LUI - Rinoceronte Teatro
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LUI - Rinoceronte Teatro
LUI Gianluca Iadecola Non gliene era andata una bene nella vita. Orfano di madre a tre e di padre a quindici anni. Gli zii materni non perdevano mai l’occasione di ricordargli che alla fine lui era un ospite, ma non li si può rimproverare, erano disgraziati come lui. Gli altri ragazzi lo tenevano in disparte, dicevano che era violento, troppo silenzioso, ma non gliene fregava niente di quei minchioni, a lui andava bene così. Un giorno incontrò una donna, dodici anni e gli occhi pieni di domande. La prese e la portò su un prato. La dovette sposare. Lei quel giorno saltò la scuola. Il parroco gli trovò un posto in una fabbrica del nord, ma lui se ne rimase sulla sua isola. Col fucile del padre andava a caccia tutte le mattine e tornava con un coniglio selvatico o qualche uccellino. Buttava quelle bestiole sul tavolo e lei le scuoiava con le forbici. Lui prese ad amarla, e l’amò così forte che nacque un figlio e poi un altro e poi un altro. Allora lui invece di andare a caccia ogni mattina andava al municipio, coi pugni chiusi e il veleno in bocca. Li pregava di dargli un lavoro, un posto da portiere, bidello, facchino, ma quelli niente. Una sera bussò alla loro porta un uomo, il medico. Gli disse che il Sindaco era un cornuto, un comunista, che con quelli non si ragiona, non sono mica persone quelli lì. Disse che se fosse al suo posto, al posto del Sindaco, saprebbe come sistemare gli amici, che un paio di scarpe non si negano a nessuno... e tirò fuori come per magia due mocassini scamosciati nuovi nuovi. Lei disse che non avevano bisogno di scarpe, di niente avevano bisogno, e buonasera. L’indomani lui con il piccolo in braccio andò a studio, ma fu cacciato in malo modo da un’infermierina. Quello tornò la sera dopo e lui gli disse che di scarpe ce n’era bisogno, di tutto, anche il pane, ma più di tutto un lavoro. Il lavoro. Quello rimise le scarpe sul tavolo ma lui non le prese, perché lei lo stava guardando. Alla fine si strinsero la mano, il lavoro era stato promesso, ora bastava diventar sindaco. Quella mattina lui non la scorderà mai. Il messo comunale bussò alla sua porta, lei aprì e pensò subito a male. A lui era stato dato un lavoro come giardiniere del parco di fronte al municipio. Temporaneamente. Di sei mesi in sei mesi. Poi si vedrà. Dopo un mese entrò nell’urna elettorale col bigliettino che il dottore gli aveva dato, per essere sicuri che non si sbagliasse. Lui compilò tutto con diligenza e nel segreto dell’urna baciò la scheda, che gli portasse un po’ di bene. Lei nel segreto dell’urna fece lo stesso, e lo stesso fecero i marmocchi che si portavano appesi al collo o alle mani. A giudicare dai mocassini scamosciati che si vedevano passeggiare per strada l’esito era scontato, e infatti quasi il settanta per cento votò il dottore. Furono fatte feste, e comizi, e tutto. Lui non fu invitato e non sarebbe comunque andato. Solo aspettava una convocazione, il vecchio messo comunale alla porta, ma niente. Allora, dopo due anni fu lui ad andare dal messo a lamentarsi che da lui non si faceva vedere, che di certo aveva avuto ordine di andare da lui, ma che se ne era dimenticato, o cosa?. Il messo lo spinse fuori dalla porta ché aveva ancora il pigiama indosso. Quel giorno sistemò per bene tutto quello che c’era da fare nel parco di fronte il municipio e salì su al secondo piano, dove stà il sindaco. Aspettò a lungo e alla fine quello arrivò e lo invitò a prendere un caffè. Davanti al barista gli spiegò che qualcosa si era mosso, che doveva portare pazienza ma che nel giro di qualche settimana, sette o otto al massimo, tutto si sarebbe messo a posto. Lui lo pregò di fare in fretta, sistemarlo magari alla scuola del paese che così sarebbe potuto stare vicino ai figli. Dopo tre mesi il messo bussò alla porta. Gli diede una busta rettangolare e andò via con la firma di lui. L’aprì scommettendo che il dottore non si era dimenticato del fatto della scuola, ma che comunque ogni posto sarebbe stato buono. Lasciò il foglio sul tavolo, prese il fucile del padre e uscì di casa. Il messo era seduto su una panchina del parco, il suo parco, a prendere il sole. Lo prese in petto, lasciandolo sulla panchina. Salì i gradini a due e tre alla volta, entrò. Quello se ne stava alla scrivania, col telefono in mano. Forse aveva capito. Due colpi secchi. Poi via di corsa, per le strade nere e bianche. Ancora scale, altri due colpi, perché le segretarie comunali glielo avevano fatto apposta, a lui. Lei quando lesse la lettera andò a cercare il fucile. Chiuse a chiave l’uscio e serrò le persiane. Abbracciò i figli e cominciò a piangere. Bussavano alla porta, sirene e uomini con la voce concitata. I bambini frignavano e lei urlava con la bocca sul pavimento. Poi ancora un colpo.