Terry Brooks

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Terry Brooks
Terry Brooks
IL PRIMO RE DI SHANNARA
Traduzione di Riccardo Valla
MONDADORI
COPYRIGHT BY TERRY BROOKS
PUBBLICATO D'INTESA CON
BALLANTINE BOOKS, A DIVISION OF
RANDOM HOUSE, INC.
1996 ARNOLDO MONDADORI EDITORE S.P.A., MILANO
TITOLO DELL'OPERA ORIGINALE
FIRST KING OF SHANNARA
I EDIZIONE OTTOBRE 1996
II EDIZIONE NOVEMBRE 1996
IL PRIMO RE DI SHANNARA
A Melody, Kate, Lloyd, Abby e Russell
straordinari venditori di libri
Parte prima
LA CADUTA DI PARANOR
1
Il vecchio druido comparve all'improvviso, come scaturito dal nulla. Il
cacciatore delle Terre di Frontiera stava seduto nella protezione
dell'ombra di una grande quercia per non farsi avvistare dai nemici, e
da molto tempo stava all'erta per vederlo arrivare, sulla vetta di
un'altura da cui si dominavano le Pianure di Streleheim e i sentieri che
le percorrevano. Ma anche se la distesa era chiaramente visibile per
almeno dieci miglia alla luce del plenilunio, il cacciatore non l'aveva
visto. Farsi cogliere così di sorpresa era fastidioso e vagamente
umiliante, e il fatto che ciò si ripetesse a ogni loro incontro non
glielo rendeva più accetto. Come faceva, il vecchio? L'uomo della
Frontiera aveva trascorso quasi tutta la vita in quella regione ed era
sopravvissuto grazie alla prontezza di spirito e a una lunga esperienza.
Riusciva a vedere cose di cui gli altri uomini ignoravano perfino
l'esistenza. Leggeva i movimenti degli animali nella scia del loro
passaggio in mezzo all'erba alta. Sapeva dire di quante ore di cammino
lo precedevano e a che andatura si allontanavano. Ma non era riuscito a
scorgere il vecchio nella più chiara delle notti e nella più vasta delle
pianure, pur essendo in attesa del suo arrivo. Il fatto che il vecchio
non incontrasse difficoltà a trovarlo non gli era di grande
consolazione. Lasciato volutamente il sentiero, il nuovo venuto si
avvicinava adesso a passi lenti e misurati, la testa leggermente china,
gli occhi che mandavano lampi dall'ombra del copricapo. Vestiva di nero,
al pari di tutti i Druidi, e sopra la veste portava un mantello col
cappuccio: se l'era avvolto strettamente e la sua sagoma finiva per
essere una macchia ancor più scura dell'ombra in cui s'inoltrava. Non
era un uomo imponente, né per statura né per ampiezza delle spalle, ma
dava un'impressione di grande vigore e decisione. Gli occhi, che alla
luce del sole erano quasi verdi, a volte diventavano bianchi come
l'osso: soprattutto in quel momento, ora che la notte aveva rapito tutti
i colori sostituendoli con sfumature di grigio. Brillavano come quelli
di un animale intrappolato in una macchia di luce: ferini, penetranti,
magnetici. La luna illuminò per un attimo anche la faccia del vecchio,
sottolineando le rughe profonde che la solcavano dalla fronte al mento,
danzando sulle creste e le valli della sua pelle. I capelli e la barba,
benché ancora grigi, erano ormai prossimi al bianco; ciuffi sottili e
ritorti come nidi di ragno che spuntavano dal cappuccio. L'uomo della
Frontiera rinunciò a seguire quel filo di pensieri e si mise lentamente
in piedi. Era alto e largo di spalle, ma non massiccio. Aveva capelli
scuri, che portava lunghi e legati sulla nuca, occhi castani acutissimi
e sicuri di sé, volto magro, tutto piani e spigoli, ma non privo di una
sua rude bellezza. Quando fu salito fino a lui, il vecchio gli sorrise.
"Come stai, Kinson?" lo salutò. Al suono familiare di quella voce,
l'irritazione di Kinson Ravenlock venne spazzata via, come la polvere
dal vento. "Sto bene, Bremen" rispose, e gli tese la mano. Il vecchio
gliela strinse con forza e la tenne per qualche istante nella sua; la
pelle era secca e scabra per l'età, ma la mano era ben salda. "Sei qui
da molto tempo?" "Tre settimane. Meno di quel che mi aspettavo" rispose
Kinson. E aggiunse: "Mi hai colto di sorpresa. Ma, se è per questo, tu
riesci sempre a cogliermi di sorpresa". Bremen rise. Si era separato
dall'uomo della Frontiera sei mesi prima, con l'accordo di ritrovarsi la
prima notte di luna piena della quarta stagione, a nord del Castello di
Paranor, dove la foresta cedeva il posto alle Pianure di Streleheim. Il
tempo e il luogo dell'incontro erano stati fissati, ma non come se
fossero stati scolpiti nella pietra: i due uomini erano ben consapevoli
degli imprevisti a cui poteva andare incontro il vecchio druido, il
quale si proponeva di inoltrarsi nei territori proibiti del Nord.
Entrambi sapevano che il momento e il luogo dell'incontro sarebbero
stati stabiliti da eventi imprevedibili. Kinson non dava importanza al
fatto di aver dovuto attendere per tre settimane. Avrebbero potuto
benissimo essere tre mesi. Il druido gli rivolse un'occhiata penetrante,
e i suoi occhi erano adesso completamente bianchi e privi di colore,
alla luce della luna. "Hai scoperto molto, durante la mia assenza? Hai
messo a frutto il tuo tempo?" L'uomo della Frontiera si strinse nelle
spalle. "In parte. Siedi con me, riposa. Hai mangiato?" Offrì pane e
birra al vecchio, poi si accomodarono sotto le fronde, curvi l'uno
accanto all'altro, rivolti verso l'immensità delle Pianure. Il silenzio
vi regnava sovrano: la distesa giaceva vuota e sembrava estendersi
all'infinito sotto la cupola della notte rischiarata dalla luna. Il
vecchio mangiò distrattamente, adagio, assorto in altri pensieri. L'uomo
della Frontiera non aveva acceso il fuoco né quella notte né le
precedenti, fin da quando era iniziata l'attesa. Un fuoco sarebbe stato
troppo rischioso. "I Troll si muovono verso est" cominciò Kinson, dopo
qualche istante. "Sono migliaia, ben più di quanti sia riuscito a
contarne quando mi sono introdotto nel loro accampamento, una notte di
luna nuova, parecchie settimane or sono, allorché erano da queste parti.
Le loro fila continuano ad accrescersi, a mano a mano che altri vengono
arruolati. Dominano l'intera regione a nord delle Streleheim, fin dove
sono riuscito ad accertarmene." S'interruppe. "Hai scoperto che le cose
stanno diversamente?" Il druido scosse la testa. Spinse indietro il
cappuccio e la sua testa apparve come una sagoma nera ritagliata nello
sfondo del chiarore lunare. "No" rispose. "Ormai, tutta la nazione dei
Troll appartiene a lui." Kinson aggrottò la fronte. "Allora..." "Che
altro hai visto?" lo interruppe il vecchio. L'uomo della Frontiera
sollevò l'otre della birra e bevve un sorso. "I capi dell'armata se ne
stanno appartati, sempre chiusi nelle tende. Nessuno li vede mai. I
Troll hanno paura perfino di pronunciare i loro nomi, ed è strano. In
genere, i Troll delle Montagne non hanno paura di nulla. Tolti i loro
attuali capi, a quanto pare." Si girò verso il druido. "Ma la notte,
ogni tanto, mentre attendevo il tuo ritorno, ho visto strane ombre
stagliarsi nel cielo, alla luce della luna e delle stelle. Grandi
creature nere e alate, che volavano nell'aria più alta per predare, per
esplorare o semplicemente per sorvegliare ciò che avevano già preso...
non lo so e non lo voglio sapere. Avverto la loro presenza, anche
adesso. Sono qui, si aggirano attorno a noi. Sento la loro vicinanza
come una sorta di prurito fastidioso, anzi, come il brivido che ti
percorre la schiena quando ti senti osservato con intenzioni malevole.
Mi fanno accapponare la pelle. Ma loro non mi vedono. So che se mi
vedessero sarei morto." Bremen annuì. "Messaggeri del Regno del Teschio,
votati al suo servizio." "Allora, lui è ancora vivo?" Kinson non riuscì
a trattenersi dal chiederlo nuovamente. "Ne sei sicuro? Te ne sei
accertato?" Il druido posò la birra e il pane e lo fissò. Il suo
sguardo, però, era assente, ancora pieno di minacciosi ricordi. "E'
vivo, Kinson. Vivo al pari di noi. L'ho seguito fino alla sua tana,
nell'ombra più profonda della Lama del Coltello, dove il Regno del
Teschio affonda più saldamente le radici. All'inizio, come sai, non ne
avevo la certezza. Lo sospettavo, ne ero convinto, ma mi mancavano
testimonianze dirette che lo provassero. Così mi sono diretto a
settentrione, come ci eravamo detti, mi sono lasciato alle spalle la
pianura e mi sono addentrato nelle montagne. E lungo il cammino ho
scorto anch'io i cacciatori alati, li ho visti uscire solo la notte:
grandi uccelli rapaci che perlustravano la regione alla ricerca di
esseri viventi.LO mi ero reso invisibile come l'aria in cui volavano:
vedendo me, non vedevano nulla. Mi sono costantemente ammantato di
magia, ma non così forte che riuscissero a notarla in presenza della
loro. Sono passato a occidente dei Troll, ma ho visto che l'intero
territorio era già stato conquistato. Chi ha opposto resistenza è stato
passato per le armi. Chiunque fosse in grado di fuggire è fuggito. Gli
altri sono stati arruolati nell'armata." Kinson annuì. Erano passati sei
mesi da quando le bande di Troll erano scese dalle Montagne Charnal a
est e s'erano date alla sistematica conquista della propria razza. Il
loro esercito era numeroso e veloce, e in meno di tre mesi aveva
spezzato ogni resistenza. L'intero Nord era ormai in pugno al comandante
dell'esercito conquistatore: un individuo misterioso, di cui s'ignorava
l'identità. Circolavano su di lui parecchie voci, ma nessuna confermata.
Del resto, a sapere della sua esistenza erano ancora in pochi: la
notizia dell'esercito e del suo capo era giunta, nel Sud, soltanto agli
insediamenti di frontiera come Varfleet e Tyrsis, incerti avamposti
della Razza dell'Uomo, benché fosse già nota nelle Terre dell'Est e
dell'Ovest, tra i Nani e gli Elfi. Ma queste razze erano strettamente
legate ai Troll, mentre l'uomo era il reietto, il più recente nemico
delle altre creature. Il ricordo della Prima Guerra delle Razze era
ancora vivo, benché fossero passati tre secoli e mezzo: l'uomo viveva
isolato, nelle sue lontane città del Sud, un coniglio in fuga, pavido e
senza zanne, privo d'importanza nel grande disegno dell'universo, cibo
per predatori o poco più. Ma non io, pensò Kinson, con ira. Mai. Non
sono un coniglio. Sono sfuggito a quel destino. Sono diventato uno dei
cacciatori. Accanto a lui, Bremen cambiò posizione per stare più comodo.
"Mi sono inoltrato nelle montagne, in profondità, per cercare il nostro
nemico" proseguì, nuovamente assorto nel proprio racconto. "E più
m'inoltravo, più si rafforzava il mio convincimento. I Messaggeri del
Teschio erano dovunque, e sentivo la presenza di altri esseri, creature
evocate dal mondo degli spiriti, carne morta riportata in vita, male
incarnato. Me ne sono tenuto accuratamente alla larga e non ho mai
allentato la vigilanza, poiché sapevo che, se m'avessero scoperto, la
mia magia non sarebbe stata sufficiente a salvarmi. In quella regione,
la tenebra era soverchiante, una cappa greve e opprimente, imputridita
dal fetore e dal sapore venefico della morte. Infine sono arrivato al
Monte Teschio: una breve visita perché non potevo rischiare di più. Mi
sono infilato segretamente nelle sue gallerie e ho trovato quello che
cercavo." S'interruppe, corrugando la fronte. "E anche di più, Kinson.
Molto di più, e nulla di buono." "Ma lui, c'era?" insistette l'uomo
della Frontiera, con ansia. Sul suo volto di cacciatore si leggeva un
grande allarme, i suoi occhi brillavano di preoccupazione. "Lui c'era"
confermò il druido, a bassa voce. "Nascosto dietro la sua magia,
mantenuto in vita dal Sonno Magico. Ma lo usa senza riguardo, Kinson. Si
ritiene ormai al di là delle leggi naturali. Non capisce che tutti,
nonostante la loro forza, devono pagare uno scotto per ciò che usurpano
e assoggettano. O forse semplicemente non se ne preoccupa. E' caduto
sotto il dominio dell'Ildalch e non potrà mai più liberarsene." "Il
libro di magia rubato a Paranor?". "Quattrocento anni fa" confermò
Bremen. "Quando era soltanto Brona, un druido, uno di noi, e non ancora
il Signore degli Inganni." Kinson Ravenlock conosceva quella storia. Lo
stesso Bremen gliel'aveva raccontata, anche se era ben nota tra le Razze
e, a quell'epoca, l'uomo della Frontiera l'aveva già ascoltata un
centinaio di volte. Era stato un elfo, Galaphile, a riunire il Primo
Consiglio dei Druidi, cinque secoli prima, mille anni dopo l'olocausto
delle Grandi Guerre. Il Consiglio si era riunito a Paranor e vi erano
convenuti i più saggi di tutte le Razze, uomini e donne: coloro che
ricordavano il mondo antico, che possedevano ancora qualche vecchio
libro stracciato e rosicchiato dai topi, i depositari di una conoscenza
sopravvissuta a un millennio di barbarie. Il Consiglio intendeva
compiere un ultimo, disperato tentativo di strappare le Razze allo stato
selvaggio in cui erano precipitate e di avviarle verso una nuova
civiltà, superiore all'antica. Lavorando insieme, i Druidi s'erano
accinti al faticoso compito di riunire le loro conoscenze frammentarie,
di rimettere insieme quanto rimaneva in modo da poterlo usare per il
bene comune. Si proponevano di migliorare la vita di tutte le genti,
senza badare al passato. Tra loro c'erano Uomini, Gnomi, Nani, Elfi,
Troll e una manciata di altri, i più coraggiosi e i più saggi delle
nuove Razze sorte dalle ceneri delle antiche. Se le grandi conoscenze
del passato fossero state ancora in grado di dare qualche frutto, il
nuovo raccolto sarebbe andato a beneficio di tutti. Ma il compito era
lungo e arduo, e alcuni Druidi erano stati colti dall'impazienza. Uno di
questi era Brona. Intelligente e ambizioso, ma indifferente alla propria
e all'altrui sicurezza, s'era messo a sperimentare la magia. Il vecchio
mondo non si serviva delle arti magiche, che erano pressoché scomparse
con il declino del regno fatato di Faerie e l'ascesa dell'Uomo, ma Brona
era convinto che quelle pratiche si dovessero riscoprire e utilizzare.
Le antiche discipline scientifiche non erano riuscite a migliorare
l'umanità, e la distruzione del vecchio mondo era la diretta conseguenza
di quell'insuccesso, ma i Druidi avevano deciso di ignorare la lezione
delle Grandi Guerre. La magia offriva un altro modo per dominare le
forze naturali e i libri che la insegnavano erano più antichi e
sperimentati di quelli di scienza. Il principale era l'Ildatch, un
volume mostruoso e pericoloso, risalente all'alba della civiltà e
sopravvissuto a tutte le catastrofi perché protetto da tenebrosi
sortilegi e mosso da propri segreti calcoli. Brona aveva intravisto
nelle sue antiche pagine le risposte che cercava, le soluzioni dei
problemi che i Druidi intendevano affrontare. Perciò aveva deciso di
impadronirsene, e il seguito era stato l'ineluttabile conseguenza della
sua decisione. Alcuni Druidi lo avevano avvisato del pericolo: colleghi
meno impetuosi di lui, meno sordi alle lezioni impartite dalla storia.
Infatti, non c'era mai stata una forma di potere che non comportasse
rischi, così come non c'era mai stata una spada che non rischiasse di
ferire anche chi la brandiva. Attento, lo avevano avvisato. Non compiere
imprudenze. Ma Brona e i suoi seguaci non si erano lasciati dissuadere e
avevano finito per rompere con il Consiglio. Erano scomparsi, portando
con sé l'Ildatch, mappa del nuovo mondo e chiave per aprirne le porte.
In realtà, il libro aveva finito per sovvertirli. Una volta caduta sotto
il suo dominio, la loro anima era stata cambiata per sempre. Avevano
preso a desiderare il potere per se stesso e per scopi personali,
scordando ogni altra considerazione e abbandonando ogni altro scopo.
Come immediato effetto era scoppiata la Prima Guerra delle Razze. La
Razza dell'Uomo era stata il loro strumento: con la magia l'avevano
sottomessa alla loro volontà e forgiata in modo da trasformarla in
un'arma d'offesa. Ma il tentativo era fallito di fronte alla saldezza
del Consiglio dei Druidi e alla forza complessiva delle altre Razze
unite. Gli aggressori erano stati sconfitti e la Razza dell'Uomo era
stata cacciata nelle Terre del Sud, in solitario esilio. Brona e i suoi
seguaci erano spariti, consumati dalla loro stessa magia, si diceva.
"Che idiota" esclamò Bremen, all'improvviso. "Il Sonno Magico l'ha
mantenuto in vita, ma gli ha rubato il cuore e l'anima, lasciando un
guscio vuoto. Per tanti anni l'abbiamo creduto morto, e in un certo
senso lo era davvero, perché sopravvive solo la sua parte malvagia,
quella su cui la magia ha preso il sopravvento. La parte che cerca
ancora di impadronirsi del mondo intero e di tutte le creature che vi
abitano. La parte che brama soltanto il potere. Che importava a Brona
del prezzo da pagare per l'uso così imprudente del Sonno? Che gli
importava delle ulteriori trasformazioni indotte dal prolungamento di
una vita già devastata? Brona era ormai diventato il Signore degli
Inganni, e questi intendeva sopravvivere a ogni costo." Kinson non fece
commenti, ma lo preoccupava la facilità con cui Bremen condannava l'uso
che del Sonno Magico faceva Brona senza accennare a se stesso, benché vi
ricorresse allo stesso modo. Se gliel'avesse fatto notare, il druido
avrebbe detto di usarlo in modo assai più equilibrato e controllato, e
di essere consapevole dei guasti che poteva procurare al suo corpo.
Avrebbe sostenuto di ricorrere al Sonno perché vi era costretto, perché
voleva essere presente nel momento dell'inevitabile ritorno del Signore
degli Inganni. Eppure, per quanto si sforzasse di operare ogni sorta di
distinzioni fra sé e l'avversario, rimaneva un fatto innegabile:
chiunque ricorreva al Sonno Magico subiva le medesime conseguenze,
druido o Signore degli Inganni che fosse. Prima o poi, anche Bremen ne
avrebbe pagato lo scotto. "Allora, l'hai visto?" chiese l'uomo della
Frontiera, ansioso di conoscere il resto della storia. "L'hai visto in
faccia?" Il vecchio sorrise. "Non ha più una faccia, Kinson, e neppure
un corpo. E' solo una presenza, avvolta in un mantello e incappucciata.
Come me stesso, penso alle volte, perché anch'io, ormai, sono poco più
di una presenza vuota..." "Non è vero" si affrettò ad affermare Kinson.
"Hai ragione" assentì il druido, con una fretta uguale alla sua. "Non è
proprio così. Ho ancora il senso del bene e del male, non sono schiavo
della magia. Ma tu hai paura che lo diventi, vero?" Kinson non rispose.
"Spiegami come sei riuscito ad arrivare fino a lui" volle sapere. "Come
hai fatto, perché non ti scoprissero?" Bremen distolse lo sguardo, come
per mettere a fuoco un tempo e un luogo lontani. "Non è stato facile"
rispose a bassa voce. "Il costo è stato enorme." Prese l'otre e bevve un
lungo sorso di birra; sul suo volto comparve una stanchezza così
profonda da parere incisa col ferro. "Sono stato costretto ad assumere
le sembianze di uno di loro" spiegò, dopo un momento. "Mi sono dovuto
ammantare nei loro pensieri e nei loro impulsi, nel male radicato dentro
le loro anime. Ero circondato dall'invisibilità, in modo che la mia
presenza fisica non venisse notata, e di me rimaneva solo l'anima. L'ho
coperta di un'oscurità uguale a quella che copre le loro, e per farlo ho
dovuto cercare, nel fondo del mio essere, la parte più buia di me
stesso. Oh, vedo che non lo ritieni possibile. Credi a me, Kinson, la
potenzialità per il male risiede in ciascuno di noi, me compreso. Noi la
dominiamo, la seppelliamo in profondità, ma essa continua a vivere
dentro di noi.LO sono stato costretto a portarla alla luce per crearmi
una protezione, e la sua presenza, il suo contatto, l'averla così vicina
e così viva, è stato terribile. Ma l'espediente è servito, ha impedito
che il Signore degli Inganni e i suoi scherani mi scoprissero." Kinson
aggrottò la fronte. "Ma hai subìto dei danni." "Solo transitori. Il
viaggio di ritorno mi ha dato il tempo di guarire." Il vecchio gli
sorrise di nuovo: una leggera increspatura delle labbra sottili. "Il
guaio è che quando la togli dalla sua prigione, la nostra parte malvagia
non vuole più stare rinchiusa. Picchia contro le sbarre. E' più ansiosa
di fuggire. Più astuta e calcolatrice. E d'ora in poi, essendo stato a
contatto con lei, sarò più vulnerabile al rischio di una sua fuga."
Scosse la testa. "Finché c'è vita, gli esami non finiscono mai. Questo è
uno dei tanti." Per qualche istante scese il silenzio, mentre i due
uomini si fissavano. Nella cupola del cielo, la luna era calata fino a
sfiorare l'orizzonte e si accingeva a sparire. Lontano dal suo chiarore,
le stelle si accendevano progressivamente; il cielo privo di nuvole era
come un sipario di velluto nero che faceva da sfondo all'immenso e
incontaminato silenzio. Kinson si schiarì la gola. "Come dicevi, hai
fatto ciò che era necessario. Dovevi avvicinarti, per avere la conferma
dei tuoi sospetti. Adesso ce l'abbiamo." S'interruppe. "Dimmi, hai visto
anche il libro? L'Ildatch?" "Era nelle sue mani, lontano da me,
altrimenti l'avrei preso e distrutto, anche a costo della vita" rispose
il druido. Dunque il Signore degli Inganni e l'Ildatch si trovavano nel
Regno del Teschio, e questa era una realtà, non una diceria o una
leggenda. Kinson raddrizzò leggermente la schiena e scosse il capo. Ogni
presentimento era risultato vero, come Bremen aveva temuto. Come
entrambi avevano temuto. E adesso c'era anche l'armata dei Troll, scesa
nelle Terre del Nord per conquistare tutta la regione. La storia si
ripeteva e stava per ricominciare la Guerra delle Razze. Questa volta,
però, c'era il rischio che nessuno fosse in grado di fermarla. "Vero,
vero..." mormorò tristemente. "C'è dell'altro" riprese il druido,
sollevando lo sguardo fino a incrociare quello del compagno. "Devi
ascoltare l'intera storia. Gli alati cercano una Pietra Magica degli
Elfi: una Pietra Nera. Il Signore degli Inganni ha saputo della sua
esistenza grazie all'Ildatch, perché se ne parla in qualche pagina del
libro maledetto. Non è una Pietra Magica come le altre che conosciamo.
Non fa parte di un gruppo di tre - una per il cuore, una per la mente e
una per il corpo di chi le usa - che sommano le loro magie quando le si
evoca. La magia di quella pietra può generare mali terribili. Nella sua
creazione c'è un mistero, perché si ignora quale fosse il suo scopo: è
stato dimenticato col passare del tempo. Ma nell'Ildatch, a quanto pare,
si parla espressamente del suo potere e io ho avuto la fortuna di
venirne a conoscenza. Mentre ero nascosto fra le ombre del muro, in
fondo alla grande sala dove gli alati ricevono gli ordini dal loro
signore, ne ho sentito parlare." Si piegò verso l'uomo della Frontiera e
abbassò la voce. "E' nascosta nelle Terre dell'Ovest, dentro un'antica
fortezza, ed è protetta in modi che né tu né io riusciremmo mai a
concepire, sia pur lontanamente. E' rimasta laggiù fin dai tempi di
Faerie, smarrita dalla storia, dimenticata come la magia e la razza che
un tempo la impiegavano. Adesso attende di essere scoperta e utilizzata
di nuovo." "Utilizzata per che cosa?" volle sapere Kinson. "Ha il potere
di sovvertire le altre magie, qualunque ne sia la forma, e di volgerle a
vantaggio di chi la impiega. Per quanto sia potente o complessa la magia
del tuo avversario, con la Pietra Nera degli Elfi la puoi dominare. I
poteri magici del tuo nemico passano a te, e lui è ridotto
all'impotenza." Kinson scosse la testa, disperato. "Come si può
resistere a un simile talismano?" Il vecchio sorrise. "Via, via, Kinson"
disse. "La cosa non è tanto semplice, vero? Ricordi le nostre lezioni,
no? L'uso della magia comporta sempre un costo. C'è sempre qualche
conseguenza, che è tanto più pesante quanto più potente è la magia. Ma
rimandiamo questa discussione a un altro momento. L'importante è che il
Signore degli Inganni non venga in possesso della Pietra Nera, perché
non si curerebbe affatto delle conseguenze. Da lungo tempo, ormai è al
di là di ogni appello alla ragione. Perciò dobbiamo trovare la Pietra
prima di lui, e trovarla molto in fretta." "Sì, ma come riuscirci?" Il
druido sbadigliò e si stiracchiò, stancamente; la stoffa nera della sua
veste si mosse con un lieve fruscio. "A questa domanda non so come
rispondere, Kinson. Inoltre, abbiamo altri compiti da portare a termine,
prima." "Intendi recarti a Paranor, al Consiglio dei Druidi?" "Devo."
"Ma perché prenderti il disturbo? Non ti ascolteranno. Non si fidano di
te. Una parte di loro addirittura ti teme." Il vecchio non poté che
assentire. "Sì, ma non tutti. Alcuni mi ascolteranno. In qualsiasi caso,
devo tentare. Incombe su di loro un grave pericolo. Il Signore degli
Inganni ricorda come l'abbiano sconfitto nella Prima Guerra delle Razze.
Non rischierà che intervengano una seconda volta, anche se ormai non
costituiscono più una minaccia per lui." Kinson distolse lo sguardo dal
druido. "Sarebbero sciocchi a non ascoltarti, Bremen, ma non ti daranno
retta. Hanno perso ogni contatto con la realtà, chiusi entro la
protezione delle loro mura. Dall'ultima volta che si sono avventurati
nel mondo è passato tanto tempo da far loro perdere ogni capacità di
giudizio. Hanno rinunciato alla loro identità. Si sono scordati del loro
scopo." "Basta, adesso" lo interruppe Bremen, posandogli con fermezza la
mano sulla spalla. "Inutile ripetere quello che già sappiamo. Faremo
quel che potremo e poi ci metteremo in cammino." Gli strinse leggermente
la spalla. "Sono molto stanco. Puoi stare di guardia per qualche ora,
mentre dormo? Poi ce ne andremo." L'uomo della Frontiera gli rivolse un
cenno d'assenso. "Starò di guardia" promise. Il vecchio si alzò e fece
qualche passo verso il punto dove il buio era più fitto, sotto l'albero
dalle ampie fronde, poi si avvolse nel mantello e si sdraiò sull'erba
morbida. In pochi istanti si addormentò e il suo respiro divenne
profondo e regolare. Kinson lo osservò. Anche se dormiva, i suoi occhi
non erano del tutto chiusi. Attraverso la sottile fessura tra le
palpebre, si scorgeva un riflesso di luce. Come un felino, pensò Kinson,
distogliendo subito lo sguardo. Come un felino pericoloso. Trascorse
qualche tempo, e il buio divenne ancor più fitto. La mezzanotte giunse e
passò. La luna calò al di sotto dell'orizzonte e le stelle ruotarono in
caleidoscopiche coreografie sullo sfondo nero del cielo. Per tutto il
tempo, sulle Streleheim regnò un pesante e assoluto silenzio; dalle
Pianure vuote non giungeva alcun movimento. Sotto l'albero, dove Kinson
Ravenlock vegliava, si udiva solo il leggero respiro del vecchio. L'uomo
della Frontiera tornò a guardare il compagno. Bremen era un isolato come
lui, un uomo solo nelle sue convinzioni, messo al bando per avere
creduto in verità che soltanto lui poteva accettare. Era uguale a lui,
sotto quell'aspetto, rifletté, e tornò con la mente al giorno del loro
primo incontro. Il vecchio era venuto a cercarlo in una locanda di
Varfleet perché aveva bisogno dei suoi servizi. Kinson Ravenlock faceva
l'esploratore, il cercatore di piste, la guida da quasi vent'anni, a
partire da quando era quindicenne. Era cresciuto a Callahorn e aveva
fatto la vita di frontiera, essendo nato in una delle poche famiglie
rimaste in quella terra di nessuno allorché tutti gli altri si erano
spostati assai più a sud, per mettere la maggior distanza possibile tra
loro e il passato. Dopo la Prima Guerra delle Razze, i Druidi avevano
suddiviso le terre in quattro regioni corrispondenti ai quattro punti
cardinali con Paranor come centro, ma la Razza dell'Uomo aveva preferito
lasciare una sorta di cuscinetto fra sé e le altre Razze. Così, anche se
le Terre del Sud si spingevano fino ai Denti del Drago, gli Uomini
avevano rinunciato a quasi tutti i loro insediamenti a nord del Lago
Arcobaleno. Solo poche famiglie erano rimaste lassù perché convinte che
fosse la loro terra, e non avevano voluto trasferirsi nelle aree
meridionali più popolose, dove era stato assegnato loro un nuovo
possedimento. I Ravenlock erano una di quelle famiglie. Così, Kinson era
cresciuto come un uomo della Frontiera, ai margini della civiltà, e
s'era abituato a vivere con Elfi, Nani Gnomi e Troll oltre che con gli
Uomini. Aveva viaggiato nelle loro terre, appreso i loro costumi e
imparato la lingua. Conosceva bene la storia del passato e l'aveva
sentità raccontare da così tanti punti di vista diversi da ritenere di
avere ormai raccolto i più importanti insegnamenti che i secoli passati
potevano offrirgli. Anche Bremen era uno studioso della storia e fin
dall'inizio i due uomini avevano condiviso molti punti di vista. Uno di
questi era che le Razze potessero mantenere la pace soltanto rafforzando
i legami che le univano e non allontanandosi reciprocamente. Un altro
era che il principale ostacolo alla riuscita del progetto di pace fosse
costituito dal Signore degli Inganni. Già allora, cinque anni addietro,
circolavano le prime voci sulla presenza di qualche entità malvagia nel
Regno del Teschio, su un gruppo di mostri quale non s'era mai visto in
precedenza. Si parlava di creature volanti, di mostri alati che la notte
battevano l'intera regione alla ricerca di vittime da uccidere. Si
parlava di gente che si era diretta al Nord e non aveva mai fatto
ritorno. Gli stessi Troll si tenevano lontani dalla Lama del Coltello e
dall'Acquitrino di Malg. Non si arrischiavano ad attraversare il Deserto
di Kierlak, e se dovevano passare nelle vicinanze del Regno del Teschio,
si organizzavano in gruppi numerosi e bene armati. In quella zona delle
Terre del Nord non cresceva più nulla, non c'era pianta disposta a
mettervi le radici. Col passare del tempo, tutta quella regione desolata
si coprì di nubi e foschia, l'erosione la spogliò della poca terra
fertile e la trasformò in una distesa di polvere e sassi. Nessuna
creatura poteva viverci, si diceva. Nessuna creatura che fosse viva nel
senso usuale del termine. In tanti, però, si rifiutavano di credere a
quelle storie, e molti altri si stringevano nelle spalle. Dato che si
trattava di una regione lontana, ben nota per la sua inospitalità, che
importanza poteva avere cosa ci viveva o cosa non ci poteva vivere?
Kinson aveva voluto recarsi nelle Terre del Nord per controllare di
persona, e per poco non vi aveva lasciato la vita. Le creature alate
l'avevano inseguito per cinque giorni, dopo averlo scoperto a spiare
entro i margini del loro regno. Se era riuscito a salvarsi, doveva
ringraziare la sua grande esperienza e una buona dose di fortuna.
Perciò, quando Bremen si era rivolto a lui, Kinson era già convinto che
la storia del druido fosse vera. Che il Signore degli Inganni esistesse.
Che Brona e i suoi seguaci avessero trovato rifugio nel Regno del
Teschio. Che le Quattro Terre ignorassero ancora il pericolo imminente.
E che qualche sorte assai sgradevole si stesse lentamente preparando per
loro. Aveva accettato di accompagnare il vecchio nei suoi viaggi, per
fargli da secondo paio d'occhi quando occorreva, per aiutarlo come
esploratore e messaggero, per proteggergli le spalle in caso di
pericolo. Kinson l'aveva fatto per molte buone ragioni, ma soprattutto
perché, per la prima volta, tutto ciò dava uno scopo alla sua vita. Era
stanco di andare alla deriva, di vivere al solo scopo di tornare a
vedere quello che aveva già visto molte volte e di essere pagato per
questo privilegio. Era stanco e non aveva una meta. Cercava qualcosa che
costituisse una sfida. E Bremen gliel'aveva dato, certamente. Scosse la
testa, pensoso. Era sorprendente che avessero fatto tanta strada insieme
e che fossero diventati così amici. Ed era sorprendente anche il valore
che attribuiva a entrambe le cose. All'improvviso, un accenno di
movimento, nelle vuote distese delle Streleheim, richiamò la sua
attenzione. Batté le palpebre per schiarirsi la vista e scrutò
minuziosamente la distesa buia, ma non vide nulla. Poi colse di nuovo lo
stesso movimento, una brevissima palpitazione del buio tra le ombre di
un lungo solco scavato dalle piogge nel terreno. Era così lontano da non
potergli rivelare la propria natura, ma aveva un forte sospetto su quale
potesse essere. Sentì una morsa di gelo allo stomaco, perché aveva già
visto quel genere di movimenti: sempre di notte, sempre nel vuoto di
qualche luogo desolato ai confini delle Terre del Nord. Mantenendo
un'assoluta immobilità, continuò a scrutare nel buio, augurandosi di
essersi sbagliato. Il movimento si ripeté, questa volta più vicino.
Qualcosa si sollevò da terra, rimase sospeso sul mosaico grigio della
pianura ammantata dalla notte, poi tornò a tuffarsi verso terra. Poteva
essere un grande uccello da preda alla ricerca di cibo, ma non lo era.
Era un Messaggero del Teschio. Kinson attese ancora qualche istante,
perché voleva accertarsi della direzione della creatura. Ancora una
volta l'ombra si staccò da terra e s'innalzò alla luce delle stelle,
seguendo il solco per poi allontanarsene, ma muovendosi costantemente in
modo da avvicinarsi al punto dove si nascondevano il druido e l'uomo
della Frontiera. Si abbassò di nuovo e scomparve fra le ombre del
terreno. Con un tuffo al cuore, Kinson comprese cosa stava facendo il
Messaggero del Teschio. Seguiva una traccia. Quella di Bremen. Si girò
di scatto, ma il vecchio era già al suo fianco, e scrutava lontano,
nella notte. "Stavo giusto..." "... per chiamarmi" terminò il druido.
"Lo so." Kinson tornò a guardare le Pianure. Nulla si muoveva. "L'hai
visto?" chiese sottovoce. "Sì" rispose il druido, in tono calmo ma
vigile. "Uno di loro mi insegue." "Ne sei certo? Segue proprio la tua
traccia, non quella di un altro?" "Temo di non essere stato abbastanza
cauto, nell'attraversare le pianure" ammise Bremen, e i suoi occhi
brillarono. "Il Messaggero sa che mi dirigevo da questa parte, e cerca
di scoprire dove mi trovo. Non mi sono fatto scoprire da nessuno, mentre
ero nel Regno del Teschio, perciò deve avermi visto per caso. Avrei
dovuto essere più cauto nell'attraversare le pianure, ma credevo di
essere ormai al sicuro." Continuarono a guardare e il Messaggero del
Teschio uscì di nuovo dal buio, s'innalzò per qualche momento, si lasciò
scivolare nell'aria senza rumore, poi si tuffò ancora una volta fra le
ombre. "C'è ancora tempo, prima che ci raggiunga" sussurrò Bremen. "Ma
penso che dovremmo metterci in marcia. Nasconderemo le tracce del nostro
passaggio per confonderlo, se dovesse decidere di seguirci. Paranor e i
Druidi ci attendono. Andiamo, Kinson." Insieme si alzarono e s'immersero
nell'ombra degli alberi, per poi scendere lungo l'altro versante
dell'altura. Scesero senza fare alcun rumore, con movimenti agili ed
esperti, e le loro sagome scure sembravano sfiorare appena il terreno.
In pochi secondi scomparvero alla vista.
2
Camminarono per tutto il resto della notte al riparo dei grandi alberi
della foresta. Kinson apriva la strada, Bremen lo seguiva passo passo,
come un'ombra. Nessuno dei due parlava perché erano abituati al silenzio
e alla reciproca presenza. Non rividero il Messaggero del Teschio. Per
celare le loro tracce, il druido si servì della magia, ma solo quanto
bastava a nascondere il loro passaggio senza richiamare l'attenzione.
Comunque, pareva che il cacciatore alato non intendesse scendere più a
sud delle Streleheim nella sua ricerca: se l'avesse fatto, avrebbero
sentito la sua presenza. Invece sentirono soltanto quella delle creature
che vivevano nella foresta. Almeno per il momento, erano al sicuro.
Kinson Ravenlock era instancabile, il suo passo reso sciolto dalle
decine di anni in cui aveva viaggiato a piedi nelle Quattro Terre. Il
cacciatore della Frontiera era alto e robusto: un uomo nel fiore
dell'età, ancora in grado di affidarsi ai riflessi e allo scatto in caso
di pericolo. Bremen lo osservava con ammirazione, ricordando la propria
gioventù, pensando a quanta strada aveva percorso lungo il cammino della
vita. Il Sonno Magico gli aveva concesso un'esistenza assai più lunga
della media - più lunga di quella permessa dalle leggi di natura ma non
era stato sufficiente. Sentiva le forze sfuggirgli di giorno in giorno,
e se riusciva ancora a tenere il passo del compagno, quando viaggiavano,
era perché ricorreva al sostegno della magia. Era costretto a impiegarla
quasi senza interruzione, ormai, e si rendeva conto che il tempo che gli
rimaneva da vivere si stava abbreviando sempre più. Comunque, aveva
fiducia in sé. L'aveva sempre avuta, ed era stata questa fiducia, più
della magia, a mantenerlo forte e attento. Era entrato fra i Druidi da
giovane e il suo campo di specializzazione erano la storia e le lingue
antiche. A quell'epoca le cose erano assai diverse, i Druidi si curavano
ancora del progresso delle Razze, lavoravano in modo da riunirle in
vista di una meta comune. Solo più tardi, meno di settant'anni prima,
avevano cominciato a ritirarsi dall'azione per dedicarsi soltanto allo
studio. Bremen era giunto a Paranor per imparare, e non aveva mai smesso
di desiderare la conoscenza, di sentirne il bisogno. Ma per imparare
occorreva assai di più dello studio isolato e della meditazione: erano
necessari viaggi, incontri con altri esperti, discussioni su argomenti
di interesse comune, quell'attenzione per le fluttuanti tendenze della
vita che poteva venire solo dall'osservazione e la basilare
consapevolezza che i metodi tradizionali non potessero offrire tutte le
risposte. Perciò ben presto era giunto alla conclusione che dalla magia
si potesse trarre un potere più maneggevole e duraturo di quello fornito
dalla scienza che aveva preceduto le Grandi Guerre. Tutte le conoscenze
raccolte in mezzo ai ricordi e ai documenti, dal tempo di Galaphile in
poi non erano riuscite a ridare al mondo l'antica scienza. Erano troppo
frammentarie e lontane dalla civiltà che avrebbero dovuto aiutare,
troppo oscure nei loro obiettivi per spalancare le porte della
comprensione. Ma la magia era diversa, perché era più antica della
scienza e più facilmente accessibile. E gli Elfi, la cui civiltà
risaliva a quell'epoca, la conoscevano ancora. Benché fossero vissuti
nell'isolamento dei loro rifugi, possedevano libri e documenti assai più
utilizzabili di quelli che parlavano di scienza. Certo, molte conoscenze
erano ancora incomplete, e la grande magia di Faerie era scomparsa e non
sarebbe stata recuperata facilmente. Ma era più facile ritrovare quelle
conoscenze che la scienza su cui continuava ad affannarsi il Consiglio
dei Druidi. Il Consiglio si rammentava però dei danni che aveva patito
in occasione della Prima Guerra delle Razze, quando aveva voluto usare
la magia, e conosceva il destino toccato a Brona e ai suoi seguaci: di
conseguenza, non intendeva più aprire quella porta. Lo studio della
magia era permesso, ma scoraggiato. Era considerata una curiosità con
pochi strumenti utili, e in nessuna circostanza ci si poteva accostare
alla magia come a una via per il futuro. Su questo punto, Bremen aveva
discusso all'infinito, ma invano. La maggioranza dei Druidi di Paranor
era coriacea e chiusa alla possibilità di un cambiamento. Impara dai
tuoi errori, ripetevano, non dimenticare quanto sia pericolosa la
pratica della magia. Meglio che scordi questi tuoi capricciosi interessi
e ti dedichi a qualche studio più serio. Naturalmente, Bremen non era
disposto a farlo, o forse non poteva. Era contrario alla sua natura
rinunciare a una possibilità soltanto perché in passato era andato
incontro a un fallimento. Gli insuccessi del passato erano dovuti a una
clamorosa incompetenza, ripeteva loro: una cosa che non si sarebbe
certamente ripetuta una seconda volta. Alcuni erano d'accordo con le sue
idee, ma alla fine, quando il Consiglio lo aveva espulso perché la sua
insistenza era divenuta intollerabile, si era allontanato da solo.
