistico al secondo piano del Palazzo e di aprire al pubblico per
la prima volta la Galleria rendendola accessibile gratuitamente
un giorno alla settimana.
Lo spazio espositivo comprendeva venti sale di media grandezza
e un ampio salone nel quale venne esposta su un mobile la Pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari insieme al busto del cardinale Angelo Maria Querini di Giacomo Cassetti, ai sette busti
dell’Ongaro e ai quattro globi.
Una sala fu destinata esclusivamente a quadri acquistati dopo
la nascita della Fondazione – Giovanni Barbarigo libera Maria, regina d’Ungheria di Raffaele Giannetti, Interno della chiesa di San
Zaccaria di Federico Moia, Sacco del palazzo Querini nel 1849 di
Luigi Rossi, Ultimo addio a Jacopo Foscari di Giulio Carlini, Agostino Sagredo di Luigi Viviani, La villa Querini Polcastro a Loreggia
di Marianna Marin –, una dedicata alle “memorie Querini”,
mentre le altre furono allestite prevalentemente in modo tematico
(ritratti, ritratti di famiglia, opere mitologiche, opere a carattere
religioso, paesaggi) o con i dipinti di un singolo artista (Pietro
Longhi, Gabriel Bella, Palma il Giovane).
Tutti gli ambienti esponevano un numero cospicuo di opere: quadri, sculture, incisioni, miniature, arazzi e diverse tipologie di oggetti di famiglia: porcellane di Sèvres, album con intarsiature in
madreperla, una bussola, antichi calamai in bronzo, sigilli, una
Facciata di Palazzo Querini Stampalia,
primi Novecento
33
Portego, allestimento 1934
R ESTAU R I E A L L EST I M E N T I STOR ICI DEL M USEO
tabacchiera con mosaico di Roma, modellini di cannone, un bassorilievo in marmo raffigurante un filosofo, un dito in marmo di
una statua greca, scodellini turchi, un antico vaso in vetro, due
piatti giapponesi, un turcasso veneto con frecce, antichi bottoni
veneziani, strumenti musicali, una camicia a rete di filo di rame,
chicchere in legno e un taccuino turco.
Negli anni successivi il Museo fu interessato da numerosi interventi di restauro e continui allestimenti condizionati in buona
parte dagli eventi bellici del periodo, che ne determinarono anche
la chiusura e lo smantellamento quasi completo.
Durante la prima guerra mondiale infatti la Galleria venne chiusa al pubblico e, per una maggiore sicurezza, buona parte dei dipinti fu portata al piano terra in casse di ferro zincato e una parte
trasferita fuori città.
Subito dopo il conflitto bellico, il Museo si trovava in uno “stato
miserando” talmente preoccupante che Angelo Scrinzi, uno dei
più stimati cultori veneziani dell’arte, aveva più volte proposto di
trasferire la collezione al Museo Correr di Venezia.
A queste affermazioni aveva risposto pubblicamente anche Giulio Lorenzetti sostenendo che trasferire la collezione in altra sede
avrebbe significato dimenticare la storia e privare le opere di quella
particolare atmosfera che lega gli oggetti al palazzo che li custodisce
e alla famiglia che li ha posseduti: “annullare questi piccoli centri d’arte,
queste piccole oasi di bellezza, che ancora sopravvivono nel gran naufragio di
cose e di memorie del passato, è un gran male: tanto più quando, come nel caso
della Querini Stampalia si ha la fortuna di possedere vecchi mobili deliziosi,
arazzi, suppellettili originali, alcuni dei quali sono dei veri gioielli…”.
Fortunatamente, nonostante la Fondazione si trovasse ancora in
ristrettezze economiche, nel 1925 la Galleria venne riaperta al
pubblico e per l’occasione fu studiato e realizzato un nuovo allestimento a cura di Giovanni Bordiga e Angelo Alessandri.
I curatori, per ricreare l’atmosfera della casa di famiglia, decisero
Sala dei ritratti, allestimento 1967
35
R estauri e allestimenti storici del M useo
di non esporre i mobili e le tele moderne ovvero tutto ciò che era
giunto in Fondazione o che era stato acquistato dopo la morte del
conte Giovanni.
Bordiga così racconta il loro lavoro: “Siamo stati qui, noi due vecchi
amici, lunghe mattine d’inverno, a far aprire nuove finestre, abbattere pareti, schiudere passaggi, togliere e collocare cornici, ritogliere e ricollocare, ornare
e disornare; l’elenco non conta. Soli non eravamo; se una galleria rimane per
lungo tempo chiusa al pubblico e soltanto qualche devoto ricercatore vi passi,
allora sembra che le figure create dai pittori non stiano più fisse dentro le proprie cornici, come quando i visitatori si affollano loro d’intorno e i guardiani
vegliano da presso; ma esse scendono, si muovono, rompono il silenzio del luogo,
si dicono cose, si raccontano vicende che non dicono a tutti e riempiono di vita
strana la apparente solitudine. Così la nostra dimora quasi quotidiana nelle sale
abbandonate e fredde, dove noi eravamo le sole persone reali, aveva fatto nostra
confidente e collaboratrice tutta quell’altra gente trasformata dall’arte in realtà
ideale… […]. Allontanato dalle sale ogni soverchio di pompa, tolto quel troppo
di artificio che spesso hanno le cose ufficialmente numerate, regolarmente catalogate, rigorosamente conservate; dato alla casa, fin dove era possibile, l’aspetto che
essa aveva quando vi abitava il nobile signore e che Egli desiderava conservato
dopo la sua morte, noi, colla nostra modesta e materiale fatica, abbiamo voluto
soltanto fedelmente servire e fedelmente ricordare la semplicità della vita di Lui”.
La lunga citazione vale a dar conto tanto della personalità di
Bordiga, allora presidente della Fondazione, insigne matematico
ma nel contempo anima di tutte le iniziative dell’arte in Venezia,
dalla Biennale all’Istituto superiore di Architettura, quanto dei
criteri seguiti nell’allestimento, dove il rapporto ancora romantico
con le opere giustifica una certa disinvoltura nel murare e nello
smurare dentro al Palazzo rinascimentale.
L’allestimento del 1925 venne qualche anno più tardi rivisto dal
nuovo direttore della Fondazione Manlio Dazzi.
Nel 1934 Dazzi iniziò il lavoro in Museo con la volontà di risistemare solo alcune sale affinché queste potessero risultare più adatte
alle “riunioni culturali” che la Fondazione stava organizzando,
ma presto il suo coinvolgimento fu totale ed egli ripensò completamente l’allestimento della Galleria.
Dazzi, prima di iniziare l’impresa, si consultò con Moschini che
gli consigliò di diradare l’esposizione e riordinare radicalmente la
quadreria.
Con questo intervento numerose opere vennero spostate da una
sala all’altra, centonovantadue furono collocate nelle sale di lettura della biblioteca e circa quarantacinque vennero riposte nei
depositi. Vennero valorizzati gli arredi, quasi completamente assenti nell’allestimento precedente.
Furono esposti anche modelli di artiglieria, armi e, all’interno di
vetrine, furono collocati il servizio da tavola di Sèvres, alcuni oggetti personali, piccole sculture, miniature, bronzi, pezzi di archeologia, ceramica, servizi orientali e biscuit.
Dazzi desiderò arricchire l’esposizione con il raffinato salotto
pompeiano dello Jappelli che si trovava in soffitta e acquistò sul
mercato antiquario la splendida tappezzeria di lampasso per il
riallestimento del salotto rosso.
Tutti i lavori si svolsero in un periodo brevissimo: gli interventi murari iniziarono a fine febbraio, il riallestimento cominciò il 18 aprile e il
12 maggio 1934 il Museo era pronto per essere riaperto al pubblico.
Durante la sua direzione Manlio Dazzi intervenne costantemente
nell’allestimento, ma il nuovo pericolo bellico lo obbligò a richiudere la Galleria, a mettere al riparo le opere più significative e a
smantellare numerose sale.
Finalmente, l’8 giugno 1946 la Fondazione riaprì il Museo con un
allestimento diverso che aveva richiesto numerosi ed impegnativi
interventi di restauro sia dell’edificio che delle opere d’arte, degli
arredi e delle suppellettili di pregio.
Solo negli anni Novanta il Museo venne dotato di impianto elettrico e di impianto di climatizzazione.
pagine seguenti:
Camera da letto, allestimento 1941
Sala da pranzo, allestimento 1941
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39
R ESTAU R I E A L L EST I M E N T I STOR ICI DEL M USEO
Nell’esecuzione dei numerosi interventi tecnici la Fondazione
dovette tener conto delle nuove norme sulla sicurezza dei luoghi
aperti al pubblico che contribuirono a sminuire la qualità estetica
dell’esposizione museale.
Nel 1998, grazie alla generosità del Comitato Francese per la Salvaguardia di Venezia, sì è potuto avviare in Museo un progetto di
restauro degli affreschi e degli stucchi (portego e camera da letto)
per continuare poi, nel 2000 con risorse della Soprintendenza (sala
da pranzo e sala mitologica), e nel 2005 con l’aiuto della Presidenza del Consiglio dei Ministri con fondi dell’otto per mille dell’IRPEF (le sale lungo il canale, la sala Ottocento, la sala con le scene di
vita veneziana e lo studiolo con i paesaggi di Marco Ricci).
Questi ultimi interventi di restauro hanno costituito l’occasione
per ripensare l’allestimento ricreando l’atmosfera dell’antica dimora veneziana del Settecento senza rinunciare alla veridicità
storica.
Il progetto di restauro diretto da Mario Gemin e quello di riallestimento curato da Chiara Bertola hanno cercato di conciliare
le esigenze storico-artistiche con quelle museografiche e di tutela
per garantire, da un lato, l’esposizione e la conservazione delle
opere più significative della collezione, e dall’altro, la migliore
fruizione possibile senza tuttavia rinunciare a quella suggestiva
atmosfera tanto cara a Giovanni Querini.
Babet Trevisan
Responsabile del Museo
41
I.
Portego
Il portego, ingresso originale alla dimora storica, è una delle sale
più caratteristiche del palazzo veneziano.
La concezione del monumentale ambiente risale all’impianto compositivo della casa-fondaco medievale: residenza e azienda insieme. Il portego era luogo di rappresentanza, di feste e ricevimenti,
ma anche spazio dove mostrare ai clienti i campioni delle merci.
Il salone che, al piano terreno, collegava l’ingresso dall’acqua con
quello da terra, si ripeteva uguale ai piani superiori con funzioni
di disobbligo e raccordo per le stanze che vi si affacciavano, ed
era leggibile sulla facciata principale in corrispondenza della finestratura polifora.
Nel Settecento si assiste a Venezia alla revisione e modifica delle
strutture interne dei palazzi nonché al moltiplicarsi di imprese
decorative secondo il nuovo gusto neoclassico.
Nel 1790, in occasione del matrimonio celebrato tra Alvise e Maria Teresa Lippomano, genitori di Giovanni, anche Palazzo Querini Stampalia fu ristrutturato in senso “moderno”.
Il cantiere venne affidato al proto Antonio Solari e successivamente a Girolamo Vianello mentre, per la realizzazione dei nuovi
decori, vennero chiamati Jacopo Guarana, l’ornatista Giuseppe
Bernardino Bison, il doratore Domenico Sartori e i fratelli stuccatori Giuseppe e Pietro Castelli.
Le numerose sale affrescate da Jacopo Guarana (Venezia, 17201808) al secondo piano del Palazzo costituiscono uno tra i più
vasti cicli d’affreschi dell’artista. Il Guarana raffigura nel plafond
centrale del soffitto l’Allegoria dell’Aurora affiancata da finti monocromi raffiguranti putti allusivi alle Arti (Architettura, Scultura,
Musica e Pittura), altre Allegorie e due lunette con Leda e Danae.
43
pagina precedente:
Lampadario “Rezzonico”
Jacopo Guarana
Allegoria dell’Aurora, particolare
I.
PORTEGO
Il Guarana, con sorprendente disinvoltura, abbandona i suoi
modi abituali, legati alla cultura tardo-barocca, per accordarsi
alle raffinate ambientazioni classicheggianti e per adottare un
nuovo risalto disegnativo nelle figure, che rimpiccioliscono, pur
inserite, ancora, nel filone culturale tardo tiepolesco.
Nell’ottagono centrale Aurora, coronata di rose e posta alla guida
del carro del Sole, è accompagnata dalla Stella del mattino, figura femminile dalle cui lacrime ha origine la rugiada.
Questo soggetto, ricorrente nelle camere da letto e nelle sale a
carattere più intimo, richiama l’idea dello scorrere del tempo e
rimanda alla meditazione sul significato della vita e sul suo evolversi. L’apparato decorativo va interpretato come un messaggio
di buon auspicio per gli sposi novelli e per tutta la famiglia.
Alle pareti le raffinate soluzioni degli ornati a stucco su sfondo
verde dei fratelli Giuseppe (1755-1822) e Pietro Castelli alternano eleganti candelabre parietali a medaglioni sopra porta
con testine virili di profilo, diverse tra loro, e nastri svolazzanti.
Scandiscono invece gli spazi affrescati del soffitto gli stucchi raffiguranti fiori e ripetute immagini di soli e stelle, quasi a voler sottolineare nuovamente, come nell’affresco, lo scandire del tempo.
Disposti su mensole lungo le pareti sono collocati i busti in marmo di alcuni Filosofi, di san Giovanni Evangelista, di san Giovanni
Battista e di un Giovane allievo, opere di Michele Fabris detto
l’Ongaro (Bratislava, 1644 circa - Venezia, 1684) insieme al
busto del cardinale Angelo Maria Querini di Giacomo Cassetti
(notizie 1682-1757).
I sette busti erano tradizionalmente noti come Bravi, con riferimento alle famigerate guardie di Francesco Querini e venivano
attribuiti ad Orazio Marinali. Solo di recente le sculture sono state
restituite all’Ongaro, uno dei maggiori protagonisti della scultura
veneta della seconda metà del Seicento.
I Filosofi costituiscono una sorta di “ritratti immaginari”.
Giacomo Cassetti
Angelo Maria Querini
Michele Fabris detto l’Ongaro
Filosofo
45
I.
PORTEGO
San Giovanni Evangelista ha il volto angelico di un adolescente e
lunghi capelli a boccoli sulle spalle, mentre san Giovanni Battista
è raffigurato come eremita coperto da una pelle d’animale, dal
cui risvolto fuoriesce il vello, il viso incorniciato da lunghi capelli
dritti, da baffi e da una barba rada.
I dati relativi alla committenza delle sculture non ci sono noti
ma pare difficile non collegarli a Gerolamo e Polo Querini e a
quell’Accademia dei Paragonisti, aperta nella seconda metà del
Seicento nel loro Palazzo, sotto la protezione dei due futuri procuratori, dove venivano discusse “le più nobili questioni erudite”.
Nel lato verso il giardino sono visibili il Globo celeste e il Globo terrestre di Willem Blaeu (Alkmaar, 1571 - Amsterdam, 1638) fondatore di uno dei più grandi laboratori cartografici olandesi.
Il globo celeste serviva a rappresentare la superficie concava del
cielo con le sue costellazioni, mentre quello terrestre la superficie
della terra, con i mari, le isole, i fiumi, i laghi e le città.
Il sontuoso lampadario “Rezzonico” in vetro di Murano dalla
ricca festosità policroma e fiorita è composto da una struttura metallica rivestita di vetro soffiato e da un ricco apparato decorativo
di fiori e foglie in vetro incolore e colorato.
Questa tipologia di lampadario chiamato “ciocca” (mazzo di fiori), è documentata sin dal quarto decennio del Settecento come
opera del vetraio muranese Giuseppe Briati (Venezia, 16851772) ed era stato ideato come la risposta veneziana ai lampadari
boemi. (BT)
Willem Blaeu
Globo celeste
47
I.
PORTEGO
Il terrazzo alla veneziana è frutto
della genialità dei popoli latini,
capaci di sfruttare i poveri elementi a loro disposizione per creare un
prodotto di pregevole valore artistico. Questo tipo di pavimentazione,
di origine molto antica, trovò la
sua compiutezza formale a Venezia, dove nel 1586 sorse “l’Arte dè
Terrazzeri” e la prima regolamentazione scritta delle regole costruttive. Originariamente in calce, ora
anche in cemento, il terrazzo alla
veneziana ha subito numerose e
continue evoluzioni nel corso dei
secoli, adattandosi ai gusti di ogni
epoca.
Portego
49
51
II.
Sala Giovanni Bellini
La tavola, di cui non si conosce la provenienza e l’esatta data
d’ingresso nella collezione di famiglia, è indicata come opera di
Andrea Mantegna da una iscrizione in caratteri corsivi, probabilmente settecenteschi, collocata sul retro del dipinto.
L’opera ha conosciuto negli anni una vicenda critica piuttosto
complessa fino a quando nel 1916 Berenson l’attribuì definitivamente a Giovanni Bellini (Venezia, 1438/1440 circa - 1516),
confermato da quasi tutta la critica successiva.
La Presentazione di Gesù al Tempio, collocata su un cavalletto in legno
disegnato da Carlo Scarpa (Venezia, 1906 - Sendai, 1978), raffigura il momento saliente dell’episodio evangelico in cui si narra
che Giuseppe e Maria, compiuti i quaranta giorni dal parto, secondo la legge ebraica presentano il loro primogenito al Tempio
di Gerusalemme per consacrarlo a Dio. Nel Tempio li accoglie
il vecchio e giusto Simeone, che rappresenta simbolicamente il
passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento.
La scena si svolge all’interno di un grande Tempio, che il Bellini
si limita ad accennare con il ripiano marmoreo in primo piano.
I personaggi sono ritratti a mezzobusto su uno sfondo scuro, come
in alcune lastre tombali romane, e si appoggiano alla finta cornice di marmo che rappresenta l’altare dove sacro e terreno si
incontrano. Il davanzale dietro il quale si svolge il cerimoniale
liturgico, assai umanizzato, può anche essere letto come prefigurazione del sepolcro cui è destinato Cristo.
Al centro dell’immagine c’è Maria, che ha tra le braccia il Bambino e lo porge a Simeone. Il vecchio profeta, con una lunga e
folta barba bianca, ha lo sguardo leggermente inclinato in segno
di rispetto e adorazione.
53
pagine precedenti:
Giovanni Bellini
Presentazione di Gesù al Tempio
Giovanni Bellini
Presentazione di Gesù al Tempio, retro
II.