Allora si era diretto nella Terra dell'Ovest e per molti anni era
vissuto con gli Elfi, studiando le loro arti, concentrandosi sui loro
libri, cercando di ritrovare una parte di quello che avevano perso
quando le creature di Faerie si erano ritirate di fronte agli uomini.
Alcune conoscenze le possedeva già. Il segreto del Sonno Magico era già
suo, anche se in forma rudimentale. Per apprenderne tutti i particolari
e conoscerne bene le conseguenze occorreva tempo, e quando poté
cominciare a impiegarlo in modo efficace era già in età avanzata. Gli
Elfi accolsero Bremen come un fratello in spirito e misero a sua
disposizione le loro conoscenze di magia spicciola e i loro libri, che
più nessuno aveva letto. Col tempo, in mezzo a quel materiale
dimenticato riuscì a trovare veri tesori. Più tardi si recò nelle altre
terre, e venne a conoscenza di altre pratiche magiche, anche se meno
raffinate, che talvolta erano sconosciute agli stessi che le usavano.
Per tutto quel tempo continuò a cercare la conferma della sua
convinzione che il Signore degli Inganni e i suoi Messaggeri del Teschio
esistevano ed erano i Druidi ribelli fuggiti da Paranor tanti secoli
prima per essere infine sconfitti nella Prima Guerra delle Razze. Ma la
prova era elusiva come il profumo dei fiori portato sulle ali del vento,
che un momento c'è e il momento successivo è scomparso. L'aveva seguita
instancabilmente, attraverso i regni e dall'uno all'altro confine, nei
villaggi vicini e in quelli lontani, da una leggenda all'altra. Alla
fine era andato a cercarla nello stesso Regno del Teschio, nel cuore del
territorio del Signore degli Inganni, nei cui sotterranei s'era confuso
con i suoi neri servitori, in attesa dell'occasione favorevole per
fuggire con la sua verità. Se fosse stato più robusto, sarebbe arrivato
a quella verità già da tempo. Ma gli erano occorsi numerosi anni per
procurarsi le conoscenze occorrenti per sopravvivere a un viaggio nel
Nord. Anni di studio e di ricerche. Avrebbe impiegato meno tempo se il
Consiglio lo avesse aiutato, se i Druidi avessero rinunciato alle paure
e alle prevenzioni e preso in considerazione le altre possibilità come
aveva fatto lui, ma questo non era successo. Sospirò, ripensando
all'accaduto. Quando riandava al passato, veniva sempre colto dalla
tristezza. Tanto tempo sprecato. Tante occasioni perse. Forse era già
troppo tardi, per i Druidi di Paranor. Come convincerli del pericolo che
li sovrastava? Avrebbero creduto al racconto delle sue scoperte? Dalla
sua ultima visita al castello erano passati più di due anni. Forse
alcuni lo credevano morto. Altri avrebbero preferito che lo fosse
davvero. Non sarebbe stato facile convincerli di essersi sbagliati a
proposito del Signore degli Inganni, né indurli a riconsiderare il loro
rapporto con le Razze e soprattutto il loro rifiuto di servirsi della
magia. I due uomini uscirono dal fitto della foresta al sorgere
dell'alba, e le radure da loro attraversate si rischiaravano, passando
dall'argento all'oro, man mano che il sole saliva al di sopra dei Denti
del Drago e filtrava attraverso gli alberi per dare il suo tepore alla
terra umida. Intorno a loro, il bosco si diradava progressivamente,
riducendosi a minuscole macchie e a isolate sentinelle vegetali. Infine
davanti ai due viandanti, nella foschia del mattino, si stagliò la rocca
di Paranor. Il castello dei Druidi era una massiccia cittadella di
pietra, costruita su fondamenta di roccia che sporgevano dalla terra
come un pugno levato. Le sue mura si alzavano per parecchie decine di
braccia, fino a formare torri e camminamenti dipinti di un bianco
immacolato. A ogni angolo della costruzione sventolavano stendardi,
alcuni con gli emblemi dei Grandi Druidi che avevano retto il castello,
altri con le insegne nazionali dei signori delle Quattro Terre. Qualche
filo di nebbia scivolava ancora lungo le mura e stagnava nell'ombra,
alla base del castello, dove il calore del sole non aveva ancora
bruciato la notte. Era una visione impressionante, pensò Bremen. Anche
ora, e anche per lui che ne era stato bandito. Kinson gli rivolse uno
sguardo interrogativo da sopra la spalla, ma Bremen gli fece segno di
proseguire. Ormai era inutile rimandare. Comunque, la dimensione stessa
del castello lo costrinse a sostare per un attimo. Gli parve che il peso
delle sue pietre gli fosse stato scaricato sulle spalle, ed era un
gravame insopportabile. Una massa così grande e implacabile, pensò: in
un certo senso rispecchiava l'ostinazione di coloro che vi abitavano.
Rimpianse che le cose non fossero andate diversamente. Stava a lui
cercare di cambiarle. Uscirono finalmente dagli alberi, dove il sole era
un intruso e l'ombra era sovrana, e si avviarono lungo la strada che
portava all'ingresso principale. Un manipolo di armati stava già uscendo
a incontrarli: parte della forza multinazionale che costituiva la
Guardia dei Druidi al servizio del Consiglio. Tutti indossavano
l'uniforme grigia con l'emblema della torcia ricamato in rosso, sulla
parte sinistra del petto. Bremen cercò tra loro una faccia nota, ma non
ne trovò; del resto, si consolò, mancava da due anni. Se non altro,
notò, la Guardia era composta di Elfi, che forse gli avrebbero dato
retta. Il cacciatore della Frontiera si spostò di lato, con deferenza, e
lasciò che il druido passasse avanti. Bremen raddrizzò la schiena e usò
la magia per darsi un'aria più imponente, nascondere la stanchezza, i
dubbi, la debolezza, poi si diresse con determinazione verso la porta,
il mantello nero che sventolava dietro di lui e Kinson una semplice
presenza a qualche passo di distanza. I soldati attesero, con la faccia
priva di espressione. Quando giunse alla porta, vedendo che il suo
arrivo li aveva un po' sorpresi, disse semplicemente: "Buon giorno a
tutti". "Buon giorno a te, Bremen" rispose uno di loro, facendo un passo
avanti e accennando un inchino. "Allora mi hai riconosciuto?" L'altro
annuì. "Ti conosco. Mi dispiace, ma non hai il permesso di passare." Con
lo sguardo, indicò anche Kinson. Era educato, ma fermo. Un druido
espulso dal castello non poteva più entrarvi. E neppure un membro della
Razza dell'Uomo. Inutile discutere. Bremen sollevò gli occhi verso i
camminamenti in cima alle mura come per riflettere. "Chi è il capitano
della Guardia?" chiese poi. "Caerid Lock" rispose l'elfo. "Puoi
chiedergli di scendere a parlare con me?" L'elfo esitò, valutando la
richiesta. Infine annuì. "Aspetta qui, per favore" disse. S'infilò in
una porta laterale ed entrò nel castello. Bremen e Kinson fissarono le
Guardie rimaste nell'ombra ai piedi delle mura. Sarebbe stato facile
entrare nella rocca e lasciarle dov'erano, a sorvegliare le loro vuote
immagini, ma Bremen si era ripromesso di non usare la magia per entrare.
La sua missione era troppo importante: non voleva irritare il Consiglio
facendosi beffe della scarsa efficienza dei suoi difensori. I membri del
Consiglio non amavano i trucchi, ma rispettavano la sincerità. Era un
rischio che il vecchio druido era disposto a correre. Bremen si girò a
guardare la foresta. Il sole era ormai entrato in tutte le radure,
scacciando le ombre e illuminando i fragili steli dei fiori selvatici.
Era primavera, si accorse con stupore. Aveva perso il conto del tempo
durante il viaggio di andata e ritorno al Nord, concentrato solo sulla
ricerca. Aspirò profondamente l'aria profumata, l'aroma dei fiori e del
legno della foresta. Era passato molto tempo dall'ultima volta in cui
aveva notato i fiori. Dietro di lui, dalla porta, giunse un rumore, e si
voltò. Il soldato che l'aveva interrogato era di ritorno, accompagnato
da Caerid Lock. "Bremen" lo salutò l'elfo, con gravità, e si avvicinò
per tendergli la mano. Snello e di carnagione scura, Caerid Lock aveva
uno sguardo inquieto e la faccia segnata dalle preoccupazioni. I
lineamenti del viso erano quelli caratteristici degli Elfi: sopracciglia
che ai lati si inarcavano verso l'alto, orecchie a punta, faccia così
stretta da sembrare scarna. Vestiva di grigio come gli altri soldati, ma
la torcia ricamata sul suo petto era impugnata da una mano e sulle
spalle aveva delle barre rosse. Portava i capelli e la barba molto
corti, e in entrambi si scorgeva qualche filo grigio. Era uno dei pochi
che fossero rimasti amici di Bremen quando era stato bandito dal
Consiglio. Comandava la Guardia da più di quindici anni, e non c'era
persona più adatta di lui per quell'incarico. Proveniva dal corpo dei
Cacciatori degli Elfi, aveva passato l'intera vita sotto le armi ed era
un soldato di grande competenza: i Druidi avevano scelto bene,
nell'affidargli la propria difesa. E soprattutto, dal punto di vista di
Bremen, era un uomo a cui avrebbero dato ascolto, se avesse rivolto loro
una richiesta. "Caerid, lieto di vederti" rispose Bremen, stringendogli
la mano. "Stai bene?" "Come tutti. Sei invecchiato di qualche anno, da
quando ci hai lasciati. Vedo nuove rughe sulla tua fronte." "E lo stesso
vale per te, direi." "Forse. Sempre in giro per il mondo?" "Mi tiene
buona compagnia il mio amico Kinson Ravenlock" rispose Bremen,
presentandogli il compagno. L'elfo gli strinse la mano e lo squadrò
dalla testa ai piedi, senza fare parola. Kinson mantenne altrettanto
distacco. "Mi occorre il tuo aiuto, Caerid" riprese Bremen, con grande
serietà. "Devo parlare con Athabasca e con il Consiglio." Athabasca era
il Grande Druido, una persona autoritaria, di salde convinzioni e di
opinioni incrollabili, che non aveva mai nutrito molta simpatia per
Bremen. Allorché questi era stato espulso, Athabasca era membro del
Consiglio, ma non ancora Grande Druido: la carica era giunta in seguito,
e solo grazie ai complessi maneggi politici che caratterizzavano
l'attuale Consiglio e che Bremen aveva sempre odiato. Comunque, gli
piacesse o no, Athabasca era a capo del castello, e per farsi ascoltare
dai Druidi occorreva rivolgersi a lui. Caerid Lock gli sorrise
tristemente. "Perché capitano sempre a me le richieste impossibili? Sai
che Paranor e il Consiglio ti sono proibiti. Non puoi entrare nella
rocca, tanto meno parlare al Grande Druido." "Posso farlo se lui lo
vuole" rispose Bremen, con schiettezza. L'elfo annuì. Socchiuse le
palpebre e lo fissò. "Capisco. vuoi che gli parli al posto tuo." Bremen
annuì. Caerid non sorrise più. "Non gli sei mai piaciuto" fece notare,
tranquillamente. "E durante la tua assenza non è cambiato." "Non devo
piacergli, per comunicargli quello che devo dirgli. Si tratta di una
cosa assai più importante dei sentimenti personali. Sarò breve. Una
volta che mi avrà ascoltato, me ne andrò di nuovo." S'interruppe per un
istante. "Non mi pare di chiedergli molto, vero?" Caerid Lock scosse la
testa. "No." Guardò Kinson. "Farò il possibile." Rientrò nella rocca,
lasciando il vecchio e l'uomo della Frontiera a contemplare le mura e le
porte del castello. Le altre Guardie rimasero ferme al loro posto,
bloccando tutte le entrate. Per un momento, Bremen le osservò corrugando
la fronte, poi controllò l'altezza del sole. La giornata cominciava a
riscaldarsi. Scambiò un'occhiata con Kinson, poi si spostò in un punto
dove le mura offrivano un maggiore riparo e si sedette su una grossa
pietra. Kinson lo seguì, ma non si sedette. Aveva un'aria impaziente.
Avrebbe voluto che la sosta al castello finisse in fretta; era già
pronto a ripartire. Bremen sorrise tra sé, perché Kinson era fatto così.
Per lui, la soluzione di tutti i problemi consisteva nel recarsi in un
altro posto. Si era sempre comportato così. Soltanto da quando si
conoscevano cominciava a capire che le cose non si possono mai
risolvere, se non le si prende di petto. Non che Kinson fosse incapace
di affrontare la vita. Semplicemente, quando qualcosa gli dava fastidio,
cercava di lasciarsela alle spalle, di prendere le distanze, e in
effetti non era un comportamento sbagliato: le difficoltà si potevano
affrontare anche così. Tuttavia le soluzioni ottenute in quel modo non
erano mai durature. Certo, rispetto ai primi giorni Kinson era senza
dubbio maturato. Sotto tanti aspetti, non immediatamente visibili, era
un uomo assai più forte. Ma Bremen sapeva che le vecchie abitudini sono
dure a morire, e in Kinson Ravenlock era sempre presente l'impulso di
allontanarsi dalle situazioni sgradevoli e dalle difficoltà. "E' uno
spreco di tempo" brontolò l'uomo della Frontiera, quasi a confermare le
sue riflessioni. "Pazienza, Kinson" gli suggerì Bremen, a bassa voce.
"Pazienza? Perché? Non ti lasceranno entrare. E anche se lo faranno, non
ti daranno retta. Non vogliono ascoltare quello che devi dirgli. Non
sono più i Druidi di un tempo, Bremen." Il druido annuì. In questo,
Kinson aveva ragione. Ma non c'era niente da fare. I Druidi di oggi
erano gli unici che esistessero, e alcuni erano veramente degni di quel
nome. Sarebbero stati ottimi alleati, se Bremen fosse riuscito a
portarli a sé. Kinson avrebbe preferito basarsi unicamente sulle loro
forze, ma il nemico da affrontare era troppo potente per essere vinto
senza aiuto. Occorreva un'alleanza con i Druidi, i quali, anche se
avevano rinunciato a intervenire direttamente nel destino delle Razze,
erano ancora visti con deferenza e rispetto. Sarebbero stati assai utili
nello sforzo di unire le Quattro Terre contro il comune nemico. La
mattina si trascinò verso il mezzogiorno. Caerid Lock non faceva
ritorno. Per qualche tempo, Kinson camminò avanti e indietro, poi si
sedette accanto a Bremen, con un'aria di profonda frustrazione sulla
faccia sottile. Se ne stava chiuso nel suo silenzio, la fronte
aggrondata. Bremen sospirò tra sé. Kinson era con lui da molti anni.
L'aveva scelto fra parecchi possibili candidati al compito di scoprire
la verità sul Signore degli Inganni e la scelta si era rivelata buona.
Era il miglior esploratore che il vecchio avesse mai incontrato. Era
intelligente, coraggioso, acuto. Non si gettava mai a capofitto,
ragionava sempre. Il legame esistente tra loro era così forte che Kinson
era divenuto una sorta di figlio, per lui. E certamente era il suo
migliore amico. Ma non poteva divenire l'unica cosa che Bremen avrebbe
voluto. Non poteva essere il suo successore. Bremen era vecchio e
stanco, anche se riusciva a nasconderlo a coloro che aveva vicino. Morto
lui, nessuno avrebbe portato avanti lo studio della magia, così
necessario per il progresso delle Razze, nessuno avrebbe spinto i
recalcitranti Druidi di Paranor a interessarsi nuovamente delle Quattro
Terre, nessuno si sarebbe opposto al Signore degli Inganni. Un tempo
aveva sperato che Kinson Ravenlock potesse essere il suo erede, e forse
poteva ancora esserlo, ma la cosa sembrava sempre meno probabile. A
Kinson mancava la necessaria pazienza. Inoltre, sdegnava ogni forma di
diplomazia. Non perdeva tempo con coloro che non riuscivano a capire
verità che per lui risultavano ovvie. L'esperienza era la sola maestra
che rispettasse. Era un iconoclasta e un solitario, caratteristiche
negative per un druido, e a Bremen pareva impossibile che potesse
cambiare. Si girò a guardare l'amico, e si rammaricò di essersi lasciato
andare a quell'analisi. Era ingiusto mettersi a trinciare giudizi su
Kinson. Era sufficiente che gli fosse così devoto, che fosse disposto ad
aiutarlo fino alla morte, in caso di necessità. Kinson era il migliore
degli amici e degli alleati, ed era sbagliato pretendere di più. Eppure,
il suo bisogno di un successore era disperato! Bremen era vecchio, il
tempo scivolava via troppo in fretta. Distolse lo sguardo da Kinson e lo
fissò sugli alberi del bosco, come per misurare il poco tempo che gli
rimaneva. Il sole era già salito al punto più alto e cominciava a
scendere quando finalmente ricomparve Caerid Lock. Uscì dall'ombra della
porta senza guardare le guardie o Kinson, e si rivolse direttamente a
Bremen. Il druido, alzandosi in piedi per accoglierlo, si accorse di
avere i muscoli e le articolazioni anchilosati. "Athabasca è disposto a
parlarti" comunicò il capitano, con espressione accigliata. Bremen
annuì. "Devi avere faticato molto, per convincerlo. Sono in debito con
te, Caerid." L'elfo brontolò, senza compromettersi: "Non ne sarei così
sicuro. Athabasca ha le sue buone ragioni per accettare l'incontro,
secondo me". Poi si rivolse a Kinson: "Mi spiace, ma non sono riuscito
ad avere il permesso, per te". L'uomo della Frontiera sollevò la testa,
poi si strinse nelle spalle. "Starò meglio se aspetterò qui, penso"
rispose. "Lo penso anch'io" convenne l'elfo. "Ti farò mandare del cibo e
dell'acqua. Bremen, sei pronto?" Il druido si voltò verso Kinson e gli
rivolse un pallido sorriso. "Ritornerò il più presto possibile." "Buona
fortuna" gli augurò l'amico a bassa voce. Poi il druido entrò con Caerid
Lock nel castello e sparì nel buio dell'androne. Percorsero androni
cavernosi e stretti corridoi tortuosi, immersi nel silenzio gelido e
buio, accompagnati soltanto dall'eco dei loro passi sulle pesanti lastre
di pietra del pavimento. Non incontrarono nessuno, come se Paranor fosse
deserto, anche se Bremen sapeva benissimo che non era così. Molte volte
gli parve di cogliere un frammento di conversazione o la parvenza di un
movimento, a una certa distanza da dove passavano, ma non poté mai
averne la certezza. Caerid lo faceva passare dai corridoi di servizio,
usati solo quando si volevano tenere segreti i propri movimenti. La cosa
era comprensibile. Prima di far sapere agli altri Druidi di avere
concesso l'udienza, Athabasca voleva accertarsi dell'importanza del
messaggio. A Bremen sarebbe stata concessa una breve udienza privata per
esporre le sue richieste, poi sarebbe stato congedato o invitato a
ripeterle davanti al Consiglio. In entrambi i casi, la decisione sarebbe
stata presa subito. Incontrarono la prima di una lunga serie di rampe di
scale che portavano alle parti più alte della rocca. Lo studio di
Athabasca era in cima alla torre centrale, ed era probabile che il
Grande Druido intendesse vedere Bremen lassù. Mentre salivano, il
vecchio rifletté sulle parole di Caerid. Athabasca aveva certamente i
suoi motivi per accordargli l'udienza, ma era poco probabile che glieli
rivelasse. Il Grande Druido era in primo luogo un politico, e in secondo
un amministratore, ma soprattutto un burocrate. Questo non per
sminuirlo, ma semplicemente per inserire nella giusta cornice il suo
modo di agire. La sua prima considerazione sarebbe stata sul rapporto
causa-effetto, ossia sulle ripercussioni di un evento. Così lavorava la
sua mente. Era un abile organizzatore, ma tendeva a fare il proprio
interesse. Con lui, Bremen avrebbe dovuto scegliere con cura le parole.
Stavano per uscire da un passaggio che collegava due corridoi quando una
figura vestita di nero scaturì all'improvviso dall'ombra per fermarsi
davanti a loro. Caerid Lock portò istintivamente la mano alla daga che
gli pendeva dalla cintura, ma il nuovo venuto aveva già afferrato l'elfo
per le braccia e gliele aveva inchiodate ai fianchi. Un istante più
tardi, quasi a togliersi il pensiero, sollevò di peso Caerid e lo spostò
di lato, come se fosse un ostacolo di nessun conto. "Calma, calma,
capitano..." mormorò, con una voce in chiave di basso. "Non c'è bisogno
di armi, tra amici. Voglio solo scambiare in fretta qualche parola col
tuo accompagnatore, poi mi toglierò dai piedi." "Risca!" lo salutò
Bremen, sorpreso di incontrarlo. "Lieto di vederti, vecchio mio!" "Mi
farai un vero piacere se mi toglierai le mani di dosso, Risca" scattò
Caerid Lock, irritato. "Ho cercato di prendere la spada perché mi sei
saltato addosso senza preavviso!" "Scusa, capitano" rispose l'altro,
allegramente. Staccò le mani dalle braccia dell'elfo e le sollevò tutt'e
due, come per arrendersi. Poi guardò il druido: "Benvenuto a casa,
Bremen di Paranor". Solo allora Risca venne avanti, alla luce, e
abbracciò il vecchio. Era un nano barbuto, con la faccia tonda, spalle
enormi e corpo tozzo e straordinariamente muscoloso. Braccia simili a
tronchi d'albero, che terminavano con mani nodose e coperte di calli per
l'uso delle armi, Risca era come un ceppo profondamente radicato che
nessuna forza avrebbe potuto estirpare, stagionato dal tempo e dalle
intemperie, inattaccabile dagli anni. Era un druido guerriero, l'ultimo
della sua disciplina, esperto nell'uso delle armi e nell'arte della
guerra, grande conoscitore di tutte le battaglie combattute dal giorno
in cui le nuove Razze si erano affacciate sul mondo. Bremen si era
dedicato di persona al suo addestramento finché non era stato bandito
dal castello, più di dieci anni prima. Nonostante il bando, però, Risca
era rimasto suo amico. "Non faccio più parte di Paranor, Risca" gli fece
notare Bremen. "Tuttavia, mi sembra davvero la mia casa. Come te la sei
passata?" "Bene. Ma mi sono annoiato. Il mio talento serve a ben poco,
entro queste mura. Tra i nuovi Druidi, ben pochi mostrano interesse per
le arti militari. Per tenermi in forma, mi alleno con le Guardie. Caerid
mi mette alla prova tutti i giorni." L'elfo sbuffò. "Tutti i giorni mi
fai fuori, intendi dire. Che ci fai, qui? Come sei riuscito a trovarci?"
Risca si staccò da Bremen e si guardò attorno con aria da cospiratore.
"Queste mura hanno orecchi, per chi sa ascoltarle..." A dispetto di se
stesso, Caerid Lock fu costretto a ridere. "Hai fatto la spia... una
delle discipline che hai affilato come una lama nel tuo arsenale di arti
militari!" Bremen sorrise al nano. "Sai perché sono venuto?" "So che hai
un'udienza con Athabasca. Ma prima volevo parlare con te. No, Caerid,
puoi rimanere. Per te non ho segreti." Il nano guardò Bremen con grande
serietà. "Ci può essere una sola ragione per il tuo ritorno, e non si
tratta certo di buone notizie, ma sia come sia. Avrai bisogno di
alleati, e puoi contare su di me come portavoce al momento opportuno. Io
ho un'anzianità, nel Consiglio, che pochi tuoi sostenitori possono
metterti a disposizione. Comunque, devi sapere com'è la situazione qui
dentro: non è favorevole al tuo ritorno." "Spero di convincere
Athabasca: il pericolo che incombe su di noi ci impone di lasciare da
parte le divergenze." Bremen aggrottò la fronte. "Non mi pare che sia
tanto difficile accettare questa semplice verità." Risca scosse la
testa. "Lo sarà. Sii forte, Bremen. Non piegarti davanti a lui. Ad
Athabasca non piace quello che rappresenti, ossia una sfida alla sua
autorità. Non puoi dire o fare nulla per cancellare questa sua
prevenzione. Perciò, come arma, la paura ti sarà più utile della
ragione. Fagli capire bene il pericolo." Si rivolse a Caerid. "Tu gli
daresti un consiglio diverso?" L'elfo esitò per un istante, poi scosse
la testa. "No." Risca afferrò di nuovo le mani del druido. "Ti parlerò
più tardi." Si avviò per il corridoio e presto scomparve nell'ombra.
Bremen sorrise, nonostante tutto. Saldo di corpo e di mente,
inflessibile in tutto: questo era Risca. Non sarebbe mai cambiato.
Ripresero il cammino, il capitano e il vecchio, per corridoi in penombra
e scale a chiocciola, penetrando sempre più nella rocca, finché non
giunsero a un pianerottolo e a una porticina rinforzata da borchie e
fasce di ferro. Bremen l'aveva già vista molte volte, negli anni
trascorsi al castello: era l'entrata posteriore dello studio del Grande
Druido; Athabasca l'aspettava lì dentro. Trasse un profondo respiro.
Caerid Lock bussò tre volte, attese un istante, bussò una quarta.
Dall'interno una voce ben nota disse: "Avanti". Il capitano della
Guardia dei Druidi aprì la porticina, poi si fece di lato. "Mi è stato
ordinato di attendere qui" disse a bassa voce. Bremen annuì, divertito
dalla gravità che scorse sulla faccia dell'elfo. "Capisco" disse.
"Grazie di nuovo, Caerid." Poi, chinandosi perché l'architrave era molto
basso, entrò nello studio. Anche la stanza gli era nota. Era lo studio
personale del Grande Druido, rifugio e luogo d'incontro del capo del
Consiglio. Si trattava di un'ampia stanza dall'alto soffitto, con
finestre di vetro piombato, scaffali pieni di carte, oggetti, diari,
schedari e libri sparsi dappertutto. Sulla parete di fronte a lui c'era
una grande porta a doppio battente, rinforzata da piastre di ferro. Nel
centro esatto della stanza c'era una grande scrivania, in quel momento
sgombra: sul ripiano di legno scuro e lucido si rifletteva la luce delle
candele. Athabasca era in piedi, dietro la scrivania, e aspettava. Era
un uomo alto e robusto, dall'aria imperiosa, con una folta capigliatura
bianca e fluente e gelidi occhi azzurri profondamente infossati in una
faccia florida. Indossava la veste blu della sua carica, legata alla
vita e priva di insegne. Portava al collo l'Eilt Druin, il medaglione
dei Grandi Druidi fin dai tempi di Galaphile. Era d'oro, in lega con una
piccola percentuale di altri metalli per irrobustirlo, incastonato in
una cornice d'argento sbalzato. Raffigurava una mano che stringeva una
torcia accesa, simbolo dei Druidi fin dall'epoca della fondazione del
loro ordine. Si diceva che il medaglione fosse magico, ma nessuno
conosceva la natura della sua magia. La frase Eilt Druin era in lingua
elfa e significava: "Dalla Conoscenza il Potere". Un tempo, il motto
aveva un significato per i Druidi. Un'altra delle piccole ironie della
vita, pensò Bremen, stancamente. "Lieto di vederti, Bremen" lo salutò
Athabasca, con la sua voce profonda e sonora. Era il saluto
tradizionale, ma il modo in cui lo pronunciò lo fece suonare vuoto e
forzato. "Lieto di vederti, Athabasca" rispose Bremen. "Ti ringrazio di
avermi accordato udienza." "Caerid Lock è stato molto convincente.
Inoltre, non allontaniamo certo dalle nostre mura coloro che un tempo
erano nostri fratelli." "Un tempo, ma non ora" intendeva dire. Bremen
fece qualche passo avanti, fermandosi accanto alla grande scrivania, ed
ebbe l'impressione che a separarlo da Athabasca ci fosse assai più di
quel ripiano di legno lucido. Si chiese come riuscisse, il Grande
Druido, a mettere gli altri in soggezione, quando erano davanti a lui,
come se fossero altrettanti bambini. Anche se era più vecchio di
Athabasca, Bremen aveva avuto l'impressione, per qualche momento, che
l'altro gli fosse superiore per età ed esperienza. "Cosa mi volevi dire,
Bremen?" gli chiese Athabasca. "Che le Quattro Terre sono gravemente
minacciate. Che i Troll sono stati conquistati da un potere che
trascende la vita fisica e la forza dei mortali. Che anche le altre
Razze cadranno, se non interverremo a proteggerle. Che gli stessi Druidi
rischiano la distruzione." Athabasca giocherellava con l'Eilt Druin,
distrattamente. "E sotto che forma si presenta la minaccia? Quella della
magia?" Bremen annuì. "Le voci che circolano sono vere, Athabasca Il
Signore degli Inganni esiste realmente. Non solo: egli è la
reincarnazione del druido ribelle Brona, che si credeva sconfitto e
distrutto più di trecento anni fa. E' sopravvissuto e si è mantenuto in
vita grazie all'impiego malvagio e illimitato del Sonno Magico e alla
distruzione della sua anima. Ormai non ha più una forma concreta, è solo
uno spirito. Eppure, resta il fatto che vive ed è all'origine della
minaccia che ci sovrasta." "Tu l'hai visto? L'hai trovato nei tuoi
viaggi?" "Sì.". "Come sei riuscito a farlo? Te l'ha permesso lui?
Certamente ti sarai travestito, per avvicinarlo." "Per parte del viaggio
mi sono protetto con una magia che mi ha dato l'invisibilità. Poi mi
sono avvolto in un'immagine tenebrosa, simile a quella dello stesso
Signore degli Inganni, e neppure lui è stato in grado di riconoscermi
sotto quel travestimento." "Ti sei reso simile a lui?" Athabasca si era
portato le mani dietro la schiena e fissava con attenzione Bremen. "Per
un breve tempo, mi sono dovuto rendere uguale a lui. Ho dovuto farlo per
avvicinarmi fino ad avere la conferma dei miei sospetti." "E se il fatto
di divenire come lui ti avesse in qualche modo corrotto, Bremen? Se
l'uso della magia ti avesse fatto perdere la prospettiva e l'equilibrio?
Come puoi essere certo che quello che hai visto non fosse frutto della
tua immaginazione? E che la scoperta che ci vuoi riferire non sia
qualcosa d'irreale?" Bremen si sforzò di mantenere la calma. "Se la
magia mi avesse corrotto, lo saprei, Athabasca. Ho dedicato molti anni
al suo studio, la conosco meglio di chiunque altro." Athabasca gli
rivolse un sorriso gelido, carico di dubbi. "Ma proprio questo è il
punto. Come possiamo valutare obiettivamente i poteri magici? Tu hai
lasciato il Consiglio per intraprendere di tua iniziativa uno studio
proibito, del cui pericolo eri stato avvisato. Hai seguito la stessa
strada che era stata seguita in precedenza da un altro... dalla creatura
che dici di voler combattere. La magia ha corrotto lui, Bremen. Come
puoi essere certo che non abbia corrotto anche te? Oh, sono certo che tu
pensi di essere impenetrabile al suo potere, ma questo lo pensavano
anche Brona e i suoi seguaci. La magia è una forza insidiosa, un potere
che oltrepassa la nostra capacità di comprensione e non dà affidamento.
Abbiamo già considerato in precedenza il suo impiego e ne siamo stati
traditi. La teniamo tuttora presente, ma procediamo con una cautela
assai superiore a quella di un tempo: cautela, ripeto, perché il
deprecabile caso di Brona e dei suoi compagni ci ha mostrato cosa può
succedere. Ma tu, Bremen, che cautele hai adottato? La magia corrompe
chi la usa, in un modo o nell'altro, e alla fine lo distrugge." Nel
rispondere, Bremen cercò di mantenere ferma la voce. "Non ci sono
certezze assolute sugli effetti del suo uso, Athabasca. La corruzione
può sopraggiungere per gradi e in forme diverse, a seconda del modo in
cui la magia viene impiegata, ma questo valeva anche per le antiche
scienze. Tutte le applicazioni del potere corrompono. Questo, però, non
significa che non si possano utilizzare per un bene superiore. So che
non approvi il mio lavoro, ma anch'esso ha un suo valore. Neanch'io
prendo alla leggera i pericoli della magia. Ma non sottovaluto neppure
le sue possibilità, entro i loro limiti." Athabasca scosse la testa
leonina. "Ti ritengo troppo immerso nell'oggetto del tuo studio per
poterne dare un giudizio obiettivo. Era questo il tuo principale
difetto, quando ci hai lasciati." "Può darsi" ammise Bremen, con
serenità "ma non è di questo che dobbiamo occuparci adesso. Ciò che
importa è la minaccia che incombe su di noi. Sui Druidi, Athabasca.
Brona ricorda certamente chi lo sconfisse nella Prima Guerra delle
Razze. Se intende di nuovo conquistare le Quattro Terre, come sembra,
per prima cosa cercherà di eliminare coloro che costituiscono un
pericolo per lui. I Druidi. Il Consiglio. Paranor." Per un momento
Athabasca lo guardò con grande serietà, poi si girò e si diresse a una
delle finestre e alzò la testa verso i vetri multicolori. Bremen attese,
poi continuò: "Sono venuto a chiederti il permesso di parlare al
Consiglio. Concedimi la possibilità di dire agli altri quello che ho
visto. Lascia valutare a loro l'importanza di ciò che sostengo". Il
Grande Druido si girò, con il mento leggermente sollevato, in modo da
dare l'impressione di voler guardare Bremen dall'alto in basso. "Noi
siamo una comunità, all'interno di queste mura, Bremen. Siamo una
famiglia, viviamo tra noi come se fossimo fratelli e sorelle, tutti
impegnati nello stesso compito: conoscere il nostro mondo e i suoi
meccanismi. Non ci sono tra noi favoritismi per uno o per un altro; noi
trattiamo tutti da uguali. Questa è una verità che tu non hai mai voluto
accettare." Bremen cercò di protestare, ma Athabasca sollevò la mano per
farlo tacere. "Ci hai lasciati quando lo hai voluto tu. Hai deciso di
abbandonare la tua famiglia e il tuo lavoro per seguire i tuoi interessi
personali. Non potevi condividere con noi i tuoi studi, perché violavano
i confini che avevamo stabilito. Non si può mai permettere al bene del
singolo di nuocere al bene della collettività. In una famiglia deve
regnare l'ordine. Ciascun membro della famiglia deve rispettare gli
altri. Quando Ci hai lasciati, hai mostrato una grave mancanza di
rispetto per le opinioni del Consiglio riguardo i tuoi studi. Hai
ritenuto di conoscere la verità meglio di noi. Hai rinunciato al tuo
posto nella comunità." Gli rivolse un'occhiata gelida. "E adesso
vorresti tornare qui e comandare. Oh, non tentare di negarlo, Bremen!
Che altro vorresti essere, se non il nostro capo? Arrivi con conoscenze
che dici di possedere soltanto tu, con studi su poteri noti unicamente a
te, e con un piano per salvare le Razze che soltanto tu puoi mettere in
atto. Il Signore degli Inganni esiste. Il Signore degli Inganni è Brona.
Il druido ribelle ha corrotto la magia per i propri fini e ha
addomesticato i Troll. Tutti insieme marceranno contro le Quattro Terre,
tu sei la nostra sola speranza. In seguito sarai costretto a
consigliarci quello che dovremo fare, e poi ad assegnarci i compiti
quando ci metteremo in moto per fermare questo imbroglio. Tu, che ci hai
abbandonati per tanto tempo, dovrai adesso guidarci." Bremen scosse
lentamente la testa. Sapeva già come sarebbe finita l'udienza, ma aveva
il dovere di proseguire. "Non intendo guidare nessuno. Intendo parlare
del pericolo che ho scoperto e niente di più. Quello che succederà in
seguito sarete voi a deciderlo: tu in veste di Grande Druido e il
Consiglio. Non sto cercando di rientrare nel Consiglio. Vi chiedo solo
di ascoltarmi; poi rimandatemi pure per la mia strada." Athabasca
sorrise. "Sempre assai sicuro di te, Bremen. Ne sono impressionato. Ti
ammiro per la tua risolutezza, ma credo che t'inganni. Comunque, la mia
è una voce singola, e non intendo essere il solo a prendere una
decisione su questo caso. Attendi qui, con il capitano Lock. Riunirò i
Consiglieri e chiederò loro di esaminare la tua richiesta. Sceglieranno
di ascoltarti oppure no? Rimetto a loro la decisione." Batté rapido
alcuni colpi sul tavolo e la porticina in fondo alla stanza si aprì.
Caerid Lock entrò e gli rivolse il saluto. "Tieni compagnia al nostro
ospite" ordinò Athabasca. "Fino al mio ritorno." Poi uscì dalla porta
principale, senza guardarsi alle spalle. Athabasca non rientrò che dopo
quattro ore o poco meno. Bremen rimase seduto su una panca, davanti a
una delle finestre, e fissò lo sguardo nella luce velata del tardo
pomeriggio. Attese pazientemente, consapevole di non poter fare altro.
Parlò con Caerid Lock per un poco, raccogliendo informazioni sui nuovi
lavori del Consiglio, e venne a sapere che i progressi erano pressappoco
gli stessi degli anni precedenti, che non era cambiato quasi niente, che
non s'era fatto quasi nulla. Era deprimente, e presto Bremen smise di
rivolgere quel tipo di domande. Si concentrò su quanto doveva dire al
Consiglio e sulle possibili reazioni dei suoi membri, ma già sapeva in
cuor suo che era inutile pensarci. Ora capiva perché Athabasca gli aveva
concesso il colloquio. Il Grande Druido aveva preferito ascoltarlo che
cacciarlo via su due piedi, mostrargli una parvenza di considerazione
invece di non mostrargliene affatto. Ma la sua decisione era già presa.
Non avrebbe ascoltato gli avvertimenti. Bremen era stato bandito e non
avrebbe più avuto il permesso di tornarvi. Per nessun motivo, e per
quanto potesse suonare convincente. Bremen era un uomo pericoloso,
secondo Athabasca - e anche secondo altri, supponeva lui. Usava la magia
senza cautela. Scherzava col fuoco. Non si poteva dare ascolto a un uomo
simile. Né ora né mai. Che tristezza. Era venuto ad avvertire i Druidi,
ma erano ormai irraggiungibili. Finalmente l'aveva capito. Adesso
aspettava solo di averne la conferma. E la conferma arrivò presto, dopo
le quattro ore di attesa. Athabasca rientrò nella stanza con l'aria di
chi ha cose più importanti da fare. "Bremen" lo salutò e lo congedò
nello stesso tempo. Non prestò attenzione a Caerid Lock, non gli chiese
di rimanere o di andarsene. "Il Consiglio ha esaminato la tua richiesta
e l'ha respinta. Se la presenterai di nuovo, questa volta in forma
scritta, verrà trasmessa a una commissione apposita che effettuerà un
secondo esame." Si sedette alla scrivania e cominciò a leggere con
ostentazione alcuni documenti che aveva portato con sé. L'Eilt Druin
luccicava vivacemente, dondolandogli sul petto. "Noi ci siamo impegnati
a una politica di non intervento negli affari delle Razze, Bremen. Ciò
che tu ci chiedi costituirebbe una violazione di questo principio.
Dobbiamo tenerci lontano dalla politica e dai conflitti interrazziali.
Le tue ipotesi sono troppo generiche e del tutto prive di conferma. Non
possiamo dar loro credito." Alzò la testa. "Puoi provvederti di tutto
l'occorrente per proseguire il viaggio. Buona fortuna. Capitano Lock,
accompagna alla porta principale il nostro ospite." Abbassò di nuovo gli
occhi. Bremen lo guardò senza fiatare. Nonostante se l'aspettasse, era
stupito di un congedo così brusco. Quando capì che Athabasca avrebbe
continuato a ignorare la sua presenza, gli disse piano: "Sei davvero un
idiota". Poi girò le spalle e seguì Caerid che apriva la porticina e si
avviava lungo i corridoi che li avevano portati fin lì. Quando fu
uscito, sentì Athabasca chiudere la porta e tirare il chiavistello.
3
Caerid Lock e Bremen scesero in silenzio, accompagnati dalla solitaria
cadenza dei loro passi lungo i corridoi tortuosi. Dietro di loro, il
chiarore che ancora proveniva dal pianerottolo e dalla porticina dello
studio del Grande Druido Athabasca lasciò progressivamente il posto
all'oscurità. Bremen faticò a frenare l'amarezza che montava dentro di
lui. Aveva dato dell'idiota ad Athabasca, ma forse il vero idiota era
lui. Kinson aveva ragione. Visitare Paranor era stata una perdita di
tempo. I Druidi non intendevano ascoltare il loro ex fratello scacciato
dall'ordine. Non erano interessati alle sue fantasie disordinate, al suo
tentativo di tornare fra loro. Riusciva a immaginare senza difficoltà le
occhiate divertite e ironiche che dovevano essersi scambiati, quando il
Grande Druido li aveva informati della richiesta. Li vedeva scuotere la
testa, offesi da tanto ardire. In verità, l'arroganza l'aveva reso
cieco: gli aveva impedito di valutare l'immensità dell'ostacolo da
superare per riavere la loro fiducia. Se riuscissi a parlare con loro,
mi ascolterebbero, si era detto. Ma non gli era stata neppure data la
possibilità di farlo. La sua sicurezza l'aveva tradito. L'orgoglio
l'aveva ingannato. Aveva commesso un grave errore di calcolo. Eppure pensò, per salvare qualcosa dal fallimento - aveva fatto bene a provare.
Almeno non sarebbe stato afflitto, in futuro, dal rimpianto e dal senso
di colpa per non avere compiuto il tentativo. Né poteva dire che
l'insuccesso fosse totale. Qualcosa di buono poteva ancora venire dalla
sua venuta al castello, un piccolo cambiamento, nella disposizione di
spirito dei Druidi o nelle loro azioni future, che sarebbe risultato
visibile soltanto a distanza di molto tempo. Non era giusto condannare
senza appello il tentativo. Forse Kinson aveva ragione a proposito del
risultato, ma chi poteva dire che la visita fosse destinata a non dare
alcun frutto? "Mi dispiace che non ti abbiano concesso di parlare,
Bremen" disse Caerid a bassa voce, guardandolo da sopra la spalla.
Bremen alzò gli occhi e si rese conto di avere un'aria profondamente
depressa. Non era il momento di compatirsi. Aveva perso l'occasione di
rivolgersi direttamente al Consiglio, ma c'erano altri compiti da
svolgere prima di lasciare per sempre la rocca, e adesso doveva
dedicarsi a quelli. "Caerid, pensi che abbia il tempo di andare a
trovare Kahle Rese, prima di allontanarmi?" chiese. "Mi bastano pochi
minuti." Si fermarono sulle scale e si scambiarono un'occhiata, il
vecchio dall'aspetto fragile e l'elfo non più giovanissimo. "Athabasca
ti ha detto di procurarti quello che ti occorreva per il viaggio"
osservò Caerid "ma non ha specificato cosa poteva occorrerti. Penso che
una breve visita possa rientrare fra le necessità a cui si riferiva."
Bremen sorrise. "Non mi scorderò mai dei favori che mi hai fatto,
Caerid. Mai." L'altro si strinse nelle spalle. "Cose da nulla, Bremen.
Vieni." Raggiunsero un altro corridoio, passarono per alcune porte e
scesero un'altra rampa di scale. Per tutto il tempo, il druido continuò
a riflettere. Comunque fossero andate le cose, aveva dato l'avviso.
Molti l'avrebbero ignorato, ma alcuni gli avrebbero prestato fede, e a
questi si doveva permettere di sopravvivere alla sciocchezza degli
altri. Inoltre, occorreva adottare qualche misura per proteggere la
rocca. Non poteva fare molto, considerato il potere del Signore degli
Inganni, ma doveva tentare. Avrebbe cominciato da Kahle Rese, il più
vecchio e fedele dei suoi amici, pur sapendo che anche nel suo caso
c'era da aspettarsi una delusione. Quando arrivarono alla porta che dava
accesso al corridoio principale, a poca distanza dalla biblioteca dove
Kahle Rese passava le giornate, Bremen si rivolse a Caerid. "Mi puoi
fare ancora un favore?" chiese all'elfo. "Puoi cercare Risca e Tay
Trefenwyd e dire loro che vengano a parlare con me? Falli aspettare qui
nel passaggio finché non avrò finito con Kahle. Ti do la mia parola che
non andrò in altri posti e che non violerò i limiti del permesso che mi
è stato dato." Caerid distolse lo sguardo. "La tua parola non è
necessaria, Bremen. Non lo è mai stata. Va' a trovare Kahle.LO andrò a
prendere gli altri due e ci vedremo qui." Si girò e salì ai piani
superiori. Bremen si ripeté che era davvero fortunato ad avere un amico
come Caerid Lock. Si ricordava di quando l'aveva conosciuto, giovane
apprendista delle arti militari, già allora attento e posato come
adesso. Caerid Lock era giunto da Arborlon in assegnazione temporanea,
ma era rimasto a Paranor perché era divenuto un convinto sostenitore
della causa dei Druidi. Era difficile che un non druido manifestasse un
interesse di quel genere: Bremen si chiese se, potendo tornare indietro,
Caerid avrebbe fatto la stessa scelta. Aprì la porta e girò a destra. Il
corridoio aveva il soffitto a volta, sorretto da grosse travi che
splendevano di cera. Alle pareti erano appesi quadri e arazzi, in
piccole nicchie illuminate da candele erano conservati mobili antichi e
vecchie armature. Il tempo pareva prigioniero di quelle pareti dove
nulla cambiava, tranne le ore del giorno e la successione delle
stagioni. Si provava un grande senso di stabilità, a Paranor, la più
grande e antica fortezza delle Quattro Terre, protezione dei
dispensatori di conoscenza, custode dei manufatti e dei volumi più
preziosi. I pochi progressi compiuti dalle Razze dopo essere uscite
dalla barbarie portata dalle Grandi Guerre erano venuti da quel
castello. Ora tutto rischiava di finire, di scomparire per sempre, e il
solo Bremen pareva preoccuparsene. Arrivato alla porta della biblioteca,
l'aprì senza fare rumore ed entrò. La stanza era piccola, ma stipata di
libri. Dopo la distruzione del vecchio mondo, i libri erano diventati
rari, e gran parte di quelli disponibili era stata compilata dai Druidi,
che li avevano faticosamente scritti a mano, attingendo ai ricordi dei
pochi che ancora ricordavano le conoscenze del passato. Quasi tutti i
libri erano conservati lì, in quella stanza e in un'altra, e il druido
responsabile della loro conservazione era Kahle Rese. Tutti erano
preziosi, ma lo erano soprattutto le Storie dei Druidi, in cui erano
elencati tutti i tentativi del Consiglio di recuperare le conoscenze
scientifiche e magiche provenienti dai secoli precedenti le Grandi
Guerre e in seguito perdute. Quei libri contenevano tutti gli studi con
cui si era cercato di scoprire i segreti che avevano donato
all'antichità i suoi più grandi progressi; vi erano elencate le ipotesi
sulle leggi scientifiche e sulla costruzione degli strumenti che
dovevano applicarle, come pure sui talismani e sulle evocazioni: tutto
materiale che forse un giorno avrebbe trovato spiegazione. Le Storie dei
Druidi erano i libri più importanti, agli occhi di Bremen, che aveva
deciso di salvarli. Kahle Rese era in cima a una scala, intento a
rimettere in ordine una serie di volumi rilegati in cuoio e piuttosto
squinternati, quando Bremen fece il suo ingresso. Il bibliotecario si
girò e, quando lo riconobbe, trasalì per la sorpresa. Era un uomo
minuto, di bassa statura, leggermente aggobbito dalla vecchiaia, ma
ancora abbastanza agile per arrampicarsi sulle sue scalette. Aveva le
mani impolverate e si era rimboccato le maniche della veste e le aveva
fissate con delle spille. Batté un paio di volte gli occhi azzurri, poi
sorrise, accentuando le rughe. Scese rapidamente a terra e raggiunse
Bremen, per poi stringergli tutt'e due le mani. "Caro amico" lo salutò.
La sua faccia affilata assomigliava alla testa di un uccello: occhi
acuti e brillanti, naso a becco, bocca simile a una linea sottile e per
barba un corto ciuffo ricciuto, sul mento a punta. "Lieto di vederti,
Kahle" gli rispose Bremen. "Mi sei mancato. Le nostre conversazioni, il
nostro almanaccare sui misteri del mondo, le nostre valutazioni sulla
vita. Anche i nostri tentativi di scherzare. Li ricorderai certo." "Li
ricordo, Bremen, li ricordo" rispose il bibliotecario, sorridendo.
"Bene, eccoti qua." "Solo per pochi minuti, temo. Hai sentito?" Kahle
Rese annuì. Il sorriso gli scomparve dal volto. "Sei venuto a metterci
in guardia sul Signore degli Inganni. Athabasca l'ha fatto per te. Hai
chiesto di parlare al Consiglio. Athabasca ha parlato per te. Si è preso
una grossa responsabilità, vero? Ma aveva i suoi motivi, come sappiamo
entrambi. In ogni caso, il Consiglio ha votato contro di te. Alcuni ti
hanno difeso in modo assai animato. Risca, per esempio. Tay Trefenwyd.
Un paio d'altri." Scosse la testa. "Io confesso di essere rimasto
zitto." "Perché il tuo intervento sarebbe stato inutile" disse Bremen,
per venirgli incontro. Ma Kahle scosse la testa. "No, Bremen. Perché
sono troppo vecchio e stanco per lottare. Mi trovo bene qui, in mezzo ai
miei libri e desidero soltanto essere lasciato stare." Batté le palpebre
e guardò Bremen con attenzione. "Credi veramente a quello che hai detto
sul Signore degli Inganni? Esiste davvero? E' il druido ribelle Brona?"
Bremen annuì. "E' quello che ho detto ad Athabasca, e costituisce una
grave minaccia per Paranor e il Consiglio. Prima o poi verrà qui, Kahle.
E quando verrà, distruggerà tutto." "Forse" ammise Kahle Rese,
stringendosi nelle spalle. "O forse no. Le cose non succedono sempre nel
modo previsto. Su questo eravamo d'accordo, un tempo." "Ma ora, temo, è
assai improbabile che avvengano in modo diverso da quello che prevedo"
replicò Bremen. "I Druidi passano troppo tempo fra queste mura. Non
possono vedere obiettivamente quello che succede all'esterno. Il
castello blocca loro la visione." Kahle sorrise. "Abbiamo anche noi
occhi e orecchie, e sappiamo più di quanto tu non creda. Il nostro
problema non è l'ignoranza, ma l'autocompiacimento. Siamo velocissimi ad
accettare quello che conosciamo e lenti ad accogliere ciò che
immaginiamo soltanto. Crediamo che la vita debba andare come vogliamo
noi, e che soltanto la nostra voce abbia valore." Bremen posò la mano
sull'esile spalla dell'amico. "Tra tutti, sei sempre stato colui che
ragionava meglio. Saresti disposto a fare un breve viaggio con me?"
"Vorresti salvarmi da quella che, secondo te, sarà la mia fine, vero?"
rispose, ridendo. "Troppo tardi, Bremen. Il mio destino è legato a
queste mura e ai pochi libri che riesco a scrivere. Sono troppo vecchio
e troppo attaccato alle mie abitudini per rinunciare al lavoro di tutta
la vita. Questo è ciò che so. Sono uno dei Druidi che ti ho descritto,
caro amico, ostinati e moribondi fino all'ultimo. Il destino di Paranor
è anche il mio." Bremen annuì. Aveva già supposto che Kahle Rese gli
parlasse così, ma aveva dovuto chiederglielo. "Vorrei che ci ripensassi.
Ci sono altre mura tra cui vivere, altre biblioteche da curare."
"Davvero?" chiese Kahle, inarcando un sopracciglio. "Bene, aspetteranno
qualcun altro, temo.LO appartengo a questa." Bremen sospirò. "Allora
aiutami in un altro modo, Kahle. Mi auguro di essermi sbagliato nel
giudicare il pericolo. Mi auguro di sbagliarmi nel prevedere ciò che
accadrà. Ma se ho ragione, e se il Signore degli Inganni arriverà a
Paranor, e se le porte dovessero cedere sotto il suo attacco, allora
qualcuno dovrà salvare le Storie dei Druidi." S'interruppe. "Sono ancora
conservate separatamente, nella stanza accanto, dietro la libreria
mobile?" "Ancora e sempre" rispose Kahle. Bremen s'infilò una mano nella
veste e gli mostrò un piccolo sacchetto di pelle. "Qui dentro c'è una
polvere speciale" disse all'amico. "Se il Signore degli Inganni dovesse
penetrare fra queste mura, spargila sulle Storie dei Druidi, ed esse
risulteranno inaccessibili. La polvere le nasconderà. La polvere le
salverà." Consegnò il sacchetto a Kahle, che lo prese con riluttanza e
lo soppesò per qualche momento, come per valutarne l'efficacia. "Magia
degli Elfi?" chiese. Bremen annuì. "Qualche forma di polvere di fata,
suppongo. Qualche stregoneria dei tempi andati." Sorrise come un bambino
discolo. "Sai cosa mi succederebbe se Athabasca mi scoprisse con questo
sacchetto?" "Lo so" rispose Bremen, con gravità. "Ma non lo troverà,
vero?" Kahle guardò per un momento il sacchetto, pensosamente, poi lo
fece sparire in una tasca. "No" rispose. "Non lo troverà." Aggrottò la
fronte. "Ma non posso prometterti di usare la polvere, accada quello che
accada. In questo soltanto io sono come Athabasca, Bremen. Sono
contrario all'uso della magia nell'espletamento dei miei compiti. Mi
dispiace veder usare la magia come strumento, qualunque sia lo scopo. Tu
lo sai. Te l'ho già detto varie volte in passato, vero?" "Me l'hai
detto." "Eppure mi chiedi ugualmente di farlo?" "Sono costretto. A chi
potrei rivolgermi? Di chi potrei fidarmi? Mi affido al tuo giudizio,
Kahle. Usa la polvere soltanto se la situazione sarà talmente grave da
minacciare la vita di tutti, e se non rimarrà nessuno per occuparsi dei
libri. Non permettere che cadano nelle mani di coloro che abuserebbero
di quelle conoscenze. Sarebbe assai peggio di qualsiasi effetto negativo
dell'impiego della magia." Kahle lo guardò con gravità, poi annuì. "Lo
sarebbe davvero. Bene, terrò la polvere con me e la userò se dovesse
succedere il peggio. Ma solo in quel caso." Nel silenzio che seguì, si
guardarono ancora per qualche istante. Tutto era stato detto. "Dovresti
ritornare sulla tua decisione di non venire con me" tentò Bremen,
un'ultima volta. Kahle sorrise. Ossia, arricciò leggermente le labbra
sottili. "Mi hai già chiesto una volta di venire con te, quando hai
preferito lasciare Paranor per seguire altrove i tuoi studi di magia.
Allora ti dissi che non avrei mai lasciato il castello, che questo è il
mio posto. Nulla è cambiato." Bremen sentì insinuarsi nell'animo una
grande, disperata amarezza, e si affrettò a sorridere per non tradire
quella nuova emozione. "Allora addio, Kahle Rese, mio migliore amico,
mio primo amico. Riguardati." Il bibliotecario lo abbracciò,
stringendogli con forza per qualche momento le spalle scarne. "Addio,
Bremen" sussurrò. "Per quest'unica volta, mi auguro che ti sbagli."
Bremen annuì, senza parlare. Poi si diresse alla porta e uscì senza più
girarsi. Si scoprì ad augurarsi che la situazione fosse diversa, pur
sapendo che non poteva esserlo. Attraversò in fretta il corridoio per
ritornare alla porta che dava sulla scala da cui era entrato, e mentre
passava guardò gli arazzi e il mobilio come se non li avesse mai visti,
o come se fosse certo di non rivederli più. Gli pareva che una parte di
lui fosse scomparsa per sempre, come quando aveva lasciato Paranor la
prima volta. Anche se non gli piaceva ammetterlo, quella era ancora la
sua casa, più di qualsiasi altro luogo, e come succede per tutte le
case, rivendicava i propri diritti su di lui, in tanti modi che non si
potevano giudicare o valutare con precisione. Aprì la porta e si trovò
nella penombra della scala, faccia a faccia con Risca e Tay Trefenwyd.
Tay si fece avanti subito, per abbracciarlo. "Benvenuto a casa, druido"
lo salutò, battendogli la mano sulla schiena. Tay era un elfo molto più
alto e robusto della media della sua razza, allampanato e dall'aria
piuttosto goffa, come se rischiasse da un momento all'altro di
inciampare nei suoi stessi piedi. Aveva il viso caratteristico degli
Elfi, ma dava l'impressione che la sua testa fosse stata attaccata al
corpo sbagliato. Era ancora giovane, nonostante i quindici anni
trascorsi a Paranor, con la faccia liscia e ben rasata, i capelli biondi
e gli occhi azzurri, ed era sempre pronto a sorridere a tutti. "Ti trovo
in ottima forma, Tay" rispose il vecchio, sorridendo a sua volta. "La
vita a Paranor sembra farti bene." "Rivederti mi fa ancora meglio"
proclamò l'altro. "Quando partiamo?" "Partiamo?" "Non fare il finto
tonto. Partiamo per dove stai andando tu.LO e Risca abbiamo deciso.
Anche se non ci avessi chiesto di venire a incontrarti qui, saremmo
venuti a cercarti prima che uscissi. Siamo stanchi di Athabasca e del
Consiglio." "Non hai assistito allo spettacolo" sbuffò Risca, uscendo
alla luce. "Una vera farsa. Hanno degnato la tua richiesta della stessa
considerazione che avrebbero riservato a un invito a morire di peste.
Non è stato consentito il dibattito e non sono state date spiegazioni!
Athabasca ha presentato la tua richiesta in modo tale da far subito
capire come la giudicava; e gli altri l'hanno appoggiato, tutti quei
sicofanti.LO e Tay abbiamo fatto del nostro meglio per denunciare le
sue macchinazioni, ma ci hanno costretti a tacere. Ne ho abbastanza dei
loro maneggi e della loro miopia. Se tu dici che il Signore degli
Inganni esiste, allora vuol dire che c'è. Se dici che verrà a Paranor,
allora verrà di certo. Ma io non sarò qui a salutarlo. Cedo ben
volentieri il mio posto agli altri. Maledizione, come possono essere
così sciocchi?" Risca era tutto calore e azione, e Bremen sorrise a
dispetto di se stesso. "Allora, avete dato buona prova di voi, nel
prendere le mie difese?" "Eravamo un soffio contro una tromba d'aria"
rispose Tay, ridendo. Sollevò le braccia, poi le lasciò ricadere,
sconsolato. "Risca ha ragione. A Paranor regna la politica, da quando
Athabasca è stato eletto Grande Druido. Avresti dovuto prendere tu
quella carica, Bremen, non lui." "Saresti diventato Grande Druido, se
l'avessi voluto" confermò Risca, con irritazione. "Avresti dovuto
insistere." "No" rispose Bremen. "Non sarei stato adatto, amici. Non ho
alcuna predisposizione per governare e amministrare.LO desideravo
cercare e recuperare quello che è andato perso, e non avrei potuto farlo
dall'alto della torre principale. Athabasca era più adatto di me."
"Sciocchezze" ribatté Risca. "Quell'uomo non è mai stato adatto a
niente. Ti odia ancor oggi. Sa che la sua carica poteva essere tua:
bastava che la chiedessi. Non ti ha mai perdonato per questo. E neppure
per averla rifiutata. La tua libertà minaccia la sua fiducia nell'ordine
e nell'obbedienza. Vorrebbe metterci tutti bene in ordine in uno
scaffale e tirarci fuori quando gli fa comodo. Vorrebbe dettare le
nostre azioni come se fossimo bambini. Gli sei sfuggito di mano
abbandonando Paranor, e non te lo perdonerà mai." Bremen si strinse
nelle spalle. "Vecchie storie. Rimpiango solo che non abbia dato ascolto
al mio avvertimento. Penso che il castello corra veramente pericolo. Il
Signore degli Inganni viene in questa direzione, Risca. Non si limiterà
a passare accanto a Paranor e ai Druidi. Li schiaccerà sotto gli stivali
dei suoi armati." "Che dobbiamo fare?" chiese Tay, guardandosi attorno
come se temesse di essere ascoltato. "Abbiamo continuato ad addestrarci
nelle arti magiche, Bremen. Tutt'e due, io e Risca, ciascuno a suo modo,
servendoci delle nostre rispettive discipline. Sapevamo che un giorno
saresti tornato a prenderei e che avremmo avuto bisogno della magia."
Bremen annuì, soddisfatto. Aveva fatto affidamento soprattutto su quei
due, perché qualcuno proseguisse gli studi sulle arti magiche. Non
avevano né la sua competenza né la sua pratica, ma erano abbastanza
esperti. Risca era il maestro d'armi, versato nelle arti della guerra e
nella pratica militare. Tay Trefenwyd era uno studioso degli elementi,
delle forze che creano e distruggono, dell'equilibrio di terra, aria,
fuoco e acqua nell'evolversi della vita. Ciascuno, esattamente come lui,
era un adepto della magia, capace di usarla per protezione e difesa.
L'esercizio della magia era proibito entro le mura di Paranor, tranne
che sotto stretto controllo. La magia veniva utilizzata soltanto in caso
di necessità. La sperimentazione era scoraggiata e spesso, se scoperta,
punita. I Druidi vivevano nell'ombra della loro storia, del cupo ricordo
di Brona e dei suoi seguaci. L'indecisione e il senso di colpa ne
avevano minato la voglia di vivere. E adesso non si rendevano conto che
il loro atteggiamento distorto minacciava di portarli alla completa
distruzione. "Le vostre supposizioni erano giuste" disse ai compagni.
"Ero certo che non avreste rinunciato alla magia. E voglio che mi
accompagniate. Nei giorni che verrànno, avrò bisogno della vostra forza
e delle vostre abilità. Ditemi, ci sono altri a cui rivolgerci? Altri
che sono convinti della necessità della magia?" Tay e Risca si
scambiarono una rapida occhiata. "Nessuno" riferì il nano. "Dovrai
accontentarti di noi." "Sarete sufficienti" rispose il druido,
sforzandosi di sorridere. Soltanto quei due, oltre a lui e Kinson! Due
contro tanti! Sospirò. Bene, avrebbe dovuto aspettarselo. "Mi spiace di
dovervi chiedere una simile rinuncia" disse, con sincerità. Risca
sbuffò. "Mi sentirei umiliato se non ci portassi con te Ne ho piene le
bisacce di Paranor e dei suoi vecchi barbogi Nessuno s'interessa della
mia arte. Nessuno segue i miei passi Agli occhi di tutti, io rappresento
un anacronismo. E Tay la pensa esattamente come me. Ce ne saremmo andati
via da tempo, se non ci fossimo accordati per aspettare il tuo ritorno."
Tay annuì. "Non abbiamo nessun rimpianto, visto che ti occorrono
compagni di viaggio, Bremen. Siamo pronti a partire subito." Bremen
strinse loro le mani e li ringraziò. "Prendete quello che intendete
portare con voi e troviamoci davanti alle porte principali, domattina.
Al momento della partenza vi parlerò del nostro viaggio. Questa notte
dormirò nella foresta col mio compagno, Kinson Ravenlock. E' con me da
due anni e si è dimostrato prezioso. E' un cercatore di piste e un
esploratore, un cacciatore della Frontiera, di grande coraggio e
notevole intelligenza." "Se è con te, non occorrono altre
raccomandazioni" disse Tay. "Adesso ti lasciamo. Caerid Lock ti aspetta
sulla scala, qui sotto. Ha detto che devi scendere finché non lo
incontri." S'interruppe e fissò Bremen con gravità: "Caerid sarebbe un
buon acquisto per noi". Il vecchio annuì. "Lo so. Gli chiederò di
venire. Riposate bene. Ci vedremo all'alba." Il nano e l'elfo
rientrarono nel corridoio principale e si chiusero la porta alle spalle,
lasciando Bremen solo. Il druido attese qualche momento, riflettendo su
ciò che gli rimaneva da fare. Nell'interno del castello regnava un
profondo silenzio. Il tempo scivolava via. Non gliene occorreva molto,
ma era meglio che si sbrigasse. E gli serviva la complicità di Caerid
Lock. Scese in fretta, ripassando mentalmente il suo piano. L'odore di
muffa dell'angusto passaggio finì per irritargli il naso, lo costrinse a
fare una smorfia. Nelle altre parti del castello, nei corridoi
principali e lungo le scale, l'aria era tiepida e pulita, perché saliva
dai fuochi che per tutto l'anno riscaldavano la costruzione. Il flusso
dell'aria era controllato da paratie e valvole di tiraggio, assenti nei
passaggi segreti come quello in cui si trovava. Incontrò il capitano
della Guardia due rampe più in basso. Era nascosto nell'ombra, e quando
Bremen si avvicinò fece un passo verso di lui. La sua espressione era
impassibile. "Ho pensato che da soli vi sareste sentiti più a vostro
agio" disse. "Grazie" rispose Bremen, colpito da tanta premura. "Ma
vorremmo che fossi dei nostri, Caerid. Partiamo all'alba. Vieni con
noi?" Caerid gli rivolse un pallido sorriso. "Avevo l'impressione che
questo fosse il vostro piano. Risca e Tay sono ansiosi di lasciare
Paranor, lo sanno tutti." Scosse lentamente la testa. "Ma per quanto
riguarda me, Bremen, il dovere mi impone di rimanere. Soprattutto se le
tue convinzioni sono giuste. Qualcuno deve proteggere i Druidi di
Paranor, anche da se stessi, e io sono il più adatto. La Guardia mi è
fedele: uomini scelti a uno a uno, addestrati sotto il mio comando. Non
sarebbe giusto abbandonarli." Bremen annuì. "Lo penso anch'io. Eppure,
sarebbe bello averti con noi." Caerid gli rivolse un accenno di sorriso.
"Sarebbe bello venire. Ma la mia decisione è presa." "Allora, custodisci
bene queste mura, Caerid Lock" disse Bremen, fissandolo negli occhi.
"Assicurati della fedeltà dei tuoi uomini. Ci sono Troll in mezzo a
loro? Ce n'è qualcuno che potrebbe tradirti?" Il capitano della Guardia
scosse la testa, con decisione. "Nessuno. Tutti mi seguirebbero fino
alla morte. Anche i Troll. Sarei pronto a scommetterci la vita, Bremen."
Il druido gli sorrise con gentilezza. "E sarà proprio così" commentò. Si
guardò attorno, come se cercasse qualcuno. "Verrà, Caerid: il Signore
degli Inganni, con i suoi servitori alati e i suoi soldati mortali, e
forse con creature evocate da qualche abisso infernale. Calerà su
Paranor e cercherà di schiacciarvi. Devi guardarti soprattutto le
spalle, amico mio." Il vecchio soldato annuì. "Saremo pronti." Fissò
Bremen negli occhi. "E' ormai tempo di accompagnarti alla porta. vuoi
del cibo da portare via?" Bremen annuì. "Mi sarebbe utile." Poi ebbe un
attimo di esitazione. "Stavo per dimenticarmene. Potrei dire un'ultima
parola a Kahle Rese? Temo che ci siamo lasciati un po' burrascosamente,
e preferirei fare la pace, prima di lasciarlo. Mi puoi concedere qualche
altro minuto, Caerid? Tornerò subito." L'elfo rifletté per un momento,
poi annuì. "Va bene. Ma fa' in fretta, ti prego. Ho già forzato al
massimo le concessioni di Athabasca." Bremen gli rivolse un sorriso
disarmante e salì di nuovo la scala. Si vergognava di aver dovuto
mentire a Caerid Lock, ma non aveva scelta. Il capitano della Guardia
non avrebbe mai approvato quello che stava per fare, per quanto gli
fosse amico. Bremen salì due rampe, imboccò un passaggio secondario, lo
percorse fino in fondo, aprì una porta e imboccò un'altra rampa, più
stretta e ripida della precedente. Salì senza fare rumore, con grande
circospezione. Non poteva permettersi di essere scoperto. L'azione che
intendeva compiere era proibita. Se l'avessero scoperto, Athabasca
avrebbe avuto la scusa per sbatterlo nella cella più profonda e
lasciarvelo fino alla consumazione dei tempi. In cima alla scala si
fermò davanti a una pesante porta di legno, chiusa da massicci lucchetti
e da catene grosse come il suo polso. Toccò con attenzione i lucchetti,
uno dopo l'altro, e con un piccolo scatto si aprirono. Sfilò le catene
dagli anelli, spinse la porta e con un misto di sollievo e di batticuore
la vide aprirsi lentamente. Entrò e si trovò su una piattaforma posta a
uno dei livelli più alti del castello. Sotto, le pareti scendevano a
perpendicolo, fino a un abisso buio, che, a quanto si diceva, si
spingeva fino al centro della terra. Nessuno che avesse provato a
scendere era mai risalito a raccontare quello che aveva trovato. Nessuno
era mai riuscito a illuminarlo a sufficienza per vedere cosa c'era. Il
Pozzo dei Druidi, era chiamato. Era un luogo in cui erano stati gettati
i rifiuti del tempo e del destino, della magia e della scienza, dei vivi
e dei morti, di mortali e immortali. Esisteva fin dal tempo di Faerie.
Come il Perno dell'Ade nella Valle d'Argilla, era una delle poche porte
che collegassero il mondo dei vivi con l'oltretomba. La leggenda parlava
di come fosse stato usato negli anni e delle terribili cose che aveva
inghiottito. A Bremen non interessavano le leggende. Ciò che gli
interessava l'aveva scoperto alcuni anni prima, quando aveva accertato
che il pozzo era una sorta di condotto, il quale permetteva di attingere
magia da regni mai visitati da anima viva: nell'oscurità che copriva i
suoi segreti si trovavano poteri che nessuna creatura avrebbe osato
sfidare. Fermo sulla piattaforma, sollevò le braccia e cominciò a
intonare una complessa monodia, con voce ferma, sicuro di ogni parola da
lui cantata. Non abbassò mai gli occhi, neppure quando udì giungere dal
fondo sospiri e fruscii. Mosse lentamente le mani, tracciando simboli
che imponevano obbedienza, e pronunciò le formule senza mai
interrompersi, perché una piccola esitazione sarebbe stata sufficiente a
rompere l'incantesimo e impedirne la riuscita. Quando ebbe terminato, si
frugò nelle tasche e ne trasse un pizzico di polvere verde che gettò nel
vuoto. La polvere scintillò malignamente, mentre si alzava sulle
correnti d'aria, e parve crescere e moltiplicarsi, come se al posto di
pochi granelli ce ne fossero migliaia. Per un momento rimasero sospesi
sull'abisso, luccicanti sullo sfondo buio, poi si spensero tutti insieme
e scomparvero. Bremen si affrettò a tirarsi indietro e ad appoggiarsi
alla gelida pietra del castello. Respirava con affanno e sentiva
dileguarsi il coraggio. Non aveva più la resistenza di un tempo. E
neppure la decisione. Chiuse gli occhi e attese che i fruscii e i
sospiri tacessero progressivamente. L'impiego della magia richiedeva uno
sforzo così grande! Rimpianse di non essere più giovane. Rimpianse di
non avere né il fisico né la decisione dei giovani. Ma era vecchio e
fragile ed era inutile chiedere l'impossibile. Doveva accontentarsi
della forza che aveva. Sotto di lui, qualcosa grattò contro le pareti di
pietra: forse erano artigli, forse scaglie. Qualcosa si stava
arrampicando, per vedere se colui che aveva lanciato l'incantesimo era
ancora presente! Raccogliendo le forze, Bremen si affrettò a uscire e a
chiudere accuratamente la porta. Il cuore gli batteva ancora a
precipizio e aveva la faccia coperta da un velo di sudore. Lascia questo
posto, sussurrava una voce minacciosa, da dietro la porta, dal fondo del
pozzo. Vattene subito! Con mani tremanti, Bremen tese le catene e chiuse
i lucchetti. Poi scese in fretta la scala e attraversò i passaggi
deserti del castello per ricongiungersi con Caerid Lock.
4
Bremen e Kinson Ravenlock passarono la notte nella foresta, a breve
distanza da Paranor e dai Druidi. Trovarono una macchia di abeti che
offriva un buon riparo, perché perfino lì temevano di essere visti dai
cacciatori alati che battevano i cieli notturni. Mangiarono qualcosa di
freddo - pane, formaggio, mele tardive - e lo accompagnarono con birra,
poi discussero gli avvenimenti del giorno. Bremen parlò dell'inutile
tentativo di rivolgersi al Consiglio e riferì le conversazioni da lui
avute all'interno del castello. Kinson si limitò a qualche cenno del
capo e a qualche mormorio di disapprovazione, ed ebbe l'accortezza,
quando si arrivò all'incredulità mostrata da Athabasca, di non dire che
l'aveva previsto. Poi si addormentarono, stanchi del lungo viaggio dalle
Streleheim al castello e delle molte notti insonni che l'avevano
preceduto. Montarono la guardia a turno, non fidandosi neppure della
protezione offerta dalla vicinanza dei Druidi. Entrambi sapevano che per
qualche tempo non ci sarebbe stato alcun nascondiglio sicuro: il Signore
degli Inganni andava dovunque volesse, e grazie ai suoi cacciatori aveva
occhi in ogni angolo delle Quattro Terre. Bremen, che fece il primo
turno, a un certo punto credette di cogliere una presenza, che per un
momento sfiorò le sue difese, a breve distanza da loro. Ma era
mezzanotte, il suo turno stava per finire, il sonno si avvicinava, e la
sensazione lo sfiorò appena. Dopo il primo istante non sentì più nulla,
e il brivido che gli era corso lungo la schiena sparì con la stessa
rapidità con cui era giunto. Dormì profondamente e senza sogni, ma si
svegliò prima del sorgere del sole. Stava riflettendo sulle nuove mosse
per opporsi alla minaccia del Signore degli Inganni, quando Kinson uscì
dall'ombra senza fare rumore e s'inginocchiò accanto a lui. "C'è una
giovane che ti vuole vedere" gli disse. Bremen annuì senza parlare e si
mise a sedere. Nel cielo, la notte lasciava pian piano il posto al
grigio, e lungo l'orizzonte si scorgeva già un alone argenteo. La
foresta che li circondava sembrava vuota e abbandonata, un vasto
labirinto buio di cespugli spinosi e fronde a baldacchino, chiuso e
sigillato come una tomba "Chi è?" chiese il vecchio. Kinson scosse la
testa. "Non me l'ha detto. Sembra uno dei Druidi: indossa la loro veste
con lo stemma." "Bene, bene" mormorò Bremen alzandosi in piedi. I
muscoli gli dolevano e aveva le giunture irrigidite. "Ha detto di essere
disposta ad aspettare" continuò il cacciatore "ma io sapevo che eri già
sveglio." Bremen sbadigliò. "Comincio a diventare un po' troppo
prevedibile, e questo è un pericolo. Una giovane, hai detto? Non ci sono
molte donne, tra i Druidi, soprattutto giovani." "Non sapevo che ce ne
fossero" commentò Kinson. "In ogni caso, non mi sembra pericolosa, e
pare molto ansiosa di parlarti." Kinson pareva indifferente all'esito di
quella preghiera; questo significava che per lui era una perdita di
tempo. Bremen si stirò le pieghe della veste. Era ora di lavarla. E lo
stesso valeva per lui. "Mentre eri di guardia, hai visto cacciatori
alati?" Kinson scosse la testa. "Però ho sentito la loro presenza. Si
aggirano in questi boschi, non dimenticarlo. Sei disposto a parlare con
lei?" Bremen lo fissò per un istante. "La giovane? Oh, sì, certo.
Dov'è?" Dall'ombra dell'abete, Kinson lo accompagnò fino a una piccola
radura, a una ventina di passi di distanza. La giovane li attendeva
laggiù: una presenza scura e silenziosa. Non sembrava molto robusta, era
di statura un po' inferiore alla media e pareva avere le ossa minute; si
era completamente avvolta nel mantello e il cappuccio le nascondeva la
faccia. Quando Bremen uscì dagli alberi, la giovane non si mosse, ma
aspettò che fosse lui ad avvicinarsi. Bremen rallentò il passo. Lo
incuriosiva il fatto che li avesse trovati così facilmente. Si erano di
proposito accampati nel folto del bosco perché nessuno potesse scoprirli
mentre dormivano. Eppure lei c'era riuscita, di notte e alla poca luce
della luna e delle stelle che riusciva a filtrare dallo spesso tetto di
foglie. O era un'ottima cercatrice di piste, o sapeva usare la magia.
"Lascia che le parli da solo" disse il druido a Kinson. Si portò fino a
lei, zoppicando leggermente perché i suoi muscoli non si erano ancora
riscaldati, e la donna si sfilò il cappuccio perché potesse vederla. Era
molto giovane, ma non quanto pensava Kinson. Aveva capelli corvini,
tagliati corti, grandissimi occhi neri, lineamenti delicati, viso senza
rughe e sguardo schietto. Indossava la veste dei Druidi con il ricamo
dell'Eilt Druin sul petto. "Mi chiamo Mareth" disse quando lui la
raggiunse, e gli tese la mano. Bremen gliela strinse. La donna aveva la
mano piccola ma robusta; il palmo era indurito dal lavoro. "Lieto di
vederti, Mareth" la salutò. Lei tirò indietro la mano. Senza abbassare
lo sguardo, con un tono di urgenza nella voce, spiegò: "Sono apprendista
druido, non ancora accolta nell'ordine ma autorizzata a studiare nella
rocca. Sono giunta dieci mesi fa, come guaritrice. Ho studiato per
qualche tempo nella regione del Fiume Argento e poi per due anni a
Storlock. Ho iniziato a studiare le pratiche di guarigione quando avevo
tredici anni. La mia famiglia è delle Terre del Sud, dalle parti di
Leah". Bremen annuì. Se le avevano permesso di studiare a Storlock,
doveva davvero possedere talento. "E cosa desideri da me, Mareth?" le
chiese con gentilezza. Gli occhi scuri scintillarono. "Desidero venire
con voi." Il druido le sorrise. "Non sai neppure dove siamo diretti."