S A L A G I O VA N N I B E L L I N I
La Madre, con un lungo velo bianco sulla fronte che scende fino
a nasconderle i capelli, è assorta in un pensiero intimo e stringe
tra le braccia il Figlio che non vuole lasciare al Suo destino di
Passione e di Morte.
Al centro della scena, in secondo piano, Giuseppe assiste muto
all’evento e rappresenta l’uomo davanti al mistero; nella sua figura è stato riconosciuto da taluni critici Jacopo Bellini, il padre
di Giovanni. Assistono all’episodio evangelico altri personaggi:
ai lati, in secondo piano, sono stati identificati Nicolosia Bellini
ed Andrea Mantegna, la sorella e il cognato di Giovanni, che si
erano sposati qualche anno prima (1453).
Sul lato sinistro, in primo piano, il pittore ha raffigurato un’altra
giovane donna, forse Ginevra, sua moglie, o Anna, sua madre;
e sul lato destro Giovanni esegue quello che sembra essere il suo
autoritratto. Il giovane guarda verso lo spettatore, quasi ad invitarlo all’interno della scena, dove sembra che divino e umano non
abbiano confine: le figure sporgono dalla cornice verso chi le osserva, e questi entra nel dipinto attraversando il finto parapetto.
La tavolozza ricca di sfumature di rosso, l’uso di brillanti ed intensi colori dai forti contrasti, il ricorso a una luce che arriva contemporaneamente dal basso e dall’alto manifestano la straordinaria
esperienza vissuta dal pittore nella sua città natale, Venezia.
Una somiglianza piuttosto stretta pone questa tavola in relazione
con l’analogo soggetto dipinto dal cognato Andrea Mantegna nel
1454-1455.
La Presentazione di Gesù al Tempio del Mantegna, oggi conservata
alla Gemäldegalerie di Berlino, ha infatti il medesimo impianto e
in parte gli stessi attori dell’opera del Bellini.
Nel 1880 circa la tavola di Giovanni Bellini fu affidata per un
restauro a Placido Fabris, pittore, restauratore e copista bellunese
dell’Ottocento.
Fabris, pur essendo un buon conoscitore delle tecniche pittoriche
Andrea Mantegna
Presentazione di Gesù al Tempio
Berlino, Gemäldegalerie
55
Giovanni Bellini
Presentazione di Gesù al Tempio,
fasi del restauro eseguito nel 1949
II.
S A L A G I O VA N N I B E L L I N I
antiche, nei suoi interventi di restauro preferì sempre utilizzare
un metodo di lavoro largamente empirico e approssimativo, poco
rispettoso dell’originale.
Anche nel dipinto queriniano l’artista intervenne nelle forme e nei
colori con veri e propri rifacimenti, tanto da rendere impossibile il
riconoscimento di qualsiasi precedente pennellata.
Dopo il suo intervento Maria appariva con una veste dalle maniche viola e un mantello blu con rovescio verde. Talune teste avevano perduto in parte i caratteri originali, specialmente la Madonna, il Gran Sacerdote e le figure dietro di lui; certi panneggi
invece, come quello di san Giuseppe, erano stati adeguati al gusto
del suo tempo.
Nel 1949 la tavola fu affidata a Mauro Pelliccioli per un nuovo
intervento di restauro che permise di riportare finalmente alla
luce il capolavoro del Bellini sottolineandone definitivamente la
paternità. (BT)
In passato tutti i neonati venivano avvolti nelle fasce come piccole mummie, con qualche rara eccezione, come il caso dei bimbi
spartani, che si narra non venissero né fasciati, né cullati. In
generale in tutto il mondo antico le fasce, insieme al latte, erano
il simbolo dei neonati.
La fasciatura era ritenuta utile a modellare il corpo del bambino, per riportare alla normalità le parti del corpo che si fossero deformate durante il parto o per risistemare un membro
dislocato; inoltre la si credeva efficace a prevenire una cattiva
posizione, proteggendo le ossa fragili dei neonati e dei lattanti
da una crescita disordinata.
Giovanni Bellini
Presentazione di Gesù al Tempio, particolari
57
III.
Sala delle tavole
L’affresco Coppia di amorini con corone d’alloro, una cornice in marmorino e riquadri policromi con decorazioni in stucco bianco di
manifattura veneziana della seconda metà del XVIII secolo, decorano il soffitto della stanza, che ospita antiche tavole e interessanti pitture di ambito giorgionesco.
Attribuita all’ultimo grande esponente del Gotico Internazionale
a Venezia Michele Giambono (Venezia, notizie 1420-1462) è la
tempera su tavola, di proprietà dell’IRE (Istituzioni di Ricovero
e di Educazione) di Venezia e in deposito nel Museo della Fondazione, Crocifissione, degli anni 1420-30, dove allo sfarzo dei colori
e degli ori si accompagna una dolorosa espressività. La tipologia
del Cristo, incoronato di spine e dal volto reclinato di tre quarti,
rimane uno dei temi prediletti del pittore, il quale, seppur attento
ai problemi formali del Rinascimento, non abbandonò mai il fasto decorativo, coloristico e lineare del tardo gotico.
Al centro della parete è esposta la tavola più antica della collezione, Incoronazione della Vergine, di Donato (notizie 1344-1382/88) e
Catarino (notizie 1362-1382), firmata e datata 1382. L’opera rientra nella tradizione neobizantina inaugurata da Paolo Veneziano. L’accentuazione bizantina è portata all’estremo, tanto che le
vesti della Madonna, del Cristo e degli angeli, sembrano lavorate
in sottili smalti cloisonnés, per le fitte lumeggiature dorate. Donato
e Catarino hanno lavorato insieme anche per la Croce, oggi perduta, nella chiesa di Sant’Agnese a Venezia.
Pittore legato alla famiglia Querini era il bergamasco Jacopo
Negretti detto Palma il Vecchio (Serina, 1480 circa - Venezia, 1528), che si stabilì a Venezia nel 1510. Qui aderì alla nuova maniera inaugurata da Giorgione, considerato alla metà del
59
pagina precedente: Donato e Catarino
Incoronazione della Vergine, particolare
III.
Michele Giambono
Crocifissione
Donato e Catarino
Incoronazione della Vergine
S A L A D E L L E T AV O L E
Cinquecento il creatore dello stile moderno in pittura. Per “messere Francesco Querini” Palma dipinse cinque opere, commissionate a breve distanza di tempo, che si trovavano ancora nella bottega dell’artista alla sua morte, avvenuta il 30 luglio 1528. Le due
sacre conversazioni qui esposte provengono da tale nucleo di opere. Madonna con due sante, san Francesco e san Pietro presenta il caratteristico schema compositivo serrato e quasi in rilievo del maestro,
mentre l’eccessiva particolareggiatura e la pesantezza del drappeggio conducono alla sua bottega. Riferita sempre all’ambito
della bottega è Madonna con santa Caterina, san Francesco, san Giovanni Battista e san Nicola. Palma aveva avviato infatti una delle più
affermate botteghe veneziane, portata avanti poi da Bonifacio de’
Pitati. Entrambi gli artisti avevano trovato nelle sacre conversazioni uno dei temi a loro più congeniali, come in questo quadro
dove la Vergine con il Bambino emerge con sorprendente forza in
un atteggiamento pieno di tenerezza e solennità. La larga campitura dei colori accesi e l’intonazione reale della luce ricordano la
mano di Palma, mentre si può intravedere il segno di Bonifacio
nella pennellata più sciolta e nella figura di santa Caterina, motivo ricorrente nei dipinti di questo pittore.
Partecipano alla medesima poetica delle opere palmesche altri
dipinti coevi, o di pochi anni posteriori, della collezione come la
Giuditta di Vincenzo Catena e la Sacra Conversazione di Polidoro da
Lanciano.
Giuditta di Vincenzo Catena (Venezia, 1470/80-1531), del 1517
circa, è un esempio di bella pittura neoclassica del primo Cinquecento veneziano, dallo stile composto e classicamente tornito.
Ritenuta di Giorgione o della sua scuola negli inventari ottocenteschi del Museo, l’opera venne attribuita a Palma il Vecchio e
infine a Catena. Quest’ultimo è considerato il vero pittore ritrattista della generazione giorgionesca. La modella riprodotta in
Giuditta impersona, con minime variazioni, il tipo femminile di
Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio
Madonna con due sante, san Francesco e san Pietro
61
III.
63
S A L A D E L L E T AV O L E
pagina precedente:
Polidoro di Mastro Renzo da Lanciano
Sacra Conversazione
III.
S A L A D E L L E T AV O L E
molte effigi di sante. Se il dipinto è in qualche misura autobiografico, si può identificare la donna con Rosa da Scardona, la nuova
“màmola”, la concubina del pittore destinata ad essere modella
ideale. Il capo di Oloferne è quello di un uomo rimasto vittima
del dolce ma temibile inganno amoroso e si può avanzare l’ipotesi
che si tratti di un autoritratto del Catena. Un dipinto semiprivato,
forse una “poesia” in cui il pittore canta la donna amata.
Dell’artista abruzzese Polidoro di Mastro Renzo da Lanciano (Lanciano, 1510/15 - Venezia, 1565), attivo a Venezia nell’ambito tizianesco verso la metà del Cinquecento, è la Sacra Conversazione del 1540 circa. Ancor giovane, Polidoro partì nel 1536 da
Lanciano per andare a cercare fortuna nella città lagunare, dove
lavoravano artisti come Tiziano, Veronese e Tintoretto.
In questa tela, che rivela l’eleganza e le forme del manierismo
tosco-romano con la vivace cromia tutta veneziana, il pittore si
distacca in parte dal cono d’ombra proiettato da Tiziano, rivelandosi compagno di strada di Schiavone, di Bassano o del giovane
Tintoretto.
Tra le finestre Madonna col Bambino di Bernardo Strozzi (Genova, 1581/82 - Venezia, 1644). La tela, attribuita negli antichi
inventari a Rubens, fa parte della cospicua produzione di opere
di committenza privata realizzate dal pittore negli ultimi anni
di attività veneziana. Nonostante il soggetto devozionale, Strozzi
propone in questo dipinto, con un’interpretazione personalissima
del colore veneziano, una figura femminile tipicamente barocca
dalla folta chioma sciolta sulle spalle, le labbra colorite e la veste
rossa. Maria sorregge in braccio il Bambino e il suo sguardo velato di malinconia, che prefigura il sacrificio divino, sembra essere
l’unica connotazione di Madonna.
Sopra le porte i ritratti di Nicolò Querini e di Francesco Querini di
Marco Vecellio (Pieve di Cadore, 1545 - Venezia, 1611). Le due
tele fanno parte di una serie di dodici ritratti in memoriam a mezza
Jacopo Negretti detto
Palma il Vecchio e bottega
Madonna con santa Caterina, san Francesco,
san Giovanni Battista e san Nicola
Bernardo Strozzi
Madonna col Bambino
65
Vincenzo Catena
Giuditta
III.
S A L A D E L L E T AV O L E
figura di esponenti illustri del casato dei Querini Stampalia, effigiati su sfondi destinati ad accogliere le scritte e le piatte architetture allusive. Oggi se ne conservano solo sei. Di carattere celebrativo, i ritratti sono stati tagliati ai margini per figurare da elemento
decorativo sopra le porte di alcune sale del Palazzo. (EDC)
La spada è l’emblema delle virtù cristiane tradizionalmente attribuite a Giuditta. L’arma catalizza in modo magnetico l’intera composizione, creando un sapiente contrasto materico con
la morbidezza dell’incarnato della donna. Nelle decorazioni dei
pomi delle spade si nascondono precisi messaggi. La spada della
nostra Giuditta presenta delle connotazioni araldiche nel profilo
a tre barre verticali, ripetuto al centro dell’elso e dell’impugnatura. Il motivo richiama le tre catene pendenti nell’originario
stemma dei Catena e rappresenta un indice di nobiltà.
67
IV.
Sala della Maniera
Sono qui esposte La conversione di san Paolo di Andrea Medulich
detto lo Schiavone (Zara 1510/15 - Venezia 1563) e le tele, tutte provenienti dal lascito familiare, dipinte da Jacopo Negretti
detto Palma il Giovane (Venezia, 1548-1628), uno dei maggiori
e più prolifici protagonisti del Manierismo veneziano.
L’opera dello Schiavone, una delle figure più significative dell’arte
veneta del Cinquecento, è considerata un capolavoro del manierismo veneziano per il suo straordinario dinamismo compositivo.
Il dipinto si ispira al cartone di Raffaello per uno degli arazzi
della Sistina La conversione di San Paolo, cartone presente nella città
lagunare a Palazzo Grimani nel 1521.
Nell’impennarsi dei cavalli si leggono echi del Pordenone, che
rappresentava, nel mondo pittorico veneziano di quegli anni, una
brillante moda culturale. Un Pordenone, però, sempre filtrato
dallo studio del Parmigianino, le cui raffinate eleganze ritornano anche in quest’opera dalla pennellata fluida e cromaticamente
esuberante.
Alle altre pareti le tele di Palma il Giovane, costituiscono un corpus completo della produzione di piccole dimensioni dell’artista.
L’Autoritratto, di cui si conserva un disegno a penna alla Pierpont
Morgan Library di New York, fu eseguito dall’artista intorno al
1606-1608. Palma si rappresenta leggermente di tre quarti su uno
sfondo nero dove la luce proviene sia dal bel volto di uomo maturo
che dal collo della camicia chiara. In questo dipinto, così come
nei suoi rari esempi di ritrattistica, vi è una spontaneità e una
semplicità narrativa non comuni; anche in questo caso l’umanità
dello sguardo è resa con insolita bravura.
La tela San Nicola di Bari dota le tre fanciulle, una delle migliori opere
69
pagina precedente:
Jacopo Negretti detto Palma il Giovane
Assunzione della Vergine, particolare
Andrea Medulich detto lo Schiavone
La conversione di san Paolo
I V.
SALA DELLA MANIER A
datata al 1624 e quindi ascrivibile all’ultima produzione dell’artista, narra di un miracolo di san Nicola ad un vecchio che, per
mancanza di denaro, stava per avviare alla prostituzione le tre
figlie. Palma rappresenta l’episodio con grande attenzione alla psicologia dei personaggi: stravolge gli schemi dell’iconografia tradizionale che voleva le tre sorelle coricate nello stesso letto, mentre la
mezzana fugge spaventata dal santo. La scena vede in primo piano
le tre giovani intente a discutere tra loro in modo concitato; il padre invece è in secondo piano, seduto al tavolo e illuminato da una
fioca candela. Sullo sfondo nero appare il santo, attraverso una
finestrella con una grolla d’oro tra le mani; la tavolozza cromatica
fa intuire l’intimità e la discrezione della composizione pittorica.
Molto più di maniera e legato alle influenze tizianesche è l’Ecce
Homo tanto che per molto tempo non è stato considerato autografo
del pittore. La composizione sembra riprendere uno schema caro
al Palma in numerose altre tele a destinazione privata, imperniate su un forte contrasto chiaroscurale, ove la figura centrale del
Cristo sofferente con la corona di spine, le mani legate e la verga
del flagello, è illuminata in modo particolare e sembra emergere
dall’ombra opaca dello sfondo dove si intravedono i volti di due
personaggi barbuti.
Tra le finestre è collocata l’Assunzione della Vergine, un modelletto
che l’artista eseguì per il soffitto della Sala dell’Albergo della Scuola di Santa Maria della Giustizia e di San Gerolamo a Venezia
(ora Ateneo Veneto). Quella tela purtroppo nel 1825 andò quasi
completamente distrutta, e se ne conservano solo due frammenti:
gli Apostoli intorno al sepolcro di Maria, ora all’Hermitage di San Pietroburgo, e Adamo ed Eva, in una collezione privata milanese. Iconograficamente l’opera ricorda l’Assunzione della Vergine, secondo lo
schema tizianesco e il Paradiso, tema ripreso dal Tintoretto.
Jacopo Palma il Giovane, chiamato così per distinguersi dal prozio Jacopo Palma il Vecchio, artista anch’esso presente nel Museo,
Jacopo Negretti detto Palma il Giovane
Autoritratto
Jacopo Negretti detto Palma il Giovane
Assunzione della Vergine
71
I V.
Il termine sfera armillare prende il
nome dal latino armilla che significa anello: questo strumento, usato fin
dall’antichità in astronomia, è composto da diversi cerchi che rappresentano l’equatore celeste, l’eclittica,
il coluro dei solstizi e degli equinozi
della sfera celeste.
Console con piano in scagliola
Sfera armillare
SALA DELLA MANIER A
è uno dei personaggi più controversi della storia dell’arte. Artista dalla produzione feconda, dopo un breve periodo giovanile a
Roma, dove si affranca dalla pittura dei tre grandi cinquecenteschi, Tiziano, Tintoretto e Veronese, spenderà tutta la sua attività
nella città lagunare, ove conquisterà fama e onori, e verrà considerato protagonista assoluto nel panorama pittorico veneziano.
Lavoratore instancabile, svolge un’intensa produzione per chiese,
ordini monastici e confraternite, e ottiene importanti commissioni pubbliche come quelle per Palazzo Ducale.
Il soffitto della sala si compone di riquadri angolari in marmorino policromo ornati a grottesca tra cui spiccano due decorazioni,
color ocra, che rappresentano dei cuori trafitti. Al centro l’ovale,
affrescato da Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808) nella seconda metà del Settecento, presenta Diana adagiata su di una nube,
avvolta da un drappo bianco, armata di arco e frecce con la fronte
cinta da una mezzaluna e accompagnata da un putto alato.
Sul tavolo è posta una sfera armillare in legno, cartone e carta stampata, all’interno della quale sono visibili il sole e la luna in ferro,
mentre i cerchi in cartone riportano il ciclo dei mesi e le grandi
costellazioni. L’arredo si completa con una coppia di mensole e
una console in noce databili al XVIII secolo. La console è sormontata da un piano in scagliola Carpi, della fine del Seicento. Il piano
del tavolo è decorato in bianco su fondo nero e nel rosone centrale
è rappresentata una scena bucolica. Una fascia a girali con medaglioni che raffigurano paesaggi, putti, delfini, uccelli e satiri
completa la decorazione. (DDD)
73
I V.
SALA DELLA MANIER A
L’arte della scagliola si diffonde in
Italia alla fine del Cinquecento e
si afferma poi con lo stile Barocco
durante l’intero arco del Seicento e
del Settecento. La scagliola, un impasto di gesso a cui viene aggiunta
della colla da falegname e pigmenti
per le varie colorazioni, viene utilizzata come sostituta di materiali
quali il marmo e le pietre dure. In
seguito, grazie all’abilità creativa
di ingegnosi artigiani, la scagliola
diviene un nuovo tipo di decorazione pregiata. Alla fine del Cinquecento i migliori artigiani provenivano dagli Appennini emiliani (in
particolare dalla zona di Carpi) e
dalla Germania.
Sala della Maniera
pagina seguente: Pietro Longhi
Caccia allo smergo, particolare
75
77
V.
Sala della musica
Uno dei nuclei più significativi della collezione è costituito da
trenta piccole tele dell’artista veneziano Pietro Longhi (Venezia, 1701-1786).
Quindici opere erano di proprietà della famiglia, commissionate
per lo più da Andrea Querini, mentre le altre quindici sono di
provenienza Donà delle Rose. Le quindici tele Donà delle Rose
furono acquistate da un consorzio, che le salvò da una sicura dispersione, cui parteciparono la Fondazione Querini Stampalia,
l’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, la Cassa di Risparmio
di Venezia e il Banco San Marco e furono collocate in deposito
permanente nel Museo della Fondazione.
In questa sala è presente la serie della Caccia in valle insieme a
numerose scene di vita veneziana dove gli aspetti più curiosi sono
sempre raffigurati con straordinaria grazia: chiacchiere di salotto, intimità di famiglia, divertimenti e danze, maschere e gentiluomini, dame e cavalieri, contadini e isolane, giochi e mestieri,
scherzi d’amore, giocolieri e ciarlatani, indovini e cantastorie,
acrobati e astrologi.
La Caccia in valle, concepita originariamente per palazzo Barbarigo a Santa Maria Zobenigo a Venezia, dove restano visibili sulle
pareti le cornici a stucco che custodivano i dipinti, costituisce uno
dei cicli più celebri dell’artista.
Verso il 1765-70 Longhi eseguì per la famiglia Barbarigo queste sette piccole tele con la raffigurazione dell’Arrivo del signore, la
Preparazione dei fucili, la Preparazione delle munizioni, il Sorteggio dei
cacciatori, la Partenza per la caccia, la Posta in botte e il Conteggio della
cacciagione.
Il carattere estremamente realistico delle rappresentazioni, i
79
pagina precedente: Pietro Longhi
Lezione di geografia
V.
SALA DELLA MUSICA
numerosi disegni preparatori conservati, l’aderenza al vero, l’attenzione scrupolosa ai dettagli e alle tecniche utilizzate, lasciano
supporre la partecipazione di Longhi alle battute di caccia insieme al suo committente.
Uno dei momenti più alti del ciclo è l’Arrivo del signore: Gregorio
Barbarigo quasi cinquantenne con sguardo distaccato, portamento da sovrano e abbigliamento da città giunge nella valle. Subito i
contadini si inginocchiano dinanzi a lui e baciano un lembo della
veste patrizia quasi a voler rimarcare la distanza tra le due classi
sociali. La scena è ambientata al tramonto in una fredda sera
d’autunno e il paesaggio è solo accennato con il “casone” nella
sinistra e con straordinari effetti di luce e colori all’orizzonte che
caratterizzano il panorama lagunare.
Non meno significativa la Posta in botte con la cacciagione in primo
piano, lo scorcio dell’uomo accovacciato, forse intento a nascondere sotto la giacca una preda approfittando della disattenzione
del cacciatore, e più lontano il saettare degli uccelli e l’annuncio
del nuovo giorno che indica la fine dell’avventura.
Il tiratore entra nella botte, una sorta di tino a tronco di cono
con intorno delle zolle erbose che la rendono simile ad un’isoletta
e aspetta le prede che nel frattempo vengono richiamate dalle
anatre, in legno dipinto ad olio, che sono state posizionate dal
cacciatore intorno al promontorio “tombolo”.
La Caccia allo smergo è uno dei più celebri dipinti di Longhi sia per
la particolarità del tema, sia per la felice resa del paesaggio lagunare veneto. Questa caccia, piuttosto singolare, era molto amata
dalla gioventù patrizia e ancora in uso nel Settecento come prova
di abilità. Il nobile, in elegante tenuta da caccia con giubba rossa
si disponeva a prua della “ballottina” e con arco e “balotta” in
mano, ossia una pallina di terracotta, si apprestava a colpire lo
smergo, tra tutti gli uccelli quello più difficile da cacciare, resistentissimo e, anche se ferito, capace di nuotare a lungo sott’acqua.
Pietro Longhi
Arrivo del signore
Posta in botte
Preparazione dei fucili
Conteggio della cacciagione
81
Pietro Longhi
Caccia allo smergo
V.
SALA DELLA MUSICA
Nelle altre scene di genere presenti nella sala il pittore non tralascia di analizzare nessun aspetto della società; entra nelle case
popolari, nei salotti delle residenze patrizie (Lezione di geografia, Famiglia Sagredo, Famiglia Michiel), nelle osterie (Contadini all’osteria),
nelle case da gioco (Ridotto) ed esce nei campi, nelle piazze e nelle
calli di Venezia (Mondo novo, Casotto del leone) e persino in campagna (Filatrice, Filatrici, Contadina addormentata, Furlana) riuscendo a
cogliere l’atmosfera dei luoghi, le abitudini, i costumi e lo stato
d’animo della gente, immortalando il tutto con un’estrema raffinatezza d’influenza quasi francese.
In ogni scena, con un’apparente semplicità, Longhi riduce i paesaggi e gli ambienti a qualche accenno quasi simbolico mentre
evidenzia e valorizza i gesti, le espressioni, gli atteggiamenti, i
movimenti e il carattere dei suoi personaggi con l’utilizzo di una
tavolozza dai colori densi, caldi ed eleganti.
È la stessa lunghezza d’onda delle rappresentazioni teatrali di
Carlo Goldoni, suo caro amico che incontra e frequenta nel Palazzo queriniano: luogo che grazie ad Andrea Querini, favorisce
la loro colta amicizia, lo studio e il divertimento.
Sono esposti anche Le tentazioni di sant’Antonio e la Frateria di Venezia che, illustrando i ventidue ordini religiosi che avevano sede a
Venezia nel 1761, costituisce un vero e proprio manifesto politico
del tempo dove i personaggi sono ritratti con una satira particolarmente pungente.
Nella sala sono presenti numerosi strumenti musicali della famiglia, alcuni a corda altri a fiato.
Tra i più interessanti vanno ricordati i due violini attribuiti al primo grande costruttore di strumenti operante nella città lagunare
Martinus Kaiser (Füssen, 1642 circa - ?, 1695 circa) ritenuto
il caposcuola della liuteria veneziana e i due archetti per violino
attribuiti a Carlo Tononi (Bologna, 1675 - Venezia, 1730). Il Tononi usava siglare le sue opere con un marchio a fuoco in negativo
Pietro Longhi
Mondo novo
Pietro Longhi
Casotto del leone
83
V.
SALA DELLA MUSICA
(il nome appare chiaro e tutto intorno bruciato) in due diversi
punti: sulle fasce, vicino al bottone, e sul fondo, sotto la nocetta
così come evidenziato sui due archi di questa collezione. Del Tononi esistono solamente tre archi; il terzo si trova nella collezione
inglese Albert Cooper.
Di notevole interesse anche la ribalta con alzata collocata tra le finestre, in legno e radica di noce, della prima metà del XVIII secolo.
Si tratta di un raffinato mobile composto di due corpi separati da
elementi dorati e torniti a forma di cipolla, impiallacciato in bellissima radica di noce e impreziosito da graziose rifiniture dorate,
che accendono la patina del bureau-trumeau.
Durante i ricevimenti questo tipo di mobile veniva lasciato aperto
per svelare le collezioni di statuine inserite negli appositi scomparti, un teatrino tutto veneziano. (BT)
Il 26 agosto 1740 Cecilia, sorella del senatore Andrea, scrive
al padre procuratore Giovanni: “...Raccomando a V.E. la mia
spinetina, se mai potese farmela agiustare; e mi farebbe un gran
favore poi a mandarmela, con il libro delli minuetti, acciò non
mi dimentichi quello che ho imparato...”.
Martinus Kaiser
Violini
VI.
Sala dei ritratti
La ritrattistica familiare è un ambito di primaria importanza nella storia della collezione. Era infatti uso comune per le famiglie
nobili veneziane commissionare ritratti: alcuni avevano una funzione domestica ed erano di piccole dimensioni, altri venivano
richiesti con l’intento di celebrare un momento importante per la
vita dell’effigiato e della comunità familiare.
Sebastiano Bombelli (Udine, 1635 - Venezia, 1719), uno dei
più famosi ritrattisti della nobiltà lagunare, eseguì per i Querini
alcuni ritratti di famiglia.
Il ritratto di Gerolamo Querini, realizzato con probabilità prima che
il Querini fosse nominato procuratore e quindi prima dell’aprile
1669, raffigura il giovane a mezzo busto con una lunga parrucca
nera che gli copre le spalle. La figura si staglia su un fondo scuro
e viene rischiarata soltanto dal candore del viso e dall’elegante
jabot di pizzo bianco della camicia.
Gerolamo viene ritratto dal Bombelli anche più tardi, intorno al
1684, quando l’artista lo dipinge come un uomo maturo, a mezzo
busto e di tre quarti, vestito con una giacca da casa damascata
con inserti in velluto.
Dello stesso periodo sono anche i ritratti di Polo Querini, fratello
più giovane di Gerolamo.
Il ritratto di Polo Querini a mezzo busto, databile tra il 1675 e il
1680 lo rappresenta in una dimensione domestica, iscritto in un
ovale con una elegante veste da camera che cela una fine camicia
di seta bianca. In questo dipinto il pittore rivela la sua grande
capacità nel rendere le caratteristiche psicologiche dell’effigiato.
Più di maniera, dai colori smaglianti, appare il ritratto di Polo
Querini di grandi dimensioni, databile dopo il 1680, periodo in
87
VI.
SA L A DEI R I TR AT T I
cui Polo Querini acquista la carica straordinaria di procuratore
de ultra. L’uso di toni accesi e di una pennellata densa per gli abiti
fa propendere gli studi più recenti a ritenere che quest’opera sia
stata realizzata dal Bombelli con il contributo di uno dei suoi allievi migliori, Vittore Ghislandi, più conosciuto con il nome d’arte
di Fra’ Galgario.
Un altro allievo del Bombelli è Nicolò Cassana (Venezia, 1659
- Londra, 1714), anch’esso presente in sala con due tele, realizzate
intorno al 1694 per celebrare la salita al soglio dogale del doge Silvestro Valier e di sua moglie Elisabetta Querini Valier. Al Cassana
vennero commissionati, secondo l’uso, due ritratti di piccole dimensioni in pendant: nel ritratto del Doge Silvestro Valier il Cassana dipinge
l’anziano con in testa la “zoggia” ovvero il corno dogale, chiamato
così perché, alla sommità, vi era sempre una grande pietra preziosa, e con una sontuosa stola di ermellino che gli copre le spalle
e lascia intravedere una veste riccamente adornata. Il pittore, pur
manifestando la sua provenienza dai Tenebrosi, dipinge la composizione con toni più chiari, mettendo in risalto l’atteggiamento
psicologico dell’effigiato. Nel ritratto della Dogaressa Elisabetta Querini Valier il volto dell’anziana nobile sembra mancare di qualsiasi
espressione, quasi che l’opulenza dell’abito e dei gioielli annientino
qualsiasi spirito vitale. L’abito, l’acconciatura e i gioielli sono resi
con grande attenzione: la donna indossa il corno abbellito da perle,
il manto di broccato con preziosi inserti in oro e bordato di pelliccia
e porta al collo una lunga collana che finisce con una grande croce
di diamanti, la toilette è completata dalla preziosa cintura.
Nicolò Cassana è il maggiore di una famiglia di pittori veneziani. A bottega dal padre, Giovanni Francesco di origini genovesi, si
forma sulla pittura di Bernardo Strozzi e, in seguito, verrà influenzato dalla corrente dei Tenebrosi. Ormai famoso in tutta Italia, si
trasferisce in Inghilterra dove diventa noto presso la nobiltà e la
monarchia inglese, anche per la produzione, assieme a Sebastiano
pagina precedente:
Sebastiano Bombelli
Gerolamo Querini
Sebastiano Bombelli
Polo Querini
VI.
SA L A DEI R I TR AT T I
Ricci e al di lui nipote Marco, di numerosi falsi d’autore spacciandoli per opere di Tiziano, Tintoretto e altri grandi pittori veneti.
Interessanti i due ritratti di Luca Giordano (Napoli, 1634-1705):
il migliore dal punto di vista stilistico è Filosofo, già conosciuto in
passato come Leucippo, per il riferimento ad alcuni caratteri greci
che appaiono nello sfondo del quadro. L’opera va collocata nel periodo giovanile di Giordano quando era molto forte l’influsso del
suo maestro, il pittore spagnolo Giuseppe Ribera conosciuto come
lo Spagnoletto. Il personaggio, di cui non si rileva alcun attributo
iconografico è seduto accanto al tavolo in una stanza disadorna,
ha i vestiti sgualciti e lo sguardo triste; solo il berretto da casa
e la pergamena in mano gli conferiscono un’aria più dignitosa.
Eraclito, che in passato era stato identificato come Democrito,
probabilmente per l’attributo della sfera terrestre, è immortalato
in una stanza molto scura, rischiarata soltanto dai carteggi e dal
globo terrestre posto sul tavolo.
Luca Giordano è uno dei pittori più prolifici del suo secolo, detto anche Luca Fapresto per la grande capacità esecutiva; conosceva tutta
la pittura del suo tempo e del Cinquecento e riusciva a riprodurre a
memoria anche artisti stranieri come Rubens e Rembrandt.
Nel dipinto giovanile di Girolamo Forabosco (Venezia, 1605
- Padova, 1679) Gentildonna la figura riprende la tipica composizione tizianesca, rendendola alla moda del Seicento; la donna, con i
capelli bruni raccolti in maniera semplice e ornati da un gioiello
di granati, è vestita di scuro con un ampio mantello di pizzo che
ne copre le spalle e parte del sontuoso abito a vita alta arricchito
anch’esso da merletti.
Si possono ammirare un monetiere da tavolo in legno ebanizzato e intarsiato in avorio a dodici cassetti con motivi decorativi a
grottesca, e un orologio da mensola e fastigio in bronzo, tartaruga e
ottone databile al XVIII secolo che riprende il decoro tipico di
Charles André Boulle, ebanista alla corte del Re Sole. (DDD)
Girolamo Forabosco
Gentildonna
Orologio da mensola
Monetiere
91
VI.
SA L A DEI R I TR AT T I
L’incoronazione a dogaressa di Elisabetta Querini Valier fu
un fatto del tutto eccezionale, perché severamente vietata dalle
leggi della Repubblica di Venezia. Silvestro Valier infatti volle
celebrare la sua salita al soglio dogale anche con la cerimonia
di incoronazione della moglie, non preoccupandosi del decreto
del Maggior Consiglio del 10 gennaio 1645 che recita: “In
ogni tempo e a venire sia proibito il farsi l’incoronazione de le
Dogaresse, come attione non necessaria et poco aggiustata a la
moderation del Governo”.
Nicolò Cassana
Doge Silvestro Valier
Nicolò Cassana
Dogaressa Elisabetta Querini Valier
93
Sala dei ritratti
VII.
Salotto Giuseppe Jappelli
La sala è dedicata a Giuseppe Jappelli (Venezia, 1783-1852),
architetto e ingegnere, massimo esponente dello stile neoclassico
nel Veneto, a cui Caterina, sorella di Giovanni e moglie del conte
padovano Gerolamo Polcastro, commissionò il salotto alla pompeiana. L’arredo proveniva dalla villa Polcastro di Loreggia in provincia di Padova dove Caterina soggiornò dopo la morte del marito
e la vendita del palazzo di famiglia in Santa Sofia a Padova.
Il salotto, in legno laccato nero con raffigurazioni dipinte a finto
intarsio color noce, si compone di un divano, un tavolo con piano
in radica, dieci sedie, due vetrine e una specchiera che sormonta
il caminetto. Il divano, a forma di gondola, è appoggiato su quattro basi con serpenti intagliati, mentre l’imbottitura è in panno
blu, rifinito in ciniglia marrone.
Le sedie sono di struttura semplice con unico sostegno allo schienale e le gambe ricurve lisce. Costituiscono un esempio interessante di disegno ispirato all’antico e sono simili alla klismos chair,
creata in Inghilterra alla fine del Settecento.
Il tavolo con intarsi in madreperla, gambe a zampa di leone e una
piccola scultura sulla base, che rappresenta un’anfora nelle spire
di un serpente, nasconde un cassetto con serratura dorata a forma
di testa di leone.
Le due vetrine riprendono nella parte bassa la linea ricurva del
divano, mentre in alto, nel punto di apertura dell’anta presentano due piccole decorazioni di metallo che riproducono i capitelli
corinzi ornati da bucrani, più tipici dello stile dorico. Interessanti
sono le figurine dipinte a finto intarsio, diverse l’una dall’altra,
che si rincorrono da un arredo all’altro. Esse raccontano episodi mitologici dove ninfe, dee, centauri, putti e altri personaggi
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pagina precedente:
Giuseppe Jappelli
Salotto alla pompeiana, particolare
Salotto alla pompeiana
VII.
SALOTTO GIUSEPPE JAPPELLI
decorano il legno laccato e sembrano ripresi dal vasellame antico.
Questo salotto rivela evidenti riferimenti all’arredo originale di
una sala del Caffè Pedrocchi di Padova.
In una vetrina è esposta una tazzina da caffè con piattino della manifattura di Meissen, databile al 1740. La decorazione su
fondo bianco presenta piccoli fiori sparsi indiani e paesaggi in
miniatura entro cartigli profilati in oro. Al centro del piattino e
ripetuto sul corpo della tazza, circondato da mazzolini di fiori,
è dipinto lo stemma della famiglia Querini Stampalia. La tazza
e il piattino, di altissima qualità, facevano parte di un cabaret di
cui si conoscono oggi altri pezzi, conservati in musei e collezioni
private d’Europa, probabilmente un dono di ringraziamento
ad Andrea Domenico Querini da parte del principe ereditario
Federico Cristiano elettore di Sassonia. Nel 1740, infatti, il figlio
del re di Polonia era vissuto per sei mesi a Venezia, intrattenuto
durante il suo soggiorno dal Querini, da Giulio Contarini, da
Piero Correr e da Alvise Mocenigo.