Lei annuì. "Non importa. Conosco le vostre intenzioni. So che porterai
con te i druidi Risca e Tay Trefenwyd, e desidero far parte del vostro
gruppo. Aspetta, prima di dire di no, ascoltami. Me ne andrò da Paranor
in qualsiasi caso, che mi vogliate o no. Qui non sono bene accetta, in
particolare da Athabasca, perché ho scelto di studiare la magia
nonostante mi fosse stato proibito. Devo limitarmi a fare la guaritrice,
così è stato deciso. Devo servirmi soltanto dei talenti e delle dottrine
che il Consiglio ritiene adatti." Adatti a una donna. Bremen pensò che
avrebbe potuto aggiungere anche questa frase, sottintesa in quanto gli
aveva detto. "Ormai ho imparato tutto quel che avevano da insegnarmi"
proseguì la giovane. "Loro non lo ammetterebbero mai, ma è così. Ho
bisogno di un nuovo maestro, ho bisogno di te. Tu conosci la magia
meglio di chiunque altro. Ne capisci le sfumature e le esigenze, gli
effetti del suo impiego, la difficoltà di integrarla nella vita di tutti
i giorni. Nessuno ha un'esperienza pari alla tua, e vorrei studiare con
te." Il druido scosse lentamente la testa. "Mareth, nei luoghi dove
intendo dirigermi non può recarsi nessuno che non abbia l'esperienza
necessaria." "Ci sarà pericolo?" domandò lei. "Anche per me" confermò
Bremen. "E certamente per Risca e per Tay, benché conoscano un po' la
magia. Ma soprattutto per te." "No" rispose con semplicità la giovane
donna, che pareva avere previsto quell'obiezione. "Per me non sarà
pericoloso come credi. Non ti ho ancora rivelato un particolare che mi
riguarda: una cosa che non conosce nessuno, a Paranor, anche se credo
che Athabasca abbia dei sospetti. Non sono del tutto inesperta. Posso
usare la magia in forme che non ho mai imparato a padroneggiare con lo
studio. Ho la magia innata." Bremen la fissò con stupore: "Magia
innata?". "Non mi credi" rispose subito lei. In effetti, era così. Di
magia innata non si era mai sentito parlare. La magia si imparava con lo
studio e la pratica, non era una dote che si ereditava. Almeno, non a
quell'epoca. All'epoca di Faerie, invece, le cose stavano in modo
diverso, perché allora la magia faceva parte dell'eredità delle creature
esattamente come i tratti somatici e il sangue. Ma nelle Quattro Terre
nessuno, a memoria d'uomo, era nato con la magia infusa. Nessun essere
umano. Continuò a fissarla. "Il problema della mia magia" continuò
Mareth "è che non riesco sempre a controllarla. Viene e va con gli
scatti d'emozione, con la salita e la discesa della mia temperatura, con
gli alti e bassi dell'umore e in un'altra decina di situazioni che non
posso dominare bene. Riesco a chiamare a me la magia, ma a volte essa
finisce per fare quello che vuole." S'interruppe e per la prima volta
abbassò per un istante lo sguardo prima di sollevarlo di nuovo. Quando
riprese a parlare, a Bremen parve di cogliere una sfumatura di
disperazione nella sua voce. "Devo stare attenta a tutto quello che
faccio. Devo nascondere di continuo parti della mia vita, badare a come
mi comporto, controllare le mie reazioni, perfino le mie abitudini più
innocenti." Strinse le labbra. "Non posso continuare a vivere in questo
modo. Sono venuta a Paranor per avere aiuto. Non ne ho trovato. Adesso
mi rivolgo a te." S'interruppe e poi terminò: "Per favore". In queste
ultime parole c'era un'intensità che sorprese il druido. Per un momento,
la giovane aveva perduto la padronanza di sé, l'aspetto deciso, ferreo,
che si era data per proteggersi. Non era ancora certo di poterle
credere, anche se propendeva per il sì; comunque era innegabile che il
dramma della giovane, di qualunque natura fosse, era grave e reale. "Se
mi porterete con voi, sarò utile al vostro gruppo" continuò Mareth, a
bassa voce. "Sarò un alleato fedele. Farò il mio dovere. E se doveste
lottare contro il Signore degli Inganni o i suoi servitori, sarei con
voi." Si piegò verso di lui, con un movimento quasi impercettibile, come
se si fosse limitata a inclinare la testa bruna. "La mia magia" gli
confidò con un filo di voce "è molto potente." Bremen le prese la mano e
la tenne tra le sue. "Se accetti di aspettare finché non sarà spuntato
il sole, rifletterò su quanto mi hai detto" le promise. "Dovrò parlarne
anche con gli altri, con Tay e Risca quando arriveranno." Lei annuì e,
con un'occhiata, indicò la foresta. "E con il tuo amico?" "Sì, anche con
Kinson." "Non ha alcun potere magico, vero? Diversamente dagli altri del
vostro gruppo." "No, ma ha altre capacità. Lo puoi sentire in lui, vero?
Che non ha poteri magici." "Certo." "Dimmi. Ti sei servita della magia
per trovarci nel nostro nascondiglio?" La giovane donna scosse la testa.
"No, mi ha guidata l'istinto. Sentivo la vostra presenza. E' una cosa
che sono sempre stata in grado di fare." Lo guardò, cercando di
leggergli negli occhi la risposta. "E' una forma di magia, Bremen?"
"Certo. Non è una magia che si possa definire esattamente come tante
altre, ma rientra in quel tipo di poteri. Magia innata, potrei
definirla... se non è una capacità acquisita." "Non ho capacità
acquisite" rispose lei con semplicità, infilando le braccia sotto il
mantello come se si fosse improvvisamente accorta di avere freddo.
Bremen la studiò ancora per un istante, riflettendo. "Siediti laggiù,
Mareth" le disse infine, indicando un punto dietro di lei. "Aspettiamo
insieme gli altri." La giovane fece come le aveva detto. Raggiunse una
piccola macchia d'erba, dove i grandi alberi non schermavano la luce del
sole, poi piegò le gambe sotto di sé e si sedette, avvolta nel mantello,
come una piccola statua scura. Bremen la guardò per un momento, poi
tornò dall'altra parte della radura, dove Kinson lo aspettava. "Cosa
voleva?" chiese il cacciatore della Frontiera, girandosi per percorrere
al suo fianco l'ultimo tratto, fino agli alberi. "Mi ha chiesto di
venire con noi" rispose Bremen. Kinson inarcò un sopracciglio,
perplesso. "Per quale motivo?" Bremen si fermò e lo guardò in faccia.
"Non me l'ha ancora detto" rispose. Si volse per un istante a guardare
la giovane donna. "Mi ha fornito parecchie ragioni per la sua richiesta,
ma ho l'impressione che mi nasconda la più importante." "Allora hai
deciso di non prenderla?" Bremen sorrise. "Aspettiamo gli altri; ne
parleremo con loro." L'attesa fu breve. Il sole si alzò al di sopra dei
monti e lambì i margini della foresta qualche minuto più tardi,
illuminando le forre ancora buie e disperdendo le ultime ombre. Il bosco
riacquistò i suoi colori, tutte le sfumature del verde, del marrone e
dell'oro, e gli uccelli ripresero a cantare per salutare il nuovo
giorno. La nebbia si aggrappava ancora tenacemente ai punti più bui
sotto gli alberi, e da una cortina che celava la vista delle mura di
Paranor uscirono Risca e Tay Trefenwyd. Entrambi avevano rinunciato alla
veste dei Druidi per indossare abiti da viaggio. Entrambi portavano un
grosso zaino sulle spalle. Come armi, l'elfo aveva con sé un arco e un
lungo coltello da caccia; il nano una pesante daga, una scure da
battaglia infilata nella cintura e al fianco un coltello grosso come il
suo braccio. Si diressero verso Bremen e Kinson, senza vedere Mareth.
Quando furono accanto al druido, la giovane si alzò in attesa. Il primo
a vederla fu Tay, che aveva colto il movimento inatteso con la coda
dell'occhio e si era girato d'istinto. "Mareth" disse piano. Risca seguì
la direzione del suo sguardo e brontolò tra sé. "Chiede di venire con
noi" spiegò Bremen, lasciando da parte i preliminari. "Afferma di
poterci essere utile." Risca brontolò di nuovo e si spostò di un passo,
allontanandosi da lei. "E' una bambina" mormorò. "Non gode delle
simpatie di Athabasca perché vuole studiare la magia" commentò Tay,
girandosi a guardarla. Sulla sua faccia di elfo si disegnò un sorriso
divertito. "Promette bene. Mi piace la sua determinazione. Athabasca non
le ha mai fatto paura." Bremen si girò verso di lui. "Possiamo fidarci
di lei?". Tay rise. "Che strana domanda. Fidarci di cosa? Fidarci che
faccia che cosa? Come diceva qualcuno, posso fidarmi soltanto di me e di
te, ma posso garantire solo per me." Si girò verso Kinson. "Buon giorno,
cacciatore della Frontiera.LO sono Tay Trefenwyd." L'elfo gli strinse
la mano, poi fu la volta di Risca. Bremen si scusò per non averlo
presentato, ma Kinson disse che ci aveva fatto l'abitudine e si strinse
significativamente nelle spalle. "Allora, la nostra amica" disse l'elfo,
riportando la conversazione al punto da cui era partita. "Mi è
simpatica, ma Risca ha ragione. E' molto giovane. Non so se avrò voglia
di passare il tempo a badare a lei." Bremen sporse il labbro. "Mareth
non mi sembra molto convinta che tu debba farlo. Dice di poter usare la
magia." Questa volta, Risca sbuffò apertamente. "E' solo un'apprendista.
E' a Paranor da meno di tre stagioni. Come può avere imparato qualcosa?"
Bremen lanciò uno sguardo a Kinson e vide che il cacciatore aveva già
deciso. "Non può avere imparato molto, vero?" disse a Risca. "Be', facci
sapere il tuo voto. Viene con noi o non viene?" "No" disse subito Risca.
Kinson alzò le spalle e scosse la testa, d'accordo col nano. "Tay?"
chiese Bremen. L'elfo sospirò, con riluttanza, poi disse: "No". Bremen
rifletté per qualche momento sulle loro risposte, poi annuì. "Be', anche
se voi votate contro, io penso che debba venire." Gli altri lo fissarono
senza capire. Sul suo volto segnato dalle intemperie si fece strada un
sorriso. "Dovreste vedere le vostre facce! D'accordo, lasciate che mi
spieghi. Per prima cosa, c'è un particolare interessante, nella sua
richiesta, che mi riservavo di dirvi. Vuole studiare con me, imparare la
magia. E' disposta ad accettare qualsiasi condizione, pur di poterlo
fare. Ne ho un disperato bisogno. Non mi ha pregato e non mi ha
supplicato, ma la disperazione le si legge negli occhi..." "Bremen..."
cominciò Risca. "Inoltre" proseguì il druido, alzando la mano per farlo
tacere "afferma di avere la magia innata, e io penso che dica la verità.
Se è così, faremmo bene a scoprirne la natura e a metterla a frutto.
Dopo tutto, senza di lei siamo soltanto in quattro." "Non siamo
disperati al punto di..." ricominciò il nano. "Oh, sì che lo siamo,
Risca" lo interruppe di nuovo Bremen. "Siamo solo noi quattro contro il
Signore degli Inganni, i suoi cacciatori alati, i suoi scherani del
mondo infernale, l'intera nazione dei Troll... come si potrebbe essere
più disperati di così? Nessun altro, qui a Paranor, si è offerto di
aiutarci, tranne Mareth. A questo punto, ci penserei due volte, prima di
rifiutare un aiuto." "Prima hai detto che ti nascondeva un segreto"
osservò Kinson. "Non mi pare che questo possa ispirare la fiducia che
cerchi." "Ciascuno di noi ha i suoi segreti, Kinson" gli ricordò Bremen,
gentilmente. "Non ci vedo nulla di strano. Mareth mi ha appena
conosciuto. Perché dovrebbe confidarmi tutti i suoi segreti fin dalla
nostra prima conversazione? E' cauta, niente di più." "La cosa mi piace
poco" ripeté Risca, con ostinazione. Spostò il massiccio coltello
portandolo sulla coscia. "Può darsi che abbia a disposizione qualche
pratica magica e può darsi che abbia anche la capacità di usarla. Ma
questo non cambia il fatto che non sappiamo quasi niente di lei. In
particolare, non sappiamo fino a che punto possiamo contare su di lei.
Non mi piace rischiare la pelle così, Bremen." "Be', penso che le si
debba concedere il beneficio del dubbio" ribatté allegramente Tay.
"Avremo il tempo di chiarirci le idee su di lei, prima che sia
necessario mettere alla prova il suo coraggio. Comunque, si possono già
dire alcune cose. E' stata scelta per compiere l'apprendistato fra i
Druidi, e questo depone certamente a suo favore. Inoltre è una
guaritrice, Risca. Potremmo avere bisogno del suo talento." "Lasciamola
venire" acconsentì Kinson, benché a malincuore. "Tanto, Bremen ha già
deciso." Risca aggrottò la fronte e gonfiò il petto. "Be', lui avrà
preso la sua decisione, ma non ha necessariamente preso anche la mia."
Si girò verso il druido e lo guardò per qualche istante senza parlare.
Tay e Kinson attesero con un po' di ansia. Bremen non disse altro. Si
limitò a incrociare lo sguardo con quello del nano. Alla fine, fu Risca
a cedere. Scosse la testa, si strinse nelle spalle e si girò dall'altra
parte. "Sei tu il capo, Bremen. Portala con noi, se ti va di farlo. Ma
non aspettarti che l'aiuti a soffiarsi il naso." "Le dirò di non
aspettarselo" lo rassicurò Bremen, strizzando l'occhio a Kinson, e fece
segno alla giovane di unirsi a loro. Partirono poco più tardi, tutti e
cinque in gruppo, con Bremen in testa, Risca e Tay Trefenwyd ai suoi
fianchi, Kinson un passo dietro di loro e Mareth per ultima. Il sole era
già alto in cima ai Denti del Drago e illuminava le valli boscose, il
cielo era luminosissimo, di un profondo colore turchino e senza traccia
di nubi. Il gruppo si diresse a sud, passando per sentieri poco battuti,
costeggiando corsi d'acqua larghi e placidi, per poi inoltrarsi nelle
basse colline coperte di cespugli che dalla foresta portavano al Passo
di Kennon. Verso mezzogiorno erano quasi al Passo e l'aria era gelida e
tagliente. Guardandosi alle spalle, potevano ancora vedere le mura
massicce di Paranor ergersi sul loro promontorio roccioso, in mezzo
all'antica foresta. L'intensa luce del sole dava alla pietra della rocca
un aspetto severo e implacabile: in mezzo alla grande distesa di alberi,
il castello era come il mozzo centrale di una grande ruota. Si girarono
a guardarlo, uno dopo l'altro, immersi ciascuno nei propri pensieri,
ripensando agli eventi di anni lontani. La sola Mareth non mostrava
alcun interesse, teneva lo sguardo deliberatamente rivolto avanti e il
suo viso minuto era una maschera impenetrabile. Poi entrarono nel Passo
vero e proprio, le cui pareti dirupate si levavano quasi verticali
attorno a loro: grandi lastre di pietra, qua e là scheggiate dalle lente
oscillazioni della scure del tempo, che impedivano di vedere Paranor.
Solo Bremen conosceva la loro destinazione, ma la tenne per sé finché
non si accamparono, quella notte, sul Fiume Mermidon, dopo essere
felicemente scesi dal Passo ed essere rientrati nella protezione della
foresta sottostante. Kinson gli aveva chiesto la loro destinazione
quando era rimasto solo con lui e Risca gliel'aveva chiesta davanti a
tutti, ma Bremen aveva preferito non rispondere. La ragione la sapeva
solo lui e la tenne per sé, senza dare spiegazioni ai compagni. Nessuno
cercò di fargli cambiare idea. Ma quella notte, dopo che ebbero acceso
il fuoco e cucinato la cena (il primo pasto caldo di Kinson da parecchie
settimane), Bremen rivelò finalmente dove fossero diretti. "Adesso vi
spiegherò dove stiamo andando" annunciò con tranquillità. "Dobbiamo
raggiungere il Perno dell'Ade." Sedevano attorno al piccolo fuoco,
avevano cenato e ciascuno era occupato in qualche cosa. Risca affilava
la daga. Tay beveva birra da un otre e tracciava figure in terra.
Kinson, con un punteruolo e una striscia di cuoio lunga e sottile,
riparava gli stivali che s'erano scuciti. Mareth se ne stava a parte,
isolata dal gruppo, e li osservava con quel suo sguardo strano,
imperturbabile, che tutto coglieva e nulla restituiva. Quando Bremen
ebbe terminato, scese il silenzio. Tutti lo fissarono. "Intendo parlare
con gli spiriti dei morti per scoprire come proteggere le Razze.
Cercherò di sapere come dobbiamo procedere. Cercherò di scoprire il
nostro destino." Tay Trefenwyd si schiarì piano la gola. "Il Perno
dell'Ade è proibito ai mortali. Anche ai Druidi. Le sue acque sono
velenose. Un sorso e sei morto." Guardò Bremen preoccupato, poi distolse
gli occhi. "Ma tu lo sai già. Vero?" Bremen annuì. "E' pericoloso andare
al Perno dell'Ade e ancor più pericoloso evocare i suoi morti. Ma io ho
studiato la magia che protegge il mondo dell'oltretomba e i suoi punti
di contatto con il nostro, ho percorso le strade esistenti tra i due e
sono ritornato vivo." Sorrise all'elfo. "Ho fatto molta strada
dall'ultima volta che ci siamo visti, Tay." Risca brontolò: "Non sono
certo di voler sapere il mio destino". "Neanch'io" intervenne Kinson.
"Prenderò quello che mi daranno" spiegò Bremen. "Decideranno gli spiriti
quello che dobbiamo sapere." "Credi che gli spiriti ti parleranno sotto
forma di frasi comprensibili?" chiese Risca, scuotendo la testa. "Non ho
mai saputo che fosse così." "Non lo è, infatti" confermò Bremen. Si
avvicinò al fuoco e tese le mani per coglierne il calore. La notte era
gelida, nonostante fossero ai piedi delle montagne. "I morti, ammesso
che consentano ad apparire, ci offrono visioni che parlano per loro. I
morti non hanno voce. Nel mondo dell'oltretomba, almeno. Bisogna..."
Parve riflettere su quanto stava per dire e, con un gesto della mano,
lasciò perdere l'argomento. "Resta il fatto" continuò "che le visioni
danno voce a quello che gli spiriti sono disposti a dirci... sempre che
accettino di mostrarsi. A volte non compaiono. Ma noi dobbiamo andare
laggiù a chiedere il loro aiuto." "Ci sei già stato altre volte" disse
all'improvviso Mareth. Non era una domanda, bensì una constatazione.
"Sì" confermò il vecchio druido. Sì, pensò Kinson Ravenlock, ricordando
l'episodio. Era stato presente, l'ultima volta, una spaventevole notte
di tuoni e di lampi, di nubi nere che coprivano il cielo e di pioggia
torrenziale, di vapore che usciva sibilando dalla superficie del lago e
di voci che gridavano dalle camere sotterranee della casa dei morti. Dai
margini della Valle d'Argilla, aveva visto Bremen scendere fino alla
riva del lago ed evocare gli spiriti dei morti, facendoli comparire in
una tempesta che pareva sposarsi perfettamente al loro scopo arcano. Se
c'erano state delle visioni, l'uomo della Frontiera non ne aveva avute.
Ma Bremen sì, e non dovevano essere state piacevoli. Kinson gliel'aveva
letto negli occhi, quando infine l'aveva visto risalire lungo il fianco
della valle, all'alba. "Non correrò nessun rischio" li rassicurò Bremen.
Sorrise ma nella penombra, tra le rughe del suo viso, quel sorriso era
pallido e stanco. Quando si prepararono per la notte, Kinson si recò da
Mareth e appoggiò un ginocchio a terra vicino a lei. "Tieni questo" le
disse, porgendole il suo pesante mantello da viaggio. "Ti aiuterà a
proteggerti dal freddo della notte." Lei lo fissò con quegli occhi
grandi, penetranti, e scosse la testa. "Ne hai bisogno quanto me,
cacciatore della Frontiera. Non ti chiedo attenzioni particolari." Per
un momento, Kinson la fissò senza parlare. "Mi chiamo Kinson Ravenlock"
disse poi, a bassa voce. Lei gli rivolse un cenno d'assenso. "Conosco il
tuo nome." "Sono il primo a montare di guardia e non mi occorre il
calore del mantello, mentre veglio. Non ti offro alcuna attenzione
particolare." La giovane donna parve voler troncare il discorso.
"Anch'io devo fare il mio turno" insistette. "Certo. Domani. Due di noi
per notte." Cercò di non farsi prendere dall'irritazione. "Allora, lo
prendi il mantello?" Lei gli rivolse un'occhiata gelida, poi lo accettò.
"Grazie" disse in tono neutro. Kinson le rivolse un cenno della testa,
si alzò e si allontanò, pensando che sarebbe passato un bel pezzo, prima
che cercasse nuovamente di farle un favore. La notte era profondamente
silenziosa e bella da togliere il respiro, con il cielo di uno
straordinario viola scuro, fittamente punteggiato di stelle e con una
luna d'argento ormai calante. Vasta e in apparenza priva di profondità,
sgombra di nubi e libera da altre luci che la offuscassero, la volta
celeste pareva spazzata da un'immensa scopa, le stelle erano schegge di
diamante gettate sulla sua superficie vellutata. Se ne scorgevano a
migliaia: così tante, in certi punti, che parevano muoversi insieme,
come una cascata di latte. Kinson continuò a fissare quello splendore;
il tempo passò senza scosse, come se scivolasse su una lastra di vetro.
Il cacciatore tese l'orecchio per cogliere i familiari rumori della vita
nella foresta, ma pareva che tutti gli abitanti di quei boschi fossero
affascinati quanto lui dalla bellezza della notte e non avessero tempo
per le normali attività. Ripensò a quando era bambino e abitava nelle
foreste della Frontiera, a nordest di Varfleet, all'ombra dei Denti del
Drago. Anche allora la sua vita non era molto diversa. La notte, quando
genitori e fratelli dormivano, rimaneva sveglio a guardare il cielo,
meravigliandosi per la sua immensità, pensando a tutti i luoghi che il
cielo poteva vedere e che lui non conosceva. A volte si fermava davanti
alla finestra della sua camera, come se avvicinandosi di più al cielo
fosse possibile vedere almeno una parte di quei luoghi lontani. Aveva
sempre pensato di andarsene per il mondo, anche quando i fratelli
avevano cominciato a prepararsi per una vita più sedentaria. Erano
cresciuti, si erano sposati, avevano messo al mondo figli e si erano
trasferiti in case proprie. Andavano a caccia, tendevano trappole,
portavano al mercato le pelli e coltivavano la terra: il tutto nello
stesso luogo dov'erano nati. Ma Kinson non aveva messo radici, aveva
continuato a tenere un occhio su quel cielo lontano e a ripromettersi di
giungere a conoscere, col tempo, tutte quelle terre. E ancor oggi, dopo
trent'anni, continuava a cercare. Cercava ciò che non aveva visto e non
conosceva. Non sarebbe mai cambiato; a meno di non diventare una persona
completamente diversa. Giunse la mezzanotte, e con essa Mareth. La
giovane donna uscì all'improvviso dal buio, avvolta nel mantello di
Kinson, con un passo così leggero da risultare quasi impercettibile.
Kinson si girò a salutarla, sorpreso perché si aspettava di vedere
Bremen. "Ho chiesto a Bremen di lasciarmi il suo turno di guardia"
spiegò, quando lo raggiunse. "Non volevo un trattamento diverso dagli
altri." Kinson annuì, senza parlare. La giovane donna si tolse il
mantello e glielo allungo. Senza di esso, sembrava piccola e fragile.
"Penso che sia meglio ridartelo, per quando dormirai. Comincia a fare
freddo. Il fuoco si è spento ed è preferibile non riaccenderlo" L'uomo
accettò il mantello. "Grazie." "Hai visto qualcosa?" "No." "I Messaggeri
del Teschio ci cercheranno, vero?" Quanto ne sapeva? si chiese Kinson.
Quanto ne sapeva, dei pericoli cui andavano incontro? "Può darsi. Sei
riuscita a dormire?" Lei scosse la testa. "Non riuscivo a smettere di
pensare." Il suo sguardo si perse nel buio. "Aspettavo da molto tempo
questa occasione." "Di accompagnarci in questo viaggio?" "No." Mareth lo
guardò, sorpresa. "Di conoscere Bremen. Di imparare da lui, se vorrà
insegnarmi." Si girò in fretta dall'altra parte, come se avesse parlato
troppo. "Faresti meglio a dormire, finché puoi. Farò la guardia fino al
mattino. Buona notte." Kinson aspettò ancora per qualche istante, ma in
realtà non c'era più niente da dire. Si alzò e raggiunse gli altri, che
dormivano avvolti nei mantelli, attorno alle braci del fuoco. Si stese e
chiuse gli occhi, sforzandosi di capire qualcosa di Mareth, e poi di non
pensare più a lei. Ma non ci riuscì facilmente, e passò parecchio tempo
prima che si addormentasse.
5
Si alzarono prima dell'alba e camminarono fino al tramonto, diretti a
est. Attraversarono il territorio alla base dei Denti del Drago,
procedendo parallelamente al Fiume Mermidon e tenendosi sempre sotto la
protezione delle montagne. Bremen avvertì i compagni che anche lì erano
in pericolo, perché ormai i Messaggeri del Teschio si sentivano
abbastanza sicuri di sé da lasciare le Terre del Nord e spingersi così a
sud. Il Signore degli Inganni muoveva con l'esercito in direzione del
Passo di Jannisson, e questo significava che intendeva scendere nelle
Terre dell'Est. Se erano così impudenti da invadere il territorio dei
Nani, non avrebbero esitato a spingersi nelle Terre di Frontiera. Perciò
continuarono a scrutare attentamente il cielo, le valli scure e i
crepacci bui dove le ombre ammantavano la roccia di una notte perpetua,
e non osarono mai sentirsi al sicuro, mentre proseguivano il loro
viaggio. Ma i cacciatori alati non comparvero per tutta la giornata, e a
parte alcuni viaggiatori intravisti da lontano, nelle foreste e nelle
pianure più a sud, non videro nessuno. Si fermarono per riposare e
mangiare, ma non fecero altre soste e finché fu giorno procedettero di
buon passo. Al tramonto avevano raggiunto le prime alture della catena
di monti che portava alla Valle d'Argilla e al Perno dell'Ade. Si
accamparono in una rientranza che si affacciava sulle pianure del Sud e
sul nastro azzurro e tortuoso del Mermidon, che nel suo decorso a est
verso le Pianure di Raab si stringeva progressivamente, suddividendosi
fra canali e laghetti, fino a sparire nell'aridità di quelle piane.
Cucinarono le verdure che avevano raccolto durante il cammino e un
coniglio ucciso da Tay, e cenarono prima che il sole passasse dal color
oro al rosso sangue e scendesse al di sotto dell'orizzonte. Bremen li
avvertì che sarebbero saliti sui monti dopo la mezzanotte e che lassù
avrebbero atteso le lente ore prima dell'alba, le sole in cui gli
spiriti dei morti si lasciassero evocare. Quando scese la notte,
spensero il fuoco e si avvolsero nei mantelli per dormire qualche ora.
"Non essere così preoccupato, Kinson" sussurrò il druido al cacciatore
della Frontiera, quando gli passò davanti e scorse la sua espressione.
Ma fu un consiglio inutile. Kinson Ravenlock era già stato al Perno
dell'Ade e sapeva cosa aspettarsi. Era passata la mezzanotte quando
Bremen li portò sulle colline di fronte ai Denti del Drago, da cui si
scendeva alla Valle d'Argilla. Salirono sulle rocce in una notte così
nera che riuscivano a malapena a scorgere la persona che li precedeva.
Dopo il tramonto si era stesa sulla regione una cappa di nubi basse e
minacciose, e ogni traccia di luna e di stelle era sparita. Bremen guidò
molto cautamente i compagni, preoccupato per la loro incolumità anche se
il terreno su cui passavano gli era familiare come il palmo della mano.
Durante il tragitto non parlò con gli altri, ma continuò a dedicare la
sua attenzione al cammino e al compito che lo attendeva, per non
rischiare errori. Un incontro con i morti richiedeva preparazione e
cautela, coraggio a tutta prova e volontà inflessibile, in modo da non
avere esitazioni né dubbi. Una volta effettuato il contatto, alla minima
distrazione si rischiava la vita. Mancava ancora qualche ora all'alba
quando giunsero a destinazione. Si fermarono sul ciglio della valle e
posarono lo sguardo sulla conca bassa e larga. Il terreno era coperto di
irregolari frammenti di roccia nera e vetrosa, che luccicavano perfino
al buio, riflettendo la singolare luminosità del lago. Il Perno dell'Ade
si trovava al centro della depressione ed era uno specchio d'acqua largo
e opaco, dalla cui superficie immobile emanava una radiazione interna,
come se nelle sue profondità pulsasse l'anima del lago. L'intera valle
era immobile e priva di vita, di movimento, di suoni. Dava la sensazione
di trovarsi ai bordi di un pozzo affacciato sul nulla, di un occhio che
fissava il mondo dei morti. "Aspetteremo qui" disse Bremen, sedendosi su
un masso e avvolgendosi nel mantello come se fosse un sudario. Gli altri
annuirono, ma continuarono a fissare la valle, incapaci di staccare lo
sguardo. Bremen non disse nulla: sapeva che i suoi compagni subivano il
peso dell'opprimente silenzio che regnava nella valle. Il solo Kinson
era stato laggiù in precedenza, ma neanche lui era riuscito a prepararsi
alle sensazioni che provava in quel momento. Bremen le capiva: il Perno
dell'Ade era lo specchio del destino che li attendeva tutti, uno sguardo
nel futuro a cui non si poteva sfuggire, un'occhiata buia e spaventosa
sulla fine della vita. Non comunicava con parole riconoscibili, ma solo
con sussurri e brevi brontolii. Rivelava troppo poco perché fosse
possibile capire, ma quel tanto che bastava per creare il dubbio. Il
vecchio druido era stato laggiù due volte, e ogni volta ne era uscito
trasformato. Da un incontro con i morti si ricavavano verità e si
guadagnava in saggezza, ma c'era anche uno scotto da pagare. Non ci si
spinge a forza nel futuro per poi uscirne indenni. Non si può
contemplare il proibito senza subire un danno alla vista. Bremen
ricordava quello che aveva provato nelle precedenti occasioni, il freddo
che gli era penetrato nelle ossa e per settimane non l'aveva lasciato.
Ricordava lo struggente desiderio di quanto aveva perso negli anni
passati e gli era impossibile riavere. E anche questa volta era
preoccupato dal rischio di smarrire lo stretto sentiero a lui concesso
per quel contatto proibito: se l'avesse lasciato, sarebbe stato
inghiottito dal vuoto di una sorta di limbo tra la vita e la morte, e
non sarebbe mai più stato completamente vivo o completamente morto. Ma
il bisogno di scoprire il modo di distruggere il Signore degli Inganni,
di sapere le possibilità che gli erano ancora aperte nel tentativo di
salvare le Razze, il bisogno di entrare nei segreti del passato e del
futuro celati ai vivi ma rivelati ai morti, superavano di gran lunga le
paure e i dubbi. Era spinto così spietatamente dalla necessità, da
essere costretto a fare quel passo, anche a rischio della vita. Sì, in
quel contatto c'erano grandi pericoli. Non ne sarebbe uscito indenne. Ma
la cosa non aveva importanza, nello schema più vasto delle cose, perché
anche la vita sarebbe stata un prezzo accettabile, se fosse riuscito a
eliminare il suo implacabile nemico. Intanto, gli altri erano riusciti a
staccarsi dal ciglio della valle ed erano venuti a sedersi accanto a
lui. Cercò di rivolgere loro un sorriso rassicurante, guardandoli a uno
a uno e invitando perfino il recalcitrante Kinson ad avvicinarsi.
"Un'ora prima dell'alba scenderò nella valle" disse loro con calma.
"Quando sarò al lago, evocherò gli spiriti dei morti e chiederò loro di
mostrarmi qualcosa del futuro. Chiederò di rivelarmi i segreti che
possono aiutarci a distruggere il Signore degli Inganni. Chiederò di
insegnarmi magie che ci possano aiutare. Dovrò agire in fretta, nel
breve periodo prima che il sole sorga. Voi mi aspetterete qui. Non
scendete nella valle, qualunque cosa succeda. Non agite in base a quello
che vedete, anche se avete l'impressione di doverlo fare. Limitatevi ad
aspettare." "Forse uno di noi dovrebbe accompagnarti" disse bruscamente
Risca. "Il numero è sicurezza, anche di fronte ai morti. Se tu puoi
parlare con gli spiriti, possiamo farlo anche noi. Tolto il cacciatore
della Frontiera, tutti siamo Druidi." "Che siate Druidi non importa"
replicò subito Bremen. "E' troppo pericoloso per voi. Si tratta di una
cosa che devo fare da solo. Promettimelo, Risca." Il nano gli rivolse
un'occhiata lunga e offesa, poi annuì. Bremen si rivolse agli altri. Uno
dopo l'altro, anch'essi annuirono, benché con riluttanza. Mareth
incrociò il suo sguardo e scambiò con lui un'occhiata piena di segreta
comprensione. "Sei certo della necessità di quanto stai per fare?"
insistette Kinson, a bassa voce. Il druido aggrottò la fronte e le rughe
sul suo volto provato dal tempo si approfondirono leggermente. "Se mi
venisse in mente qualcos'altro, qualcosa che ci possa aiutare, mi
allontanerei subito da questo posto. Non sono un pazzo, Kinson, e
neppure un eroe. So cosa comporta una visita a questo luogo. So che
danni provoca." "Allora, forse..." "Ma i morti mi parlano come non
possono fare i vivi" seguitò Bremen, interrompendolo. "Ci occorrono la
loro saggezza e le loro intuizioni. Ci occorrono le loro visioni, anche
se a volte sono incomplete e incomprensibili." Trasse un profondo
respiro. "Dobbiamo vedere attraverso i loro occhi. Se devo dare qualcosa
di me per ottenere quell'intuizione, così sia." Tutti tacquero, persi
nei loro pensieri, e rifletterono sulle sue parole e sui presentimenti
che facevano sorgere. Ma era inutile opporsi. Aveva dato loro le ultime
istruzioni e non c'era più niente da dire. Forse avrebbero capito meglio
alla fine. Perciò si limitarono a sedere nella notte buia e a lanciare
qualche occhiata, di soppiatto, alla superficie scintillante del lago;
con il volto lambito dalla pallida luce di quelle acque, tesero
l'orecchio al silenzio e aspettarono che l'alba s'avvicinasse. Quando il
cielo cominciò a rischiararsi, e fu il momento di avviarsi, Bremen si
alzò, fissò i compagni con un pallido sorriso, poi passò davanti a tutti
senza fare parola e scese nella Valle d'Argilla. Anche ora, procedette
assai lentamente. Aveva già fatto quella strada, ma la familiarità del
luogo non era affatto d'aiuto su un terreno così insidioso. La roccia su
cui posava il piede era scivolosa e cedevole, aveva spigoli affilati e
taglienti. Avanzò con grandissima cautela, saggiando il terreno a ogni
passo. Sotto il suo piede, la pietra scricchiolava e si spezzava, e quel
suono echeggiava nel profondo silenzio. Da occidente, dove le nubi erano
più fitte, giunse il minaccioso rombo del tuono, che annunciava
l'approssimarsi di un temporale. All'interno della valle non spirava un
alito di vento, ma l'odore della pioggia permeava l'aria immota. Bremen
alzò gli occhi quando la linea spezzata di una folgore squarciò il cielo
buio; un attimo più tardi, un'altra si disegnò più a nord, sullo sfondo
delle montagne. Quel giorno, pensò, con l'alba si sarebbe levata anche
la tempesta, e non soltanto il sole. Arrivato in fondo alla discesa poté
camminare più in fretta, perché il suo passo era più sicuro sul terreno
piano. Davanti a lui, il Perno dell'Ade brillava di un'argentea
incandescenza che proveniva da qualche punto indeterminato, al di sotto
della sua superficie piatta e immobile. Laggiù si poteva cogliere odore
di morte: non solo quello inconfondibile e umido della muffa, ma anche
quello di un disfacimento arido e fetido. Provò la tentazione di
voltarsi a guardare i compagni, ma resistette perché sapeva di non
potersi distrarre neppure per il tempo di una breve occhiata. Stava già
ripetendo nella mente il rituale da seguire una volta giunto alla riva:
le parole, i gesti, le evocazioni che avrebbero costretto i morti a
parlare con lui. E si stava già preparando alla loro debilitante
presenza. Poi, fin troppo presto, si trovò sul bordo del lago: una
figura piccola e fragile in una vasta arena di roccia e cielo, tutta
pelle rugosa e vecchie ossa, e la sua parte più forte era la
risoluzione, la volontà ostinata. Dietro di lui si levò di nuovo il
rombo della tempesta che si avvicinava. Sopra la sua testa, le nubi
cominciarono a mulinare, mosse dai venti che recavano la pioggia
imminente. Sotto i piedi, la terra cominciò a fremere: erano gli
spiriti, che avevano sentito la sua presenza. Il druido parlò loro con
calma, scandendo il suo nome, il suo passato, il motivo che l'aveva
spinto a recarsi laggiù. Con le braccia e con le mani descrisse
nell'aria i "passi": i gesti capaci di evocarli dal mondo dei morti a
quello dei viventi. Quando vide che le acque, in risposta
all'evocazione, s'increspavano leggermente, accelerò i movimenti. Era
saldo, sicuro di sé, sapeva cosa aspettarsi. Per primo venne un
sussurrare basso e lontano che saliva dalle profondità del lago, come
una corrente invisibile di bolle d'aria. Poi grida, lunghe e profonde,
che salirono progressivamente di volume e di numero, da poche a
moltissime, sempre più stridule e infastidite. Le acque del Perno
dell'Ade sibilarono di collera e di cupidigia: mosse da una propria
imminente tempesta, presero a mulinare come le nubi nel cielo. Con un
segno magico di comando, Bremen le costrinse a rispondere. La magia
appresa con gli Elfi lo rafforzava e lo metteva in grado di farlo, come
un letto di roccia su cui posasse saldamente la sua magia delle
evocazioni. Rispondete, gridò ai morti. Apritemi il passaggio. Dal
centro delle acque, che ora vorticavano rabbiosamente si levò uno
spruzzo di schiuma che si sollevò come il getto di una fontana, si
abbassò, si alzò di nuovo. Nel profondo della terra si levò un rombo, un
brontolio di irritazione. Bremen sentì insinuarsi nel cuore la prima
traccia di dubbio, e dovette fare uno sforzo per costringersi a
ignorarla. Sentiva formarsi attorno a sé una sorta di vuoto, che si
allargava a includere l'intera valle. Entro il suo perimetro avevano
accesso soltanto i morti: i morti e colui che li aveva evocati. Poi gli
spiriti presero ad affiorare dal lago: piccoli e bianchi filamenti di
luce dotati di forma vagamente umana, corpi immersi in una luminescenza
simile a quella delle lucciole, pulsanti sullo sfondo della notte
coperta di nubi. Uscirono dalla nebbia e dalla schiuma con un movimento
simile a quello di un serpente che srotola le spire, salirono dall'aria
buia e morta della loro casa d'oltretomba per visitare, per breve tempo,
il mondo in cui erano un tempo vissuti. Bremen continuò a tenere le
braccia levate in un gesto di protezione, con la sensazione di essere
vulnerabile e privo di poteri, anche se era stato lui a compiere
l'evocazione e a ridare vita agli spiriti. Si sentì scorrere nelle
braccia sottili un'ondata di ghiaccio, acqua gelida nelle vene al posto
del sangue. Resistette con fermezza alla paura che lo afferrava, ai
sussurri che chiedevano, in tono d'accusa: Chi ci chiama? Chi osa?
Allora una forma enorme scaturì dall'acqua, nel centro esatto del lago:
una figura ammantata di nero, che giganteggiò fra le altre più minute e
le costrinse a disperdersi, assorbì le loro fragili luci e le risucchiò
nella propria scia, torcendole e facendole roteare come foglie al vento.
La figura ammantata si alzò fino a ergersi completamente sulle nere
acque mulinanti del Perno dell'Ade; benché fosse solo vagamente concreta
- un semplice spettro, senza ossa né carne - era di una materia meno
evanescente di quella degli spiriti più piccoli, su cui dominava. Bremen
cercò di rimanere ben saldo, quando la figura scura mosse verso di lui.
Era lo spirito che si proponeva di interrogare, lo spirito da lui
evocato. Eppure, cominciava a chiedersi se aveva fatto la cosa giusta.
La forma ammantata si fermò: ormai era così vicina da nascondere tutta
quella parte di cielo e di valle. Quando poté guardare sotto il
cappuccio, Bremen non scorse alcun volto, non scorse nulla all'interno
della veste nera. Poi l'apparizione parlò, con una voce che era un
brontolio di collera. Sai tu chi sono. Una voce piatta, priva di
emozione e di risonanza, una domanda senza tono interrogativo, parole
sospese nel silenzio, come un'eco che non volesse spegnersi. Bremen
annuì lentamente e rispose, in un sussurro: "Lo so". Ai margini della
valle, i quattro che erano rimasti ad attendere assistettero allo
svolgersi del dramma. Videro il vecchio fermarsi sulla sponda del lago
ed evocare gli spiriti dei morti. Videro gli spettri uscire dalle acque
vorticanti, scorsero le sagome fosforescenti, le videro muovere braccia
e gambe, contorcersi in una macabra danza per celebrare la momentanea
libertà. Videro la forma gigantesca, ammantata di nero, salire in mezzo
alle altre, avvolgerle nella propria scia, assorbire la loro luce.