Sopra il tavolo trova posto una delle opere più importanti del
Museo, il bozzetto in creta di Letizia Ramolino Bonaparte, realizzato dallo scultore Antonio Canova (Possagno, 1757 - Venezia,
1822). Nella produzione canoviana il bozzetto era la prima trasformazione plastica del disegno preparatorio e, nel caso della
scultura queriniana, ci troviamo di fronte ad un esemplare poco
deteriorato e ricco di suggestione. Letizia Bonaparte, madre di
Napoleone commissionò al Canova nel 1804 un ritratto a figura
intera; il bozzetto è stato realizzato in quel periodo, così come
quello gemello che si trova a Possagno. La statua in marmo si
trova invece nella collezione Devonshire a Chatsworth in Inghilterra. Il bozzetto fu donato dall’abate Giovanni Battista Sartori,
fratellastro di Canova, al conte Giovanni Querini Stampalia.
Il dipinto La partenza del Bucintoro di Antonio Stom (Venezia,
notizie 1717-1734) ha avuto diverse attribuzioni, anche illustri,
Antonio Canova
Letizia Ramolino Bonaparte
Manifattura di Meissen
Tazzina con piattino
97
Antonio Stom
La partenza del Bucintoro
99
VII.
Memento mori, letteralmente significa “Ricordati che devi
morire” ed è una famosa locuzione in lingua latina. La frase
deriva da una usanza dell’antica Roma: quando un generale
vincitore ritornava in città dopo una campagna bellica, doveva
sfilare per le vie acclamato dalla folla in festa. Accanto a lui
però c’era sempre uno schiavo che era incaricato di pronunciare
questa frase per ricordargli la sua natura umana, in modo che
al generale non venissero manie di grandezza.
Peeter Bolckman
Temporale
Peeter Bolckman
Caccia al cervo
SALOTTO GIUSEPPE JAPPELLI
come quella al Canaletto, prima di essere riconosciuto come opera dell’artista originario della Valgardena. La veduta rappresenta
la partenza del doge sul Bucintoro dal bacino di San Marco nel
giorno dell’Ascensione, in veneziano “Sensa”. In quel giorno veniva celebrato lo sposalizio tra la città e il mare, evento festeggiato
anche ai giorni nostri. Il doge, accompagnato da un seguito di
centinaia di imbarcazioni, si recava a Sant’Elena per accogliere
il vescovo di Castello (dal 1451 Patriarca di Venezia) che portava
con sé una bacinella di acqua benedetta, un vaso di sale e un
ramo d’olivo come aspersorio. Dopo la benedizione del vescovo il
doge gettava nelle acque l’anello dicendo in latino “Ti sposiamo
in segno di vero e perpetuo dominio”. Ritornando in laguna il
vescovo e il doge venivano accolti dall’abate del monastero di San
Nicolò del Lido e in processione entravano in chiesa per assistere
ad una funzione religiosa, a conclusione della quale il doge rientrava a Palazzo Ducale dove aveva luogo un banchetto pubblico a
cui partecipavano anche le maestranze dell’Arsenale.
Infine tre paesaggi attribuiti a Peeter Bolckman (Gorinchen,
1640 - Torino, 1710) databili al periodo in cui il pittore olandese
soggiornò a Genova tra il 1670 e il 1678.
Le tele, di formato verticale, permettono all’artista di distribuire
le immagini in piani molteplici. Nella realizzazione dei tre paesaggi Bolckman è chiaramente influenzato da Pieter Mulier detto
il Cavalier Tempesta, che probabilmente conobbe a Genova, piuttosto che dai bamboccianti.
Il Temporale rappresenta la natura sconvolta dalla furia degli elementi: nubi nere si rincorrono nel cielo in tempesta, realizzato con un
sapiente gioco di chiaroscuri. Al centro del dipinto l’albero spezzato
dalla furia del vento, motivo che, con minime variazioni, ricorre in
tutte e tre le opere queriniane e che può essere ricondotto all’usanza
dell’arte fiamminga di inserire nelle opere un memento mori, un elemento iconografico che ammonisca e ricordi la brevità della vita.
101
VII.
SALOTTO GIUSEPPE JAPPELLI
Nella Caccia al cervo ritroviamo il paesaggio boscoso dell’artista,
mentre nel Paesaggio con pastori egli ritrae una tranquilla scena bucolica, dove solo il cielo carico di nubi e l’albero in primo piano,
scosso dal vento, ci riconducono alle tipiche atmosfere dell’artista.
Merita attenzione anche l’opera Senza titolo - Muro #5 di Elisabetta Di Maggio (Milano 1964). Intagliando vari strati di colore in forme vegetali, tratte dagli antichi tessuti che rivestivano le
sale del Palazzo, l’artista fa riemergere i colori sovrapposti dagli
intonaci, evocando le memorie del passato.
L’intervento è stato realizzato in occasione dell’iniziativa “Conservare il futuro” che prevede un dialogo tra gli artisti contemporanei e il Museo. (DDD)
Elisabetta Di Maggio
Senza titolo - Muro #5
103
VIII. Sala Ottocento
La sala è dedicata alla collezione di oggetti di arte decorativa
raccolta da Ada Morandi Padoan, dal marito Romano Padoan e
donata dal figlio Renato al Museo.
L’antiquario Romano Padoan era il proprietario dello storico negozio a San Marco “Giuseppe Dominici”, una delle mete più visitate da collezionisti e amatori d’arte di tutta una generazione di
veneziani e stranieri.
La collezione, esposta nella vetrina a parete, comprende porcellane, maioliche, argenti, smalti, vetri e una serie di objets de vertu che,
tra Settecento e Ottocento, diventarono accessori indispensabili
alla moda maschile e femminile.
Particolare attenzione è stata posta nella scelta degli oggetti in
porcellana. La raccolta è costituita da una campionatura delle più
importanti fabbriche italiane ed europee dei secoli XVIII e XIX,
con un numero consistente di tazzine e piattini.
La manifattura di Meissen è presente con alcuni pezzi di alto
livello qualitativo, come il gruppo L’amante scoperto su modello
dello scultore Johann Joachim Kändler, che ne rivela lo spirito
ironico e lievemente burlesco. Una raffinata tazza da puerpera con
coperchio e piattino, contenitore che un’antica tradizione destinava
al brodo ristoratore per le dame uscite dal travaglio, è ornata su
fondo bianco a mazzi di fiori indiani nei colori rosso, viola, giallo,
azzurro e verde.
Della manifattura di Sèvres è la tazza e piattino con cartelle decorate a trionfi di gusto campestre e attributi rivoluzionari a fondo
bleu céleste databile al 1793-1800. L’originalità della tazza dal semplice profilo ovoide sta nei manici, ispirati a quelli delle coppe o
dei vasi antichi.
Camillo Innocenti
Il gioiello
VIII.
Il costo del tè nel Settecento era molto elevato e per questo motivo
le tazze da tè erano solitamente più piccole di quelle da caffè;
anche le dimensioni ridotte delle teiere nel periodo tra il 1730 e
il 1770 testimoniano quanto il tè fosse all’epoca raro e costoso.
Manifattura di Meissen
L’amante scoperto
Manifattura di Meissen
Tazza da puerpera con coperchio e piattino
Manifattura Ferniani, Faenza
Rinfrescatoio per bottiglia
Manifattura di Sèvres
Tazza e piattino
SALA OTTOCENTO
Tra le porcellane italiane del Settecento ben rappresentata è la
produzione della manifattura veneziana dei Cozzi, con chicchere
e tazzine, tutte marcate con l’ancora rosso ferro. Le accompagna
una teiera globulare in porcellana bianca, dalla caratteristica pasta
di tonalità grigia e vetrina brillante (1765-70). La decorazione a
peonie, rami fioriti e rondinelle è chiamata “blu e rosso o del
Giapon” e ricorda infatti i motivi ornamentali delle porcellane
giapponesi Imari. Uscite dalla stessa fabbrica sono le due tazzine
alla turca da tè tipiche della produzione Cozzi, databili al 1765-90,
decorate con fogliette d’oro sparse e bordi a squama verde smeraldo che richiamano i modelli di Meissen.
La collezione comprende inoltre porcellane ottocentesche con
esempi delle manifatture parigine dei fratelli Darte e di Dagoty, delle manifatture di Berlino e di Gotha, della fabbrica
Schlaggenwald e della manifattura di Vienna.
Tra le galanteries numerose sono le tabacchiere in smalto di manifattura europea. Un cenno particolare merita la tabacchiera di
forma rettangolare ornata a scene galanti policrome e montata in
rame dorato di probabile manifattura tedesca della seconda metà
del Settecento.
Alle pareti della sala sono esposti dipinti degli inizi del XX secolo.
Di Camillo Innocenti (Roma, 1871-1961) è la tela Il gioiello, datata 1906. L’opera raffigura un interno di chiara luminosità a
tinte grigie e verdi rese vibranti dal delicato gioco dei contrasti
con la veste bianca della aggraziata figura femminile in un clima
di vago dannunzianesimo.
La modella di Alessandro Milesi (Venezia, 1856-1945), acquistata dalla Fondazione alla Biennale veneziana del 1910, rientra nella
fortunata produzione ritrattistica dell’artista. Eseguita quasi di getto
con una pennellata densa e strascicata su tonalità prevalentemente
scure dove risaltano i verdi, i bianchi e i rossi dei fiori della veste, La
modella rispecchia l’eleganza e lo stile inconfondibile di un’epoca.
107
VIII.
SALA OTTOCENTO
Di pacato realismo il ritratto di Giovanni Bordiga (Presidente della
Fondazione dal 1926 al 1933) è l’opera con la quale Lino Selvatico (Padova, 1872 - Treviso, 1924) esordisce come artista alla
Biennale veneziana nel 1899. Ed è proprio in questo genere che
Selvatico troverà il suo punto di forza, diventando il ritrattista
della società elegante, della nobiltà e della borghesia della Belle
Époque veneziana.
Esposta sopra il mobile con ribalta degli inizi del XIX secolo, la
tempera su carta di Alberto Pasini (Busseto, 1826 - Cavoretto,
1899) Montenegrino a cavallo del 1860 circa è un modello di studio
che rientra nella produzione orientalista dell’artista.
Al centro della sala è presentata la cera Testa di bimbo di Medardo Rosso (Torino, 1858 - Milano, 1928). Nell’opera dello scultore si legge il senso della creatura nella sua corruttibilità e nel suo
disfacimento; bambini o vecchi indagati con un realismo quasi
senza compassione.
Nel corridoio si ammira In porto di Guglielmo Ciardi (Venezia,
1842-1917), veduta che si inserisce tra i dipinti a soggetto paesaggistico del padre della pittura veneta di paesaggio ottocentesca.
(EDC)
Con la buona stagione Milesi amava passeggiare lungo le Zattere, dove tra l’altro risiedeva, fermandosi a guardare i pittori,
esperti o dilettanti, che dipingevano sulla riva del Canale della Giudecca. Osservava il quadro abbozzato e non riusciva a
tacere: “Vèdela, qua el dovaria far dei sfregazzi co ’na calza
de seda, de quele da dona. El vien meio. E questo ghe lo dise
Milesi, pitor vecio venezian”.
Alessandro Milesi
La modella
109
Alberto Pasini
Montenegrino a cavallo
Medardo Rosso
Testa di bimbo
VIII.
Lino Selvatico
Giovanni Bordiga
111
SALA OTTOCENTO
Guglielmo Ciardi
In porto
IX.
Scene di vita veneziana
Quello che si ammira attraverso le tele esposte in questa sala è
un vivace documentario di usi e costumi della vita pubblica veneziana ai tempi della Serenissima. I dipinti sono tutti opera di
Gabriel Bella (Venezia, 1730-1799) non proprio pittore, ma decoratore e con tale mansione impiegato da Andrea Querini nella
sua casa di campagna vicino a Treviso, da dove infatti queste tele
provengono.
Bella rappresenta le tradizionali feste del Carnevale e quelle private nell’intimità di un campiello o nell’inedito ambiente di un
teatro; ma anche sagre, passeggi, regate, corsi e un matrimonio.
Una buona parte dei suoi dipinti raffigura le cerimonie a cui partecipavano il doge, i magistrati e gli avvenimenti religiosi, permettendo così, a distanza di secoli, di partecipare alla quotidianità della vita durante la Repubblica.
L’artista prende spunto da incisioni dei secoli XVI, XVII e XVIII,
adattandole però alla sua esperienza personale e modificandole secondo quanto vedeva, per cui, paragonando le incisioni più
antiche con i suoi quadri e con ciò che si vede ai nostri giorni, è
possibile cogliere i cambiamenti della città nei secoli.
Alcuni dei giochi descritti con il pennello dal Bella sono particolarmente singolari, altri sono molto crudeli per la sensibilità di
oggi, ma all’epoca erano così famosi da attirare a Venezia i più
importanti personaggi del tempo. Ci sono le cacce dei tori, uno
tra gli spettacoli più frequenti in città per oltre un millennio, di
cui si trovano diversi esempi nella Caccia dei tori nel cortile di Palazzo
Ducale, nella Caccia dei tori alle Chiovere a San Giobbe e nel Corso dei
tori e La gara delle carriole a Rialto. Altri giochi con animali si vedono
nella Caccia all’orso in campo Sant’Angelo o nella Sagra della vecchia in
113
pagina precedente: Gabriel Bella
La regata delle donne in Canal Grande, particolare
IX.
SCE N E DI V I TA V E N EZI A NA
campo San Luca, dove sul palco un uomo inginocchiato cerca di
catturare con i denti un’anguilla viva, immersa in una tinozza di
acqua nera: le facce lorde di chi giocava suscitavano l’ilarità del
pubblico. Molti dei passatempi più comuni sono riuniti nella Festa
del 2 febbraio a Santa Maria Formosa, dove, oltre alla caccia al toro
e all’orso, ci si può divertire a cercare altre piccole scene: l’albero
della cuccagna, la rappresentazione di una tipica danza, la furlana, ma anche un gioco brutale che prevedeva di uccidere un gatto
a testate e un altro ancora dove si cercava di afferrare un’oca sospesa sull’acqua scontando però la pena di un bagno in canale!
Il Carnevale è rappresentato in vari dipinti tra cui I ciarlatani in
Piazzetta e L’ultimo giorno di Carnevale, ma il più significativo è La
festa del giovedì grasso in Piazzetta, copia di una delle Dodici Solennità
dogali disegnate da Canaletto e incise da Brustolon. La scena è dominata dalla grande costruzione da cui partivano i fuochi d’artificio alla fine della festa, ma prima molti divertimenti animavano
la giornata e per l’occasione venivano create apposite gradinate
dove gli spettatori sedevano per godersi lo spettacolo. Nel quadro sono descritte alcune attrazioni: lo “svolo del turco”, cioè un
giovane appeso per la vita che, scivolando lungo una doppia fune
dalla cima del campanile fino alla loggia su cui si affaccia il doge,
doveva porgergli un mazzo di fiori e una poesia, e le Forze d’Ercole dove castellani e nicolotti, le due fazioni avverse della città,
si sfidavano.
Il Bella dipinge molti passeggi e anche corsi, cioè l’antica abitudine che faceva riunire in un luogo molte imbarcazioni per divertimento. Si remava tutti insieme cercando di superarsi, dando
prova di destrezza. Sulle fondamenta si raccoglievano numerose
persone per assistere al Corso nobile da San Stae alla Croce, al Corso nel
canale della Giudecca e al Corso dei Sollazzieri alle Fondamente Nuove.
Tra i corsi, quello che attirava la maggiore folla era senza dubbio
Il corso delle cortigiane in Rio della Sensa, non più una gara, ma una
Gabriel Bella
L’ultimo giorno di Carnevale
Gabriel Bella
Cena al teatro di San Benedetto
per i Duchi del Nord
115
Gabriel Bella
Il corso delle cortigiane in Rio della Sensa
IX.
SCE N E DI V I TA V E N EZI A NA
passeggiata a filo d’acqua. Alle meretrici era stato vietato di uscire
a “corsi” con l’unica eccezione di quello che andava dal Rio della
Sensa a Sant’Alvise che divenne perciò il corso delle cortigiane.
L’uso del regatare a Venezia è antichissimo e le prime competizioni pubbliche di cui abbiamo testimonianza risalgono al Trecento. La regata delle donne in Canal Grande è raffigurata mentre si
sta superando la Punta della Dogana: le “caorline”, imbarcazioni
su cui gareggiano le donne, sono accompagnate dal solito corteo
di gondole col “felze” e da altre colorate e adorne. Le barche con
quattro rematori in livrea e un nobile inginocchiato a prua sono
le “ballottine”, qui usate come servizio d’ordine: chi intralciava il
percorso ai concorrenti veniva colpito con la “balotta”, pallina di
terracotta scagliata con una fionda.
Tra i dipinti troviamo anche le feste dei nobili e del popolo. Ai
primi erano riservati spazi lussuosi come quello che si vede nella
Cena al Teatro di San Benedetto per i Duchi del Nord, dove, il 22 gennaio 1782 fu allestita, nel nuovissimo teatro di San Benedetto, una
cena sontuosa per accogliere gli eredi al trono di Russia. Dai racconti di chi vi partecipò si apprende che per l’occasione il teatro
fu decorato con raso celeste e argento alternato a specchi; il palcoscenico fu unito all’orchestra da un’ampia scalinata, ai lati della
quale erano allineati i suonatori in elegante uniforme. L’illuminazione era affidata a migliaia di candele e la visione di quel luogo
doveva essere davvero suggestiva. Dopo la cena si tolsero i tavoli e
si ballò, come era di moda fare nel Settecento in molti teatri.
Il popolo invece si divertiva con La festa da ballo in campiello, qui
rappresentata come festa da soldo, a pagamento, al suono di violini e violoncello, c’è chi balla, chi guarda, chi beve come le donne
al tavolo sulla destra o chi fuma, come l’uomo dietro di loro, e
chi gioca a bocce o a tacco, tipico divertimento dei fanciulli che
dovevano riuscire a lanciare il tacco di una scarpa sopra quello
degli altri.
Gabriel Bella
La regata delle donne in Canal Grande
117
IX.