Videro la figura avanzare e fermarsi davanti a Bremen. Ma non riuscirono
a udire nulla. Dentro la valle regnava il silenzio. I rumori prodotti
dal lago e dagli spiriti erano sigillati al suo interno. Le voci del
druido e della figura ammantata, ammesso che pronunciassero parole, non
erano udibili. Si udiva solo il vento di tempesta che soffiava su loro e
il tonfo delle prime gocce di pioggia sul pietrisco. L'attesa tempesta
era scoppiata, veniva da occidente sotto forma di una massa di nubi
nere, calava su di loro con cortine di pioggia. Li raggiunse nello
stesso istante in cui la figura ammantata raggiunse Bremen, e in un
attimo inghiottì ogni altra cosa. Il lago, gli spiriti la figura
ammantata, Bremen, l'intera valle svanirono in un batter d'occhio. Risca
brontolò per lo sgomento e lanciò una rapida occhiata ai compagni. Si
erano coperti col mantello per proteggersi dal rovescio: aggobbiti sotto
quel riparo, parevano vecchie streghe curve per l'età. "Riuscite a
vedere qualcosa?" chiese con ansia. "Nulla" rispose subito Tay
Trefenwyd. "Sono spariti." Per un momento nessuno si mosse: tutti erano
incerti sul da farsi. Kinson cercò di scrutare attraverso il velo della
pioggia, cercò di mettere meglio a fuoco le sagome che credeva di
intravedere. Ma tutto era nebuloso e irreale, e dal punto in cui si
trovavano era impossibile capire qualcosa. "Potrebbe essere in pericolo"
scattò Risca, in tono d'accusa. "Ci ha detto di aspettare qui" scattò
Kinson, a fatica. Da un lato non voleva pensare agli ordini del vecchio
druido, in un momento in cui temeva per la sua sorte, ma dall'altro non
voleva ignorare la sua promessa. La pioggia li colpì sulla faccia, a
rovesci, minacciando di soffocarli. "Sta bene!" gridò all'improvviso
Mareth, agitando una mano come per allontanare la pioggia dal viso. La
fissarono. "Riesci a vederlo?" domandò Risca. La giovane donna annuì,
poi tornò ad abbassare la testa, per scrutare nel buio. "Sì." Ma non
poteva essere vero. Kinson era il più vicino a lei e scorse quello che
agli altri era sfuggito. Se riusciva a scorgere Bremen, non era certo
con gli occhi, perché, notò con terrore, erano divenuti completamente
bianchi. Nella Valle d'Argilla, però, non cadeva una goccia di pioggia,
non soffiava alito di vento, non entrava la violenza della tempesta.
Bremen non sentiva altre presenze che quella del lago e della figura
scura che s'innalzava sulle acque, davanti a lui. Pronuncia il mio nome.
Bremen trasse un profondo respiro, cercando di arrestare il tremito che
lo scuoteva e il freddo che gli riempiva il petto. "Tu sei colui che fu
Galaphile." Era una normale componente del rituale. Uno spirito non
poteva fermarsi se il suo nome non veniva pronunciato dalla persona che
l'aveva evocato. Ora poteva fermarsi per il tempo necessario a
rispondere a tutte le domande di Bremen - ammesso che decidesse di
farlo. L'ombra fremette, inquieta. Cosa vuoi sapere da me. Bremen non
esitò. "Vorrei sapere tutto quello che puoi dirmi del druido ribelle
Brona, colui che è divenuto il Signore degli Inganni." La voce aveva
preso a tremargli al pari delle mani. "Vorrei sapere come distruggerlo.
Vorrei sapere cosa succederà." Poi la voce lo tradì, riducendosi a un
rantolo soffocato. Il lago sibilò e soffiò come un gatto, in risposta
alle sue parole, e i gemiti dei morti si levarono in una stridula
cacofonia. Bremen sentì di nuovo il gelo insinuarsi nel suo petto, come
un serpente che si abbassa per prepararsi a colpire. Si sentì
schiacciare dal cumulo di tutti i suoi anni. Sentì la debolezza del suo
corpo ribellarsi alla forza della sua determinazione. E saresti tu
disposto a distruggerlo a qualsiasi costo. "Sì." Saresti disposto a
pagare qualsiasi prezzo. Bremen sentì il serpente che aveva nel petto
piantare profondamente le zanne nel suo cuore. "Sì" mormorò, disperato.
Lo spirito di Galaphile allargò le braccia come per avvolgere il vecchio
druido, per dargli rifugio e protezione. Guarda. Sullo sfondo nero della
sua forma ammantellata cominciarono ad apparire visioni; nel sudario del
suo corpo presero forma immagini e figure. A una a una, si
materializzarono dall'oscurità, vaghe e incorporee, fosforescenti come
le acque del Perno dell'Ade all'arrivo degli spiriti. Bremen osservò
attentamente le immagini che si succedevano davanti a lui, si sentì
attirare verso di loro come verso una luce. Le visioni furono quattro.
Nella prima si trovava all'interno dell'antica fortezza di Paranor, e
intorno a lui c'erano soltanto morti. Non c'era più anima viva, nella
rocca: tutti erano stati uccisi dal tradimento, dalla slealtà e dalla
perfidia. Il castello dei Druidi era avvolto in un sudario di tenebra e
la tenebra, fra le sue ombre, si muoveva ancora, sotto forma di
assassini in attesa, di una forza omicida. Dietro quella tenebra
splendeva però, con la sicurezza dell'oro, il lucente medaglione dei
Grandi Druidi. Il pendente aspettava lui, aveva bisogno del suo tocco:
l'immagine della mano levata che stringeva una fiaccola accesa, il
venerato Eilt Druin. La prima visione sparì, e Bremen ebbe l'impressione
di volare sulla vasta distesa delle Terre dell'Ovest. Guardò in basso,
sorpreso e incapace di capire quel volo. Di primo acchito non riuscì a
stabilire dov'era. Poi riconobbe la rigogliosa valle del Sarandanon e
più oltre l'azzurra distesa dell'Innisbore. Per un attimo la visione fu
oscurata da una nuvola, che alterò ogni prospettiva. Poi scorse una
catena di monti - erano i Kensrowe o i Breale line? Fra i loro massicci
c'erano due cime gemelle, simili a due dita della stessa mano tese nel
segno di una V. Il passo tra loro portava a un vasto ammasso di altre
dita di roccia, schiacciate insieme e ridotte a un'unica massa. Entro
l'ammasso c'era una fortezza, invisibile dall'esterno, antica al di là
di qualsiasi immaginazione, un luogo risalente all'epoca di Faerie.
Bremen scese in picchiata fra le sue ombre e trovò ad aspettarlo la
morte, anche se non riuscì a spiarla in volto. E lì, tra le sue spire,
c'era la Pietra Nera degli Elfi. Anche la seconda visione svanì e il
druido si trovò su un campo di battaglia. Tutt'intorno a lui giacevano
morti e moribondi: uomini di tutte le Razze e mostri che non
appartenevano ad alcuna razza conosciuta. Il sangue scorreva sulla terra
e le urla dei combattenti e il clangore delle armi s'innalzavano nella
luce grigiastra del tardo pomeriggio. Davanti a lui c'era un uomo, ma
gli volgeva le spalle. Era alto e biondo, senza dubbio un elfo.
Stringeva nella destra una spada scintillante. A qualche passo di
distanza c'era il Signore degli Inganni, ammantato di nero, terribile:
una presenza indomabile che lanciava il guanto di sfida al mondo intero.
Pareva attendere l'attacco dell'elfo: senza fretta, sicuro di sé,
insolente. L'alto elfo avanzò, sollevò la spada, e Bremen scorse sotto
la mano guantata che la impugnava la familiare figura dell'Eilt Druin.
Un'ultima visione, cupa, coperta di nuvole e colma di grida luttuose e
disperate. Bremen era ancora una volta nella Valle d'Argilla dinanzi
alle acque del Perno dell'Ade. Dinanzi a lui s'ergeva di nuovo l'ombra
di Galaphile, immobile e vigilante mentre gli spiriti di rango inferiore
gli roteavano attorno come fumo. Accanto a Bremen c'era un giovane,
alto, sottile e bruno, di una quindicina d'anni, ma così serio da dare
quasi l'impressione che fosse in lutto. Il giovane si girò verso di lui
e Bremen lo guardò negli occhi... quegli occhi... Le visioni sparirono.
Lo spettro di Galaphile parve divenire più denso e concreto, e nascose
le immagini, rubò loro la luce che per qualche breve istante avevano
irradiato. Bremen continuò a fissarlo, battendo gli occhi, chiedendosi
cosa aveva visto. "Tutto questo accadrà?" sussurrò allo spettro.
"Accadrà davvero?" In parte è già accaduto. "I Druidi di Paranor..." Non
chiedere altro. "Ma cosa posso fare per..." L'ombra fece un gesto di
fastidio, troncando le domande del vecchio druido. Senza fiato, Bremen
sentì una mano d'acciaio serrargli il petto. Poi la mano si aprì ed egli
deglutì, per dominare la paura. Un'alta colonna di schiuma s'innalzò dal
Perno dell'Ade, brillò come una cascata di diamanti sullo sfondo
vellutato della notte. L'ombra di Galaphile cominciò a ritirarsi. Non
dimenticare. Bremen alzò la mano nell'inutile tentativo di impedire
all'ombra di allontanarsi. Un prezzo per ciascuna. Il vecchio druido
scosse la testa, confuso. Un prezzo per ciascuna? Ciascuna cosa? E chi
doveva pagarlo? Ricorda. Il Perno dell'Ade tornò a ribollire, e lo
spettro affondò lentamente nelle acque tumultuose, portando con sé tutti
gli spiriti più piccoli e luminosi che l'avevano accompagnato. Finirono
sotto la superficie in una grande esplosione di nebbia e schiuma, fra
grida e gemiti dei morti, per tornare al mondo infero da cui erano
usciti. L'acqua si sollevò in una massiccia colonna, quando tutti furono
scomparsi, e il silenzio e l'immobilità dell'aria ne furono spezzati
bruscamente, in uno scoppio spaventevole. Poi la tempesta si avventò
sulla valle, con vento e pioggia, con tuoni e fulmini che travolsero il
vecchio druido. Bremen crollò sotto l'assalto, abbattuto all'istante.
Con gli occhi aperti e fissi nel vuoto, cadde privo di sensi sulla riva
del lago. La prima a raggiungerlo fu Mareth. Gli uomini erano più alti e
robusti, ma il piede della fanciulla era più sicuro sulle pietre bagnate
e scivolose: parve volare sulla loro superficie lucida. S'inginocchiò e
prese tra le braccia il vecchio. La pioggia cadeva senza interruzione,
butterando la superficie nuovamente immobile e liscia del lago,
dilavando il tappeto di pietre nere e lucenti della valle, rendendo vaga
e velata la luce dell'alba. Intrise la veste di Mareth fino a scorrerle
sulla pelle e a raggelarla, ma lei non se ne curò: il suo piccolo viso
era una smorfia di concentrazione, levato al cielo, gli occhi chiusi.
Gli altri rallentarono il cammino mentre si avvicinavano, perché non
erano certi di capire quanto stava succedendo. La giovane donna serrò
Bremen fra le braccia, poi rabbrividì violentemente e cadde in avanti;
gli uomini corsero verso di lei per sorreggerla. Kinson la sollevò,
staccandola da Bremen, mentre Tay prendeva il druido, e tutti insieme si
fecero strada in mezzo ai rovesci e uscirono dalla Valle d'Argilla. Una
volta fuori, si rifugiarono in una grotta che avevano incontrato
all'andata. Posarono sul pavimento di roccia la fanciulla e il druido e
li avvolsero nei loro mantelli. Non avevano legna per accendere un fuoco
e, anche se erano bagnati e infreddoliti, furono costretti ad attendere
che finisse di piovere. Kinson sentì il polso e il cuore dei due
compagni svenuti e li trovò forti e regolari. Dopo qualche tempo il
vecchio riprese i sensi e poi si rianimò anche la giovane donna. I tre
uomini si affollarono attorno a Bremen per chiedergli cos'era successo,
ma il vecchio scosse la testa e rispose che per il momento non aveva
voglia di parlare. Con riluttanza, si staccarono da lui. Kinson si fermò
accanto a Mareth, con l'intenzione di chiedere cosa aveva fatto a
Bremen, perché era chiaro che gli aveva fatto qualcosa, ma lei lo guardò
per un istante e girò la testa dall'altra parte, e il cacciatore
rinunciò al tentativo. La giornata si schiarì un poco e la pioggia si
allontanò. Kinson divise fra tutti il cibo che aveva con sé. Solo Bremen
non ne volle. Il vecchio druido pareva essersi ritirato in qualche
interiore profondità del suo spirito - o forse una parte di lui era
ancora nella valle dei morti - e aveva lo sguardo perso nel vuoto, la
faccia una maschera priva d'espressione. Kinson lo fissò per qualche
istante, cercando un segno dei suoi pensieri, ma non riuscì a
penetrarvi. Infine il vecchio alzò gli occhi come se soltanto in quel
momento si fosse accorto della loro presenza e se ne chiedesse la
ragione, poi li invitò ad avvicinarsi. Quando si furono seduti attorno a
lui, parlò del suo incontro con l'ombra di Galaphile e delle quattro
visioni. "Non sono riuscito a capirne il significato" terminò, con voce
roca e stanca. "Sono semplici profezie di avvenimenti futuri, e questo
futuro è già deciso? Oppure sono le conseguenze che si avrebbero
commettendo certe azioni? Perché lo spirito ha scelto proprio quelle
visioni? Che cosa si aspetta da me? Tutte queste domande sono rimaste
senza risposta." "Che prezzo ti ha chiesto di pagare, per prendere parte
a questi avvenimenti?" mormorò Kinson, cupo. "Non dimenticare il
prezzo." Bremen gli sorrise. "Sono stato io a chiedere di prenderne
parte, Kinson" rispose. "Mi sono assunto il ruolo di protettore delle
Razze e distruttore del Signore degli Inganni, e non ho il diritto di
chiedere quanto mi costerà, se i miei sforzi avranno esito positivo."
Sospirò. "Eppure credo di cominciare a capire cosa mi è stato chiesto.
Ma mi occorrerà l'aiuto di tutti voi." Li fissò a uno a uno. "Temo che
dovrete correre grandi pericoli." Risca sbuffò. "Grazie a Dio.
Cominciavo a temere che questa avventura si risolvesse in una cosa da
niente. Spiegaci quello che dobbiamo fare." "Sì, meglio iniziare subito
il viaggio" fece eco Tay, accostandosi a lui con impazienza. Bremen
annuì. I suoi occhi erano lucidi di gratitudine. "Siamo d'accordo che si
deve fermare il Signore degli Inganni prima che conquisti tutte le
Razze. Sappiamo ha già cercato una volta di farlo, andando incontro a un
insuccesso, ma ora è più forte e pericoloso. Vi ho già detto la mia
convinzione: per questo motivo tenterà di distruggere i Druidi di
Paranor. La prima visione mi fa pensare che la supposizione fosse
corretta." S'interruppe per un istante. "Anzi, temo che sia già
successo." Scese il silenzio, mentre gli altri si scambiavano occhiate
intimorite. "Pensi che i Druidi siano tutti morti?" chiese infine Tay a
bassa voce. Bremen annuì. "Lo ritengo possibile. Spero di sbagliarmi. In
ogni caso, vivi o morti che siano, devo recuperare l'Eilt Druin, secondo
la prima visione. Prese tutte insieme, le visioni mostrano che il
medaglione servirà a forgiare l'arma che distruggerà Brona. Una spada,
una lama con un potere particolare, un'arma dotata di una magia che il
Signore degli Inganni non possa sconfiggere." "Che magia?" chiese subito
Kinson. "Non lo so ancora." Bremen sorrise di nuovo, scuotendo la testa.
"So soltanto che occorre un'arma e che, a prestar fede alla visione,
quell'arma è una spada." "Devi anche trovare l'uomo che la impugnerà"
commentò Tay. "Un uomo che non hai visto in faccia." "Ma l'ultima
visione, l'immagine del Perno dell'Ade e del giovinetto dagli occhi
inquietanti..." cominciò Mareth, preoccupata. "Dovrà aspettare il suo
momento" la interruppe Bremen, in tono gentile. La fissò in volto, come
per cercarvi qualcosa. "Gli eventi si rivelano quando lo vogliono loro,
Mareth. Non possiamo fargli fretta. E non possiamo farci prendere dalla
preoccupazione per loro." "Allora, cosa ci chiedi di fare?" incalzò Tay.
Bremen si girò verso di lui. "Dobbiamo separarci, Tay. Tu tornerai dagli
Elfi e chiederai a Courtann Ballindarroch di allestire una spedizione
per cercare la Pietra Nera. In qualche modo la Pietra è essenziale nel
nostro tentativo di distruggere Brona. La visione lo dice. I cacciatori
alati la stanno già cercando e non devono trovarla. Il re degli Elfi
deve aiutarci in questo. Per aiutarci, abbiamo i particolari della
visione. Usa quello che ci è stato mostrato e recupera la Pietra prima
del Signore degli Inganni." Si rivolse a Risca. "Tu devi raggiungere
Raybur e i Nani di Culhaven. Le armate del Signore degli Inganni si
dirigono a est, e io penso che presto colpiranno là. I Nani devono
prepararsi a sostenere un attacco e resistere finché non si potrà
inviare loro un aiuto. Tu devi servirti di tutti i tuoi poteri perché lo
facciano. Tay parlerà con Ballindarroch per indurre gli Elfi a correre
in aiuto dei Nani. Se si uniranno, saranno un buon avversario per
l'esercito di Troll su cui fa affidamento Brona." Fece una pausa. "Ma
soprattutto dobbiamo guadagnare tempo per forgiare la spada che
distruggerà Brona. Io, Kinson e Mareth ritorneremo a Paranor e
scopriremo se la visione della sua caduta è vera. Cercherò di
impadronirmi dell'Eilt Druin." "Se è ancora vivo, Athabasca non sarà
disposto a cedertelo" disse Risca. "Lo sai anche tu." "Probabilmente"
rispose Bremen, con pacatezza. "In ogni caso, devo determinare come
dev'essere forgiata la spada della visione, la magia che dovrà
possedere, il potere di cui dovrà essere infusa. Scoprire come renderla
indistruttibile. E infine trovare chi la impugnerà." "Devi fare dei veri
miracoli, mi pare" commentò Tay Trefenwyd, ironicamente. "Dovremo farne
tutti" rispose Bremen, a mezza voce. Si scambiarono una lunga occhiata
nella scarsa luce. E tra loro prese forma un accordo che non aveva
bisogno di parole. Davanti al rifugio, l'acqua continuava a gocciolare
con regolare cadenza dalle rocce che sporgevano sull'ingresso. Si era a
metà del mattino e la luce era diventata color dell'argento a mano a
mano che il sole cercava di farsi strada tra le nubi di tempesta che
ancora coprivano una parte del cielo. "Se i Druidi di Paranor sono
morti, allora siamo i soli rimasti" osservò Tay. "Soltanto noi cinque."
Bremen annuì. "Allora, cinque dovranno bastare." Si alzò e scrutò in
direzione dell'imboccatura della grotta. "E sarà meglio affrettarsi."
6
Quella stessa notte, a nordovest dal luogo dove Bremen si preparava a
evocare l'ombra di Galaphile, bene all'interno dell'anello di roccia dei
Denti del Drago, Caerid Lock passò in rassegna i soldati che montavano
di guardia a Paranor. Mancava poco a mezzanotte, quando attraversò un
tratto di mura affacciato a sud e venne momentaneamente distratto dal
lacerante bagliore di una folgore che squarciava il cielo lontano. Si
fermò a guardare in quella direzione, tendendo l'orecchio nel silenzio
della notte. Le nubi coprivano l'intero orizzonte, nascondevano la luna
e le stelle, avvolgevano di tenebra il mondo. Il lampo guizzò una
seconda volta, frantumando la notte come se fosse una coppa di vetro,
poi svanì senza lasciare traccia. Il tuono giunse più tardi, come un
lungo, profondo scroscio che rimbombò sulle cime dei monti. La tempesta
pareva intenzionata a rimanere a sud di Paranor, ma l'aria sapeva di
pioggia e il silenzio della notte era profondo e opprimente. Il capitano
della Guardia dei Druidi attese ancora un momento, meditando, poi si
diresse verso una porta e, da una delle torri, rientrò nella rocca. Ogni
notte faceva quelle ispezioni, a dispetto del sonno: era un uomo
d'ordine, le cui abitudini lavorative non cambiavano mai. I momenti più
pericolosi, a parer suo, erano due: dopo la mezzanotte e prima
dell'alba. Erano i periodi in cui la stanchezza e la mancanza di sonno
ottundevano i sensi e rendevano disattente le sentinelle. Se qualcuno
intendeva attaccare, l'avrebbe fatto a quell'ora. Convinto che Bremen
avesse le sue buone ragioni per dare l'avvertimento ed essendo cauto per
natura, si era ripromesso di controllare le porte in modo più accurato
del solito, almeno per alcune settimane. Aveva già aumentato il numero
delle guardie delle varie ronde e aveva dato inizio al faticoso lavoro
di rinforzare le varie porte d'ingresso. Aveva preso in considerazione
l'eventualità di inviare pattuglie nei boschi, la notte, come ulteriore
precauzione, ma aveva pensato che sarebbero state troppo vulnerabili,
una volta uscite dalla protezione delle mura. Le sue guardie erano
numerose, ma non erano un esercito. Potevano proteggere l'interno, ma
non ingaggiare battaglia all'esterno. Giunto nella torre, scese fino al
cortile principale e si diresse alla grande porta. Sei guardie
stazionavano all'ingresso, ed erano responsabili dei battenti, della
saracinesca e delle torri di guardia che dominavano la principale via
d'accesso al castello. Al suo avvicinarsi scattarono sull'attenti. Il
capitano parlò con il sottufficiale responsabile, gli confermò che tutto
andava bene e proseguì l'ispezione. Attraversò di nuovo il cortile,
ascoltò il tuono che rompeva ancora il profondo silenzio della notte,
guardò verso sud per cogliere il lampo che lo accompagnava, e solo dopo
un istante si rese conto che doveva già essere svanito da tempo. Era in
allarme, ma non più di qualsiasi altra notte: la cautela faceva parte
della sua natura come il senso di responsabilità. A volte pensava di
essere rimasto a Paranor per troppo tempo. Faceva bene il suo lavoro,
sapeva di essere ancora in piena forma per il suo incarico. Era
orgoglioso dei suoi uomini; tutte le guardie in servizio erano state
scelte e addestrate da lui. Erano un gruppo saldo, affidabile, e sapeva
che era merito suo. Ma il tempo passava anche per lui, e il tempo
portava un allentamento dei sensi che favoriva la trascuratezza. Lui non
poteva permetterselo. Con la conquista delle Terre del Nord e le voci
sul Signore degli Inganni, il momento era molto pericoloso. Le cose
erano cambiate. Per le Quattro Terre si preparava una grave minaccia che
avrebbe certamente spazzato via i Druidi. Stava per succedere qualcosa,
e Caerid Lock temeva di non riuscire ad accorgersene finché non fosse
stato troppo tardi. Si diresse verso una porta in fondo al cortile e
percorse un corridoio che portava al muro a nord e alla sua porta. Il
castello aveva quattro grandi ingressi: uno per ogni strada d'accesso.
C'erano anche molte porte più piccole, ma erano fatte di pietra e lastre
di ferro. In gran parte erano mimetizzate con cura. Era possibile
trovarle esaminando le mura con attenzione, ma per fare questo occorreva
fermarsi ai piedi dei bastioni e osservare con una buona luce, finendo
sotto il tiro delle sentinelle che stavano sugli spalti. Comunque,
Caerid metteva una guardia a ciascuna di quelle porte, nelle ore dal
tramonto all'alba, perché non dava mai niente per scontato. Percorrendo
il corridoio ricurvo, passò davanti a due di quelle porte, prima di
arrivare alla porta occidentale: erano distanziate tra loro di una
cinquantina di passi. Le due guardie lo videro e scattarono subito
sull'attenti, come per dire che erano all'erta e pronte a intervenire.
Caerid rivolse a ciascuna un cenno d'approvazione e proseguì. Quando si
fu allontanato, aggrottò la fronte, riflettendo sul modo in cui erano
state assegnate le porte. Alla prima porta c'era un troll del Kershalt,
un veterano, ma alla seconda c'era un giovane elfo, poco più di una
recluta. Non approvava che le reclute montassero di guardia da sole e si
ripromise di far cambiare l'assegnazione al successivo turno di guardia.
Pensava a questo quando passò davanti a una scala di servizio che saliva
alle camere da letto dei Druidi, e non si accorse dei movimenti furtivi
dei tre uomini che vi si erano nascosti. I tre si schiacciarono il più
possibile contro le pietre della parete, quando il capitano delle
guardie passò sotto di loro senza notarli. Rimasero perfettamente
immobili finché non si fu allontanato, poi si staccarono dal
nascondiglio e continuarono a scendere. Erano Druidi, tutti e tre,
ciascuno con più di dieci anni di appartenenza al Consiglio, ciascuno
con la bruciante convinzione, tipica del fanatico, di essere destinato a
grandi cose. Erano vissuti entro l'ordine dei Druidi mal sopportandone
le leggi e gli obblighi, che ai loro occhi risultavano sciocchi, privi
di scopo e incapaci di appagarli. Era necessario possedere il potere, se
si voleva che la vita assumesse un significato. I risultati conseguiti
da un uomo non avevano alcun valore, se non gli procuravano un beneficio
personale. A che scopo perdere tempo nello studio, se non lo si poteva
tradurre in qualcosa di pratico? Che senso aveva conoscere dei segreti
della scienza e della magia se non si poteva metterli alla prova? Queste
le domande che si erano rivolti i tre Druidi, dapprima separatamente,
poi l'un l'altro quando s'erano accorti di condividere una convinzione
comune. Non erano i soli insoddisfatti, naturalmente. Altri nutrivano le
medesime convinzioni. Ma nessuno con altrettanto fervore, ossia al punto
di lasciarsi corrompere. Per i tre non c'era speranza di passare
inosservati: il Signore degli Inganni aveva cercato per molto tempo
persone come loro per vendicarsi dei Druidi. Infine li aveva trovati e
fatti suoi. C'era voluto tempo, ma un poco alla volta li aveva
conquistati, così come aveva fatto con coloro che l'avevano seguito
quando aveva lasciato la rocca, più di tre secoli prima. Di uomini come
quelli ce n'erano sempre: aspettavano soltanto che qualcuno li
chiamasse, che qualcuno li usasse. Brona era stato molto astuto nei suoi
approcci, non si era rivelato, all'inizio, ma aveva fatto udire la sua
voce come se fosse la loro, aveva fatto balenare dinanzi ai loro occhi
infinite possibilità, il profumo del potere, la bellezza della magia.
Aveva lasciato che si incatenassero a lui con le loro stesse mani, che
si forgiassero catene fatte di attesa e avidità, che si rendessero suoi
schiavi col cadere in balia di sogni illusori e desideri smodati. Alla
fine, l'avrebbero supplicato di prenderli con sé, anche dopo avere
scoperto la sua identità e il prezzo da pagare. Ora scivolarono lungo i
corridoi di Paranor, con intenzioni malvage, votati a un'azione che li
avrebbe condannati per sempre. Si staccarono in silenzio dalla scala e
raggiunsero la porta dove montava di guardia il giovane elfo. Si tennero
nell'ombra, dove non giungeva la luce delle torce, e usarono piccole
formule magiche fornite dal loro Signore - un dolce assaggio del potere
- per nascondersi agli occhi della sentinella. Poi le furono addosso, e
uno dei tre la colpì alla testa per farle perdere i sensi. Gli altri due
si occuparono in fretta e furia dei chiavistelli che bloccavano la porta
di pietra, li aprirono a uno a uno, sollevarono la saracinesca di ferro,
tolsero dagli incastri la pesante sbarra, e alla fine, al di là di ogni
possibile pentimento, aprirono la porta, cosicché Paranor rimase aperto
alla notte e agli esseri che attendevano all'esterno. I Druidi fecero un
passo indietro quando la prima mostruosità emerse alla luce, dondolando
sui calcagni. Era un Messaggero del Teschio, gobbo e massiccio nel suo
manto nero, gli artigli protesi innanzi a sé. Tutto spigoli e bordi
taglienti, tutto muscoli e pelle coriacea, riempì il passaggio e parve
risucchiarne tutta l'aria. I suoi occhi rossi e ardenti come brace si
fissarono per qualche istante sulle tre figure che si ritraevano
istintivamente da lui, e con disprezzo le spinse da parte per passare.
Batté adagio le ali di pipistrello, poi, con un sibilo di soddisfazione,
afferrò la giovane guardia elfa, le lacerò la gola e la scagliò a terra.
I Druidi rabbrividirono quando vennero colpiti da un fiotto di sangue
della vittima. Il Messaggero del Teschio fece un cenno all'esterno, e
una fila di altre creature cominciò allora a riversarsi nel breve
passaggio: forme abominevoli, irte di denti e di spine, storte,
aggobbite e coperte solo da qualche chiazza di pelo arruffato, armate e
pronte al massacro, che si muovevano occhiute e furtive nel silenzio del
castello. Alcune erano vagamente riconoscibili: un tempo, probabilmente,
erano Troll. Altre erano creature dei mondi infernali con niente di
umano. Tutte erano rimaste in attesa fin dalle prime ore dopo il
tramonto in una rientranza buia, sotto le mura, dove non risultavano
visibili dagli spalti. Si erano nascoste laggiù perché sapevano che quei
tre miserabili che ora le guardavano tremebondi erano stati sedotti dal
loro Signore e avrebbero aperto il castello. Adesso erano dentro,
smaniose di dare inizio al massacro promesso. Il Messaggero del Teschio
ne mandò fuori una, nella notte, perché passasse la voce a quante ancora
attendevano nella foresta. Ce n'erano parecchie centinaia, in attesa del
segnale per farsi avanti. Dalle mura, i soldati le avrebbero viste, non
appena fossero uscite dalla protezione degli alberi, ma l'allarme
sarebbe giunto troppo tardi. Prima che i difensori di Paranor potessero
raggiungerle, sarebbero già penetrate all'interno della rocca. Il
Messaggero del Teschio si avviò lungo il corridoio, senza degnare di uno
sguardo i tre Druidi. Per lui erano meno che nulla: rifiuti, avanzi.
Spettava al suo Signore decidere cosa farne. Al cacciatore alato
interessava solo l'imminente massacro. A mano a mano che entravano, gli
assalitori si divisero in piccoli gruppi. Alcuni imboccarono la scala
che saliva alle stanze da letto dei Druidi. Altri presero un corridoio
laterale che portava all'interno del castello. Ma la maggioranza seguì
il Messaggero del Teschio lungo il corridoio che conduceva alle porte
principali. Poco più tardi si levarono le prime urla. Quando venne
finalmente dato l'allarme, Caerid Lock lasciò di corsa la porta
settentrionale e attraversò il cortile per tornare all'interno del
castello. Prima erano giunte le urla, poi il suono di un corno da
guerra. Il capitano capì subito cosa succedeva. La profezia di Bremen si
avverava. Il Signore degli Inganni era all'interno di Paranor. Questa
certezza lo raggelò fino alle ossa. Mentre correva, chiamò a sé i propri
uomini, pensando che forse c'era ancora tempo. Entrarono a passo di
carica nella rocca e imboccarono il corridoio che conduceva alla porta
spalancata al nemico dai Druidi traditori. Ma quando svoltarono un
angolo, scorsero l'intero corridoio davanti a loro invaso da forme nere
e aggobbite che continuavano a entrare dalla porta, brulicanti come uno
sciame di insetti. Troppe per attaccare battaglia, comprese Caerid Lock.
Si affrettò a riportare indietro i suoi uomini, e le bestie si
lanciarono subito al loro inseguimento. Le guardie lasciarono quel piano
e salirono a uno superiore, sbarrando le porte e abbassando le
saracinesche, nel tentativo di bloccare l'accesso agli assalitori. Era
un tentativo disperato, ma a Caerid Lock non venne in mente altro.
Giunti al piano superiore, riuscirono a bloccare tutte le entrate e si
prepararono a difendere le scale principali. A quel punto, il capitano
poteva contare su cinquanta uomini, ma non sarebbero stati sufficienti.
Ne mandò alcuni a chiamare i Druidi per farsi dare appoggio. Alcuni
degli anziani conoscevano la magia, e per salvarsi occorreva fare
appello a tutti i mezzi disponibili. Mentre riuniva i suoi uomini, la
sua mente correva. Non erano entrati con la forza, ma grazie a un
tradimento dall'interno. Avrebbe trovato i responsabili, giurò. E se ne
sarebbe occupato di persona. In cima alla scalinata principale, la
Guardia si preparò a resistere. C'erano Elfi, Nani, Troll e alcuni
Gnomi, spalla contro spalla, schierati e pronti, tutti ugualmente
risoluti. Caerid Lock era il primo, nel centro dello schieramento, la
spada sguainata. Non cercò di ingannarsi, la sua era difesa delle
posizioni, tutt'al più, ed era condannata prima o poi alla disfatta.
Stava già pensando alla ritirata. Non poteva più fare nulla per le mura
esterne, ormai perdute. Le mura interne e la rocca erano ancora loro,
per il momento: gli ingressi bloccati, gli uomini schierati a difesa. Ma
tutti quegli sforzi sarebbero riusciti solo a rallentare l'avanzata di
un attaccante deciso, non certo a fermarlo. C'erano troppi passaggi
nelle mura interne, ai livelli più alti come a quelli più bassi, perché
gli uomini della Guardia potessero resistere a lungo. Presto o tardi i
nemici li avrebbero assaliti alle spalle, e a quel punto li avrebbe
salvati soltanto la fuga. Dal basso, ai comandi del Messaggero del
Teschio, venne preparato un attacco, e una schiera di mostri dalle zampe
ricurve risalì la scala, in un'unica massa di zanne, artigli e lame
d'acciaio. Caerid guidò la sua Guardia in un contrattacco, e l'assalto
venne respinto. I mostri tentarono una seconda carica, e anche questa
volta la Guardia dei Druidi riuscì a ricacciarli indietro. Ma ormai una
buona metà dei difensori era morta o ferita e nessun altro soldato si
era più unito a loro. Caerid Lock si guardò attorno, disperato.
Dov'erano i Druidi? Perché non rispondevano al segnale d'allarme? I
mostri attaccarono una terza volta, in una massa irta di spine, di corpi
striscianti e di arti che mulinavano, di urli striduli che si levavano
da fauci spalancate. La Guardia dei Druidi contrattaccò ancora una
volta, aprendo grandi squarci nello schieramento dei mostri,
ricacciandoli indietro, giù per la scala, lasciandone una buona metà
privi di vita sugli scalini resi scivolosi dal sangue. Disperato, Caerid
mandò un uomo a cercare aiuto dovunque potesse trovarne. Mentre stava
per allontanarsi, lo afferrò per la giubba e gli disse a bassa voce,
perché nessun altro sentisse: "Cerca i Druidi e di' loro di fuggire
finché sono ancora in tempo! Di' che Paranor è perduto. Corri subito a
dirglielo! Poi fuggi anche tu!". L'uomo sbiancò in volto e corse via
senza fare parola. Intanto, nelle tenebre sotto di loro, si stava
preparando un altro assalto, tra grida gutturali e forme nere che si
ammassavano. Poco dopo, in un punto più alto, nella zona riservata ai
Druidi, si levò un grido straziante. Caerid Lock si sentì venir meno il
cuore. E' finita, pensò, senza provare paura o rimpianto, ma unicamente
nausea. Qualche istante più tardi, i mostri del Signore degli Inganni si
lanciarono ancora una volta su per la scala. Caerid Lock e il suo esiguo
gruppo si prepararono ad affrontarli, armi in pugno. Ma questa volta ce
n'erano troppi. Kahle Rese dormiva nella biblioteca dei Druidi quando
venne destato dal clamore dell'attacco. Aveva lavorato fino a tardi
catalogando le relazioni da lui stesso compilate nei cinque anni
precedenti sulle variazioni climatiche e le loro ripercussioni sul
raccolto, e alla fine si era addormentato al tavolo. Si destò con un
sobbalzo, scosso dalle grida dei feriti, dal clangore delle armi, dal
trepestio degli stivali. Sollevò la testa grigia e si guardò attorno,
confuso, poi si alzò, si concesse un momento per riprendersi e si
diresse alla porta. Osservò il corridoio, con circospezione. Le grida
erano più forti, più terribili per la loro insistenza e atrocità. Alcuni
uomini passarono di corsa davanti alla sua porta: soldati della Guardia.
La rocca era stata assalita, capì. L'avvertimento di Bremen era arrivato
ai sordi, e adesso pagavano lo scotto della loro sordità. Con sorpresa,
si accorse di sapere già perfettamente cosa stava succedendo, e come
sarebbe finita. Già sapeva che non sarebbe sopravvissuto a quella notte.
Però esitò ancora, riluttante perfino in quella situazione ad accettare
ciò che già sapeva. Ora il corridoio era vuoto, i suoni della battaglia
provenivano dai piani inferiori. Pensò di uscire per controllare meglio
la situazione, ma mentre stava valutando l'idea, una sagoma d'ombra si
affacciò dalla scala posteriore. Il druido si affrettò a tirare indietro
la testa e guardò dalla fessura della porta. Una fila di nere creature
deformi uscì barcollando dalla scala, forme irriconoscibili, mostri
usciti dal suo peggiore incubo. Trasse un respiro e poi trattenne il
fiato. Entravano in una stanza dopo l'altra avvicinandosi alla
biblioteca dove lui era nascosto. Accostò il battente senza fare rumore
e lo chiuse con la sbarra. Per un momento restò fermo dietro la porta,
incapace di muoversi. Un fiotto d'immagini gli tornò alla mente: ricordi
dei suoi primi giorni di apprendistato, della sua successiva carica di
druido scrivano, dei suoi continui sforzi per raccogliere e conservare
gli scritti del vecchio mondo e di Faerie. Tante cose erano successe, ma
in un tempo tanto breve. Scosse la testa per la meraviglia. Come poteva
finire tutto così in fretta? Ormai le grida si avvicinavano: grida che
venivano dalla porta accanto alla sua e dal corridoio dove si aggiravano
i mostri in cerca di vittime. Non gli rimaneva molto tempo. Raggiunse in
fretta la scrivania e prelevò il sacchetto di pelle affidatogli da
Bremen. Forse avrebbe fatto meglio ad allontanarsi con il suo vecchio
amico, pensò. Forse avrebbe dovuto salvarsi finché ne aveva il tempo. Ma
chi avrebbe protetto le Storie dei Druidi, se fosse fuggito? Su chi
altri avrebbe potuto fare affidamento Bremen? Inoltre, quello era il
posto a cui apparteneva: ormai non conosceva più il mondo esterno, era
passato troppo tempo dall'ultima volta che vi si era inoltrato. Al di
fuori di quelle mura, lui non sarebbe servito a nessuno. Lì, se non
altro, poteva ancora compiere qualcosa di utile. Raggiunse lo scaffale
mobile che faceva da porta segreta per il nascondiglio delle Storie dei
Druidi e fece scattare il meccanismo che lo apriva. Entrò e si guardò
attorno. La stanza era piena di grossi libri rilegati in pergamena. Fila
dopo fila, disposti in sequenza, ordinatamente numerati, quei volumi
erano i depositari di tutte le conoscenze e di tutte le leggende
raccolte dai Druidi a partire dall'epoca del Primo Consiglio: conoscenze
provenienti dall'epoca di Faerie, dai tempi dell'Uomo e da quello delle
Grandi Guerre. Ogni pagina di quei libri era piena di informazioni
debitamente raccolte e registrate: alcune avevano trovato spiegazione,
altre rimanevano ancora un mistero, ma nel loro complesso costituivano
tutte le conoscenze disponibili sulla scienza e sulla magia passate e
presenti. Molto di quello che era contenuto in quei libri era stato
scritto dallo stesso Kahle Rese: rapporti vergati con attenzione, riga
dopo riga, per più di quarant'anni. Quelle registrazioni costituivano il
principale motivo d'orgoglio del vecchio druido, il riassunto del lavoro
di una vita, il risultato di cui si compiaceva. Si accostò al più vicino
scaffale, trasse un profondo respiro e aprì i lacci del sacchetto di
Bremen. Diffidava di tutta la magia, ma non aveva scelta. E poi, Bremen
non l'avrebbe mai ingannato. Quella che interessava a entrambi era la
salvezza delle Storie: esse dovevano sopravvivere a Kahle Rese, come
previsto fin dal momento della loro stesura. Dovevano sopravvivere a
tutti i Druidi. Prese una generosa manciata della luccicante polvere
argentea che trovò nel sacchetto e la gettò su una parte dei libri.
Immediatamente, l'intera scaffalatura prese a brillare come un miraggio
nella calura estiva. Kahle esitò, poi gettò un'altra manciata di polvere
nella cortina liquida. Libri e scaffali sparirono. Allora prese a
muoversi più in fretta, gettando manciate di polvere su ciascuno
scaffale, su ciascun gruppo di libri, e a uno a uno li vide brillare e
sparire. Qualche momento più tardi, le Storie dei Druidi erano
completamente sparite. Rimaneva soltanto una stanza con quattro pareti
spoglie e un lungo tavolo di lettura al centro. Kahle Rese annuì
soddisfatto. Adesso le Storie erano salve. Anche se la stanza fosse
stata scoperta, il suo contenuto sarebbe rimasto nascosto. Era quanto di
meglio si potesse sperare. Ritornò nell'altra stanza e tutt'a un tratto
provò una profonda stanchezza. Sentì grattare alla porta: con artigli
inadatti a quel compito, qualche creatura cercava di afferrare il pomo
della porta e di girarlo. Kahle chiuse accuratamente lo scaffale mobile
e s'infilò in tasca il sacchetto di pelle, ormai quasi vuoto. Tornò alla
scrivania e si appoggiò ad essa. Non aveva armi. Non aveva un posto dove
fuggire. Non poteva fare altro che attendere. Nel corridoio, corpi
pesanti si lanciarono contro la porta, scheggiandola. Un momento più
tardi, il legno si ruppe e con un forte tonfo il battente andò a
fracassarsi contro la parete. Tre bestie dalla schiena curva entrarono
ciondolando: quando scorsero il druido, i loro occhi stretti e iniettati
di sangue si accesero d'odio. Senza battere ciglio, Kahle Rese le guardò
avvicinarsi. La più vicina impugnava una corta picca. Qualcosa nel
portamento dell'uomo davanti a lei la infuriò. Quando fu giunta dinanzi
a Kahle Rese, gli piantò l'arma nel petto, uccidendolo all'istante.