Gabriel Bella
Festa del 2 febbraio a Santa Maria Formosa
119
SA L A DEL L A V I TA V E N EZI A NA
Gabriel Bella
L’incoronazione del Doge sulla scala dei Giganti
IX.
SCE N E DI V I TA V E N EZI A NA
Anche la vita del doge e le cerimonie politiche e religiose della città raffigurate dal Bella sono tratte dalle Solennità dogali di
Canaletto e Brustolon. L’elezione del doge per opera dei Quarantuno ricorda il procedimento molto complicato messo in atto per l’elezione della maggiore carica della Serenissima. Un bambino tra
gli otto e i dieci anni, destinato poi a stare alla corte del nuovo
doge, doveva estrarre a sorte trenta patrizi che ne sorteggiavano
altri i quali ne sceglievano ancora fino ad arrivare al numero di
quarantuno. Questi ultimi eleggevano il doge con una maggioranza minima di venticinque voti. Appena avvenuta la nomina,
il più anziano dei Quarantuno presentava il doge nella basilica di
San Marco, così come è raffigurata nel dipinto La presentazione del
nuovo doge al popolo. Al centro del dipinto si vede la preparazione
del pozzetto su cui salirà il doge, mentre armati di bastone gli
arsenalotti liberano il passaggio tenendo a bada la folla. Il doge
andava quindi a fare Il giro della piazza in pozzetto, portato a mano
da ottanta arsenalotti. Con il doge anche l’Ammiraglio, comandante supremo dell’Arsenale, che regge lo stendardo appena consegnato al Serenissimo Principe, mentre il ballottino e un parente
del doge lanciano monete con il nuovo nome appena coniate sulla
folla. Terminato il giro della piazza si passava a Palazzo Ducale
per L’incoronazione del doge sulla scala dei Giganti, dove sulla sommità
della scala attorniato dai Quarantuno il doge faceva giuramento
e veniva incoronato con il corno ducale. (TB)
A Venezia la maschera si portava anche in occasioni diverse dal
Carnevale, è questo il caso del Passeggio delle maschere il
giorno di Santo Stefano, o del Nuovo Ridotto, qui infatti per una disposizione legislativa del 1704 solo ai nobili era
concesso tener banco a viso scoperto, mentre i giocatori dovevano
entrare in bautta.
Gabriel Bella
Sagra della vecchia in campo San Luca
Gabriel Bella
Nuovo ridotto
121
X.
Studiolo
Al centro del soffitto, affrescato alla fine del XVIII secolo con
trompe-l’oeïl a motivi fitomorfici e geometrici, sono raffigurate le
Tre grazie: Aglaia “splendente”, Eufrosine “gioia e letizia” e Talia
“portatrice di fiori”.
Alle pareti sono collocate due tele a soggetto mitologico di Federico Cervelli (Milano, 1638 circa - Venezia, ante 1712) Orfeo ed
Euridice e Pan e Siringa.
Il dipinto con Orfeo ed Euridice rappresenta il più noto episodio
mitico legato alla figura di Orfeo.
Alla morte della giovane sposa Euridice, causata dal morso di un
serpente, Orfeo disperato discende nel regno dei morti per cercarla. Con il suo canto straordinario commuove le divinità degli
inferi che gli concedono di risalire portando con sé la moglie a
patto di non girarsi indietro a guardarla prima di aver raggiunto
la soglia illuminata dalla luce del sole. Il poeta, ormai prossimo
alla meta, cedendo al desiderio di rivedere la sposa si volta, Euridice sparisce per sempre ed Orfeo sconsolato è costretto a tornare
da solo sulla terra.
Il Cervelli interpreta con libertà il mito e, con una pennellata forte e vibrante, che caratterizza parte della sua produzione, dipinge
ogni singolo elemento con attenzione ed eleganza.
Orfeo viene raffigurato con il capo coronato d’alloro per alludere
alla sua poesia e con uno strumento a corda nel fianco per ricordare la sua abilità nel canto.
Euridice ha lunghi capelli ricci e dorati, la spalla destra scoperta e
la veste trasparente e leggera ricca di drappeggi di tessuto blu che
sottolineano la drammaticità della scena.
Nel dipinto Pan e Siringa il tema trattato è quello del mito del dio Pan.
123
X.
STUDIOLO
Pan, la divinità che presiede ai boschi, alla vita agreste e pastorale
si invaghisce della ninfa Siringa, ma questa, devota alla dea Artemide, rifiuta il suo corteggiamento. Pan la insegue, ma, giunta in
prossimità di un fiume, la giovane rivolge una preghiera di aiuto
al padre Ladone che la trasforma in canna poco prima di essere
raggiunta dal dio. Pan si trova quindi a stringere tra le mani solo
un giunco, e colpito dal suono provocato dal vento che scuote le
canne, ne recide alcune e, legatele insieme, crea un flauto. Lo
strumento musicale prese il nome di “siringa” in onore della sventurata fanciulla e sarà convenzionalmente il flauto dei pastori.
Il momento raffigurato dal Cervelli è proprio quello della fuga e
della metamorfosi di Siringa; Pan dall’aspetto forte, con la fronte
stempiata e una folta barba ispida, afferra la giovane in fuga che
manifesta nelle dita già la prima fase del mutamento. Siringa è
raffigurata con la consueta sensualità del Cervelli, il panneggio
delle vesti accenna alla sua corsa disperata mentre il tremolio delle canne in primo piano sottolinea la drammaticità dell’evento.
Tra le finestre è esposta la ribalta con alzata in legno impiallacciato
in radica di noce del XVIII secolo. Molto simile al bureau-cabinet
inglese, il corpo superiore a due ante termina con il caratteristico
motivo a doppia cupola. Il mobile ha la facciata e i fianchi dritti
e la fronte del corpo inferiore ospita una calatoia con all’interno
tiretti, vani e un ripiano scorrevole.
Sopra alla ribalta è visibile Diana di Francesco Ruschi (Roma,
1610 - Venezia, 1661 circa). La dea della caccia viene raffigurata
a mezza figura con il tipico attributo del crescente lunare tra i capelli e con la mano sinistra che regge un laccio annodato all’abito
dal quale scende una catenella a cui è legato probabilmente un
corno da caccia. La sua mano destra sorregge un tamburello che,
insieme al canestro di fiori, possono essere interpretati come dei
richiami alle Ninfe, le giovani fanciulle divine, compagne di Diana, che costituiscono il suo seguito.
pagina precedente:
Federico Cervelli
Orfeo ed Euridice
Federico Cervelli
Pan e Siringa
125
Marco Ricci
Temporale sulla valle del Piave
X.
STUDIOLO
Tre tele di Marco Ricci (Belluno, 1676 - Venezia, 1730), che risalgono ai primi del Settecento, Temporale sulla valle del Piave, Paese
rustico e la Campagna romana con rovine e un laghetto, facevano parte
del patrimonio personale di Alvise e Gerolamo.
Il pittore ritrae con straordinario respiro i paesaggi tanto amati:
i toni bruni del colore su cui si accendono improvvise macchie di
luce e il realismo nella resa delle corpose e animate macchiette e
degli elementi naturalistici, testimoniano la conoscenza da parte
del maestro bellunese delle opere di scuola nordica, e i suoi studi
giovanili sul paesaggismo veneto del Cinquecento.
In queste pagine di vita, prese dai luoghi dove il Ricci adorava
soggiornare, le colline bellunesi e la valle del Piave, comincia a
insinuarsi la timida presenza di antiche rovine.
Con il maestro nasce nella città lagunare un paesaggio reale e
naturale, fatto di campagna e di colline, di mandrie e di pastori,
nel quale la natura, insieme all’uomo, diventa protagonista.
Le ricerche in senso naturalistico iniziate da Marco Ricci verranno interrotte dal mito dell’Arcadia, introdotto a Venezia dallo
Zuccarelli, riprese poi dai migliori vedutisti e paesisti del Settecento veneziano, Canaletto, Marieschi, Zais e Guardi. (BT)
Le grazie presiedevano ai banchetti, alle danze e ad altri piacevoli eventi sociali, diffondevano gioia e amicizia tra dei e
mortali e assieme alle muse cantavano e ballavano per gli dei
sul monte Olimpo al suono della lira del dio Apollo.
Marco Ricci
Paese rustico
Marco Ricci
Campagna romana con rovine e un laghetto
127
XI.
Camera da letto
Risale all’epoca delle nozze di Alvise con la nobildonna Lippomano (1790) anche la decorazione ad affresco in stile neoclassico
della camera da letto realizzata da Jacopo Guarana (Venezia,
1720-1808).
Il soffitto è suddiviso geometricamente da finti stucchi e presenta
al centro Zefiro e Flora. L’ovale è attorniato da sei scene antiche su
fondo di finto marmo raffiguranti cortei, sacrifici e danze, negli
angoli sono presenti quattro lunette con immagini floreali e vasi
mentre la cornice colorata reca decorazioni con fiori, motivi floreali, festoni, cesti di frutta, animali, vasi e spartiti musicali.
Il tema principale dell’apparato decorativo del soffitto è un chiaro
augurio di felicità e fertilità agli sposi.
Zefiro è il vento occidentale, il cui soffio, dolce e potente ad un
tempo, ridona vita alla natura addormentata durante l’inverno.
Zefiro, librato nell’aria con leggerezza e grazia, è raffigurato come
un giovinetto sereno e dolce, con una veste verde intorno alla cinta, un drappo rosso sulla spalla destra e con ali di farfalla.
Flora, antichissima divinità italica della primavera, dei fiori, della giovinezza, protettrice della fecondità, delle partorienti e delle
unioni coniugali, è raffigurata come una fanciulla coronata di fiori, dalla lunga veste svolazzante.
Tra affreschi, decori e finti stucchi risaltano nella sala gli arredi
in lacca dipinta che sottolineano il gusto della famiglia nella consuetudine quotidiana.
In quegli anni lo stato delle finanze dei Querini non permetteva
grandi spese, e Alvise decise di conservare parte della camera da
letto del padre Zuanne della metà del Settecento: otto poltrone
in legno di noce intagliato e dipinto in lacca color verde chiaro e
129
XI.
Per adeguare le due portacamicie, ereditate da Zuanne, allo
stile degli altri arredi della camera da letto, Alvise ne fece modificare le gambe originali che vennero sostituite da sostegni rettilinei neoclassici.
pagina precedente:
Camera da letto
Pietro Longhi
Battesimo, Matrimonio,
Ordine Sacro, Cresima
CA M ER A DA L ET TO
due portacamicie dalle forme arcuate e bombate, caratteristiche
dell’ebanisteria rococò.
Solo il letto e i due comodini vennero commissionati per Alvise,
sempre in lacca color verde chiaro con decorazione floreale policroma, ma di stile neoclassico nella linearità della struttura e
nell’ornato geometrico.
Tra le due finestre una ricca console in legno laccato azzurro del
1780 circa, scolpita e intagliata a motivi vegetali policromi e medaglioni con teste virili e una specchiera argentata in vetro di Murano della fine del XVII secolo.
Alla parete sono collocati i Sette Sacramenti di Pietro Longhi (Venezia,
1701-1786), così come voluto da Andrea che li commissionò all’artista.
Eseguite tra il 1755 e il 1757 le tele presentano diversi stili: il Battesimo, la Cresima, la Confessione e il Matrimonio appartengono infatti
ancora ad un momento chiarista del pittore segnato dall’influsso
francesizzante, mentre la Comunione, l’Estrema unzione e l’Ordine Sacro si caratterizzano per l’utilizzo di una materia pittorica più sfumata e per un timbro cromatico più cupo, molto vicino allo stile
rembrandtiano. Longhi, nell’esecuzione di questa serie, non si fa
condizionare da Poussin e Crespi, nobili esempi che lo avevano
preceduto ritraendo gli stessi soggetti, e non si lascia influenzare
neppure dagli schemi imposti dalle scritture religiose ma racconta la devozione senza aspetti eroici con personaggi tratti dalla
società del suo tempo.
Longhi scruta e coglie la realtà con attenzione e con amorevole
cura e ogni dettaglio lo aiuta a rendere più domestico l’importante
momento religioso: l’indiscreta donnina che si affaccia da dietro
alla colonna per assistere al battesimo, il cagnolino bianco attento
a ciò che succede durante la confessione, il mendicante addormentato contro la pila dell’acqua santa mentre i due giovani si
uniscono in matrimonio e lo scarno arredo della camera da letto
dove il moribondo riceve l’estrema unzione.
pagine seguenti: Jacopo Guarana
Zefiro e Flora
Lorenzo di Credi
La Vergine e san Giovannino adoranti il Bambino
XI.
CA M ER A DA L ET TO
Impreziosisce la sala il tondo di Lorenzo di Credi (Firenze,
1459?-1537) raffigurante La Vergine e san Giovannino adoranti il Bambino. L’opera è databile intorno al 1480 circa e probabilmente fu
portata dall’artista stesso a Venezia tra il 1479 e il 1488 quando
accompagnò nella città lagunare il Verrocchio, suo maestro.
Nei personaggi il di Credi fa emergere i dolci caratteri di origine
peruginesca mentre nella smaltata raffigurazione di foglie, fiori e
nelle forme architettoniche della città manifesta la sua forte esperienza fiamminga nell’uso della materia pittorica. (BT)
133
XII.
Boudoir
Adiacente alla camera da letto privata della signora, il boudoir era
un salottino intimo e grazioso dove le dame della famiglia ricevevano, sedute al tavolo della toilette, le visite di amici e fornitori.
Accanto, il guardaroba con gli armadi custodiva ricche vesti e
pregiati tessuti.
Queste piccole stanze, come il boudoir e il cabinet de travail, rispecchiano il cambiamento di gusto per le proporzioni e l’arredamento delle abitazioni che iniziò in Francia nel Settecento all’epoca
di Luigi XV. Alle imponenti e grandiose sale, si preferiscono ora
ambienti intimi, più caldi, d’impronta squisitamente femminile.
Le pareti della stanza sono spartite da inquadrature rettilinee di
sapore neoclassico, che presentano decori a foglie in stucchi policromi su marmorino dai tenui colori pastello, della fine del XVIII
secolo.
Suggestive le quattro tavole di Pietro Della Vecchia (Vicenza ?, 1602/03 - Venezia, 1678) dalla pennellata irruenta, ricca di
spumosità e di effetti luministici. Raffigurano Passeggiata, Concerto,
Incontro e Congedo degli amanti. Le tavole facevano parte della decorazione di un cassone nuziale.
Attribuiti in passato alla massima specialista olandese di pittura
di fiori del Settecento Rachel Ruysch, i due rami Natura morta con
frutta e scimmia e Natura morta con frutta e crostacei sono ritenuti dalla
critica più recente opere di Hans van Essen (Anversa, 1587 o
1589 - Amsterdam, 1642 o 1648). Le composizioni, realizzate
con grande sensibilità pittorica e pennellata rapida e brillante,
sono orchestrate secondo rigorose leggi geometriche. Van Essen
era solito infatti raffigurare le sue nature morte sopra un piano
obliquo, spesso un tavolo, con poche suppellettili e molta frutta,
135
pagina precedente:
Boudoir
Pietro Della Vecchia
Incontro e Passeggiata
XII.
BOUDOIR
e illuminare le scene frontalmente, lasciando scuri i fondi. In Natura morta con fiori e scimmia la composizione presenta l’elemento
obliquo e manifesta un perfetto equilibrio sottolineato dall’uccellino posato sull’orlo del bacile in ceramica di Delft ricolmo di
frutta.
Dell’ambito del maestro fiammingo Michael Sweerts (Bruxelles, 1618 - Goa, 1664) sono Contadina seduta con cane e Contadino
seduto che beve. La fattura delle tele rivela un impasto denso, con
forti contrasti luministici, ma trasparente e, a tratti, quasi porcellanoso, tipico dello stile di Sweerts, oltre a una forte introspezione
psicologica che distingue la sua ritrattistica.
In Due scene d’osteria l’artista olandese Bartholomeus Molenaer
(Haarlem, notizie 1640-50 circa), con larga e sciolta fattura pittorica, mette in scena l’allegrezza che dà il vino. Ne traspare un senso genuino d’intimità, che è caratteristico della pittura popolare
olandese del XVII secolo, a differenza di quella fiamminga dove
è spesso presente un distacco dell’artista dalla scena quotidiana
che dipinge. Nelle parti in chiaroscuro, gli oggetti sono studiati
minuziosamente e trattati con assoluta veracità.
Sopra la specchiera settecentesca, Ritratto di Caterina Contarini Querini di Alessandro Longhi (Venezia, 1733-1813). La tela appartiene a uno dei momenti più riusciti della prima maturità del pittore, caratterizzata da una felicità del colore prossima all’Amigoni
e a Rosalba Carriera. I suoi personaggi non vogliono essere eroi,
ma solo protagonisti del mondo contemporaneo. L’identificazione
della nobildonna raffigurata con Caterina si basa sulla somiglianza con la signora ritratta in una miniatura firmata Bertaldo, che
apparteneva alla collezione della famiglia, datata 1755.
Anonimi nei primi inventari e in seguito creduti di Rosalba Carriera, Ritratto di vecchio e Ritratto di vecchia sono stati attribuiti a Giuseppe Nogari (Venezia, 1699-1763) dal Lorenzetti nel 1926 e
tale attribuzione è stata in seguito confermata dalla critica.
Michael Sweerts
Contadina seduta con cane
Michael Sweerts
Contadino seduto che beve
137
XII.
BOUDOIR
La pittura del Nogari è calligrafica, levigata e leziosa e il suo caratterismo tende a forzare la fisionomia e l’espressione.
Completano l’arredo del boudoir un divanetto Impero, una sedia
con fascia traforata con motivo a palmetta intrecciata del 1830 circa e una specchiera settecentesca in legno laccato e dorato. (EDC)
Aleggia nel boudoir lo spirito neoclassico così descritto da
Spinell nel Tristan di Thomas Mann: “Ci sono periodi, in
cui semplicemente non posso fare a meno dello stile impero, in
cui mi è assolutamente necessario per raggiungere un modesto
grado di benessere. È chiaro che ci si sente in un certo modo fra
mobili comodi e morbidi fino alla lascivia, e in un altro fra
questi tavoli, poltrone e drappeggi così lineari... Questa luminosità e durezza, questa semplicità fredda, aspra e questa severità
riservata mi conferiscono dignità e contegno... e col tempo hanno
come effetto un’intima purificazione e rigenerazione, mi elevano
moralmente, non c’è dubbio...”.