Allorché tutto fu finito, allorché tutti i membri superstiti della
Guardia furono raggiunti e massacrati, i Druidi sopravvissuti vennero
strappati ai loro nascondigli e spinti come animali imbelli nella sala
di riunione del Consiglio, dove furono costretti a inginocchiarsi a
terra, circondati dai mostri che li avevano sconfitti. Athabasca, che
era tra quelli ancora vivi, venne riconosciuto e portato davanti al
Messaggero del Teschio. La creatura fissò l'imponente figura del Grande
Druido dalla folta chioma bianca, poi gli ordinò di inchinarsi a lei e
di riconoscerla come suo padrone. Quando Athabasca, orgoglioso e
sprezzante anche nella sconfitta, si rifiutò di farlo, la creatura lo
afferrò per il collo, puntò lo sguardo nei suoi occhi atterriti e glieli
bruciò con una vampata di fuoco scaturitagli dalle orbite. Athabasca
venne lasciato sulle pietre del pavimento, in preda a un tormento
atroce, e nella grande sala del Consiglio scese bruscamente il silenzio.
I sibili e le voci chiocce si spensero, cessò lo stridore degli artigli
e il digrignare dei denti. Nell'assoluto, cupo e minaccioso silenzio,
tutti gli occhi furono calamitati verso l'entrata della sala, la cui
porta a doppio battente pendeva sfondata dai cardini. Là, nello
squarcio, le ombre parvero coagularsi e prendere forma, sino a diventare
un'alta figura, avvolta in un nero mantello, che invece di posare i
piedi sul terreno come gli uomini era sospesa a mezz'aria, leggera e
incorporea come fumo. Un soffio glaciale percorse l'intera sala al suo
arrivo, un gelo che entrò nel midollo dei Druidi prigionieri. A uno a
uno, i mostri che li avevano catturati s'inginocchiarono e chinarono la
testa, mentre dalle loro bocche si levava un basso mormorio. Padrone.
Padrone. Il Signore degli Inganni posò lo sguardo sui Druidi sconfitti e
si compiacque alla loro vista. Erano suoi, adesso. Paranor era suo. Dopo
tanti secoli poteva assaporare la vendetta. Permise alle sue creature di
alzarsi in piedi, poi tese il braccio verso Athabasca. Incapace di
opporsi, cieco e dolorante, il Grande Druido si sollevò in piedi di
scatto, come tirato da fili invisibili. Si sollevò al di sopra degli
altri Druidi, gridando per il terrore. Il Signore degli Inganni mosse
ancora il braccio, e il Primo Druido tacque e s'immobilizzò
sinistramente. Un altro movimento e Athabasca cominciò a cantilenare,
con voce incrinata dal dolore: "Padrone. Padrone. Padrone".I Druidi
raccolti attorno a lui abbassarono la testa per la vergogna e la
collera. Alcuni piansero. Invece, la massa degli scherani del Signore
degli Inganni fischiò di piacere, divertita dalla scena, e in omaggio al
suo padrone levò in alto le braccia munite di artigli. Poi il Signore
degli Inganni mosse la testa, e il Messaggero del Teschio colpì con una
rapidità terribile, il cuore dal petto di Athabasca vivo. Il
Grande Druido si inarcò e proruppe in un grido quando il suo petto fu
squarciato, poi si afflosciò su se stesso e morì. Per alcuni, eterni
momenti, il Signore degli Inganni lo tenne sollevato sopra i suoi
compagni, come una bambola di pezza, mentre sotto di lui si allargava
una macchia di sangue. Lo fece dondolare avanti e indietro, e infine lo
lasciò cadere a terra, un mucchietto di carne lacerata e ossa rotte. Poi
fece portare via tutti i Druidi e li fece spingere come bestie nelle più
profonde segrete di Paranor, dove vennero murati vivi. Quando le loro
grida lasciarono il posto al silenzio, si avviò lungo le scale e i
corridoi della rocca, alla ricerca delle Storie dei Druidi. Aveva
distrutto i Druidi, ora doveva distruggere il loro sapere. O portarne
con sé la parte che gli poteva essere utile. Cercò di fare in fretta,
perché qualcosa cominciava ad agitarsi nel pozzo senza fondo su cui
sorgeva il castello; laggiù qualche antica magia si stava ridestando, in
reazione alla sua presenza. Nel suo regno, il Signore degli Inganni non
temeva nemici, ma lì, nel covo dei suoi più forti avversari, non sapeva
che rischi poteva correre. Trovò la biblioteca e la esaminò da cima a
fondo. Scoprì lo scaffale mobile e la camera segreta, ma era vuota. Era
stata messa in atto qualche magia, notò, ma non riuscì a scoprirne
l'origine e lo scopo. Quanto alle Storie, non ce n'era traccia. Nelle
profondità del Pozzo dei Druidi, le scosse divennero più intense.
Qualcosa si era liberato per effetto della sua venuta, e adesso stava
uscendo dal pozzo per cercarlo. La cosa gli diede alquanto fastidio: un
potere di quella fatta, messo di sentinella per combatterlo! Non
potevano essere stati quei miserabili mortali che aveva sconfitto così
facilmente: non erano più capaci di invocare poteri simili. Piuttosto,
doveva essere stato colui che di recente si era spinto nel suo
territorio e di cui le sue creature avevano seguito la pista, il druido
Bremen. Ritornò nella sala del Consiglio, desideroso, a quel punto, di
allontanarsi il più in fretta possibile, perché il suo compito lì era
terminato. Si fece portare i tre che avevano tradito Paranor. Non si
rivolse loro con la voce, non ne erano degni, ma comunicò con il
pensiero. I traditori si prostrarono davanti a lui tremebondi,
sottomessi come pecore: tre miserabili che avevano preteso di innalzarsi
al di sopra di ciò che erano. Padrone, piagnucolarono in tono abietto e
servile. Padrone, noi obbediamo soltanto a te! Quanti Druidi sono
sfuggiti, oltre a Bremen? Soltanto tre, Padrone. Un nano, Risca. Un
elfo, Tay Trefenwyd. Una giovane donna del Sud, Mareth. Si sono
allontanati con Bremen? Sì, con Bremen. Nessun altro è fuggito? No,
Padrone, nessuno. Ritorneranno. verrànno a sapere della caduta di
Paranor e vorranno accertarsene. Voi li aspetterete. Sarete voi a finire
quello che io ho iniziato. Poi sarete come me. Sì, Padrone, sì!
Alzatevi. Si alzarono in fretta, ansiosi di compiacerlo: tre spiriti
spezzati, tre menti schiave del suo volere. Eppure non avevano la forza
di compiere quanto era richiesto loro, e di conseguenza occorreva
cambiarli. Li toccò con la sua magia, li avvolse in legami sottili come
seta e robusti come acciaio, e rubò loro quanto ancora rimaneva di
umano. Le grida dei tre Druidi echeggiarono nei corridoi vuoti, mentre
li trasformava senza pietà in qualcosa di nuovo: i loro arti si
agitarono disperatamente, le loro teste scattarono senza controllo e gli
occhi parvero schizzare dalle orbite. Quando il Signore degli Inganni
ebbe terminato, i tre non erano più riconoscibili. Li lasciò così, poi,
seguito obbedientemente dagli altri suoi servitori, scomparve nella
notte, abbandonando il castello dei Druidi agli agonizzanti e ai morti.
7
Bremen tese la mano a Risca, prima di separarsi da lui, e il nano la
strinse a lungo nella sua. Si trovavano davanti alla grotta dove s'erano
riparati dopo avere lasciato il Perno dell'Ade e i suoi spettri. Era
quasi mezzogiorno, la pioggia si era ridotta a una fine acquerugiola e
il cielo cominciava a rischiararsi a occidente, al di sopra delle vette
scure dei Denti del Drago. "A quanto pare, non appena ci incontriamo
dobbiamo nuovamente separarci" brontolò Risca. "Non so come riusciamo a
rimanere amici. Non so perché ci preoccupiamo di esserlo." "Perché non
abbiamo scelta" disse Tay Trefenwyd, che era accanto a loro. "Non c'è
nessun altro che ci sopporti." "Vero" rispose il nano, sorridendo
controvoglia. "Be', così metteremo a prova la nostra amicizia. Sparsi
dall'Est all'Ovest e chissà dove altro, senza sapere quando ci
incontreremo di nuovo." Strinse forte la mano di Bremen. "Abbi cura di
te." "Anche tu, mio caro amico" rispose il vecchio druido. "Tay
Trefenwyd!" gridò il nano, girandosi verso di lui. Si stava già avviando
lungo il sentiero. "Non scordarti della promessa! Riunisci gli Elfi e
portali nell'Est! Venite a combattere con noi contro il Signore degli
Inganni! Contiamo sul vostro aiuto!" "Arrivederci, Risca!" gridò Tay. Il
nano agitò la mano in segno di saluto e si issò lo zaino sulle spalle
robuste; la daga gli dondolava al fianco. "Buona fortuna, Orecchie a
Punta. Fa' attenzione! Guardati le spalle!" Si divertivano sempre a
canzonarsi, l'elfo e il nano, due vecchi amici che amavano quel tipo di
battute, abituati a nascondere dietro le piccole punzecchiature le
emozioni che non amavano esternare a parole. Kinson Ravenlock, in
disparte, ascoltava quello scambio verbale e rimpiangeva di non avere
avuto il tempo di conoscerli meglio. Ma occorreva rimandare al futuro
quel genere di rapporti. Risca era partito e Tay li avrebbe lasciati al
Passo di Kennon, dove loro avrebbero piegato a nord verso Paranor,
mentre l'elfo avrebbe proseguito a ovest per raggiungere Arborlon. Il
cacciatore della Frontiera scosse la testa. La separazione doveva essere
molto dura per Bremen, che non vedeva Risca e Tay da due anni. Ne
sarebbero passati altri due prima che li rivedesse? Quando Risca fu
scomparso, Bremen e i suoi tre compagni presero un sentiero che li portò
alla base dei monti e poi proseguirono a occidente, sulla sponda
settentrionale del Mermidon, rifacendo in senso inverso il cammino che
li aveva portati laggiù. Continuarono a camminare anche dopo il
tramonto, per accamparsi infine all'ombra di una macchia di ontani, in
un punto abbastanza isolato, dove il Mermidon si biforcava. Il cielo si
era rasserenato e splendeva di migliaia di stelle, la cui luce si
rifletteva in uno sfavmio multicolore sulla placida superficie del
fiume. Il gruppo si raccolse sulla riva e cenò senza smettere di
guardarsi attorno nel buio. Nessuno aveva molta voglia di parlare. Tay
avvertì Bremen di fare molta attenzione, una volta all'interno di
Paranor. Se quanto gli era stato mostrato nella visione era già successo
e il castello dei Druidi era caduto, era probabile che il Signore degli
Inganni o qualcuno dei suoi adepti fosse rimasto all'interno. Oppure,
aggiunse l'elfo, che vi avesse lasciato trappole per catturare quei
Druidi che, dopo essere sfuggiti al massacro, fossero stati così
sciocchi da tornare. Lo disse in tono leggero, e Bremen gli rispose con
un sorriso. Kinson notò che nessuno dei due metteva in dubbio la
probabile distruzione di Paranor. Doveva essere stata una notizia molto
amara per loro, ma nessuno dei due dava libero corso alle emozioni. Si
erano imposti di non indugiare sul passato. Adesso, la sola cosa
importante era il futuro. A questo scopo, Bremen parlò diffusamente a
Tay della sua visione della Pietra Nera, soffermandosi sui particolari
di quello che aveva visto e provato, e di ciò che ne aveva dedotto.
Kinson lo ascoltò senza molto interesse, lanciando ogni tanto
un'occhiata a Mareth che faceva come lui. Si chiese cosa pensasse la
fanciulla, adesso che i Druidi di Paranor, assai probabilmente, erano
stati distrutti. Si chiese se si rendesse conto di come era cambiata ora
la sua posizione all'interno del gruppo. Mareth aveva a malapena detto
qualche parola, da quando erano usciti dalla Valle d'Argilla, e durante
i discorsi tra Bremen, Risca e Tay si era tenuta in disparte,
limitandosi a guardare e ad ascoltare. Un po' come lui, pensò Kinson.
Infatti anche lei era un'estranea, ancora alla ricerca del proprio
posto: non era un druido come gli altri, non era ancora stata messa alla
prova, non era del tutto accettata come eguale. La osservò, cercando di
valutare la sua resistenza, la sua volontà. Le sarebbero occorse
entrambe, con quello che la aspettava. Più tardi, quando la giovane
donna dormiva, Tay era disteso accanto a lei e Bremen stava di guardia,
Kinson si tolse il mantello che gli serviva da coperta e andò a sedersi
accanto al vecchio druido. Bremen non fece commenti quando si avvicinò,
e continuò a scrutare nel buio. Kinson si sedette, incrociò davanti a sé
le lunghe gambe e si drappeggiò comodamente sulle spalle il mantello. La
notte era calda, più primaverile di quanto non lo fossero state le
precedenti, e nell'aria c'era profumo di fiori, germogli ed erba. Dalle
montagne scendeva una lieve brezza che faceva stormire le fronde e
increspava l'acqua del fiume. I due uomini sedettero in silenzio per
qualche minuto, tendendo l'orecchio ai rumori della notte, ciascuno
perso nei propri pensieri. "Corri un grave rischio, ritornando al
castello" osservò infine Kinson. "Un rischio necessario" puntualizzò
Bremen. "Sei certo della caduta di Paranor, vero?" Per un momento,
Bremen non rispose, ma s'immobilizzò come se fosse di pietra; poi,
lentamente, mosse la testa in segno d'assenso. "Se è così, per te sarà
molto pericoloso" continuò Kinson. "Brona ti dà già la caccia. Forse sa
della tua visita a Paranor. Si aspetterà un tuo ritorno." Il vecchio
druido si voltò verso il compagno; alla luce delle stelle, la sua faccia
sembrava ancor più rugosa e indurita dal sole e dal vento, scavata da
una vita di lotte e delusioni. "So già queste cose, Kinson. E tu sai che
le so. Allora, perché me ne parli?" "Perché te ne ricordi" rispose con
fermezza il cacciatore della Frontiera. "Perché tu sia ancor più cauto
del solito. Le visioni sono un'ottima cosa, ma sono ingannevoli. Non mi
fido di loro. Non dovresti fidartene neanche tu. Almeno, non del tutto."
"Ti riferisci alla visione di Paranor, suppongo." Kinson annuì. "La
rocca caduta e i Druidi uccisi fino all'ultimo. Tutto abbastanza chiaro.
Ma la sensazione di qualcosa in attesa, qualcosa di pericoloso... questo
è l'aspetto allarmante. Se è così, la minaccia non assumerà una delle
forme che t'aspetti." Bremen si strinse nelle spalle. "No, suppongo di
no. Ma non ha importanza. Devo assicurarmi che Paranor sia perduto
davvero, non mi bastano i miei sospetti, per quanto forti. E devo
recuperare l'Eilt Druin. Il medaglione dev'essere parte integrante del
talismano che sconfiggerà il Signore degli Inganni. La visione era
chiara su questo punto. Una spada, Kinson, che io devo costruire, che io
devo forgiare, e in cui devo infondere una magia che Brona non possa
vincere. Di tutto questo, l'Eilt Druin è la sola parte che mi sia stata
mostrata: il medaglione era chiaramente visibile sul manico dell'arma.
Comincerò da lì. Devo recuperare il medaglione e poi determinare che
altro mi servirà." Kinson lo fissò per qualche istante senza parlare.
"Hai già fatto un piano, vero?". "L'abbozzo di un piano" sorrise il
vecchio. "Mi conosci bene, caro amico." "Ti conosco abbastanza bene per
prevedere, di tanto in tanto, qualcuna delle tue mosse" rispose Kinson,
sospirando e guardando oltre il fiume. "Non che la cosa mi serva molto,
quando si tratta di spingerti a una maggiore cautela." "Oh, non ne sarei
tanto sicuro." Davvero? si chiese stancamente il cacciatore della
Frontiera. Ma non mise in dubbio l'affermazione di Bremen, nella
speranza che fosse almeno parzialmente vera, che il vecchio druido gli
desse davvero retta, almeno quando si trattava della sua incolumità.
Strano che Bremen, nel crepuscolo della vita, fosse assai più temerario
di lui, che era tanto più giovane. Kinson era sempre vissuto in base al
precetto della Frontiera che un solo passo falso costituisce la
differenza tra la vita e la morte, che sapere quando agire e quando
aspettare è indispensabile per rimanere sani e salvi. Bremen conosceva
perfettamente queste regole, ma non sempre vi si atteneva. Bremen era
assai più portato di Kinson a sfidare il destino. Probabilmente, la
differenza tra loro era dovuta alla magia, pensò. Lui era più forte di
Bremen e aveva i riflessi più rapidi, e il suo istinto era più sicuro,
ma Bremen aveva la magia ad aiutarlo, e la magia funzionava sempre.
Questa considerazione diede a Kinson una certa rassicurazione sul fatto
che il vecchio druido godesse di una protezione in più. Ma avrebbe
preferito che tale protezione fosse ancora maggiore. Stese le gambe per
sgranchirle e incrociò le braccia. "Che è successo, laggiù con Mareth?"
chiese poi all'improvviso. "Al Perno dell'Ade, quando sei svenuto e lei
ti ha raggiunto per prima?" "E' una giovane interessante, la nostra
Mareth" commentò il druido, con una sfumatura d'affetto nella voce. Si
girò di nuovo verso Kinson, ma il suo sguardo era perso lontano.
"Ricordi che ha detto di avere una sua forma di magia? Be',
l'affermazione era corretta. E' possibile che mi sbagli, perché non sono
del tutto certo della sua natura, ma credo di aver capito qualcosa. E'
una forma di empatia, Kinson. Le sue capacità di guaritrice si basano su
questo potere. Può prendere su di sé il dolore di un'altra persona e
così farlo diminuire. Può assorbire i danni di un altro e accelerarne la
guarigione. L'ha fatto con me al Perno dell'Ade. La scossa da me provata
quando ho avuto le visioni e sono stato toccato dalle ombre dei morti mi
ha fatto perdere i sensi. Ma lei mi ha sollevato - ho sentito le sue
manie mi ha fatto risvegliare, di nuovo forte e guarito." Batté gli
occhi. "E' stato molto chiaro. Tu hai visto l'effetto che ha avuto su di
lei?" Kinson sporse il labbro, riflettendo. "Sembrava aver perso le
forze, per un breve tempo, poi si è ripresa. Però i suoi occhi...
Sull'altura, quando sei scomparso nella tempesta mentre parlavi con
l'ombra di Galaphile, Mareth ha detto che poteva vederti, mentre nessun
altro riusciva a scorgerti. Ebbene, i suoi occhi erano bianchi." "La sua
magia sembra alquanto complessa, non credi?" "E' magia empatica, dici. E
certo non piccola." "No. Non c'è niente di piccolo nella magia di
Mareth. E' molto potente. Probabilmente è nata così e ha cercato di
potenziare la sua abilità nel corso degli anni. Di sicuro l'ha fatto
quando era presso gli Stor." S'interruppe. "Mi chiedo se Athabasca se
n'è accorto. Anzi, se qualcuno di loro se n'è accorto." "Non è una
persona che riveli molto di se stessa. Non vuole che nessuno le si
accosti troppo" commentò Kinson, tornando a sporgere il labbro. "Però,
sembra davvero nutrire una grande ammirazione per te. Mi ha detto che
per lei era molto importante accompagnarti in questo viaggio." Bremen
annuì. "Sì, dobbiamo ancora scoprire molti segreti che riguardano
Mareth. Tra noi due, dovremo trovare il modo di portarli alla luce."
Buona fortuna, avrebbe voluto augurargli Kinson, ma tenne per sé questa
considerazione ironica. Si rammentava della ritrosia di Mareth
nell'accettare una piccola cortesia come l'offerta del mantello. Ci
sarebbe voluta una serie di avvenimenti davvero speciali, per
convincerla a dire qualcosa di se stessa, pensò. E il futuro non
riserbava loro niente del genere, vero? Continuò a sedere accanto a
Bremen sulla riva del Mermidon, senza parlare, senza muoversi, con lo
sguardo perso lontano, al di là della riva opposta. Da qualche cupo
recesso della memoria, senza bisogno di invitarle, continuarono ad
affacciarsi nella sua mente le immagini di tutto ciò che temeva di
incontrare. Si misero in moto all'alba e per tutto il giorno
proseguirono il cammino ai piedi dei Denti del Drago, costeggiando il
Mermidon. La giornata divenne più calda, la temperatura salì, l'umidità
e la calura appesantirono l'aria. Tutti si tolsero i pesanti mantelli da
viaggio e bevvero enormi quantità d'acqua. Nel pomeriggio si fermarono
alcune volte per riposare, e quando arrivarono al Passo di Kennon era
ancora chiaro. Laggiù Tay Trefenwyd li lasciò per proseguire attraverso
la pianura fino alle foreste di Arborlon. "Quando troverai la Pietra
Nera, Tay, non pensare di poterla usare" lo avvertì Bremen, nel
separarsi da lui. "Non usarla per nessuna ragione. Neppure se sarete
minacciati. La sua magia è abbastanza forte da poter compiere
letteralmente qualsiasi cosa, ma è altrettanto pericolosa. Ogni magia
richiede un prezzo per il suo impiego. Lo sai bene quanto me. E il
prezzo per l'uso della Pietra Nera è troppo alto." "Potrebbe
distruggermi" concluse Tay, precedendolo. "Siamo esseri mortali, tu e
io" commentò pacatamente Bremen. "Dobbiamo camminare in punta di piedi,
quando si tratta di magia. Il tuo compito consiste nel recuperare la
Pietra Nera e portarla a me. Noi non cercheremo di usarla. Vogliamo
soltanto impedire al Signore degli Inganni di servirsene. Rammentalo."
"Me lo rammenterò, Bremen." "Avverti Courtann Ballindarroch del
pericolo. Convincilo a mandare l'esercito in aiuto di Raybur e dei Nani.
Non deludermi." "Sarà fado." Il druido degli Elfi gli strinse la mano,
la lasciò e si allontanò agitando spavaldo il braccio. "Un'altra
memorabile riunione, vero?" salutò. "Tienilo d'occhio, Kinson. Fa'
attenzione, Mareth. Buona fortuna a tutti." Fischiettando allegramente,
si girò per rivolgere loro un ultimo sorriso. Poi allungò il passo,
s'infilò tra gli alberi e le rocce e non lo si vide più. Bremen si fermò
ancora per qualche minuto per decidere, con Kinson e Mareth, se
proseguire lungo il passo o aspettare il mattino. A quanto pareva, si
stava avvicinando un'altra tempesta, ma ad aspettare che il tempo si
rasserenasse c'era il rischio di perdere altri due giorni. Kinson vedeva
che il vecchio druido era ansioso di proseguire per raggiungere Paranor
e scoprire la verità. Erano riposati e pronti a ripartire, perciò
propose di continuare. Mareth si associò a lui. Bremen sorrise loro con
riconoscenza, e fece segno di proseguire. Giunsero in cima al passo
mentre il sole calava dietro l'orizzonte e scivolava via dalla vista. Il
cielo rimaneva chiaro, l'aria era tiepida, si camminava senza fatica e
riuscirono a fare molta strada. A mezzanotte iniziarono la discesa nella
valle settentrionale. Il vento si era alzato, e giungeva ululando da
sudovest, senza interruzione, sollevando terra e foglie e formando
mulinelli che riempivano l'aria di polvere. Dovettero camminare a testa
bassa finché non furono al di sotto della cresta delle montagne e il
vento non perse forza. Davanti a loro, la sagoma scura della rocca dei
Druidi era chiaramente visibile sullo sfondo del cielo stellato: torri
spoglie e bastioni spezzati. Dalle finestre e dagli spalti non veniva
alcuna luce. Né suoni né movimenti turbavano il silenzio del castello.
Arrivati in fondo alla valle, la foresta li inghiottì. Luna e stelle
rischiararono il loro cammino tra le ombre profonde, li guidarono verso
la rocca. La strada era costeggiata da una doppia schiera di alberi
antichi e massicci, che torreggiavano sopra di loro come le colonne di
un tempio. Di tanto in tanto incontravano radure ammorbidite dall'erba
fitta e stretti torrenti. Intorno a loro, la notte era immobile e
sonnolenta, e il solo rumore era il fruscio del vento, che si era levato
di nuovo e soffiava su di loro sotto forma di brusche folate, scuotendo
i mantelli e i rami degli alberi come se fossero lenzuola stese ad
asciugare. Bremen continuò a camminare in fretta, senza soste, con un
passo che smentiva la sua età e costituiva una sfida per i suoi
accompagnatori più giovani. Kinson e Mareth si scambiavano occhiate. Il
druido doveva avere fatto appello a una riserva nascosta d'energia. Era
diventato duro e resistente come l'acciaio. L'alba non era ancora sorta
quando raggiunsero Paranor. Rallentarono il passo giungendo in vista del
castello, che parve materializzarsi dai varchi tra gli alberi ed ergere
fino alle stelle la sua massiccia sagoma scura. Nonostante la vicinanza,
non videro alcuna luce. Bremen fece sostare la guaritrice e il
cacciatore della Frontiera in un punto dove le ombre della foresta li
nascondevano. In silenzio, con un'espressione impenetrabile, studiò le
mura e gli spalti. Poi, procedendo al riparo degli alberi, si portò
verso ovest, lungo il perimetro della fortezza. Il vento soffiava
lugubre tra i merli e i pinnacoli, e in basso, tra gli alberi, quel
suono pareva il respiro di un gigante che si avvicinava. Kinson era
madido per la concentrazione, aveva i nervi a fior di pelle, il respiro
affannoso. Arrivati alla porta principale, si fermarono di nuovo. I
battenti erano aperti, la saracinesca alzata: il passaggio buio e
spalancato ricordava vagamente una bocca immobilizzata in un grido
d'orrore. A terra, accanto alla porta, c'erano alcuni corpi contorti e
senza vita. Bremen sporse la testa in avanti, concentrandosi. Fissava la
rocca senza vederla: la sua attenzione era attirata da qualcosa al suo
interno. I capelli grigi gli sferzavano la fronte, arruffati come stami
di granturco. Muoveva le labbra. Da sotto il mantello, Kinson estrasse
la corta spada. Mareth aveva gli occhi dilatati, tutti i muscoli tesi e
pronti a scattare. Poi Bremen fece qualche passo avanti; il gruppo
attraversò lo spazio vuoto tra la foresta e le mura, lentamente, senza
fretta e senza nascondersi. Kinson continuò a guardarsi attorno con
apprensione, ma Bremen non pareva preoccupato. Giunti accanto ai morti,
si chinarono a esaminarli. Erano guardie, e a giudicare dalle ferite
sembrava che fossero state fatte a pezzi da animali feroci. Il terreno
su cui giacevano era impregnato del loro sangue. Impugnavano ancora le
armi, e molte erano spezzate. Dovevano aver combattuto duramente. Bremen
entrò nel passaggio, oltrepassò le porte scardinate e la saracinesca e
laggiù trovò Caerid Lock. Il capitano della Guardia era appoggiato con
la schiena contro la porta della torre di guardia, aveva la faccia
sporca di sangue raggrumato e secco, il corpo trafitto e squarciato da
una decina di ferite. Era ancora vivo. Aprì le palpebre e mosse le
labbra. In fretta, Bremen si chinò ad ascoltarlo. Kinson non udì nulla:
il vento sovrastava le parole del morente. Il vecchio druido sollevò la
testa e chiamò a bassa voce: "Mareth". La fanciulla arrivò subito e si
chinò su Caerid Lock. Non c'era bisogno di dirle cosa ci si aspettava da
lei. Passò rapidamente le mani sul corpo del morente, cercando qualche
modo di aiutarlo. Ma era troppo tardi, neppure la magia empatica poteva
salvarlo. Bremen fece segno a Kinson di venirgli accanto, poi gli parlò
quasi all'orecchio. Intorno a loro, il vento continuava a soffiare
piano, girando attorno alle mura. "Caerid dice che Paranor è stato
tradito dall'interno, di notte, mentre tutti dormivano. I responsabili
sono tre Druidi. Sono morti tutti, meno quei tre. Il Signore degli
Inganni li ha lasciati qui perché si occupassero di noi. Sono nel
castello, da qualche parte. Caerid è riuscito a trascinarsi fin qui, ma
non è riuscito ad andare oltre." "Non penserai di entrare?" si affrettò
a chiedere il cacciatore della Frontiera. "Devo farlo. Devo prendere
l'Eilt Druin" rispose Bremen, con durezza. Kinson non l'aveva mai visto
così deciso e così in collera. "Tu e Mareth aspettatemi qui." Kinson
scosse la testa, con ostinazione. Polvere e minuscoli frammenti gli
colpirono la faccia quando una folata di vento s'insinuò nel passaggio.
"E' una follia, Bremen! Avrai bisogno del nostro aiuto!" "Se dovesse
capitarmi qualcosa, ho bisogno di voi per far sapere a tutti quanto è
successo" rispose Bremen, che si rifiutava di cedere. "Fa' come ti dico,
Kinson!" In un attimo si rimise in piedi e si allontanò: un fagotto di
braccia magre e vesti svolazzanti, che attraversò il cortile per
raggiungere la rocca interna. In pochi istanti s'infilò in una porta e
scomparve. Kinson lo guardò allontanarsi, con un profondo senso di
frustrazione. "Per tutte le ombre!" mormorò, irritato della propria
indecisione. Lanciò un'occhiata a Mareth. La giovane donna stava
chiudendo gli occhi a Caerid Lock. Il capitano era morto. Era un vero
miracolo, pensò Kinson, che fosse sopravvissuto così a lungo. Sarebbe
stata sufficiente una delle sue ferite per uccidere all'istante una
persona normale. L'essere riuscito a sopravvivere tanto a lungo era una
testimonianza della sua forte fibra e della sua volontà. Mareth si era
alzata in piedi e fissava il cacciatore della Frontiera. "Vieni" disse.
"Dobbiamo seguirlo." Kinson si affrettò ad alzarsi e obiettò: "Ma ha
detto di...". "So quello che ha detto. Ma se dovesse capitare qualcosa a
Bremen, che differenza vuoi che faccia, se non andiamo a riferirlo agli
altri?" Kinson serrò le labbra. "Già, che differenza?" Insieme
attraversarono di corsa il cortile vuoto e battuto dal vento, diretti
alla rocca. All'interno del castello, Bremen percorse rapidamente i
corridoi vuoti, silenzioso come una nuvola in cielo. E mentre passava,
esplorò l'ambiente che lo circondava, cercando di cogliere i sapori, gli
odori e i rumori di Paranor. Tese ogni senso e ogni istinto verso il
misterioso pericolo di cui gli aveva parlato Caerid Lock, cercando di
coglierne la presenza e le intenzioni. Ma non riuscì a trovarlo.
Evidentemente, o era ben nascosto o non c'era più. Sii cauto, si disse.
Sii attento. Tutti gli abitanti del castello erano morti: di questo era
certo. Tutti i Druidi, tutte le guardie, tutti coloro che avevano
lavorato e studiato laggiù per tanti anni, tutti coloro che si era
lasciato alle spalle appena quattro giorni prima. La constatazione fu
come un pugno allo stomaco; gli tolse il fiato e la forza, lo lasciò
stordito e incredulo. Tutti morti. Sapeva che poteva succedere, l'aveva
giudicato possibile, ne aveva avuto perfino una visione. Ma la realtà
era assai peggiore. Dappertutto si scorgevano cadaveri, contorti
nell'agonia della morte. Alcuni erano morti di spada. Altri erano stati
fatti a pezzi. Altri ancora, comprese, erano stati portati nei livelli
più bassi della rocca e sepolti vivi laggiù. E nessuno era
sopravvissuto. Nessun battito di cuore gli giunse all'orecchio. Nessuna
voce lo chiamò. Nessuna creatura vivente si mosse. Paranor era un
mattatoio. Paranor era una tomba. Si fece strada in corridoi dove si
udiva soltanto l'eco dei suoi passi e raggiunse la sala del Consiglio.
Là trovò Athabasca, con i lineamenti bloccati dalla morte in un'orribile
smorfia, il corpo un triste mucchio di carne lacerata. Bremen si chinò a
cercare l'Eilt Druin, ma non lo trovò. Si alzò e rifletté. Per la sorte
del Grande Druido provava soltanto tristezza e rimpianto. Nel vederlo
ora, nel vedere che tutti erano morti e che il castello era vuoto,
rimpianse di non avere compiuto altri tentativi, di non essere stato più
deciso, quando aveva cercato di convincerli del pericolo. Provò un
lacerante senso di colpa. Non poté farne a meno. In un certo senso, la
responsabilità dell'accaduto era sua. Lui aveva le conoscenze e i poteri
occorrenti per difendere il castello, e non li aveva usati in modo
convincente. Quel massacro ne era il risultato. Con il lembo della
veste, coprì la faccia di Athabasca, poi si allontanò. Salì alla
biblioteca; cauto e attento, nell'attraversare il castello vuoto tenne
sempre la schiena alla parete e tese l'orecchio ai suoni che potevano
rivelare un pericolo. Il nemico che gli era stato rivelato dalla visione
e da Caerid Lock: i Druidi traditori, che lo aspettavano in qualche
forma a lui sconosciuta. Certo, ma il Signore degli Inganni se n'era
andato, portando con sé i suoi mostri. La magia che si era destata al
loro arrivo, la trappola allestita da Bremen nel Pozzo dei Druidi, s'era
scossa quanto bastava a impaurirli e convincerli ad abbreviare la
permanenza. Concentrandosi, Bremen riusciva ancora a udirlo: il leggero
sibilo della magia che era stata riassorbita nel pozzo, la stessa magia
che dava vita alla rocca e conferiva potere a gran parte degli
incantesimi dei Druidi. Vasta e imprevedibile, concedeva solo una parte
di quanto prometteva, e quella parte era così piccola da risultare quasi
impercettibile, di fronte al mostruoso potere di Brona. Eppure, quella
volta era servita al suo scopo, perché aveva allontanato il druido
ribelle. Bremen sospirò. Da una così piccola vittoria non c'era da
trarre alcun piacere. Brona si era vendicato, e questo era tutto. Aveva
distrutto coloro che l'avevano sconfitto un tempo e che potevano ancora
sfidarlo, ne aveva razziato la cittadella. Adesso non c'era nessuno che
potesse bloccarlo, tranne un vecchio e un pugno di compagni. Forse.
Forse. Entrò nella biblioteca e scorse subito Kahle Rese. Nel vederlo,
pianse silenziosamente, incapace di trattenersi. Coprì anche il volto
del suo vecchio amico, perché non sarebbe riuscito a posare una seconda
volta gli occhi su di lui, poi aprì la porta segreta ed entrò nella
stanza dove erano nascoste le Storie dei Druidi. La stanza era vuota, a
parte il tavolo di lettura e le sedie, e in terra si scorgeva la polvere
che Bremen aveva fornito a Kahle come ultima risorsa: adesso era opaca e
senza vita, a testimonianza del fatto che era stata utilizzata come
previsto. Per un momento, Bremen cercò di immaginare gli ultimi momenti
di vita dell'amico, ma si accorse di non averne il coraggio. Era
sufficiente sapere che le Storie erano al sicuro. Questa constatazione
sarebbe servita da epitaffio al suo vecchio amico. In quel momento udì
qualcosa: un suono proveniente da un livello molto più basso, e così
debole che lo percepì con l'istinto, più che con l'udito. Si affrettò a
uscire dalla stanza, perché sentiva che il tempo a sua disposizione
all'interno di Paranor stava finendo. Doveva trovare l'Eilt Druin: non
gli rimaneva altro. Athabasca non l'aveva al collo e c'era il rischio
che gli fosse stato strappato via, ma Bremen non ci credeva. Caerid Lock
gli aveva detto che erano stati assaliti di notte, e che non erano
preparati. Athabasca doveva essere stato svegliato mentre dormiva: certo
non aveva perso tempo a infilarsi il collare col pendente.
Probabilmente, l'Eilt Druin era ancora nelle sue stanze. Bremen salì
fino allo studio del Grande Druido, silenzioso e muto come uno spettro
in mezzo a tutti quei morti. Gli pareva di non avere peso, né sostanza,
né presenza, di essere un'entità staccata dal mondo, un pazzo che
giocava col fuoco senza sapere come proteggersi dalle inevitabili
bruciature. Era stanco, sordo ai suoi precedenti timori per la sorte del
mondo. Si era assunto un compito disperato: inventare una magia,
forgiare un talismano capace di contenerla, trovare un campione che lo
brandisse. Ma che possibilità aveva? che speranze? La porta della stanza
di Athabasca era aperta: Bremen entrò con circospezione. Guardò
inutilmente negli scaffali e sulla scrivania, controllò anche negli
armadietti e tra gli schedari. Poi, temendo di essere arrivato tardi
anche per il medaglione, si affrettò a raggiungere la camera da letto
del Grande Druido. E laggiù, posato su un tavolino da notte, dimenticato
nella concitazione che aveva portato Athabasca dal sonno alla morte,
c'era l'Eilt Druin. Bremen lo raccolse e lo esaminò per controllare che
fosse reale e non un'immagine magica; il metallo lucido rifletté la
luce. Passò le dita sulle figure in rilievo, la mano e la torcia
fiammeggiante, poi se l'infilò in una tasca e uscì dalla stanza.
Percorse in senso inverso i corridoi e le scale dell'andata, continuando
a guardarsi intorno, ad ascoltare, a muoversi con cautela. Se era
arrivato fino all'Eilt Druin senza incontrare nessuno, forse poteva
evitare coloro che erano stati messi di guardia. Silenzioso come una
nube, attraversò i corridoi bui del castello passando in mezzo ai morti,
accanto alle ombre che si addensavano negli angoli e ai corpi spinti
verso le porte e contro le pareti. Poi notò anche il chiarore che
cominciava a diffondersi nel cielo di levante e che si poteva vedere
distintamente attraverso i vetri piombati. L'alba era ormai vicina.
Bremen inalò l'aria pesante che sapeva di muffa e desiderò il profumo e
il sapore della foresta che si stendeva attorno alla rocca. Giunse
finalmente allo scalone principale e cominciò a scendere. Era giunto a
metà tra due piani, quando colse un movimento sul vasto pianerottolo
sotto di lui. Rallentò fino a fermarsi, e attese. Il movimento si
ripeté, si staccò dal buio, formò una nuova specie di ombra, una forma
diversa. La creatura che apparve era soltanto vagamente umana. Braccia,
gambe, torso e testa erano coperte di folto pelo nero, irto e pungente,
contorto come rami di rovo, spesso e deforme. Aveva artigli e zanne
seghettati che luccicavano come ossa spezzate e occhi in cui brillavano
macchie rosse e verdi. La creatura gli sussurrava qualcosa, lo chiamava
e lo supplicava con una disperazione quasi tangibile. Breeemen.
Breeemen. Breeemen. Il vecchio druido lanciò rapidamente un'occhiata al
pianerottolo superiore, perfettamente visibile dalla sua posizione, e
scorse un'altra di quelle creature, immagine speculare della prima, che
usciva strisciando dal buio. Breeemen. Breeemen. Breeemen. Entrambe
misero il piede sugli scalini: una per salire, l'altra per scendere.
L'avevano intrappolato. Non c'erano porte da cui fuggire, occorreva
salire o scendere, affrontare una delle due. Avevano aspettato che
uscisse, comprese. Avevano lasciato che terminasse quello che doveva
fare, che prendesse ciò che gli serviva, poi l'avevano attaccato. Era
stato il Signore degli Inganni a preparare la trappola, perché voleva
sapere cosa fosse tanto importante da spingerlo a tornare indietro,
quale oggetto prezioso, quale formula magica potesse avere tanto valore.