Thomas Mann, Tristan. Tristano, a cura di Anna Maria Giachino,
Torino, Einaudi 2000, p. 41
Hans van Essen
Natura morta con frutta e scimmia
Giuseppe Nogari
Ritratto di vecchio
Ritratto di vecchia
139
XIII. Salotto rosso
La sala, illuminata da un lampadario in vetro di Murano del XIX
secolo, è arredata con tappezzeria di manifattura veneziana, rosso cremisi con disegni floreali beige, in raso e broccato del primo
quarto del XVIII secolo, anche se la composizione con questo
tipo di elementi naturalistici, il cactus, i melograni e le peonie, è
d’impianto ancora seicentesco.
Il soffitto è decorato da Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808) e
risente del nuovo gusto classicheggiante della fine del Settecento:
al centro Apollo sul carro; su quattro lunette con fondo dorato sono
raffigurate Venere ed Eros, il Sacrificio a Minerva, Bacco incorona Arianna e una Scena d’Imeneo, il dio che presiedeva al matrimonio. Agli
angoli medaglioni monocromi allusivi alle Arti e coppie di figure
femminili con festoni di frutta e nastri.
Nella sala sono presenti quattro grandi ritratti ufficiali.
Nel Gerolamo Querini in abito di procuratore di San Marco di Sebastiano Bombelli (Udine, 1635 - Venezia, 1719), il personaggio appare in posa severa e rappresenta un importante caposaldo della
ritrattistica aulica o di parata nella pittura veneta. Gerolamo, con
indosso la toga, tipica veste rossa che tutti i procuratori portavano
nelle occasioni ufficiali insieme alla cappa in velluto, è impostato
con una teatralità di gesti tipicamente barocca. Quest’opera può
essere datata all’indomani dell’acquisto della procuratoria da parte di Gerolamo (23 aprile 1669).
Bartolomeo Nazari (Elusone, 1693 - Milano, 1758) raffigura Il
Cardinale Angelo Maria Querini ed esegue l’opera nel 1727, in occasione della sua nomina. La conoscenza tra il Nazari e il Cardinale
Querini avvenne forse a Roma, dove il primo si trovava temporaneamente alla scuola del Luti e del Trevisani, e il secondo fungeva
141
pagina precedente:
Salotto rosso
Sebastiano Bombelli
Gerolamo Querini in abito di procuratore
di San Marco
Bartolomeo Nazari
Il Cardinale Angelo Maria Querini
143
X I I I. SA LOT TO ROSSO
da Consultore del Santo Uffizio. Il ritorno dei due personaggi a
Venezia dovette avvenire nello stesso torno di tempo, quando Angelo Maria Querini, eletto nell’estate di quello stesso anno Vescovo di Brescia, fu nominato Cardinale a dicembre. Da questa data
in poi l’artista divenne il più richiesto ritrattista ufficiale della Serenissima. Il Querini invece si trasferì a Brescia nel febbraio del
1728 e lì rimase fino alla morte erigendo tra il 1747 ed il 1750 la
Biblioteca Queriniana, alla quale fece dono di circa 1500 volumi
della collezione privata di famiglia. L’opera qui esposta tradisce
la complessa formazione artistica del Nazari della prima maturità: se l’articolazione mossa e teatrale della figura e delle mani
richiama il Bombelli, la profusione decorativa nell’ambientazione
risente dell’esperienza romana.
Gli altri due ritratti raffigurano Gerolamo Querini Stampalia Provveditore Generale da Mar di Fortunato Pasquetti (Venezia, 1700 circa - Portogruaro, 1773 circa) e Andrea Querini Stampalia Provveditore
generale della Dalmazia e Albania di Bernardino Castelli (Pieve
d’Arsiè, 1750 - Venezia, 1810).
All’angolo il cantonale è un bell’esempio di lacca veneziana, ben
riuscito nella sua decorazione dorata su fondo verde scuro. A Venezia, sulla scia dell’interesse europeo per l’esotico, nato verso la
fine del Seicento, si sviluppò la moda della lacca cinese grazie a
una categoria di artigiani, i “depentori”, che erano specializzati
nell’arte della pittura e della verniciatura e che si dedicarono in
particolare all’imitazione delle lacche orientali. Il vero e proprio
apice di quest’arte fu raggiunto in particolare con la realizzazione, nel corso del Settecento, del mobilio per l’arredo dei palazzi di
città e di campagna della nobiltà veneziana. (TB)
Cantonale
145
X I I I. SA LOT TO ROSSO
Tutti i possedimenti veneziani erano sotto il controllo del Provveditore Generale, cioè di un funzionario della Repubblica inviato nei territori sotto la diretta amministrazione di Venezia.
I Provveditori generali erano cinque: il Provveditore Generale da
Mar: responsabile generale delle province dello Stato da Mar,
cioè tutte le colonie marittime, del denaro necessario al mantenimento della flotta e vice-comandante della stessa, durava in
carica tre anni e risiedeva a Corfù. Il Provveditore Generale del
Friuli o Luogotenente: responsabile generale delle province della
Patria del Friuli, risiedeva a Udine. Il Provveditore Generale
della Morea: responsabile generale delle province della Morea,
risiedeva a Nauplia; il Provveditore Generale di Dalmazia:
responsabile generale delle province della Dalmazia, risiedeva
a Zara; il Provveditore Generale di Terraferma: responsabile
generale delle province dei Dominii di Terraferma, istituito nel
1796, risiedeva a Brescia. Unica eccezione era Costantinopoli,
retta dal Bailo, ambasciatore scelto tra i nobili, che doveva, per
tutta la durata della sua carica biennale, risiedere in quella
colonia e aveva autorità sui cittadini veneziani presenti nel territorio ad essa collegato.
Fortunato Pasquetti
Gerolamo Querini Stampalia Provveditore
Generale da Mar
147
XIV. Salotto verde
L’affresco a soffitto è opera di Jacopo Guarana (Venezia, 17201808) e raffigura al centro un’Allegoria nuziale. Intorno al soggetto principale quattro tondi con monocromi di figure danzanti e
due lunette con putti; ai quattro lati corone di fiori con aquile in
stucco bianco.
Due ritratti sono di mano di Pietro Uberti (Venezia, 1671 - Venezia o Germania, 1762) Gian Francesco Querini Procuratore di San
Marco e Giovanni Querini Procuratore di San Marco. Probabilmente
le tele sono state commissionate al pittore nel 1716, anno della
doppia nomina a procuratore, l’ultima della famiglia. I due personaggi sono raffigurati nella rigida posa ufficiale in piedi, ma a
tre quarti di busto, avvolti nella pesante veste rossa e con la lunga
parrucca di moda francese ormai diffusa anche a Venezia.
Il capolavoro della sala è il Ritratto di un Dolfin Procuratore e Generale da
Mar, di Giambattista Tiepolo (Venezia, 1696 - Madrid, 1770).
Il procuratore è un superbo esempio della ritrattistica dell’artista.
Nel 1854 Giovanni Querini ereditò dalla nonna materna Cecilia
Dolfin l’edificio tardo rinascimentale dei Dolfin a San Pantalon,
famiglia per la quale il giovane Giambattista, alla fine degli anni
Venti del Settecento, aveva lavorato alacremente dipingendo in
estate gli affreschi per il palazzo patriarcale di Udine e d’inverno
dieci grandi tele di storia romana per il palazzo veneziano, considerate il segno della sua raggiunta maturità artistica. Per la stessa
famiglia Tiepolo aveva continuato a lavorare anche successivamente e questa tela infatti si può far risalire alla metà del Settecento.
Non si può invece precisare se la persona raffigurata sia, come la
maggior parte dei critici sostiene, Daniele IV Dolfin (1656-1729),
Cavaliere del Senato e Capitano straordinario delle navi, mutilato
149
X I V.
SALOTTO VERDE
a Metellino di quattro dita di una mano, che Tiepolo sembra voler
evidenziare in primo piano coperta dal guanto; o se possa essere
Daniele I Dolfin, detto Nicolò (1652-1723), Generale a Palma e
Procuratore de Supra, l’unico altro Dolfin a cui competono gli
attributi di Generale da Mar. In ogni caso si tratta di un ritratto
in memoriam, ossia commemorativo, e per celebrare il personaggio
Tiepolo assegna una statura monumentale al procuratore ritratto
a figura intera, usando il gradino come un piedistallo.
Il personaggio è connotato dalla presenza del berretto a tagliere e
del bastone di comando, che spettano ai Capitani da Mar. Dietro,
due colonne e, sulla sinistra, due quinte architettoniche: la prima
di un classicismo barocco che ricorda il Longhena, la seconda con
elementi più rinascimentali ripresi dal Sansovino e dal Palladio.
Proveniente sempre dall’eredità Dolfin anche il ritratto a figura
intera di Francesco Zugno (Venezia, 1708/09-1787), allievo del
Tiepolo, Il procuratore Daniele IV Dolfin, identificabile dalla scritta
sul foglio che tiene in mano e dai simboli della sua carica, il cappello, il bastone e la nave sullo sfondo.
I due sovrapporta Gentildonna e Imperatrice sono tradizionalmente
anonimi in tutti i cataloghi e inventari della Pinacoteca. Il taglio
compositivo, i particolari naturalistici, e la minuzia nell’analisi delle stoffe dei costumi sono elementi che possono condurre all’ambito
di Carlo Ceresa (San Giovanni Bianco, 1609 - Bergamo, 1679),
ritrattista lombardo del Seicento. Il ritratto di Gentildonna potrebbe essere quello di Maria Leopoldina d’Asburgo, seconda moglie
dell’imperatore Ferdinando III d’Asburgo, simile a un altro della
stessa presente al Castello di Ambras presso Innsbruck.
Disposti attorno alle pareti, secondo l’uso veneziano, divani, sedie
e poltroncine in legno laccato verde oliva decorati a mazzetti di
fiori policromi e dorati.
Una di fronte all’altra, due console con alte specchiere databili al
1780 circa, dal gusto classicheggiante: su una di queste è visibile,
pagina precedente: Jacopo Guarana
Allegoria nuziale
Giambattista Tiepolo
Ritratto di un Dolfin Procuratore e Generale da Mar
Salotto verde
X I V.
Daniele IV Dolfin l’11 febbraio 1709 diede una grandiosa festa
in onore di Federico IV di Danimarca e Norvegia, per la quale
decise di coprire tutto il cortile del palazzo di San Pantalon,
costruendovi un’immensa sala in legno, ornata e ammobiliata,
che univa dieci camere illuminate a giorno, e in cui si potevano
ascoltare differenti concerti di musica.
SALOTTO VERDE
dietro la lastra, la sigla NH (per Nobil Homo), che si usava anteporre ai nomi dei nobili.
La pendola da tavolo in marmo e bronzo dorato e cesellato è opera
del primo decennio dell’Ottocento di Luigi Manfredini (Bologna, 1771 - Milano, 1840), firmata infatti “Manfredini orolo.re
del Re a Milano”. Il quadrante è inserito in una raffigurazione
del carro di Diana. Sia le figure che la biga sono tratte da un’opera simile di Guido Reni. La base in marmo è anch’essa arricchita
dalle figure in bronzo dorato di tre putti alati che reggono delle
ghirlande vegetali legate da nastri.
La coppia di vasi in porcellana di forma ovoidale, proviene dalla
Cina ed è databile intorno al primo ventennio del Settecento. I
vasi, decorati da smalti policromi, presentano un ornato floreale
e conservano il ricordo di una storia avvenuta quando il secondo
piano di Palazzo Querini era affittato al Patriarca Jacopo Monico.
Questi si era trasferito a Palazzo nel 1835, in attesa della nuova
sede patriarcale alla Piazzetta dei Leoncini, accanto a Piazza San
Marco. Cacciati gli austriaci nel 1848, dopo quindici mesi di Repubblica, nella città stremata da un lungo assedio corse voce che il
Patriarca avesse sottoscritto una petizione per la resa agli austriaci.
Il 3 agosto 1849, la fazione disposta alla resistenza ad ogni costo
decise di prendere d’assalto la dimora patriarcale: mobili, oggetti
preziosi, tra cui i due vasi cinesi della dinastia Qing, libri, monete
e medaglie vennero buttati in canale, e i pezzi migliori, oltre a monete d’oro, furono rubati. Il Patriarca, costretto a fuggire dalla propria residenza attraverso il sistema di ponti aerei che, dal Seicento,
collegavano Palazzo Querini alla chiesa di Santa Maria Formosa,
riuscì a raggiungere in gondola l’isola di San Lazzaro degli Armeni, dove, a sua difesa, vennero issate le insegne dell’impero Ottomano. Non molto tempo dopo, il 24 agosto, gli austriaci tornarono
a Venezia. A Palazzo Querini i cocci dei vasi ripescati dal canale
vennero ricomposti pazientemente nelle forme originali. (TB)
153
X I V.
SALOTTO VERDE
Nell’antichità si utilizzavano come specchi piatti di terracotta
su cui si versava acqua. L’immagine riflessa era però vaga e
per questo egizi, greci e romani finirono col preferire le superfici ben lucidate di alcuni metalli e, soprattutto il vetro.
Nelle tombe egizie sono stati ritrovati specchi fenici ottenuti con
sottili lastre di vetro; una delle facce della lastra era ricoperta
da piombo che, annerendo il fondo, trasformava il vetro in
uno specchio. Nel Cinquecento a Venezia, dove fiorì l’arte del
vetro, i soffiatori producevano specchi così belli che venivano
richiesti in tutto il mondo, benché fossero molto costosi. La
Serenissima emanava leggi per non permettere ai maestri veneziani di esportare in altre città la loro arte, ma dalla metà del
diciassettesimo secolo i segreti giunsero in qualche modo anche
a Parigi e Londra. Verso la fine del Seicento, per vincere la
concorrenza, si cercarono quindi tecniche di produzione meno
laboriose e più economiche. Gli specchi, che fino ad allora a
causa dell’alto costo erano sempre stati di piccolo formato, per
lo più da tenere in mano, cominciarono ad essere prodotti anche
in grandi dimensioni e, corredati di cornice, si usarono per la
decorazione delle stanze.
Console con specchiera
e coppia di vasi cinesi
Luigi Manfredini
Pendola da tavolo
155
XV.
Sala degli stucchi
Fin dall’XI secolo maestranze ticinesi emigrarono nei grandi centri artistici dell’Italia e del resto dell’Europa così numerose da incidere notevolmente sulla cultura figurativa di alcuni periodi.
Il fenomeno presentò particolare intensità nel corso del Cinquecento e del Seicento quando si affermarono ovunque, per la loro
abilità, vere e proprie “dinastie” di scultori e stuccatori che mantennero per secoli l’egemonia nell’arte plastica. Queste famiglie
dominarono incontrastate a Venezia tutti i cicli stucchivi sia religiosi che civili, e i fratelli Giuseppe (1755-1822) e Pietro Castelli appartennero a una di queste, e più precisamente al ramo
di Melide, vicino a Lugano.
A quel tempo le famiglie erano molto numerose e, spesso, nella
stessa casa più componenti apprendevano la medesima arte.
Nel Settecento nei palazzi e nelle dimore della città lagunare i festoni, i trionfi, le figure nei tondi e le riquadrature geometriche in
stucco legavano la narrazione alla celebrazione riportando dalla
storia miti e racconti al fine di ottenere un raffinato arredamento
murale, in simbiosi col pittore, con l’arazziere, con l’intagliatore
del legno e l’ebanista, con l’incisore di vetri e specchi. In questa
sala l’opera dello stuccatore caratterizza in modo determinante
l’ambiente che diviene elegante, piacevole ed originale.
Il soffitto, suddiviso geometricamente, presenta due fasce con
grifoni, vasi e motivi floreali, quattro lunette rosse con stemmi e
quattro coppie di putti con strumenti musicali, rose e libri.
Alle pareti trofei che alludono alla caccia, alla musica, alla vita
agreste, alla fortuna e all’antico.
Collocati su console, due globi di Gilles Robert de Vaugondy
(Parigi, 1688-1766).
157
X V.
Dai celebri Diari di Marin Sanudo si apprende che nel 1525
a Palazzo fu data, dalla Compagnia della Calza dei Valorosi,
di cui Francesco Querini risulta socio fondatore nel 1524, una
recita della Commedia Orba di Cherea, nell’ambito dei festeggiamenti organizzati per il matrimonio di una Querini.
pagina precedente:
Giuseppe e Pietro Castelli
Trionfo di caccia
Gilles Robert de Vaugondy
Globo
SALA DEGLI STUCCHI
La superficie dei globi, che poggiano su supporti lignei originali, è
in carta disegnata in calcografia, divisa in dodici fusi e due calotte
ai poli. Intorno ad essi, lungo un meridiano, corre un circolo in
ottone sul quale sono disegnati i climi, le ore e i gradi di distanza
dal polo. Su questo circolo ne poggia uno più piccolo, in ottone
anch’esso, sul quale sono segnate le ore. De Vaugondy, raffinato
esecutore di mappamondi, carte geografiche e autore di atlanti,
nel 1730 divenne cartografo e geografo ufficiale del re di Francia.
I gioielli della sala sono le due tavole di Jacopo Palma il Vecchio (Serina, 1480 circa - Venezia, 1528) collocate su cavalletto:
ritratto di Francesco Querini e ritratto di Paola Priuli. Queste opere
furono probabilmente commissionate al Palma in occasione delle
nozze dei due nobili avvenute il 23 aprile 1528. Pare che Francesco Priuli, padre di Paola, avesse raccomandato il Palma al Querini, che infatti gli richiese almeno cinque dipinti. Nella tavola
l’uomo è raffigurato con una mantella nera sopra un vestito azzurro e una giacca a strisce marroni e verdi. L’abito della donna
doveva essere verde, ma appare ora diverso perché con gli anni il
pigmento è virato sul bruno. L’architettura di sfondo di entrambi
i dipinti non si collega a nessun modello dei palazzi veneziani, ma
è un’ambientazione convenzionale che Palma utilizzò con lievi
varianti in altri ritratti a mezza figura. Compiute solo in parte,
queste due opere rivelano il procedimento del lavoro del Palma
fatto di successive velature di colore, sopra la campitura larga e
distesa della base, e i dettagli ricavati con la punta del pennello.
Il modello a cui guarda l’artista in queste opere, anche se formalmente legato alla ritrattistica giorgionesca, è il giovane Tiziano di
cui sa cogliere nel ritratto la dote introspettiva e il risalto formale
del particolare analizzato dal vero. Le opere rimasero incompiute a causa dell’improvvisa morte del pittore il 30 luglio 1528. È
quindi assai probabile che gli sposi abbiano richiesto ed ottenuto
entrambe le opere subito dopo la morte del Palma. (BT)
159
X V.
Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio
Paola Priuli
SALA DEGLI STUCCHI
Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio
Francesco Querini
XVI. Sala da pranzo
Decorata con gli affreschi Aurora di Jacopo Guarana (Venezia,
1720-1808) e Apollo e una Musa di Costantino Cedini (Padova,
1741 - Venezia, 1811) e con stucchi settecenteschi, illuminata da
due eleganti lampadari in vetro di Murano, questa sala ospita
parte della collezione di porcellane della famiglia.
Protagonista è il prezioso servizio in porcellana di Sèvres acquistato a Parigi nel 1795-96 da Alvise Maria, ultimo ambasciatore
della Serenissima Repubblica in Francia dal 1795 al 1797.
Il servizio in porcellana a pasta tenera, composto da duecentoquarantaquattro pezzi e ancora oggi perfettamente intatto, presenta varietà di forme, perfetta doratura, minuziosa decorazione,
colori puri e precisi, coperta limpida e brillante.
Bande a bordo blu scuro, arricchite da roseaux d’oro, racchiudono
riserve ornate con ramoscelli sparsi di campanule violacee e nontiscordardimé rosa, ornamento tipico nei servizi da tavola della
tarda produzione settecentesca di Sèvres. Le forme del vasellame
sono quelle di repertorio della manifattura e molte risalgono alla
metà del Settecento. La maggior parte dei pezzi del servizio reca
la marca della manifattura R.F. per République Française e la
parola Sèvres, che aveva sostituito dal 1793 al 1800 la doppia L
incrociata del monogramma reale. Si riscontrano inoltre diciassette sigle di pittori e doratori, tutti identificati.
Sulla tavola, apparecchiata per otto persone, si possono ammirare piatti da coltello, da minestra e da antipasto, salsiere, compostiere e
burriere.
Fin dall’inizio della produzione di porcellana tenera, e più tardi
anche di porcellana dura, i piatti da coltello vennero prodotti in gran
numero dalla manifattura di Vincennes-Sèvres con le decorazioni
163
XVI.
SA L A DA PR A NZO
più svariate. Ogni pezzo veniva creato sia per servizi da pranzo o
dessert, sia per essere venduto singolarmente.
La forma dei piatti da minestra apparve per la prima volta nell’inventario della manifattura dell’ottobre 1752.
Il modello del piatto da antipasto è ravier forme bateau. Per ravier si
intendeva un piatto a forma di barca, che si portava in tavola con
dei ravanelli o altri antipasti. Generalmente era in porcellana,
faenza o vetro.
Pot à jus o pot à sauce era il nome primitivo della salsiera, usata per
consommé e jus de veau, nome che ha conservato per tutto il Settecento. Le salsiere in porcellana divennero oggetti di gran moda
per decorare tavole illustri compresa la tavola del re.
Nelle compostiere, che potevano presentare otto forme diverse, si
servivano composte, frutta, dolci e creme. La coppia di burriere, dette anglais, modello tipico del periodo Luigi XVI, risponde al gusto
tipico dell’epoca per lo stile inglese.
Il servizio è accompagnato da figurine, gruppi e vasetti in biscuit di porcellana dura di gusto Luigi XV e Luigi XVI che ne
costituiscono il surtout. Al centro della tavola viene presentato il
gruppo Il trionfo della Bellezza, ideato da Louis-Simon Boizot
(1743-1809) per la regina Maria Antonietta nel 1775-76, testimone
prezioso dell’arte Luigi XVI a Sèvres e inno alla bellezza femminile. Lo accompagnano L’offerta all’Amore e L’offerta al Matrimonio,
sempre creazioni di Boizot, seguite dall’elegante Ninfa Falconet, il
cui modello è la Baigneuse, scultura in marmo di Falconet, oggi
conservata al Louvre e dal 1759 riprodotta a Sèvres in biscuit. La
Ninfa venne copiata dalle manifatture di Ludwigsburg, Zurigo,
Copenhagen, Meissen e Berlino e il suo successo a Sèvres continua ancora oggi: la manifattura, che ne ha conservato gli stampi,
la produce e la vende.
Le due console settecentesche collocate ai lati del caminetto sono
utilizzate come tavolini per i dessert e vi sono esposti piatti da
pagina precedente: Servizio in porcellana di Sèvres
Sala da pranzo
Manifattura Vezzi
Vaso biansato
XVI.
SA L A DA PR A NZO
frutta, fragoliere, rinfrescatoi da gelato, vassoi con tazze da gelato
e cestini da frutta.
Una terza console serve come tavolo per le bevande con vari esempi di rinfrescatoi, una coppa da punch e un mortaio.
Sulle mensole ancora biscuit del servizio di Alvise e figurine settecentesche delle manifatture di Nove e Vienna e un raro vaso
biansato di Vezzi, ritenuto l’opera più prestigiosa della manifattura veneziana e databile al 1724-27. Il vaso presenta decorazioni
in rilievo che ricordano i preziosi lavori di oreficeria, mentre la
fascia centrale è ornata da fiori, libellule, uccelli e viticci dai tradizionali colori di Vezzi. Lo affiancano gruppi scultorei in porcellana bianca di Nove, periodo Antonibon (1782-1802), a soggetto
bucolico. (EDC)
Manifattura di Sèvres
Rinfrescatoio per bottiglie da liquore, rinfrescatoio
per gelato, piatto da frutta
XVI.
SA L A DA PR A NZO
Un antico brindisi del XIV secolo
suggerisce:
“Chi ben beve ben dorme;
Chi ben dorme mal no pensa;
Chi mal no pensa mal no fa;
Chi mal no fa in Paradiso va;
Ora ben bevé
che Paradiso averé”.
Vino, pietanze, vasellame d’argento, bicchieri, trionfi ornavano le
tavole dei veneziani fin dal Medioevo. In occasione dei banchetti pubblici o in particolari circostanze, i
pranzi, per motivi di osservanza
religiosa, si dividevano in pranzi
di grasso e di magro. Le pietanze
più ricercate nei banchetti di grasso
consistevano in pollame e cacciagione, mentre in quelli di magro
si prediligevano storioni, pesci di
fiume, ostriche dell’arsenale, peoci
(cozze) e rane.
Sul finire del Settecento un convito
si articolava in tre parti ben distinte: Ordever (hors d’oeuvre), che
consisteva in tre o quattro piatti,
Portade, che comprendevano dai
dodici ai quattordici piatti e Portade dei frutti comprensive di
latte e dolci.
Manifattura di Sèvres
Surtout
169
XVII. Sala mitologica
Alcune delle più interessanti opere di carattere mitologico e allegorico della collezione dei Querini sono conservate in questa sala;
essa evoca l’uso, tipico delle famiglie nobili veneziane, di adornare,
nel XVII secolo, le loro stanze con favole e miti tratti dall’antico.
Il soffitto, attribuito a Jacopo Guarana (Venezia, 1720-1808),
presenta un rosone centrale a intonaco di calce, al centro del quale campeggia un lampadario a colonna con fiori policromi di vetro
di Murano, risalente al XVIII secolo. Dal rosone partono delle
fasce in marmorino bianco che spartiscono i riquadri a fondo rosa
decorati a grottesche e strumenti musicali in stucco bianco. Entro
due grandi ovali a fresco si fronteggiano in un monocromo grigio
azzurro due divinità, da una parte Minerva, patrona delle arti e
del commercio con i suoi attributi quali l’elmo, la civetta e lo scudo
ornato dalla testa della gorgone Medusa e Nettuno, dio del mare,
rappresentato sdraiato con il tridente e il delfino. In posizione
opposta si distinguono le teste di Medusa, con la folta capigliatura
di serpenti e di Ercole, con il capo coperto dalla pelle di leone.
Completano la decorazione quattro esagoni dello stesso marmorino grigio azzurro ove sono rappresentati Mercurio, messaggero
degli dei con il tipico cappello e i sandali alati, Esculapio, dio
della medicina, ritratto come un vecchio sapiente con un bastone
intorno al quale sta avvolto un serpente, Cerere dea delle messi e
dell’agricoltura e un’esile figura femminile ignuda che probabilmente rappresenta la Verità. L’arredo, molto lineare, è composto
da due tavoli e un salotto, tutti databili al XVIII secolo.
Nella sala è conservata una delle più importanti opere di Sebastiano Ricci (Belluno, 1659 - Venezia, 1734). I Querini commissionarono al Ricci l’Allegoria del giorno tra il 1696 e il 1703, per
171
XVII. SALA MITOLOGICA
abbellire il soffitto del “cameron della galleria”, una grande sala
probabilmente al primo piano del Palazzo adibita a galleria d’arte dove erano esposte le tele più rappresentative della collezione
familiare. Il pittore rappresenta i tre momenti del giorno: la tela
principale, dalla forma rettangolare, il Meriggio, propone la lotta
tra le divinità portatrici della luce e quelle alleate con le tenebre. Le prime, innondate di luce, scacciano con fasci di saette, i
demoni della notte raffigurati con toni scuri e accompagnati da
una civetta, animale notturno per eccellenza. Nell’Alba, di forma
ovale, un giovane bruno cinto da un drappo rosso, insieme ad un
piccolo putto, risveglia il mondo versando dell’acqua da un vaso,
mentre un altro amorino, dai capelli biondi, sorregge la fiaccola
della luce. L’ultimo ovale rappresenta la Sera, ove un giovane, con
indosso un drappo ocra, lancia delle frecce appuntite nel tentativo
di rimandare l’arrivo delle tenebre, aiutato da due piccoli putti,
adagiati su una roccia.
I corpi dei protagonisti trasmettono movimento e dinamismo
all’intera composizione pittorica, evidenziandone l’apertura verso
l’alto che ben si adattava all’originaria collocazione a soffitto.
L’opera è sicuramente risalente al secondo periodo veneziano del
Ricci e risente dell’eredità di Luca Giordano, raccolta durante la
sua permanenza a Roma.
Il quadro attribuito a Francesco Maffei (Vicenza, 1605 circa Padova, 1660) Milone da Crotone rappresenta una delle opere tarde
del pittore databile intorno al 1657. La tela racconta un aneddoto
riportato da alcuni storici antichi, tra cui Plinio il Vecchio nel suo
Naturalis Historiae, la morte di Milone, famoso atleta della città di
Crotone, vissuto nel VI secolo a. C., noto per la sua forza e prestanza fisica che gli valsero la vittoria in diverse discipline olimpiche. Milone, aggirandosi in un bosco vicino alla sua città, scopre
una grande quercia spaccata da due cunei; decide di provare la
sua forza togliendo i perni ma rimane imprigionato nel tronco,
pagina precedente:
Anonimo, Sibilla Eritrea
Sebastiano Ricci
Meriggio
XVII. SALA MITOLOGICA
in balia delle fiere che lo aggrediscono e lo uccidono. Nel quadro
l’atleta prigioniero dell’albero è circondato da una serie di notabili
e uomini in arme che rendono teatrale la scena. Milone, vestito
soltanto di un drappo che ricorda i simboli di Ercole, guarda con
coraggio e mestizia la piccola folla.
Un altro dipinto degno di nota è Cefalo e Procri attribuito a Luca
Giordano (Napoli, 1634-1705); il soggetto ebbe una discreta fortuna nel corso del XVII secolo, riprendendo il mito raccontato da
Ovidio nelle Metamorfosi. La storia narra dell’amore coniugale del
pastore Cefalo e della moglie Procri, che dopo drammatiche vicende si ricongiungono e godono dei doni che la dea Artemide ha
voluto fare a Procri: un giavellotto infallibile e un cane di nome
Lelapo, al quale nessuna preda può sfuggire. Il mito non ha un
lieto fine: Procri, gelosa di Cefalo che alla fine di ogni partita di
caccia invoca l’Aura per ringraziarla, scambiandola per una rivale in amore, segue di nascosto il marito durante la caccia e, celata
dai cespugli, viene uccisa dal giavellotto infallibile. Il pittore napoletano fissa il mito in un momento felice, l’attimo in cui Procri,
ricongiunta a Cefalo, gli dona il dardo e il fedele Lelapo che aveva
precedentemente ricevuto in dono da Artemide. Il chiaroscuro
intenso e la luminosità del volto e del braccio della giovane donna
rendono l’opera uno dei migliori esempi della produzione veneziana di Luca Giordano.
Curioso per il soggetto è L’uomo precipitato dai vizi di Pietro Liberi
(Padova, 1614 - Venezia, 1687), di chiaro intento moraleggiante.
La tela rappresenta un uomo fatto cadere dalle scale di un palazzo antico da una tornita e sfuggente Venere in primo piano e da
un’altra giovane donna che gli spreme addosso un grappolo d’uva.
Ai luminosi incarnati delle due fanciulle ignude fa da contrappunto un nano, scuro in volto vestito con i tipici colori del buffone che,
tenendo in mano un mazzo di carte da gioco, assesta un poderoso calcio all’uomo. L’opera non riprende un vero e proprio mito
Sebastiano Ricci
Alba, Sera
175
XVII. SALA MITOLOGICA
classico anche se tutta la critica ha riconosciuto nella giovane
nuda in primo piano la figura di Venere, dea dell’amore e nell’altra figura femminile Arianna, guida di Teseo nel labirinto del
Minotauro.
Interessante il ciclo di dodici Sibille. Attribuite ad anonimo pittore veneto della seconda metà del Seicento, facevano parte dei beni
di una villa di Lancenigo in provincia di Treviso, acquistata dai
Querini alla fine del Seicento. Dalla documentazione pervenuta
non è chiaro se questi quadri fossero stati portati dai Querini,
oppure fossero appartenuti alla precedente proprietà.
Il tema della Sibilla nel Seicento ebbe una vasta fama: le Sibille,
nell’antichità erano delle vergini dotate di virtù profetica (famosa la Sibilla Delfica consacrata Indovina del Tempio di Apollo),
successivamente furono accolte nella cultura cristiana come profetesse della venuta di Cristo e apparvero in diversi cicli pittorici
in pendant con i profeti dell’Antico Testamento. Al di là dell’utilizzo per ampi complessi figurativi, le Sibille vengono rappresentate
anche in cicli domestici e in tele di piccole dimensioni. (DDD)
Il Meriggio, dal latino meridie(m) che significa mezzogiorno,
è il simbolo della luce nella sua pienezza fisica e spirituale, la
natura si arresta, il tempo sembra fermarsi.
Sala mitologica
Pietro Liberi
L’uomo precipitato dai vizi
177
Francesco Maffei
Milone da Crotone
XVII. SALA MITOLOGICA
Luca Giordano
Cefalo e Procri
Anonimo veneto
Sibille
181
Area Carlo Scarpa
Carlo Scarpa (Venezia, 1906 - Sendai, 1978) è una delle figure
più interessanti della scena architettonica italiana del Novecento.
Personaggio controverso, spesso osteggiato, fu intellettuale dalla
personalità eclettica; coltivò i suoi interessi attraverso molteplici
e assidue frequentazioni con artisti e studiosi. Importante anche
la sua attività di designer per oggetti in argento e tessuti, ma soprattutto il suo ruolo di consulente artistico, dal 1933 al 1947, per
la vetreria Venini di Murano: al suo personale gusto sono dovuti
alcuni dei vetri più originali della storia del design.
L’intervento realizzato alla Fondazione tra il 1961 e il 1963 interessa parte del piano terra del Palazzo, il giardino situato sul retro
e l’antica scala principale fino al primo piano.
Il progetto, destinato a rendere maggiormente fruibile quest’area,
trova una soluzione ai tipici problemi lagunari dell’alta marea e
dell’umidità costante, e crea uno spazio espositivo, per convegni e
altre iniziative culturali.
L’opera di Carlo Scarpa può ricondursi a quattro temi fondamentali: il ponte di accesso, l’ingresso e la porta d’acqua, il portego e
il giardino.
Con il nuovo ponte, montato in poche ore, Scarpa risolve il problema dell’angusto accesso preesistente, posto su una calle laterale, spostandolo sul fronte del Palazzo, in campiello Querini, modificando una finestra per ricavarne la porta. Il ponte è costruito
principalmente in legno, con un parapetto minimale in ferro e
corrimano ligneo: un arco tesissimo che riesce a superare mirabilmente il delicato tema della differenza di quota. I disegni conservati dalla Fondazione su questo tema sono numerosissimi, ma
chissà quanti altri ne avrà fatti Scarpa, che, in contrasto con la
183
A R E A C A R L O S C A R PA
cura maniacale che usava nello scegliere la carta da disegno, era
solito usare per i suoi schizzi qualsiasi supporto gli capitasse sotto
mano, compresi i pacchetti delle sue adorate Muratti.
La sala a cui si accede varcando il ponte è caratterizzata dal pavimento in marmo policromo, che entra in risonanza con il soffitto
in stucco rosso lucido tirato a spatola.
La luce entra prepotentemente attraverso le cancellate sul canale,
poste a sostituzione dell’antica porta d’acqua, indugiando sulla
pavimentazione in lastre di pietra d’Istria e sulla tessitura delle
pareti in mattoni. La cerniera tra l’atrio sul canale e la sala intitolata a Gino Luzzatto, già rettore dell’Università di Venezia
e presidente della Fondazione dal 1950 al 1964, è rappresentata
dall’involucro in cristallo e pietra d’Istria, impreziosito da un motivo a foglia d’oro, che riveste l’elemento del termosifone. Scarpa
risponde così ad una questione funzionale con l’immissione di un
elemento plastico.
La sala Luzzatto rappresenta un’attenta rilettura del portego, che
relazionava il cortile interno con il canale. L’effetto prospettico
suggerito dai profili in ottone, appositamente predisposti per le
esposizioni temporanee, e dalle grandi lastre di rivestimento in
travertino delle pareti, è bilanciato dalle paraste luminose in vetro
opacizzato e dalla partizione del pavimento in lastre di calcestruzzo lavato, scandite da una maglia modulare in pietra d’Istria.
Vi è una fortissima continuità organica tra i molteplici elementi
che compongono la spazialità della sala, tanto che anche la porticina laterale è appena percepibile in quanto a sua volta lastra
in travertino, incernierato a scomparsa. La porta chiusa disegna
una S, che ci fa pensare a una discreta firma dell’architetto.