Scopritelo, aveva ordinato il Signore degli Inganni, poi strappatelo al
suo cadavere e portatelo a me. Bremen guardò prima una e poi l'altra. Un
tempo erano Druidi, e adesso mostruosità senza nome. Pazzi omicidi,
spogliati della loro umanità e ricostruiti per svolgere un ultimo
compito. Era difficile rattristarsi per la loro sorte. Un tempo erano
esseri umani, quando avevano tradito la rocca e i suoi abitanti. In quel
momento erano sufficientemente liberi da poter scegliere. Ma erano in
tre, si rammentò all'improvviso. Dov'era la terza? Avvertito da un sesto
senso, da un istinto affilato come un rasoio, guardò in alto proprio
mentre il mostro si lanciava su lui, dal suo nascondiglio in una nicchia
fra le pietre della parete. Bremen si gettò di lato, e la creatura finì
contro gli scalini, con uno schianto secco di ossa spezzate. Però non
rinunciò all'attacco. Si alzò in una confusione di zanne e di artigli,
stridendo e soffiando, e si lanciò contro di lui. Bremen agì d'istinto,
scagliando il Fuoco Magico che gli serviva di difesa, sotto forma di una
grande fiamma azzurra che avviluppò la creatura. Neppure quella, però,
fu sufficiente a fermare il mostro, che continuò ad avanzare, benché
fosse avvolto nella fiamma, i peli che lo coprivano ardessero come una
torcia, la pelle crepitasse e si staccasse dal corpo. Stupito che
riuscisse ancora a muoversi, spaventato dalla sua vitalità, Bremen colpì
di nuovo. Il mostro si lanciò contro di lui, e il druido dovette
buttarsi di lato per evitare l'impatto. Cadde sullo scalino, scalciando
disperato. Alla fine, anche la vitalità del mostro finì per esaurirsi.
Non riuscì più a reggersi e rotolò lungo la scala, per finire nella
tromba delle scale e scomparire alla vista. Ne rimase solo un chiarore
proveniente dal fondo buio. Bremen si rialzò, dolorante per le
scottature e per i graffi. Gli altri due assalitori continuarono ad
avvicinarsi lentamente, a piccoli passi, come gatti col topo. Bremen
cercò di evocare di nuovo la magia difensiva, ma per proteggersi dal
primo assalitore aveva consumato tutte le sue energie. Sorpreso dalla
sua ferocia, aveva usato più forza del necessario. Adesso non gliene
rimaneva quasi più. Le due creature dovevano averlo capito. Accelerarono
l'avanzata, ansimando soddisfatte. Bremen si appoggiò alla parete e le
guardò avvicinarsi. In quello stesso momento, Kinson e Mareth
scivolavano in silenzio lungo i corridoi della rocca, alla ricerca di
Bremen. C'erano morti dappertutto, ma non c'era traccia del vecchio
druido. Anche se tendevano l'orecchio e aguzzavano gli occhi, non
riuscivano a trovarlo. Kinson cominciava a preoccuparsi. Se c'era
davvero qualche creatura demoniaca dentro la rocca, in attesa degli
intrusi, c'era il rischio che li trovasse. Ossia che li trovasse prima
di Bremen, e allora il druido sarebbe stato costretto a venire in loro
aiuto. O Bremen era già caduto vittima dei suoi nemici, senza fare
rumore? Che fosse già tardi? Non avrebbe dovuto permettere a Bremen di
allontanarsi da solo! Passarono in mezzo ai corpi delle guardie che
avevano tentato l'ultima resistenza lungo la scala principale e
proseguirono verso i piani più alti. Non videro nulla. Le scale
continuavano a salire, nella penombra, e parevano non avere mai fine.
Mareth si teneva contro la parete per vedere meglio quello che le stava
davanti, mentre Kinson si guardava alle spalle convinto che un eventuale
attacco sarebbe arrivato da quella direzione. Aveva le mani e la faccia
madidi di sudore. Dov'è Bremen? Poi, sopra di loro, qualcosa si mosse:
una leggera variazione della luce, uno spostamento di ombre. Kinson e
Mareth s'immobilizzarono. Uno strano gemito arrivò fino a loro.
Breeemen. Breeemen. Breeemen. Si scambiarono un'occhiata, poi ripresero
a salire. Qualcosa piombò sulle scale, sopra di loro: un corpo pesante,
ancora troppo lontano perché si potesse vederlo, ma abbastanza vicino
per immaginarlo. Un lampo di fuoco azzurro brillò nel buio. Echeggiò un
gemito, seguito da un tonfo sordo. Qualche istante più tardi, una palla
di fuoco precipitò nella tromba delle scale e passò davanti a loro: una
creatura vivente, anche se ormai le rimaneva poco da vivere.
Contorcendosi per il dolore, si schiantò sul pavimento, sotto di loro.
Lasciando da parte ogni cautela, Mareth e Kinson si lanciarono per le
scale e dopo qualche istante scorsero Bremen, sulla rampa più alta,
intrappolato fra due orrende creature che si dirigevano verso di lui
dall'alto e dal basso. Il vecchio druido era ustionato, insanguinato e
chiaramente allo stremo delle forze. Il Fuoco Magico ardeva sulla punta
delle sue dita, ma si rifiutava di accendersi. Le due creature che lo
attaccavano se la prendevano comoda. Tutti e tre si voltarono con
stupore nell'udire il cacciatore della Frontiera e la fanciulla
avvicinarsi. "No, no! Tornate indietro!" gridò Bremen, nel vederli. Ma
invece di ascoltarlo, Mareth raggiunse il pianerottolo più basso con uno
scatto prodigioso, lasciando dietro di sé l'esterrefatto Kinson. Posò
saldamente i piedi in terra e si abbassò, simile a una molla che si
prepara a scattare. Sollevò le braccia e tese le mani, con il palmo
verso l'alto come a chiedere aiuto al cielo. Kinson esalò il respiro,
costernato, e cercò di raggiungerla. Cosa le era venuto in mente? Il
mostro più vicino alla giovane donna soffiò minacciosamente, si girò su
se stesso e si gettò su di lei, scendendo gli scalini con la velocità
del pensiero, gli artigli pronti a colpire. Kinson gridò per la
disperazione. Era troppo lontano! Poi Mareth parve esplodere. Ci fu uno
schianto impressionante, che echeggiò nello spazio ristretto, e l'onda
d'urto sbatté Kinson contro la parete. Non riuscì più a vedere Mareth,
né Bremen, né i mostri. Dal punto dove si trovava la fanciulla partì una
saetta, un fulmine azzurro incandescente che raggiunse la creatura più
vicina e la fece a pezzi. Poi colpì la seconda, che stava ormai per
raggiungere Bremen, e la spazzò via come una foglia trascinata dal
vento. La creatura lanciò un grido di terrore e venne consumata dal
fuoco, ma la fiamma non si spense ancora, e lambì le pietre delle pareti
e delle scale, divorando l'aria e trasformandola in fumo. Kinson si
riparò gli occhi con una mano e si sforzò di alzarsi. Il fuoco si
spense, sparì in un istante. Rimase solo il fumo: una spessa nube scura
che invadeva l'intera scala. Kinson salì di corsa gli ultimi scalini e
trovò Mareth svenuta sul pianerottolo. La sollevò e prese tra le braccia
la sua forma inerte. Cosa le era successo? Cosa aveva fatto? Era leggera
come una piuma, il suo piccolo viso era pallido e sporco di fuliggine, i
suoi corti capelli neri erano una sorta di casco bagnato attorno alla
sua faccia. Gli occhi erano semichiusi e fissi. Attraverso la fessura
delle palpebre, vide che erano bianchi. Accostò la faccia alla sua e non
riuscì a percepìre il respiro. Non riuscì a sentire neppure il battito
del polso. Materializzandosi dalla foschia, scarmigliato e con gli occhi
di un pazzo, Bremen comparve all'improvviso davanti a lui. "Portala via
di qui!" gridò. "Ma non credo che sia in grado..." cercò di protestare
il cacciatore della Frontiera. "Svelto, Kinson!" tagliò corto Bremen.
"Subito, se vuoi che si salvi, portala fuori dal castello! Va'!" Kinson
si volse, senza fare parola, e corse giù per le scale, con Mareth tra le
braccia. Lo seguiva Bremen, in un turbinio di vesti stracciate. Scesero
fino al cortile della rocca, incespicando, tossendo e soffocando per il
fumo, con gli occhi che lacrimavano. Poi Bremen udì una sorta di basso
brontolio nelle profondità della terra. Era il rumore di qualcosa che si
svegliava, una cosa enorme e rabbiosa, talmente vasta da risultare
inimmaginabile. "Corri!" incitò ancora una volta Bremen, anche se
l'invito era superfluo. Insieme, l'uomo della Frontiera e il druido
lasciarono il buio e il fumo della morta Paranor per raggiungere la luce
del giorno e la vita.
Parte seconda
LA RICERCA DELLA PIETRA NERA DEGLI ELFI
8
Dopo avere lasciato Bremen, Tay Trefenwyd proseguì verso ovest lungo il
Mermidon, attraversando i monti che costituivano il braccio meridionale
dei Denti del Drago. Al tramonto si accampò al loro riparo, e allo
spuntar del giorno riprese il viaggio. La nuova giornata prometteva di
essere chiara e tiepida: nella notte, il vento aveva ripulito l'aria di
ogni traccia di nuvole, il sole era abbagliante. L'elfo lasciò le ultime
alture ai piedi dei monti, raggiunse le pianure erbose sotto le
Streleheim e si preparò ad attraversarle. Davanti a sé riusciva già a
scorgere le foreste della Terra dell'Ovest e, al di là di quelle, le
Montagne dello Sperone Roccioso, con le vette coperte di bianco.
Arborlon distava una giornata di marcia; Tay camminò senza affrettarsi,
con i pensieri rivolti a quanto era successo dal ritorno di Bremen a
Paranor. Tay Trefenwyd era amico del vecchio druido da quindici anni,
addirittura da prima di Risca. L'aveva conosciuto a Paranor, quando ne
faceva ancora parte e lui era appena arrivato da Arborlon come
apprendista druido. Bremen era già vecchio a quel tempo, ma aveva un
carattere più ostinato e una lingua assai più tagliente di oggi. A
quell'epoca era una fiaccola che bruciava di verità evidenti per lui, ma
incomprensibili per tutti gli altri. I Druidi di Paranor non gli davano
retta e lo giudicavano un po' pazzo. Soltanto Kahle Rese e pochi altri
attribuivano un grande valore alla sua amicizia e ascoltavano con
pazienza i suoi discorsi; gli altri, in generale, cercavano di evitarlo.
Non Tay, però. Dal momento che l'aveva conosciuto, l'elfo ne era rimasto
affascinato. Ecco una persona che giudicava importante, addirittura
indispensabile, fare qualcosa di concreto per i problemi delle Quattro
Terre, invece di limitarsi alle chiacchiere. Non bastava studiare e
discutere, occorreva anche agire. Bremen pensava che l'originaria
politica dei Druidi fosse la migliore, che il Primo Consiglio fosse nel
giusto, quando si era votato al progresso delle Razze. Il disimpegno era
un errore, destinato a costare caro a tutti. Tay capiva perfettamente
queste posizioni e ne era convinto. Al pari di Bremen, studiava le
antiche leggende, le conoscenze delle creature di Faerie, gli impieghi
della magia nel mondo che aveva preceduto le Grandi Guerre. Al pari di
Bremen era convinto che un potere corrotto fosse doppiamente mortale e
che il druido ribelle Brona vivesse sotto un'altra forma e intendesse
ritornare per sottomettere le Quattro Terre. Erano opinioni pericolose e
impopolari, e alla fine erano costate a Bremen il posto fra i Druidi. Ma
prima di essere bandito, aveva fatto di Tay un alleato. Tra i due si era
subito stretto un forte legame e il vecchio aveva preso il giovane come
allievo: per lui era stato un insegnante con un corpo di conoscenze così
vasto da sfidare qualsiasi catalogazione. Tay eseguiva i compiti e
completava gli studi assegnati a lui dal Consiglio e dagli anziani della
sua Razza, ma il suo tempo libero e il suo entusiasmo li serbava quasi
esclusivamente per Bremen. Benché in contatto fin dalla giovinezza con
la storia e le leggende della loro razza, in genere gli Elfi di Paranor,
quelli che erano entrati nell'ordine dei Druidi, non erano aperti come
Tay alle possibilità suggerite da Bremen. Del resto, pochi di loro
possedevano un talento altrettanto grande. Tay aveva cominciato a
sviluppare le sue abilità magiche ancor prima di arrivare a Paranor, e
sotto la guida di Bremen era progredito così rapidamente da superare
tutti, tolto il suo mentore. Neppure Risca, dopo il suo arrivo, aveva
raggiunto il livello di Tay, forse perché era troppo legato alle sue
arti marziali per accettare fino in fondo l'idea che la magia fosse
un'arma ancor più potente. I suoi primi cinque anni al castello erano
stati i più ricchi di emozioni per il giovane elfo e il suo pensiero era
stato irrevocabilmente plasmato da quanto aveva appreso allora. Aveva
dovuto tenere segrete gran parte delle sue capacità e delle sue
conoscenze, a causa del divieto dei Druidi di coltivare le arti magiche,
tranne che come studio astratto. Per Bremen, quel divieto era una
sciocchezza, un frutto dell'ignoranza, ma le sue idee erano sempre
minoritarie; e tutto, a Paranor, era retto dalle decisioni del
Consiglio. Di conseguenza, Tay aveva studiato per conto suo le pratiche
che Bremen gli aveva insegnato, le aveva tenute in grande considerazione
e non ne aveva parlato ad altri. Quando Bremen era stato esiliato e
aveva deciso di recarsi tra gli Elfi per proseguire laggiù i suoi studi,
Tay si era offerto di accompagnarlo, ma il druido non aveva accettato.
Non gliel'aveva proibito, ma gli aveva chiesto di riflettere. Anche
Risca avrebbe voluto accompagnarlo, ma Bremen aveva voluto affidare a
entrambi un compito più importante. Restate a Paranor, siate i miei
occhi e le mie orecchie. Perfezionate le vostre capacità magiche e
cercate di convincere gli altri Druidi della realtà del pericolo. Quando
sarà il momento di lasciare il castello, verrò a prendervi. E Bremen
aveva mantenuto la parola, cinque giorni addietro: Tay, Risca e la
giovane Mareth erano riusciti a fuggire in tempo. Gli altri, tutti
quelli che l'elfo e il nano avrebbero dovuto convincere, tutti quelli
che avevano dubitato di Bremen e l'avevano disprezzato, con molta
probabilità non s'erano salvati. Naturalmente, Tay non poteva saperlo
con certezza, ma sentiva in cuor suo che la visione di Bremen riguardava
fatti ormai accaduti. Sarebbero passati alcuni giorni prima che gli Elfi
potessero accertarsene, ma Tay era convinto che tutti i Druidi fossero
morti. In qualsiasi caso, la partenza con Bremen significava la fine
della sua permanenza a Paranor. Vivi o morti che fossero gli occupanti
della rocca, per il momento non vi sarebbe tornato. Il suo posto era
fuori di lì, nel mondo, a svolgere i compiti assegnatigli da Bremen per
la sopravvivenza delle Razze. Il Signore degli Inganni era uscito allo
scoperto, si era rivelato a coloro che avevano occhi per vedere e
istinti da ascoltare, e si dirigeva a sud. La Terra del Nord e i Troll
erano già suoi, e adesso avrebbe cercato di sottomettere le altre Razze.
Ciascuno di loro - Bremen, Risca, Mareth, Kinson Ravenlock e lui aveva
la responsabilità di fermarlo. Ciascuno doveva resistere e lottare sul
terreno assegnato. A lui era toccata la Terra dell'Ovest, la sua casa.
Vi faceva ritorno per la prima volta dopo quasi cinque anni. In quel
periodo i suoi genitori erano invecchiati. Il fratello più giovane si
era sposato e si era trasferito nel Sarandanon. Alla sorella era nato un
secondo figlio. Molte cose erano cambiate durante la sua assenza e
avrebbe trovato un mondo diverso da quello che aveva lasciato. E,
soprattutto, altri cambiamenti sarebbero venuti con le notizie da lui
portate: cambiamenti assai superiori a quelli avvenuti in sua assenza, e
molti non li avrebbero accolti con piacere. Non gli avrebbero certamente
dato il benvenuto, una volta al corrente del motivo del suo ritorno.
Avrebbe dovuto affrontare la situazione con cautela, scegliere bene gli
amici e gli alleati. Ma Tay Trefenwyd era sempre stato abile in questo.
Era una persona semplice e affabile, che sapeva comprendere i problemi
degli altri e aveva sempre fatto del suo meglio per aiutare tutti. Non
era polemico come Risca, né ostinato come Bremen. A Paranor era amato da
tutti, nonostante il sodalizio con gli altri due. Tay era guidato da
salde convinzioni e da una forte etica del lavoro, ma non si era mai
proposto come un esempio da seguire. Accettava le persone com'erano,
scoprendone i lati positivi e trovando il modo di usarli. Neppure
Athabasca aveva mai litigato con lui: vedeva in lui ciò che sperava ci
fosse anche nei suoi facinorosi amici. Tay aveva mani grandi, forti come
il ferro, ma cuore gentile. Nessuno si era mai sognato di scambiare la
sua gentilezza per debolezza, e lo stesso Tay faceva in modo che non ci
fossero equivoci. Sapeva quando era il momento di resistere e quando era
meglio cedere. Era sempre stato abilissimo nel conciliarsi le simpatie e
nel trovare compromessi, e nei giorni seguenti avrebbe dovuto fare
appello a queste sue capacità. Ripassò l'elenco di quello che doveva
fare, riflettendo sulle sue varie incombenze, a una a una. Doveva
convincere il re, Courtann Ballindarroch, a organizzare una spedizione
per cercare la Pietra Nera degli Elfi. Doveva convincere il re a inviare
l'esercito in soccorso dei Nani. Doveva fargli capire che la situazione
era tale da stravolgere le Quattro Terre in modo irrevocabile. Continuò
a camminare nella prateria pensando a quali potessero essere quei
cambiamenti, puntando a nordovest, verso le foreste che costituivano la
frontiera della sua terra, sorridendo tra sé e fischiettando un
motivetto. Non sapeva ancora come avrebbe fatto per ottenere quei
risultati, ma la cosa non aveva importanza. Un modo l'avrebbe trovato.
Bremen contava su di lui e Tay non intendeva deluderlo. Le ore del
giorno trascorsero lente e il sole sparì dietro i lontani monti
dell'Ovest. Tay lasciò il Mermidon quando giunse ai margini della
foresta, ai piedi del Pykon: di lì si diresse a nord. Poiché era già
buio e non riusciva a vedere lontano, si mantenne sotto la protezione
degli alberi mentre proseguiva il cammino e si affidò alle sue capacità
di druido. Tay era un esperto di forze elementari, uno studioso dei modi
in cui la magia e la scienza interagivano nell'equilibrio delle quattro
componenti del mondo naturale: terra, aria, fuoco e acqua. Comprendeva
bene la loro simbiosi, il modo in cui operavano insieme per creare e
promuovere la vita, o si proteggevano reciprocamente quando erano
disturbate. Tay aveva studiato le regole per trasformare un elemento
nell'altro, per annullarli o per crearli. Nel suo rapporto con le forze
elementari era diventato estremamente specifico: nel modo in cui gli
elementi risultavano disturbati, era in grado di leggere i moti degli
oggetti e di scoprire la presenza delle persone. Riusciva anche a
leggere nel pensiero. A grandi linee, riusciva a ricostruire la storia e
a proiettarla nel futuro per ottenere previsioni, cosa alquanto diversa
dalle visioni, perché non comportava alcun legame con il mondo dei morti
o con il piano spirituale, ma dipendeva soltanto dalle leggi terrestri,
dalle linee di forza che avvolgevano il mondo e legavano tra loro tutte
le cose con rapporti di azione e reazione, causa ed effetto, scelte e
conseguenze. Una pietra lanciata in uno stagno produce un'onda che si
allarga a tutta la superficie e lo stesso effetto viene prodotto da
qualunque evento che alteri gli equilibri del mondo. Per quanto l'evento
sia piccolo, produce un cambiamento. Tay aveva imparato a leggere quei
cambiamenti e a interpretarne il significato. Così ora, mentre
attraversava la foresta ammantata dal buio della notte, osservando la
direzione del vento, gli odori ancora presenti sulle foglie e le
vibrazioni che increspavano la superficie della terra, sapeva che un
nutrito gruppo di Gnomi era passato di lì e che adesso sostava in
qualche punto della foresta, davanti a lui. Proseguendo nel cammino, la
percezione della loro presenza divenne sempre più forte. S'infilò dove
la vegetazione era più folta, tese i sensi per cogliere la loro
presenza, e di tanto in tanto sondò la terra alla ricerca di una traccia
di calore del loro corpo: nel farlo, la magia di cui si serviva prendeva
la forma di sottili scie incorporee, simili a fumo o a piume
leggerissime, che gli si formavano nel petto per uscirgli infine dalle
punte delle dita. Poi rallentò il passo fino a fermarsi, perché aveva
percepìto qualcosa di nuovo. In attesa di riconoscerne la natura, si
mantenne perfettamente immobile. Sentì un gelo profondo, un
inconfondibile avvertimento di ciò che si avvicinava, e pochi istanti
più tardi lo vide comparire in volo sopra di sé, a malapena visibile tra
il fogliame. Era un cacciatore alato, uno dei Messaggeri del Teschio che
servivano il Signore degli Inganni. Volava lento e pesante sullo sfondo
nero della notte, alla ricerca di qualcosa, anche se non di una preda in
particolare. Tay si impose di rimanere fermo, di resistere all'impulso
di fuggire, e calmò le proprie emozioni perché la creatura non le
scoprisse. Il Messaggero del Teschio descrisse un ampio cerchio, fece
ritorno su Tay e la sua forma alata occultò nuovamente il chiarore delle
stelle. Tay rallentò il respiro, il battito del cuore, i pensieri, in
modo da scomparire nel buio e nell'immobilità della foresta. Infine il
mostro alato si allontanò, diretto a nord. Per unirsi alle creature ai
suoi ordini, pensò Tay. Non era un buon segno che i servitori del
Signore degli Inganni si fossero spinti così a sud, fin quasi a sfiorare
il regno degli Elfi. Faceva pensare che non considerassero più un
pericolo la presenza dei Druidi e che fosse ormai imminente
quell'invasione che Bremen prevedeva da anni. Trasse un profondo respiro
e aspettò qualche istante prima di esalarlo. E se Bremen si fosse
sbagliato, e l'invasione non fosse diretta contro i Nani, bensì contro
gli Elfi? Rifletté su questa eventualità mentre proseguiva e continuava
a cercare gli Gnomi. Li trovò venti minuti più tardi, accampati ai
margini dei Boschi Grigi. Non c'erano fuochi ed erano state piazzate
sentinelle ogni poche decine di passi. In alto il Messaggero del Teschio
continuava a descrivere grandi cerchi. Sembrava che preparassero
un'incursione, ma Tay non riusciva a immaginare contro chi. Non c'erano
molti luoghi da assalire, così vicino alle pianure, a parte qualche
fattoria isolata, e quegli intrusi non si sarebbero certo scomodati per
così poco. Comunque, era assai preoccupante trovare Gnomi dell'Est, per
di più accompagnati da un Messaggero del Teschio, così a occidente e
così vicini ad Arborlon. Tay si avvicinò fino a poterli vedere
chiaramente, e li spiò per qualche tempo per cercare di capire qualcosa,
ma non riuscì a scoprire nulla, perciò li contò con cura e si allontanò.
Rifece in senso inverso il cammino dell'andata finché non fu a distanza
di sicurezza, trovò una macchia di abeti ben riparata, strisciò sotto i
rami del più frondoso e si addormentò. Quando si svegliò era già mattino
e gli Gnomi erano ripartiti. Dal suo nascondiglio, controllò
accuratamente che non ne fossero rimasti, poi uscì e si diresse al loro
accampamento. Le tracce si addentravano nei Boschi Grigi. Il Messaggero
del Teschio era con loro. Si chiese se fosse il caso di seguirli, poi
decise di no. In quel momento aveva già troppe incombenze, e non era il
caso che ne aggiungesse un'altra. Inoltre, dove c'era un gruppo di
armati potevano essercene altri ed era importante avvertire gli Elfi
della loro presenza, il più rapidamente possibile. Così, Tay proseguì a
nord, mantenendosi sotto la protezione degli alberi, e procedendo con
lunghe falcate che divoravano le distanze. Prima di mezzogiorno
raggiunse la Valle di Rhenn e piegò a ovest, lungo il suo ampio
corridoio naturale. Quella valle era la porta che conduceva ad Arborlon
e all'Occidente, e certo gli Elfi avevano disposto qualche pattuglia
alla sua imboccatura. Nella parte più a est, il terreno era molto
invitante, una dolce distesa d'erba fra due catene di basse colline, ma
presto la valle si restringeva, il terreno saliva rapidamente, e le
colline si alzavano fino a diventare alte rupi a strapiombo. Quando si
arrivava all'estremità occidentale, si scopriva di trovarsi in mezzo a
una morsa. La Valle di Rhenn offriva agli Elfi una difesa naturale
contro un nemico proveniente dall'est. Poiché tanto a nord quanto a sud
il terreno era montuoso e coperto di folte foreste, quella valle era la
sola via che consentisse a un esercito di una certa consistenza di
entrare o uscire dalla Terra dell'Ovest. Naturalmente, era sempre ben
controllata e Tay si aspettava che qualcuno lo intercettasse. Non
dovette aspettare molto. Era a metà del corridoio verde della valle
quando un drappello di Elfi a cavallo uscì al galoppo dal passo per
dargli l'"alto là", ma tirarono le redini e lo salutarono a gran voce
non appena lo riconobbero. Quei cavalieri erano suoi vecchi amici e lo
accolsero con calore. Gli diedero un cavallo e lo accompagnarono al loro
campo, sul passo; lassù, il comandante mandò un messaggero ad Arborlon
per dare la notizia del suo arrivo. Tay riferì di aver visto gli Gnomi,
ma non fece parola del Messaggero del Teschio, perché voleva dare
l'informazione direttamente a Ballindarroch. Il comandante, che non
aveva ricevuto alcun rapporto, mandò subito alcuni cavalieri a sud in
perlustrazione. Poi fece portare da mangiare e da bere per Tay e gli
tenne compagnia mentre consumava il pasto, rispondendo alle sue domande
su Arborlon e aggiornandolo sugli avvenimenti di cui gli chiedeva
notizia. Il comandante parlava con tranquillità, senza soffermarsi molto
sui vari eventi. Sì, era giunta voce di qualche movimento dei Troll
sulle Streleheim, ma niente di sicuro, e certo così a sud non se n'erano
visti. Tay non gli parlò del Signore degli Inganni né di Paranor, e
quando ebbe terminato il pasto chiese di proseguire il cammino. Il
comandante gli offrì un cavallo e due uomini di scorta; lui accettò la
prima offerta, declinò la seconda e ripartì subito. Nel tragitto fino ad
Arborlon, rifletté su quanto aveva appreso. Voci, niente di concreto.
Spettri e ombre. Il Signore degli Inganni era inafferrabile come il
fumo, ma Tay aveva visto il Messaggero del Teschio e gli Gnomi, e Bremen
aveva visto Brona nella sua fortezza del Nord, ed erano assai reali.
Bremen pareva certo di quanto stava per succedere, e spettava a Tay
convincere gli Elfi di questo. La strada da lui presa si snodava
serpeggiando nelle foreste dell'Ovest, aggirava le macchie più fitte e
gli alberi più grandi, evitava i laghetti e i ruscelli, saliva e
scendeva a seconda della conformazione del terreno. Il sole illuminava a
chiazze la foresta, colorando di strisce chiare i tronchi degli alberi e
i prati fioriti, insinuando lunghe dita di luce in mezzo alle ombre.
Come bandiere e stendardi, parevano voler salutare il ritorno di Tay
Trefenwyd. In risposta, l'elfo si sfilò il mantello e sentì il sole
scendergli come una calda coperta sulle ampie spalle. Lungo la strada
incontrò altri viandanti, uomini e donne che si spostavano tra i vari
villaggi, mercanti e artigiani che andavano al lavoro. Alcuni lo
salutarono, altri si limitarono a guardarlo. Ma tutti erano Elfi, e
ormai da molto tempo Tay non si trovava fra la propria razza. Gli faceva
una strana impressione: tante persone simili a lui, e nessuna diversa.
Era ormai nei pressi di Arborlon, nelle ore calme e lente di metà
pomeriggio, e il calore della giornata primaverile cominciava a pesare
su di lui anche sotto gli alberi della foresta, quando scorse davanti a
sé un cavaliere. Il nuovo venuto uscì da una macchia di luce in cima a
un'altura e si lanciò verso di lui al galoppo, con il mantello che
frustava l'aria e i capelli al vento. Agitò vigorosamente un braccio in
segno di saluto e lanciò un grido di benvenuto. Tay lo riconobbe subito,
sorrise e sollevò il braccio per salutare a sua volta, spronando il
cavallo. I due si incontrarono in mezzo a una nube di polvere, tirarono
le redini e balzarono a terra per correre ad abbracciarsi. "Sei proprio
Tay Trefenwyd, quant'è vero che sono vivo!" Il nuovo venuto prese per le
braccia l'alto e allampanato Tay e lo sollevò come un bambino, facendolo
dondolare un paio di volte e posandolo poi a terra con un brontolio.
"Per tutte le ombre!" esclamò. "Non fai altro che mangiare, quando sei
via! Pesi come un cavallo!" Tay strinse la mano al suo migliore amico.
"Non sono stato io a diventare pesante, ma tu a diventare fiacco!
Perdigiorno!" L'altro gli strinse la mano ancora più forte. "Bentornato.
Mi sei mancato!" Tay fece un passo indietro, per guardarlo bene. Come
per tutti coloro che aveva lasciato ad Arborlon, erano passati cinque
anni dall'ultima volta che l'aveva visto. E Jerle Shannara era la
persona che gli era mancata maggiormente, ancor più dei suoi familiari.
Era il suo più vecchio amico, il suo compagno inseparabile quando erano
due ragazzi che crescevano insieme nelle Terre dell'Ovest, la sola
persona a cui potesse raccontare tutto di sé, la sola a cui avrebbe
affidato la propria vita. Il legame tra loro si era formato presto ed
era sopravvissuto perfino agli anni di separazione, quando Tay era
andato a Paranor e Jerle era rimasto ad Arborlon. Essendo cugino primo
del re Courtann Ballindarroch, era destinato fin dalla nascita a servire
il trono. Jerle Shannara era un guerriero nato. Di statura imponente per
un elfo, robusto di corpo e di braccio, dotato di riflessi veloci come
quelli di un gatto nonostante la taglia, con gli istinti del lottatore.
Si addestrava alle armi fin da quando aveva mosso i primi passi, era
innamorato della lotta, affascinato dalle emozioni e dalla sfida della
battaglia. Ma in lui c'era assai più della forza bruta e del fisico
imponente. Era intelligente. Era astuto. Era un avversario implacabile.
La sua dedizione al lavoro era prodigiosa. Da se stesso pretendeva
sempre il massimo, indipendentemente dall'importanza del compito e dalla
presenza di testimoni. Ma, soprattutto, Jerle Shannara non sapeva cosa
fosse la paura. Era qualcosa nel suo sangue, o nel modo in cui era
cresciuto, o forse in entrambi, ma a memoria di Tay non era mai
indietreggiato davanti a nulla. Formavano una strana coppia, rifletté
ora Tay. Simili di statura e aspetto, tutt'e due più alti della media,
biondi e snelli, cresciuti con grandi aspettative delle rispettive
famiglie, erano però completamente diversi. Tay non si scaldava mai e
cercava sempre di comporre le situazioni difficili; Jerle era pronto a
montare in collera e a polemizzare con tutti, e - in un modo che poteva
risultare assai irritante - non era mai disposto a cedere in una
discussione. Tay era cerebrale, affascinato dai problemi complessi e
dagli enigmi che sfidano e confondono l'intelligenza; Jerle era fisico e
preferiva le gare e la lotta, si fidava della rapidità di decisione e
dell'intuito. Tay aveva sempre pensato di andare a studiare presso i
Druidi di Paranor; Jerle aveva sempre aspirato a diventare capitano
della Guardia Reale, il gruppo scelto dei Cacciatori degli Elfi che
proteggeva il re e la sua famiglia. Erano due personalità assai diverse,
con interessi e aspirazioni lontanissimi tra loro, ma qualcosa, nella
loro natura, li legava al pari di un vincolo di sangue o di un dettato
del destino. "Così, sei tornato" commentò Jerle, lasciando Tay per fare
un passo indietro. Con una mano massiccia si ravviò i capelli biondi e
ondulati e rivolse all'amico un sorriso impertinente. "Hai messo
finalmente un po' di buon senso? Quanto ti fermerai?" "Non lo so, ma
certo non tornerò a Paranor. La situazione è cambiata." Jerle non
sorrise più. "Davvero? Raccontami tutto." "Ogni cosa a suo tempo, e
lasciami fare a modo mio. Sono qui per uno scopo ben preciso. Mi manda
Bremen." "Allora si tratta di qualcosa di serio." Jerle aveva conosciuto
il vecchio druido ad Arborlon. S'interruppe per un istante, poi chiese:
"Riguarda l'entità chiamata Signore degli Inganni?". "Sei sempre stato
svelto. Sì, proprio quella. Sta marciando a sud con un esercito, per
attaccare i Nani. Lo sapevi?" "Si parla di movimenti dei Troll nelle
Streleheim. Pensavamo che potessero venire contro di noi." "Prima contro
i Nani, poi contro di voi. Devo convincere Courtann a mandare l'esercito
in appoggio ai Nani. Mi servirà il tuo aiuto, penso." Jerle Shannara
tirò le redini. "Togliamoci dalla strada e mettiamoci all'ombra per
parlare. Ti dispiace se non proseguiamo subito per la città?" "No.
Anch'io preferisco parlare con te, prima." "Bene. Sai che, tutte le
volte che ti vedo, assomigli sempre di più a tua sorella?" Scesero a
terra e portarono i cavalli in mezzo agli alberi, legandoli a un giovane
frassino. "Lo dicevo per farti un complimento." "Certo." Tay sorrise.
"Come sta?" "Contenta, sistemata, felice della sua famiglia" rispose
Jerle, guardandolo con una punta di rammarico. "Se l'è cavata bene anche
senza di me, dopotutto." "Kira non era fatta per te. Lo sai anche tu.
Pensa a come vivi tu, e poi chiediti che peso potresti avere nella sua
vita. E lei, che peso potrebbe avere nella tua? Non avete niente in
comune, tranne il fatto di essere cresciuti insieme." Jerle sbuffò
irritato. "Questo vale anche per noi due, ma la nostra amicizia non è
cambiata." "L'amicizia non è il matrimonio. Per noi è diverso." Tay si
sedette sull'erba, incrociando le lunghe gambe. Jerle si accomodò su un
ceppo consumato dal tempo e dalle intemperie e si fissò gli stivali come
se non li avesse mai visti prima. Le sue mani abbronzate erano coperte
da una fitta rete di cicatrici bianche e di piccole scalfitture rosse. A
quanto ricordava Tay, erano sempre state così. "Sei sempre capitano
della Guardia Reale?" chiese. Jerle scosse la testa. "Mi considerano
troppo importante per quell'incarico. Adesso sono il consigliere di
Courtann per le questioni militari. Di fatto il suo generale, quello che
trova i difetti nelle proposte dei generali veri. Non che la cosa abbia
molta importanza, visto che non siamo in guerra. Ma la situazione
potrebbe cambiare, vero?" "Bremen pensa che il Signore degli Inganni
tenterà di sottomettere tutte le Razze, a cominciare dai Nani. Il suo
esercito di Troll è molto potente. Se le Razze non si uniscono per
affrontarlo, saranno sopraffatte, una alla volta." "Ma i Druidi non lo
permetteranno. Anche se la loro organizzazione è ormai morente - senza
offesa per te, Tay - non se ne staranno certo con le mani in mano..."
"Bremen pensa che Paranor sia caduto e che i Druidi siano stati
distrutti." Jerle Shannara si irrigidì leggermente e serrò le labbra
nell'apprendere la notizia. "Quando è successo? Non ne abbiamo saputo
nulla." "Un paio di giorni fa, non di più. Bremen è tornato a Paranor
per accertarsene, ma intanto ha mandato me ad Arborlon, perciò non sono
sicuro dell'accaduto. Sarebbe utile che tu mandassi qualcuno a
controllare, prima che io parli al re. Una persona di cui ci si possa
fidare." "Lo farò." Jerle scosse lentamente la testa. "Tutti i Druidi
sono morti? Tutti?" "Tutti tranne Bremen, me stesso, un nano chiamato
Risca e una giovane donna di Storlock che era ancora apprendista.
Abbiamo lasciato Paranor insieme, prima dell'attacco. Forse qualcun
altro è fuggito dopo di noi." Jerle gli rivolse un'occhiata penetrante.
"E così, sei tornato per avvertirci, per informarci della caduta di
Paranor e chiedere aiuto contro il Signore degli Inganni e il suo
esercito di Troll?" "Sì, e per un'altra cosa. Una cosa molto importante.
E' qui, soprattutto, che mi occorre il tuo aiuto, Jerle. C'è una Pietra
Nera degli Elfi, un talismano di grande potere. Questa Pietra è più
pericolosa di ogni altra, ed è nascosta nelle Terre di Confine fin dai
tempi di Faerie. Bremen ha scoperto qualche indizio sul luogo dove la si
può trovare, ma la cercano anche il Signore degli Inganni e le sue
creature. Dobbiamo trovarla per primi. Intendo chiedere al re di
organizzare una spedizione. Ma lui potrebbe essere più disposto a farlo
se la richiesta venisse date." Jerle rise: una risata forte, sonora.
"Ah, tu pensi questo? Che possa aiutarti? Se fossi in te, non mi farei
vedere in mia compagnia! Ultimamente, ho pestato un paio di volte i
piedi a Courtann, e non credo che mi abbia molto nelle sue simpatie, in
questo periodo. Oh, il re ascolta i miei consigli sui movimenti delle
truppe e sulle strategie difensive, ma non di più!" Smise di ridere e si
asciugò gli occhi. "Be', farò quel che potrò." Ridacchiò. "Tu rendi
interessante la vita, Tay. E' sempre stato così." Tay sorrise. "E' la
vita a rendersi interessante da sola. Come te, io sono soltanto di
passaggio." Jerle tese il braccio: i due amici si scambiarono un'altra
stretta di mano, che questa volta si protrasse a lungo. Tay sentì la
grande forza del compagno e gli parve di potervi attingere un po' della
sua. Senza staccare la mano, si alzò in piedi costringendo anche Jerle
ad alzarsi. "Meglio partire" disse. L'altro annuì, e gli sorrise con
orgoglio e sicurezza, ma anche con una certa ironia. "Tu e io, Tay" gli
disse. "Noi due, come una volta. Ci sarà da divertirsi." Naturalmente
intendeva dire qualcosa di assai diverso, e Tay Trefenwyd l'aveva
capito.
9
Quando fu giunto ad Arborlon, Tay trascorse qualche giorno in visita a
parenti e amici, mentre aspettava con impazienza di ricevere da Jerle
Shannara la conferma della caduta di Paranor. Nel separarsi da lui,
l'amico gli aveva assicurato che un esploratore sarebbe partito subito,
per andare a controllare la fondatezza dei sospetti di Bremen. Al suo
ritorno, avrebbe fatto avere a Tay un'udienza con il re degli Elfi,
Courtann Ballindarroch, e con il Gran Consiglio: in quell'occasione Tay
avrebbe potuto chiedere aiuto per i Nani e per organizzare la ricerca
della Pietra Nera. Jerle aveva promesso di appoggiare le sue richieste.
Per il momento, comunque, nessuno dei due avrebbe parlato dell'accaduto
o adottato altre misure. L'inattività era assai pesante per Tay, che
ricordava perfettamente l'urgenza con cui Bremen gli aveva chiesto di
rivolgersi a Ballindarroch per avere aiuto. Gli pareva di udire la voce
del vecchio druido ogni volta che un ciottolo scricchiolava sotto i suoi
stivali, o sentiva parlare qualche sconosciuto senza poterlo vedere, e
perfino in sogno. Ma Bremen non comparve e non fece avere notizie, e Tay
sapeva che era inutile parlare senza disporre di notizie certe sulla
sorte di Paranor. L'annuncio ufficiale che Ballindarroch era lieto del
suo ritorno arrivò quasi subito, ma non accompagnato dall'invito a
presentarsi al re o al Gran Consiglio. Agli occhi di tutti, tolto Jerle
Shannara, Tay era tornato ad Arborlon per una semplice visita ai
familiari e agli amici. Tay venne ospitato nella casa dei genitori,
entrambi ormai vecchi e preoccupati soltanto del passare del tempo e
della salute dei figli. Gli chiesero della sua vita a Paranor, ma si
stancarono presto e non insistettero per avere molti particolari. Quanto
al Signore degli Inganni e ai suoi Messaggeri del Teschio, non ne
sapevano nulla. Sull'esercito di Troll avevano udito solo qualche voce.