Una parete-porta in cristallo separa virtualmente il portego dal
piccolo giardino, che conclude la visione prospettica assumendo il
significato di un’estensione naturale della sala.
Scarpa organizza questo spazio verde, delimitato da un alto muro
pagine precedenti:
Carlo Scarpa, Atrio e “Fondamenta”
Carlo Scarpa
“Fondamenta”, particolare
185
Carlo Scarpa
“Edicola” copricalorifero
Carlo Scarpa
Aula Luzzatto, particolare
A R E A C A R L O S C A R PA
perimetrale, come uno dei momenti fondamentali del suo progetto di restauro.
Il prato, contenuto da un muretto in calcestruzzo, si presenta sopraelevato rispetto al livello della sala Luzzatto ed è attraversato
da un canale d’acqua che, partendo da una labirintica scultura in
marmo, scorre sino a scendere in un gocciolatoio di pietra d’Istria
posto sotto una vera da pozzo, usata come elemento decorativo. Sulla sinistra, adiacente il muro in calcestruzzo che separa il
giardino dal cortile, decorato con il mosaico di Mario De Luigi,
colloca una vasca d’acqua in tessere vitree e cemento, all’interno
della quale ne pone una seconda di rame. Le specie botaniche selezionate dallo stesso architetto, e negli anni ripristinate, sono da
considerarsi veri e propri materiali costitutivi del progetto. (TB)
Carlo Scarpa
Aula Luzzatto, particolare
Carlo Scarpa
Giardino, particolare
187
A R E A C A R L O S C A R PA
Carlo Scarpa
Giardino, particolari
189
191
Pagina precedente:
Mario Botta
Auditorium G. Piamonte
Mario Botta
Auditorium G. Piamonte,
Particolare
193
Mario Botta
Auditorium G. Piamonte
I servizi: caffetteria e bookshop
195
Restauri e benefattori dal 1980
Per i restauri si ringraziano:
Amici della Querini Stampalia
Associazione Amici dei Musei e Monumenti Veneziani
Banca Intesa
Banco San Marco
Mina Bianchi
Cassa di Risparmio di Venezia
Comitato francese per la Salvaguardia di Venezia (Solange Gaussen)
Fondazione Ercole Varzi
Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti
Magazzini Le Printemps, Parigi
Ministero per i Beni e le Attività Culturali,Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici di Venezia e Laguna
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Regione del Veneto
Save Italian Art
Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Venezia
Venice Committee International Fund for Monuments, Inc.
Per le donazioni si ringraziano:
lo straordinario numero di persone che hanno permesso la costituzione del fondo di arte
contemporanea “Giuseppe Mazzariol”
Ambasciata indiana a Roma
Margherita Andreu
Stefano Arienti
Loredana Balboni
Carla Bernardi
Carlo Dalla Zorza
Vivian Albert Daniels
Eredi Da Venezia
Eredi De Giudici
Eugenio Da Venezia
Nulla Romanidi Dazzi e Carlo Dazzi
Elisabetta Di Maggio
Josef Albers Foundation
Galleria Michela Rizzo
Joseph Kosuth
Paola Levi
Costantina e Franca Mariuzzo
Margherita Galante Menini
Maria Morganti
197
Indice dei nomi
Renato Padoan
Giannina Piamonte
Sofia Postai
Remo Salvadori
Giovanni Sarpellon
Mariateresa Sartori
Maria Vittoria Querini Scelsi
Mario Stefani
Armando Tonello
Italo Valenti
Alberta Viola
Per l’allestimento del Museo si ringraziano:
Banco Popolare – gruppo bancario
Cassa di Risparmio di Venezia
Sonia Guetta Finzi
Jesurum
Mario Levi Morenos
Marisa Nardini
Giampaolo Nason
Pauly & C.V.M.
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Rubelli S.p.a.
Leonardo Trevisan
A
Adéagbo, Georges 25
Alessandri, Angelo 35
Amigoni, Jacopo 137
Antonibon Manifattura di 167
Arienti, Stefano 25
B
Barbari, Jacopo de’ 33
Barbarigo, famiglia 79
Barbarigo, Gregorio 81
Barbieri, Giovanni Francesco, v. Guercino
Bassano, Jacopo 25, 65
Bella, Gabriel 23, 33, 112-116, 118-121
Bellini, Giovanni 50-57
Bellini, Jacopo 55
Bellini, Nicolosia 55
Berenson, Bernard 53
Berlino Manifattura di 107, 165
Bernini, Gian Lorenzo 25
Bertaldo, miniatore 137
Bertola, Chiara 41
Bison, Bernardino Giuseppe 14, 43
Blaeu, Willem 46-47
Boizot, Louis-Simon 165
Bolckman Peeter 100-101
Boldù, Roberto 33
Bombelli, Sebastiano 21, 86-89,
141-142, 145
Bonaparte, Letizia, v.
Ramolino Bonaparte, Letizia
Bordiga, Giovanni 35-36, 109-110
Botta, Mario 15, 18, 190-193
Boulle, Charles André 91
Briati, Giuseppe 47
Brustolon, Giambattista 115, 121
Busetto, Giorgio 15, 30
C
Caccavale, Giuseppe 24-25
Canal, Antonio, v. Canaletto
Canaletto, Antonio Canal detto Canaletto
101, 115, 121, 127
Canova, Antonio 96-97
Carlini, Giulio 33
Carriera, Rosalba 137
199
Cassana, Giovanni Francesco 89
Cassana, Nicolò 21, 89, 92
Cassetti, Giacomo 33, 44-45
Castelli, Bernardino 145
Castelli, Giuseppe 14, 43, 45, 156-158
Castelli, Pietro 14, 43, 45, 156-158
Catarino 58-60
Catena, Vincenzo 61, 65-66
il Cavalier Tempesta, Pieter Mulier 101
Cedini, Costantino 163
Ceresa, Carlo 151
Cervelli, Federico 122-125
Cesarotti, Melchiorre 27
Cherea, Francesco 158
Ciardi, Guglielmo 109, 111
Coducci, Mauro 12
Contarini Querini, Caterina 137
Contarini, Giulio 97
Conti, Antonio 22
Cooper, Albert 85
Copenaghen Manifattura di 165
Correr, Piero 97
Cozzi Manifattura di 107
Crespi, Giuseppe Maria 131
D
Dagoty Manifattura di 107
Dazzi, Manlio 29, 36-37
Della Vecchia, Pietro 135-136
De Luigi, Mario 187
Di Maggio, Elisabetta 25, 102-103
Dinastia Qing 153
Donà delle Rose, famiglia 79
Dolfin, Daniele IV 149, 152
Dolfin, Daniele I 151
Dolfin Lippomano, Cecilia 149
Donato 58-60
E
Essen, Hans van
135, 138
F
Fabris, Michele detto l’Ongaro v. Ongaro,
Michele Fabris detto l’
Fabris, Placido 55
Falconet, Étienne-Maurice 165
Federico Cristiano, elettore di Sassonia 97
Federico II, re di Prussia 27
Federico IV, re di Danimarca e Norvegia 152
Ferdinando III, imperatore del Sacro Romano
Impero 151
Ferniani Manifattura di 106
Forabosco, Girolamo 90-91
Foscarini, Marco doge 22
Fra Galgario, Ghislandi Vittore detto 89
Fratelli Darte Manifattura di 107
G
Gemin, Mario 41
Ghislandi, Vittore, v. Fra Galgario
Giachino, Anna Maria 139
Giambono Michele 59-60
Giannetti, Raffaele 33
Giordano, Luca 91, 173, 175, 178
Giorgione 59, 61
Giustinian famiglia 23
Gobbetto, Walter 19
Goldoni, Carlo 22, 83
Gotha Manifattura di 107
Gradenigo, Pietro doge 11
Guarana, Jacopo 14, 43-45, 73, 129,
131-132, 141, 148-149, 151, 163, 171
Guarana, Vincenzo 14
Guardi, Francesco 127
I
Innocenti, Camillo
104-105, 107
J
Jappelli, Giuseppe
37, 94-96
K
Kaiser, Martinus 83-85
Kändler, Johann Joachim 105
Kosuth, Joseph 19-20, 22
L
Liberi, Pietro 175-176
Lippomano Querini Stampalia, Maria Teresa
13, 43, 129
Longhena, Baldassarre 151
Longhi, Alessandro 137
Longhi, Pietro 22, 33, 74, 76-83, 130-131
Lorenzetti, Giulio 35, 137
Lorenzo di Credi 131, 133
Lucetti, Giambattista 33
Ludwigsburg Manifattura di 165
Luigi XVI, re di Francia 165
Luti, Benedetto 141
Luzzatto, Gino 14, 185
M
Maffei, Francesco 173, 178
Manfredini, Luigi 153-154
Mann, Thomas 139
Mantegna, Andrea 53-55
Maria Antonietta, regina di Francia 165
Maria Leopoldina, arciduchessa d’Austria
151
Marieschi, Michele 127
Marin, Marianna 33
Marinali, Orazio 21, 45
Mazzariol, Giuseppe 14-15, 30
Meissen Manifattura di 96-97, 105-106, 165
Medardo Rosso v. Rosso, Medardo
Medulich, Andrea v. Schiavone lo
Milesi, Alessandro 107-109
Milone da Crotone 173
Mocenigo, Alvise 97
Moia, Federico 33
Molenaer, Bartholomeus 137
Monico, Jacopo, patriarca dal 1827 al 1851
14, 153
Montesquieu, Charles Louis de 22
Morandi Padoan, Ada 105
Morganti, Maria 25
Moschini, Vittorio 37
Mulier, Pieter, v. il Cavalier Tempesta
N
Namias, Giacinto 33
Napoleone I, imperatore 97
Nazari, Bartolomeo 141-143, 145
Negretti, Jacopo, v. Palma il Giovane
Negretti, Jacopo, v. Palma il Vecchio
Newton, Charles 22
Nogari, Giuseppe 137-139
Nove Manifattura di 167
O
Ongaro, Michele Fabris detto l’ 21, 33,
44-45
Ovidio 175
P
Padoan, Renato 105
Padoan, Romano 105
Palladio, Andrea 151
Palma il Giovane, Jacopo Negretti detto
33, 64, 68-71
Palma il Vecchio, Jacopo Negretti detto
13, 19, 21, 59-61, 64, 71, 159-161
Paolo Veneziano 59
Paolo Veronese 65, 73
Parmigianino 69
Pasini Alberto 109-110
Pasquetti, Fortunato 145-146
Pastor, Valeriano 15, 18-19
Pelliccioli, Mauro 57
Perosa, Leonardo 29
Pitati, Bonifacio de’ 13, 61
Plinio il Vecchio 173
Polcastro, Gerolamo 95
Polidoro di Mastro Renzo da Lanciano
61-65
Pordenone il 69
Poussin 131
Priuli, Francesco 159
Priuli Querini, Paola 19, 159-160
Q
Querini, Andrea Domenico 14, 22-23,
27, 79, 83, 85, 97, 113, 131
Querini, Angelo Maria (n. Gerolamo
Guerrino) 12, 22, 27, 44-45, 141-143, 145
Querini, Cecilia 85
Querini, Francesco 12, 19, 21, 61, 158, 161
Querini Francesco Melchiorre 45
Querini, Gerolamo Domenico 21-22, 47,
86-87, 89, 141-142
Querini, Marco 11
Querini, Nicolò 12
Querini, Polo Marco 21-22, 47, 87-89
Querini, Zanachi v. Querini, Zuanne
Querini, Zuan Francesco 22, 149
201
Querini, Zuanne 11
Querini Zuanne Antonio 13-14, 129-130
Querini, Zuanne Carlo 12, 22, 85, 149
Querini, Zuanfrancesco 13
Querini Stampalia, Alvise Maria 11,
13, 23, 27, 43, 127, 129-131, 163, 167
Querini Stampalia, Andrea Maria 145
Querini Stampalia, Giovanni 10-12, 14,
23, 28-29, 33, 36, 41, 43, 95, 97, 149
Querini Stampalia, Gerolamo Ludovico
127, 145-146
Querini Stampalia Polcastro, Caterina 95
Querini Valier, Elisabetta 21, 89, 92
R
Raffaello Sanzio 69
Ramolino Bonaparte, Letizia 96-97
Reni, Guido 153
Rembrandt 91
Ribera, Giuseppe, v. Spagnoletto
Ricci, Marco 41, 91, 126-127
Ricci, Sebastiano 22, 89, 91, 171-174
Rossi, Davide 14
Rossi, Luigi 33
Rosso, Medardo 109-110
Rubens, Pieter Paul 65, 91
Ruschi, Francesco 125
Ruskin, John 19
Ruysch, Rachel 135
S
Sagredo, Agostino 33
Salvadori Remo 24-25
Sansovino, Jacopo Tatti detto il 151
Sanudo, Marin 158
Sartori, Domenico 14, 43
Sartori, Giovanni Battista 97
Sartori, Mariateresa 25
Scardona, Rosa da 65
Scarpa, Carlo 14-18, 53, 180-189
Schiavone, Andrea Medulich detto lo
65, 69-70
Schlaggenwald Manifattura di 107
Scrinzi, Angelo 35
Segarizzi, Arnaldo 27, 29
Selvatico, Lino 109-110
Bibliografia essenziale
Sèvres Manifattura di 105-106, 162-169
Solari, Antonio 14, 43
Spagnoletto, Giuseppe Ribera detto 91
Spinell 139
Stom, Antonio 97-99
Strozzi, Bernardo 64-65, 89
Sweerts, Michael 136-137
Carlo Scarpa alla Querini Stampalia. Disegni
inediti, a cura di M. Mazza, Venezia,
Il Cardo, 1996
T
Tatti, Jacopo detto il Sansovino v. Sansovino
Tiepolo, Bajamonte 11
Tiepolo, Giambattista 149-151
Tintoretto 65, 71, 73, 91
Tintoretto, Jacopo v. Tintoretto
Tononi, Carlo 83, 85
Trevisani, Francesco 141
Trincanato, Egle Renata 15
Tron, Chiara 22
Carlo Scarpa: l’opera e la sua conservazione.
Giornate di studio alla Fondazione Querini
Stampalia, VII.2004, a cura di M. Manzelle,
Mendrisio, Mendrisio Academy press, 2005
U
Uberti, Pietro 149
Ungher, Gustavo Adolfo
29
V
Valier, Silvestro 21, 89, 92
Vaugondy, Gilles Robert de 157-159
Vecellio, Marco 21, 65, 67
Vecellio, Tiziano 65, 73, 91, 159
Venini S.p.A. 183
Verrocchio, Andrea 133
Vezzi Manifattura di 166-167
Vianello, Girolamo 14, 43
Vienna Manifattura di 107, 167
Vincennes-Sèvres Manifattura di 163
Viviani, Luigi 33
Voltaire 22, 27
Z
Zais, Giuseppe 127
Zuccarelli, Francesco 127
Zugno, Francesco 151
Zurigo Manifattura di 165
Carlo Scarpa: l’opera e la sua conservazione.
Giornate di studio alla Fondazione Querini
Stampalia, I.1998/III.2000, a cura di
M. Manzelle, Milano, Skira, 2002
Cento scene di vita veneziana. Pietro Longhi
e Gabriel Bella alla Querini Stampalia, a cura di
G. Busetto, Venezia Fondazione scientifica
Querini Stampalia, 1995
Dei ed eroi del Barocco veneziano. Dal Padovanino
a Luca Giordano e Sebastiano Ricci, a cura di
G. Busetto, Catania, Maimone, 2004
Donazione Eugenio Da Venezia. Le recenti
acquisizioni, a cura di E. Dal Carlo, Venezia,
Fondazione scientifica Querini Stampalia,
1994
Eugenio Da Venezia. La donazione alla Querini
Stampalia, Milano, Electa, 1990
A. Fancello, Per un profilo di Giovanni Querini
Stampalia. Tesi di laurea, relatore
G. Pizzamiglio, [S.l., s.n., 2003]
Fondazione scientifica Querini Stampalia,
Archivio privato della famiglia Querini Stampalia.
Inventario, a cura di D. V. Carini Venturini,
R. Zago, Venezia, Fondazione scientifica
Querini Stampalia, 1987
Fondazione scientifica Querini Stampalia,
Gli arredi della Fondazione Querini Stampalia,
[testi E. Dal Carlo, Venezia, Fondazione
Querini Stampalia, 2005]
Fondazione scientifica Querini Stampalia,
Catalogo del fondo cartografico queriniano, a cura
di G. Mazzariol, Venezia, Lombroso, 1959
203
Fondazione scientifica Querini Stampalia,
Catalogo della pinacoteca della Fondazione
scientifica Querini Stampalia, a cura di
M. Dazzi e E. Merkel, prefazione di
R. Pallucchini, Vicenza, Neri Pozza, 1979
Fondazione scientifica Querini Stampalia,
Il libro dei Querini nel Settecento, nota introduttiva,
catalogo e appendice documentaria a cura di
G. Busetto, Venezia, Fondazione scientifica
Querini Stampalia, 1973
Fondazione scientifica Querini Stampalia,
La Presentazione di Gesù al Tempio di Giovanni
Bellini, [testi B. Trevisan, Venezia,
Fondazione Querini Stampalia, 2007]
Giuseppe Mazzariol: 50 artisti a Venezia, a cura
di C. Bertola, Milano, Electa, 1992
Mario Botta. Luce e gravità. Architetture 19932003, a cura di G. Cappellato, Bologna,
Compositori, 2003
Nella casa di un uomo prudente. Carlo Goldoni
in visita alla famiglia Querini, a cura di
M. Lazzari, Venezia, Fondazione scientifica
Querini Stampalia, 1993
Le porcellane dei Querini Stampalia, a cura di
E. Dal Carlo, [Venezia], Fondazione
Querini Stampalia, 2002
Le porcellane dell’ambasciatore, a cura di
E. Dal Carlo, Venezia, Arsenale, 1998
I Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia
nel settecento veneziano, a cura di G. Busetto,
M. Gambier, Venezia, Fondazione scientifica
Querini Stampalia, 1987
Valeriano Pastor alla Querini Stampalia, a cura
di M. Michelotto Pastor, L. Taddei, [scritti
di M. Folin…et al.], Padova, Il Poligrafo,
2000
Finito di stampare
nel mese di gennaio 2010
nello stabilimento
delle Grafiche Vianello
Ponzano, Treviso