Abitavano in una piccola casa accanto ai Giardini della Vita, lungo il
burrone di Carolan, e passavano la giornata lavorando in giardino e
dedicandosi a piccole attività artigianali: il padre dipingeva
paraventi, la madre tesseva. Parlavano con Tay mentre lavoravano,
facendo a turno nel rivolgergli le domande, ma lo ascoltavano con metà
della loro attenzione, perché con l'altra si occupavano del lavoro.
Piccoli, fragili, sempre più vicini a svanire con il passare del tempo,
ricordavano al figlio la fragilità della sua stessa vita, che fino a
poco tempo prima gli era parsa tanto sicura. Il fratello di Tay era
andato ad abitare nel Sarandanon, a sudest di Arborlon, a molte miglia
di distanza; perciò, Tay dovette limitarsi alle notizie che ne ebbe dai
genitori. Non era mai stato molto legato al fratello minore e non lo
vedeva da più di otto anni, ma ascoltò doverosamente i racconti dei due
vecchi e si rallegrò nel sapere che la sua attività di agricoltore
prosperava. Quanto alla sorella Kira, la situazione era assai diversa.
Abitava ad Arborlon; Tay andò da lei il giorno stesso del suo arrivo e
la trovò intenta a vestire il figlio più piccolo. Aveva la faccia ancora
giovane e fresca, era piena di energia e il suo sorriso era caldo e
affascinante come il canto degli uccelli. Corse verso di lui ridendo e
lo abbracciò con una tale forza che Tay temette di esplodere. Poi lo
fece accomodare in cucina e gli servì birra fresca, lo fece sedere al
vecchio tavolo su cavalletti, gli chiese di lui e gli parlò di sé, tutto
nella stessa frase. Condivisero le preoccupazioni per i genitori,
rievocarono momenti dell'infanzia e prima che se ne accorgessero era già
buio. Si rividero il giorno seguente, e col marito di Kira e i bambini
si recarono nei boschi, lungo il torrente Rill Song, per una
scampagnata. Kira gli chiese se avesse già visto Jerle Shannara, poi non
parlò più di lui. Le ore scivolarono via in fretta, e Tay riuscì quasi a
dimenticare di essere tornato per ben altri motivi. I bambini giocarono
con lui, poi si stancarono e andarono a sedere sulla riva, immergendo i
piedi nell'acqua fredda e scalciando con forza, e gli adulti parlarono
di come il mondo stesse cambiando. Il cognato di Tay era un fabbricante
di articoli in cuoio e commerciava regolarmente con le altre Razze.
Tuttavia non mandava più i suoi emissari nel Nord, da quando le varie
nazioni dei Troll erano state sconfitte e unificate. Si parlava di
creature malvage, disse, di mostri alati e di ombre nere, di bestie che
assalivano Elfi e umani. Tay ascoltò e si limitò a qualche cenno
affermativo della testa, dicendo che anche lui aveva sentito quelle
voci. Nel dirlo, cercò di non guardare Kira. Non voleva farle leggere
quello che aveva negli occhi. Rivide i suoi vecchi amici, alcuni dei
quali erano poco più che adolescenti l'ultima volta che li aveva visti.
Molti di loro, in passato, erano suoi amici intimi, ma avevano preso
strade diverse dalla sua e ormai erano troppo lontani per tornare
indietro. O forse era lui che era andato troppo lontano. Erano estranei,
non per l'aspetto o per la voce, che gli erano ancora familiari, ma per
le scelte che avevano modellato la loro vita. Con loro poteva
condividere soltanto i ricordi. Era triste, ma prevedibile. Il tempo
rapisce le promesse e allenta i legami. L'amicizia si riduce a storie
passate e a vaghe promesse per il futuro, nessuna così forte da ridare
vita a quello che s'è perduto. Ma questa è la vita: porta ciascuno lungo
la propria via, separata da quella degli altri, finché un giorno ci si
scopre soli. Anche Arborlon gli sembrava estranea, ma non nel modo che
si sarebbe aspettato. Fisicamente era la stessa, un villaggio cresciuto
fino a diventare una città, piena di aspettative e di agitazione perché
vi si incrociavano tutte le strade dell'Ovest. Vent'anni di crescita
continua l'avevano resa la città più grande e importante della parte
settentrionale del mondo conosciuto. Con la conclusione della Prima
Guerra delle Razze e con il declino dell'influenza del Sud, il ruolo
degli Elfi nel futuro delle Quattro Terre era cambiato in modo
irrevocabile e Arborlon e la sua gente erano diventati sempre più
importanti. Ma mentre la città e i suoi dintorni gli erano familiari
nonostante la lunga assenza e le rare visite, Tay non riusciva a evitare
l'impressione che quello non fosse il suo posto. Ormai non era più la
sua casa, non lo era da quindici anni, ed era tardi per rimediare. Anche
se Paranor era distrutto e i Druidi erano scomparsi, non era certo di
poter tornare tra gli Elfi. Arborlon faceva parte del suo passato, e se
l'era lasciata alle spalle. Era un estraneo, per quanto cercasse di
convincersi del contrario, e quando cercava di inserirsi di nuovo nella
vita cittadina sentiva di non farne più parte. Come tutto scivola via,
quando non gli si presta attenzione, pensò più di una volta, nei primi
giorni dopo il suo ritorno. Come cambia in fretta la vita. Il quarto
giorno, Jerle Shannara lo venne a cercare nel tardo pomeriggio,
accompagnato da Preia Starle. Tay non l'aveva ancora vista, anche se
aveva pensato parecchie volte a lei. Era certamente la più bella donna
che avesse mai visto, e se non fosse stata innamorata di Jerle fin da
bambina e lo fosse stata invece di Tay, lui avrebbe probabilmente
cambiato vita per lei. Era bellissima, con lineamenti minuti e perfetti,
capelli e occhi color cannella, pelle leggermente ambrata che brillava
come la superficie dell'acqua illuminata dal sole dell'alba, un corpo
flessuoso che si muoveva con la grazia di un gatto. Questo a una prima
occhiata, e non era certo sufficiente a descriverla. Preia era, a modo
suo, un guerriero che stava alla pari con Jerle, addestrata come
esploratore, e così abile nel suo lavoro da superare ogni altro
Esploratore o Cacciatore che Tay avesse conosciuto; salda, instancabile
e sicura come il sorgere del sole. Sarebbe riuscita a stanare un furetto
in mezzo a una palude, a dire il numero e il sesso di un gruppo di capre
che si arrampicava su un monte, a sopravvivere nel deserto per
settimane, senza scorte, vivendo unicamente di quello che riusciva a
cacciare. Rifiutava la solita vita delle donne elfe, aveva rinunciato
alla comodità di una casa e alla compagnia di un marito e dei figli.
Preia era assai lontana da tutto ciò Era soddisfatta della sua vita,
aveva detto a Tay, in passato. Alla famiglia avrebbe pensato il giorno
che Jerle fosse stato pronto al matrimonio. Fino a quel momento, poteva
aspettare. E a Jerle, da parte sua, andava bene che lei fosse disposta
ad aspettare. Secondo Tay, l'amico era ancora indeciso su quello che
provava per lei. A modo suo l'amava, ma il suo primo grande amore era
sempre stato Kira: anche dopo tanti anni era incapace di dimenticarla.
Preia lo sapeva certamente - era troppo intelligente per non essersene
accorta - ma non aveva mai fatto commenti. Tay si aspettava che il loro
rapporto fosse cambiato, dalla sua ultima visita, ma non sembrava.
Parlando con lui, Jerle non aveva mai accennato alla donna. Preia era
ancora all'esterno della cittadella di autosufficienza e indipendenza
che Jerle Shannara aveva eretto intorno a sé: tuttora aspettava il
permesso di entrare. La donna sorrise a Tay, che stava studiando alcune
mappe della Terra dell'Ovest, stese su un tavolo nel giardino dei
genitori. Lui si alzò nel vederla, e con un nodo alla gola si chinò per
scambiare con lei un bacio e un abbraccio. "Ti trovo bene, Tay" lo
salutò, facendo un passo indietro per osservarlo meglio e tenendolo per
le braccia. "E sto ancora meglio adesso che ti vedo" rispose lui,
sorpreso dalla sfrontatezza della risposta. Preia e Jerle lo
accompagnarono fino al Carolan, dove potevano parlare in privato. Si
sedettero ai margini dei Giardini della Vita e guardarono al di là del
precipizio, verso le cime degli alberi sull'altra sponda del torrente.
Jerle aveva scelto una panca circolare, che permetteva di vedersi in
faccia senza farsi distrarre dai passanti. Non aveva parlato da quando
era venuto a prendere Tay, era apparso distante e preoccupato. Ora, per
la prima volta, si rivolse direttamente all'amico. "Bremen aveva
ragione" disse. "Paranor è caduto. Tutti i Druidi sono morti. Se
qualcuno è fuggito, oltre a quelli che sono venuti con te, ora si tiene
nascosto." Tay lo fissò, mentre il peso della notizia si faceva strada
in lui. Poi guardò Preia. Ma sul suo viso non c'era alcuna sorpresa:
sapeva tutto. "Hai mandato Preia a Paranor?" chiese a Jerle.
All'improvviso aveva capito perché era presente. "Chi meglio di lei?"
ribatté Shannara, in tono pratico. Del resto, aveva ragione. Tay gli
aveva chiesto di mandare una persona fidata, e nessuno era più fidato di
Preia. Ma era una missione pericolosa, piena di rischi e Tay avrebbe
certamente scelto qualcun altro. Da questo si capiva quanto fossero
diversi i loro sentimenti nei riguardi della donna, pensò. Ma non era
detto che i suoi fossero i più nobili. "Riferiscigli quello che hai
visto" la invitò Jerle. Lei si girò verso Tay. I suoi occhi ramati erano
dolci e rassicuranti. "Ho attraversato le Streleheim senza problemi.
C'erano Troll, ma non ho trovato gli Gnomi e il Messaggero del Teschio
che hai visto tu. Sono giunta ai Denti del Drago all'alba del secondo
giorno e mi sono recata subito alla rocca. Le porte erano spalancate e
all'interno non c'era traccia di vita. Nessuno si è opposto al mio
ingresso. Tutte le guardie erano state massacrate, alcune avevano ferite
di armi, altre di zanne e di artigli come se fossero state assalite da
bestie feroci. I Druidi giacevano all'interno, tutti morti. Alcuni erano
stati uccisi negli scontri, altri erano stati portati via dalla sala del
Consiglio, condotti nei sotterranei e murati vivi. Sono riuscita a
vedere le tracce del loro passaggio e a trovare le loro tombe."
S'interruppe nel vedere l'angoscia e l'orrore sul viso di Tay al
pensiero dei compagni. Posò la mano minuta sulla sua. "C'erano anche le
tracce di una seconda lotta, combattuta sullo scalone principale. Queste
erano più recenti: risalivano ad alcuni giorni dopo le prime. Alcune
creature erano state distrutte: creature che non sono riuscita a
riconoscere. E' stata usata la magia. L'intera scala era annerita dal
fuoco, come se fosse stata spazzata da una fiamma che aveva lasciato
soltanto le ceneri dei morti." "Bremen?" chiese Tay. Lei scosse la
testa. "Non lo so. Può darsi." Gli strinse la mano. "Mi dispiace." Tay
annuì. "Anche se lo sapevo e pensavo di essere pronto ad accettarlo, mi
è ancora difficile crederlo. Tutti morti. Tutti coloro con cui ho
lavorato e vissuto per tanti anni. Forse anche Bremen. Sento un grande
vuoto dentro di me." "Be', ormai è successo e non si può farci niente"
concluse Jerle, già pronto ad allontanarsi. Si alzò. "Adesso dobbiamo
parlare con il Consiglio. Andrò da Ballindarroch per preparare un
incontro. Può darsi che protesti, ma troverò il modo di farmi ascoltare.
Intanto, Preia può dirti quello che vuoi sapere. Sii forte, Tay. Vedrai
che alla fine gliela faremo pagare." Si allontanò senza guardarsi
indietro; come sempre, trovava la risposta nell'azione. Tay lo guardò
allontanarsi, poi fissò Preia. "Com'è andata?" "Bene." Gli rivolse
un'occhiata interrogativa. "Sei rimasto sorpreso che sia andata a
Paranor, vero?" "Sì. E' stata una reazione egoistica." "Ma mi ha fatto
piacere." Gli sorrise. "Sono lieta di vederti ancora qui, Tay. Sentivo
la tua mancanza. Mi è sempre piaciuto parlare con te." Lui allungò le
gambe e fissò, al di là del Carolan, un gruppo di Guardie Nere che
veniva verso i Giardini. "Non ora, temo. Non so più cosa dire. Sono
arrivato quattro giorni fa e sto già pensando di andar via. Mi sembra di
essere privo di radici." "Be', sei stato via molto tempo. Per questo ti
senti estraneo." "Mi sembra di non appartenere più a questo luogo,
Preia. Forse non appartengo più ad alcun luogo, adesso che Paranor è
stato distrutto." Lei rise piano. "Conosco questa sensazione. Soltanto
Jerle non ha mai quel genere di dubbi, perché non si permette di averli.
Appartiene al luogo a cui vuole appartenere; fa sempre in modo di
crederlo.LO non ci riesco." Per qualche istante rimasero in silenzio.
Tay cercò di non guardarla. "Tra pochi giorni partirai per l'Occidente,
non appena il re ti darà il permesso di andare alla ricerca della Pietra
Nera" disse infine la donna. "Forse ti sentirai meglio, allora." Tay
sorrise. "Jerle te l'ha detto." "Jerle mi dice sempre tutto. Sono la
compagna della sua vita, anche se non vuole ammetterlo." "E' stupido da
parte sua." Preia annuì distrattamente. "Verrò con te, quando partirai."
Tay la fissò negli occhi. "No." Lei sorrise nel vederlo a disagio. "Non
puoi parlarmi così, Tay. Nessuno può farlo. Non lo permetto." "Preia..."
"C'è troppo pericolo, è un viaggio troppo faticoso, è questo e quello."
Sospirò, ma senza irritazione. "Ho già sentito queste obiezioni, Tay...
anche se da parte di persone che pensavano meno di te al mio benessere."
Lo guardò negli occhi. "Ma verrò con te." Tay scosse la testa ammirato e
sorrise a dispetto di se stesso. "Certo. E Jerle non dirà niente, vero?"
Il sorriso di Preia era abbagliante. Fissò Tay con grande soddisfazione.
"No. Non lo sa ancora, naturalmente, ma quando lo saprà si stringerà
nelle spalle come fa sempre e mi dirà di fare come voglio."
S'interruppe. "Mi accetta come sono, più di te. Mi tratta da uguale.
Capisci?" Tay si spostò sulla panca e si chiese se avesse davvero
capito. "Penso che è molto fortunato ad avere te" rispose. Si schiarì la
gola. "Parlami ancora di quello che hai trovato a Paranor, dimmi quello
che potrebbe essere interessante per me, quello che, secondo te, dovrei
sapere." La donna piegò le gambe sotto la panca, come per prepararsi
alle descrizioni sgradevoli che avrebbe dovuto fargli, e gli riferì
tutto quello che aveva visto. Quando Preia lo lasciò, Tay rimase seduto
ancora per qualche tempo, ripensando alle facce dei Druidi che non
avrebbe più visto. Stranamente, il ricordo di alcuni di loro cominciava
già a sbiadire. Succede così, si disse, anche per coloro a cui si è più
legati. Si avvicinava la sera: si alzò e, camminando lungo il Carolan,
osservò il tramonto, il cielo che si colorava d'oro e poi d'argento a
mano a mano che la luce cedeva al buio. Attese che nella città, dietro
di lui, si accendessero le prime torce, e solo allora si volse e fece
ritorno alla casa dei genitori. Si sentiva estraneo, staccato da tutto.
La distruzione di Paranor e la morte dei Druidi l'avevano strappato agli
ormeggi, l'avevano mandato alla deriva. Il solo legame che gli rimanesse
era il compito di cercare la Pietra Nera, ed era deciso a mantenere la
parola data a Bremen. Poi avrebbe iniziato una nuova vita. Si chiese se
davvero poteva. Si chiese da dove iniziare. Era quasi giunto a
destinazione quando un messaggero del re uscì dall'ombra e gli disse che
era desiderato subito. L'urgenza della convocazione era chiara, e Tay
non mosse obiezioni. Lasciò la strada di casa e seguì il messaggero in
direzione del Carolan e del palazzo dove abitavano il re e la sua
numerosa famiglia. Courtann Ballindarroch era il quinto della sua
dinastia, e la famiglia reale era aumentata a ogni incoronazione: ora il
palazzo ospitava non soltanto il re e la regina, ma anche i loro cinque
figli e le mogli, più di una decina di nipoti e svariati zii e cugini.
Tra questi c'era Jerle Shannara, che però abitava quasi sempre nella
guarnigione della Guardia Reale, dove si trovava decisamente più a suo
agio. Giunsero in vista del palazzo, che brillava di luci sullo sfondo
scuro dei Giardini della Vita. Tuttavia, quando furono nei pressi
dell'ingresso principale, il messaggero prese a sinistra, lungo un
sentiero che portava al padiglione d'estate, separato dal corpo
principale della costruzione. Tay diede un'occhiata alla distesa ampia e
buia del parco, cercando i soldati della Guardia Reale che stavano di
sentinella. Sentiva la loro presenza e, servendosi della magia, sarebbe
riuscito a contarli, ma non riusciva a scorgerli. All'interno del
palazzo, proiettate sulle finestre illuminate, si muovevano ombre simili
a spettri senza volto. Il messaggero non mostrò alcun interesse per
quegli aspetti del palazzo reale e si limitò a portare Tay nel luogo
dove Ballindarroch aveva deciso di incontrarlo. Tay si chiese il motivo
di una convocazione così improvvisa. Era successo qualcosa di nuovo?
C'era stata una nuova tragedia? Con uno sforzo, si costrinse a tenere a
freno l'immaginazione e ad attendere la risposta. Il messaggero lo portò
all'ingresso principale del padiglione e gli disse di entrare. Entrò da
solo, oltrepassò il vestibolo e si trovò nel soggiorno, dove scorse
Shannara. Jerle si strinse nelle spalle e sollevò le mani, in segno di
impotenza. "Ne so quanto te. Mi hanno convocato e sono venuto." "Hai
detto al re quello che sappiamo?" "Gli ho detto che avevi bisogno di
un'udienza immediata del Gran Consiglio, che avevi notizie importanti.
Nient'altro." Si fissarono per qualche istante, riflettendo
sull'accaduto. Poi la porta si spalancò e comparve Courtann
Ballindarroch. Tay si chiese da dove arrivava, se era sceso dal palazzo
o se era stato ad aspettare dietro la porta, per ascoltare i loro
discorsi. Courtann era imprevedibile. Fisicamente era un uomo di altezza
media e di corporatura normale, di una tranquilla mezz'età, leggermente
claudicante, con qualche filo grigio alle tempie e nella barba, una
serie di rughe profonde che cominciavano ad apparirgli sulla faccia e
sul collo. Non c'era niente di eccezionale in Courtann, che a dire il
vero aveva l'aspetto di una persona qualunque. Non aveva né la voce da
oratore né il fascino del leader, ed era pronto ad ammettere la propria
confusione quando ne era vittima. Era diventato re nella solita maniera,
ossia perché era il primogenito del re precedente, e non cercava il
potere né lo rifiutava. Di suo, quando era salito sul trono degli Elfi,
aveva portato la reputazione di non avere abitudini imprevedibili o
riprovevoli e di non amare i cambiamenti drammatici e precipitosi; e il
suo popolo lo accettava come se fosse lo zio preferito. "Benvenuto a
casa, Tay" lo salutò. Era sorridente e rilassato e pareva le mille
miglia lontano da ogni preoccupazione, quando si avvicinò all'uomo per
stringergli la mano. "Ho pensato che avremmo potuto discutere in privato
le tue novità, prima che tu ne parlassi al Gran Consiglio." Si ravviò la
folta capigliatura. "Preferisco evitare le sorprese, nella mia vita. E
se ti servisse un alleato, forse potrei esserti utile. No, non guardare
il tuo confidente... non mi ha detto una parola. E anche se l'avesse
fatto, non gli avrei dato retta. Troppo inaffidabile. Jerle è qui
soltanto perché so che non avete segreti l'uno per l'altro e quindi non
è il caso di cominciare adesso." Fece segno di seguirlo. "Sediamoci qui,
in queste poltrone bene imbottite. Da qualche tempo, la schiena mi
duole. Capiterà anche a voi, quando avrete dei nipotini. E lasciamo da
parte l'etichetta. Chiamatemi per nome. Ci conosciamo da troppo tempo
per usare i titoli." Era vero, pensò Tay, sedendosi dirimpetto al re e
accanto a Jerle. Courtann Ballindarroch aveva una ventina d'anni più di
loro, ma erano sempre stati amici. Jerle era cresciuto a corte, ma anche
Tay vi aveva passato molto tempo, e di conseguenza era stato più volte
in compagnia di Courtann. Quando erano ragazzini, li portava spesso a
pesca e a caccia, e in occasione di feste e celebrazioni amava stare con
loro. Tay era stato presente alla sua incoronazione, trent'anni prima.
Ognuno di loro sapeva che cosa aspettarsi dall'altro. "Ho nutrito un
certo scetticismo, fin dal primo momento, sull'idea che fossi tornato
senza una ragione più importante che quella di salutarci" disse il re,
con un sospiro. "Sei sempre stato troppo pratico, non sei il tipo che
spreca un viaggio per i soli piaceri di società. Spero che queste
considerazioni non ti offendano." Appoggiò la schiena ai cuscini.
"Allora, che notizie hai? Avanti, vogliamo saperle." "Ho molte cose da
riferire" rispose Tay, sporgendosi verso il re per fissarlo negli occhi.
"Mi manda Bremen. Si è presentato a Paranor circa due settimane fa e ha
cercato di avvertire il Consiglio dei Druidi del pericolo che correva il
castello. Si era spinto nel Nord e aveva avuto conferma dell'esistenza
del Signore degli Inganni. Ha scoperto che è il druido ribelle Brona,
ancora vivo dopo parecchie centinaia di anni, mantenuto in vita dalla
magia che l'ha corrotto. E' stato Brona a unire i Troll e a
sottometterli per farne il suo esercito. Prima di recarsi a Paranor,
Bremen ha seguito le tracce di quell'esercito e ha visto che si dirige a
sud, verso le Terre dell'Est." S'interruppe un istante, per scegliere
bene le parole. "Il Consiglio dei Druidi non ha voluto ascoltarlo.
Athabasca l'ha mandato via, e alcuni di noi l'hanno seguito. Anche a
Caerid Lock è stato proposto di seguirci, ma non ha voluto. E' rimasto
al castello per proteggere da se stessi Athabasca e gli altri." "Una
brava persona" commentò il re. "Molto coscienzioso." "Con Bremen a capo
del nostro gruppo, siamo andati alla Valle d'Argilla. Laggiù, al Perno
dell'Ade, Bremen ha parlato con gli spiriti dei morti.LO l'ho visto.
Gli spiriti gli hanno detto molte cose. La prima era che Paranor e i
Druidi sarebbero stati distrutti. La seconda che il Signore degli
Inganni avrebbe invaso le Quattro Terre, e che occorre costruire un
talismano capace di distruggerlo. Una terza riguardava il nascondiglio
di una Pietra Nera degli Elfi, una pietra magica di cui il Signore degli
Inganni vuole impossessarsi, ma che noi dobbiamo trovare prima di lui.
Quando gli spiriti sono scomparsi, Bremen ha mandato il druido guerriero
Risca ad avvertire i Nani del pericolo. Ha mandato me ad avvertire te e
gli Elfi. Mi ha detto di convincerti a portare l'esercito a Est,
attraverso le Terre di Frontiera, per aiutare i Nani. Soltanto unendo le
nostre forze possiamo sconfiggere l'esercito del Signore degli Inganni.
Mi ha anche detto di chiedere il tuo aiuto per organizzare la ricerca
della Pietra Nera." Ballindarroch non sorrideva più. "Sei molto
schietto" disse, senza preoccuparsi di nascondere la sorpresa. "Mi
aspettavo una maggior sottigliezza da parte tua, nel chiedere il mio
aiuto." Tay annuì. "E questa era la mia intenzione, infatti. L'avrei
fatto se ti avessi parlato davanti al Gran Consiglio. Ma non sono
davanti al Consiglio. Parlo a te. Ci siamo soltanto noi tre, e come hai
detto tu stesso, ci conosciamo troppo bene per fingere." "E c'è anche
una ragione più importante" intervenne Jerle. "Digliela." Tay incrociò
le braccia, ma non abbassò gli occhi. "Ho aspettato a parlarti perché
volevo avere la conferma dei sospetti di Bremen su Paranor e sui Druidi.
Ho chiesto a Jerle di mandare qualcuno laggiù, perché vedesse quanto era
successo, per averne la certezza. E Jerle l'ha fatto. Ha mandato Preia
Starle, che è tornata oggi pomeriggio. Paranor è caduto. Tutti i Druidi
e coloro che li proteggevano sono morti. Caerid Lock è morto. E così
Athabasca. Non rimane nessuno... nessuno, Courtann, che abbia un potere
sufficiente a opporsi a Brona." Courtann Ballindarroch lo fissò senza
parlare, poi si alzò, raggiunse la finestra, guardò fuori, nella notte,
tornò indietro, si sedette. "Sono notizie davvero preoccupanti" disse
infine, a bassa voce. "Quando mi hai parlato della visione di Bremen, ho
pensato che potesse trattarsi di un trucco, di un sotterfugio, di
qualcosa che non corrisponde alla realtà. Tutti i Druidi sono morti,
dici? E tanti di loro appartenevano alla nostra gente! Ma i Druidi ci
sono sempre stati, fin dove risalgono i nostri documenti storici. E
adesso sono spariti? Tutti? Non riesco a crederlo." "Eppure, sono stati
distrutti" intervenne Jerle, il quale non voleva che il re si bloccasse
su quel particolare. "Adesso dobbiamo agire in fretta, per evitare che
succeda anche a noi la stessa cosa." Il re degli Elfi si accarezzò la
barba. "Ma non dobbiamo agire in modo affrettato, Jerle. Riflettiamo per
un momento sull'accaduto. Se facessi come ha chiesto Bremen e portassi
l'esercito a est, lascerei senza difesa Arborlon e l'Occidente, e questo
sarebbe pericoloso. Conosco la storia della Prima Guerra delle Razze
quanto basta per evitare quegli antichi errori. Occorre cautela." "La
cautela porta all'indugio, e non abbiamo tempo per indugiare!" sbottò
Jerle. Il re gli rivolse un'occhiata gelida. "Non farmi fretta, cugino."
Tay non poteva rischiare un litigio tra i due. "Cosa suggeriresti,
Courtann?" si affrettò a chiedere. Il re lo guardò. Si alzò, si avvicinò
una seconda volta alla finestra, e volse loro la schiena. Jerle lanciò
un'occhiata a Tay, ma questi finse di non accorgersene. La questione era
adesso tra lui e il re. Attese che Courtann si girasse, attraversasse la
stanza e tornasse a sedere. "Sono convinto che tutto ciò che mi hai
detto corrisponda alla verità, Tay. Perciò non pensare che la mia
risposta voglia contraddirti. Ho molta fiducia nelle parole di Bremen.
Se dice che il Signore degli Inganni esiste ed è il druido ribelle
Brona, allora è certamente così. Se dice che la magia è costretta a
servire il male, anche questo è vero. Ma io conosco bene la storia, e so
che Brona non è mai stato uno sciocco. Noi non dobbiamo dare per
scontato che faccia quello che ci aspettiamo. Sa certamente che Bremen,
se è ancora vivo, cercherà di fermarlo. Ha occhi e orecchi dappertutto.
Può darsi che conosca già le nostre intenzioni, ancor prima che passiamo
all'azione. Perciò dobbiamo essere ben sicuri di tutto, prima di agire."
Scese per qualche istante il silenzio, mentre i due amici riflettevano
su quelle parole. "Che pensi di fare, allora?" chiese infine Tay.
Courtann sorrise con aria paterna. "Ti accompagnerò al Gran Consiglio e
ti darò il mio aiuto, naturalmente. Il Consiglio deve capire la
necessità di intervenire, in base alle informazioni che ci hai portato.
E non dovrebbe essere difficile convincerlo. La perdita di Paranor e dei
Druidi sarà una ragione sufficiente, penso. Quanto alla richiesta di
partire alla ricerca della Pietra Nera, penso che sarà approvata subito.
Non c'è motivo di rimandare l'azione, in quel caso. Naturalmente la tua
ombra, ossia mio cugino, insisterà per accompagnarti e, come avrai
capito, preferirei anch'io che lo facesse." Si alzò, e Tay e Jerle lo
imitarono. "Quanto alla richiesta che il nostro esercito vada in aiuto
dei Nani, devo riflettere ancora. Manderò gli Esploratori ad accertare
la presenza del Signore degli Inganni nelle Quattro Terre. Quando
faranno rapporto, e dopo che avrò chiarito la situazione e il Gran
Consiglio ne avrà discusso, si prenderà una decisione." S'interruppe, in
attesa della risposta di Tay, che disse subito: "Ti ringrazio, mio
signore". In effetti, era più di quanto si aspettava. "Allora,
dimostralo facendo bella figura in Consiglio." Il re appoggiò la mano
sulla spalla di Tay. "Ci aspettano nella sala delle riunioni. Vorranno
sapere se il tempo sottratto alle loro famiglie per venire a questa
sessione fuori ruolo è stato speso bene." Guardò Jerle. "Cugino, tu puoi
venire con noi, se pensi di poter tenere a freno la lingua. La tua
opinione in materia militare è assai apprezzata, e può darsi che ci
serva. D'accordo?" Jerle annuì. Uscirono dal padiglione e si diressero
verso la sala delle riunioni. I soldati della Guardia Reale comparvero
come dal nulla e si disposero di fronte e dietro al loro gruppo, simili
a ombre nere sullo sfondo illuminato del palazzo. Il re parve non
accorgersi della loro presenza, e per tutto il tragitto continuò a
canticchiare tra sé e a guardare le stelle, con espressione affascinata.
Tay era piacevolmente sorpreso che Ballindarroch avesse deciso così in
fretta. Respirò l'aria della notte, in cui aleggiava la fragranza del
gelsomino e del lillà, e si concentrò preparandosi alle prossime mosse.
Stava già pensando al viaggio a occidente, all'equipaggiamento
necessario, alle strade che avrebbero scelto, al modo di procedere nella
ricerca. In quanti dovevano essere? Una decina di persone sembrava il
numero giusto: abbastanza per stare al sicuro, ma non tante da
richiamare l'attenzione. Jerle camminava al suo fianco, impassibile,
perso nei propri pensieri. Tay era lieto di avere con sé l'amico, così
saldo e fidato. Gli ritornò in mente il tempo della loro fanciullezza,
quando c'era sempre qualche avventura da vivere insieme, una missione
per cui partire, una sfida da affrontare. Forse, erano proprio quelle le
cose che gli erano mancate: era bello ritrovarle. Per la prima volta dal
suo ritorno, ebbe davvero l'impressione di essere a casa. Quella sera
parlò davanti al Gran Consiglio con una forza e una capacità di
persuasione che non avrebbe mai creduto di possedere e riuscì a
soddisfare tutte le richieste di Bremen. E fu proprio questi, benché
assente, a far pendere la bilancia dalla sua parte. Ad Arborlon il
vecchio druido era amato e rispettato: nel periodo da lui trascorso in
città si era guadagnato molti amici con il suo lavoro, che mirava a
riscoprire la storia e la magia degli Elfi. Se adesso gli occorreva il
loro aiuto, soprattutto dopo la distruzione di Paranor e dei Druidi, il
Consiglio glielo avrebbe dato. Venne anche dato il permesso di
organizzare una spedizione per il recupero della Pietra Nera, affidata
alla guida comune di Tay Trefenwyd e Jerle Shannara. Inoltre, il
Consiglio promise di prendere subito in considerazione l'aiuto ai Nani,
e anche l'adesione a questo progetto risultò forte ed entusiastica: più
di quanto non avesse previsto Courtann Ballindarroch. Il re, vedendo
come il Consiglio accogliesse le parole di Tay, appoggiò a sua volta
l'iniziativa, facendo però notare come occorresse conoscere meglio la
situazione, prima di poter mandare ai Nani un sostanzioso aiuto
militare. Era ormai mezzanotte quando il Gran Consiglio aggiornò la
riunione. Tay si fermò davanti alla porta e strinse le mani a Jerle per
congratularsi con lui. Il re passò davanti a loro con un sorriso e
sparì. In alto, il cielo era punteggiato di stelle e l'aria della sera
era profumata e tiepida. Il successo era un vino che dava alla testa.
Tutto era andato come aveva sperato, e Tay provò un forte rimpianto nel
non poterlo dire a Bremen. Accanto a lui, Jerle parlava senza sosta,
rosso in viso per l'emozione, entusiasta del viaggio che li attendeva,
della nuova avventura da vivere, dell'evasione dalla tediosa routine
della vita di corte. In quel momento di grande giubilo, nei due amici
c'era la convinzione comune che tutto fosse possibile e che nessun
ostacolo fosse in grado di fermarli.
10
Quando tutti se ne furono andati e rimasero soli, Tay e Jerle lasciarono
la sala delle riunioni e si avviarono verso il palazzo reale.
Camminavano lentamente, ancora euforici per il successo davanti al Gran
Consiglio, e nessuno dei due era disposto ad andare a dormire. Nella
notte non si muoveva foglia, il mondo era un luogo di sogni e di riposo.
Accanto alle porte e agli incroci delle strade si scorgeva la luce delle
torce, piccoli baluardi contro l'assalto delle tenebre rese ancor più
profonde dalla scomparsa della luna sotto l'orizzonte. Le sagome delle
case si stagliavano nell'oscurità come grandi animali acciambellati nel
sonno. Gli alberi della foresta fiancheggiavano le strade e circondavano
le case degli Elfi, simili a sentinelle schierate spalla contro spalla,
sull'attenti nel buio. Ispiravano a Tay, che lasciava correre
oziosamente lo sguardo sugli spazi illuminati e dentro le ombre, uno
strano senso di pace, l'impressione che qualcuno vegliasse su di lui per
proteggerlo. Jerle non smetteva di parlare: passava da un argomento
all'altro, valutando tutto ciò che li poteva attendere con ampi gesti
delle braccia e di tanto in tanto rideva forte. Tay lo lasciava dire e
si faceva trasportare sulla sua scia: era abbastanza distaccato per
ascoltarlo e, nello stesso tempo, pensare a come il suo passato avesse
finito per ricongiungersi al presente, e a come forse potesse riavere
quello che aveva perso. "Ci occorreranno i cavalli, per attraversare il
Sarandanon" rifletteva Jerle "ma nella foresta che porta laggiù e nelle
Terre di Confine andremo più in fretta a piedi. Dovremo avere i due tipi
di equipaggiamento, ciascuno per una parte del viaggio, e scorte
diverse." Tay annuì, senza rispondere perché non ce n'era bisogno. "Come
minimo ci occorrerà una decina di persone, ma forse sarà meglio averne
il doppio perché se dovessimo essere costretti a combattere, saremmo
troppo pochi." Jerle rise. "Non so perché mi preoccupo tanto. Se saremo
insieme, chi mai oserà mettersi contro di noi?" Tay si strinse nelle
spalle e guardò in fondo al viale, dove già si scorgevano, in mezzo agli
alberi, le luci del palazzo. "Spero di non doverlo scoprire." "Be', ci
muoveremo con cautela, puoi starne certo. Partiremo senza essere notati,
ci sposteremo al riparo degli alberi, eviteremo i luoghi pericolosi.
Ma..." S'interruppe e fissò negli occhi il compagno. "Non farti
illusioni. Il Signore degli Inganni e i suoi servitori ci daranno la
caccia. Sanno che anche se Bremen non fosse riuscito a fuggire dalla
rocca dei Druidi, alcuni suoi amici si sono salvati. Probabilmente ormai
sanno che è penetrato nella loro fortezza del Nord. Sanno che cercheremo
la Pietra Nera." Tay rifletté su quelle parole. "Dobbiamo aspettarci il
peggio. Così non avremo sorprese. Intendi dire questo?" Jerle Shannara
annuì; all'improvviso la sua espressione si era fatta grave. "Proprio
così." Ripresero il cammino. "Non ho sonno" si lamentò Jerle, fermandosi
di nuovo. "Dove possiamo andare a bere un bicchiere di birra? Uno solo,
per festeggiare." Tay si strinse nelle spalle. "A palazzo?" "No, non a
palazzo! Lo odio! Tutti quei parenti e quei bambini che ti corrono
attorno, gente dappertutto. No, non là. A casa tua?" "I miei dormono.
Inoltre, laggiù mi sento un estraneo, proprio come te a palazzo. Che ne
diresti della caserma delle Guardie?" Jerle sorrise, raggiante.
"D'accordo! Un paio di bicchieri, poi a nanna. Abbiamo tantissime cose
di cui parlare, Tay." Proseguirono e diedero un'occhiata al palazzo
quando gli passarono davanti. Lo scalone era buio, il cortile vuoto. Non
si scorgeva alcun movimento. In una delle camere dei piani superiori si
vedeva una debole luce che filtrava attraverso le tende: una candela
accesa nella stanza di qualche bambino per rassicurarlo che sarebbe
sorta un'altra alba. Lontano, un uccello notturno lanciò una serie di
richiami acuti, che echeggiarono lugubri prima di spegnersi. Jerle
rallentò e si fermò, costringendo Tay a imitarlo. Fissò il palazzo. "Che
c'è?" gli chiese Tay dopo un istante. "Non vedo le guardie." Tay diede a
sua volta un'occhiata. "Dove dovrebbero essere? Pensavo che fosse loro
compito non farsi vedere." Jerle scosse la testa. "Da te, ma non da me."
Tay continuò a guardare con lui, ma non riuscì a scorgere nulla sullo
sfondo degli edifici o sotto gli alberi dei giardini reali. Nessuna
figura sia pur vagamente umana. Cercò qualche movimento, e non ne trovò.
I Cacciatori degli Elfi erano addestrati a confondersi con l'ambiente.
Le Guardie Reali erano ancor più abili di loro. Ma Tay avrebbe dovuto
scorgerle con la stessa facilità di Jerle. Allora usò la magia: una
piccola emanazione che passò al setaccio l'intero palazzo, da un estremo
all'altro, come un'infinità di mani curiose che frugassero dappertutto.
E li scoprì, i movimenti: lesti, furtivi, estranei. "C'è qualcosa che
non va" disse subito. Jerle Shannara corse avanti, senza fare parola,
diretto al portone del palazzo reale, e prese velocità a mano a mano che
correva. Tay lo seguì, provando un crescente senso d'orrore. Cercò di
dargli una definizione, di scoprirne la fonte, ma questa gli sfuggiva,
elusiva e beffarda. Tay cercò nell'ombra intorno a sé, e trovò che tutto
era nero e chiuso in se stesso. Sollevò le mani, liberando dalle dita la
magia dei Druidi, in modo da avere una rete più grande. Un attimo più
tardi, sentì la rete chiudersi su una creatura che si divincolò, si
sciolse dalla rete e corse via di scatto. "Gnomi!" esclamò. Jerle corse
ancora più in fretta, portò la mano al fianco ed estrasse la corta
spada: la lama, nell'uscire dal fodero, scintillò debolmente. Non usciva
mai disarmato. Tay cercò di stargli dietro. Nessuno dei due parlò;
quando stavano per raggiungere il portone, Jerle aspettò che Tay lo
raggiungesse ed entrambi si guardarono attorno con attenzione, pronti a
tutto. Il portone era aperto. All'interno non si scorgeva alcuna luce.
Dal viale, questo particolare non era visibile. Jerle non rallentò il
passo. Curvò la schiena ed entrò, tendendo innanzi a sé la spada. Tay lo
seguì. Il corridoio si stendeva dinanzi a loro come una galleria buia.
C'erano corpi dappertutto, sparsi come fagotti di biancheria sporca,
immobili e insanguinati. Cacciatori degli Elfi, uccisi dal primo
all'ultimo, ma anche qualche Cacciatore degli Gnomi. Il pavimento era
scivoloso a causa del sangue versato. Jerle indicò a Tay di mettersi da
un lato mentre lui si metteva dall'altro e insieme percorsero il
corridoio verso le sale principali: le trovarono vuote e silenziose.
Tornati indietro, i due compagni si diressero verso le scale che
portavano ai piani superiori. Jerle non fece parola, neppure adesso. Non
chiese a Tay se voleva un'arma. Non cercò di dirgli quello che doveva
fare. Non era necessario: Tay era un druido e lo sapeva da sé. Salirono
le scale come due spettri, tendendo l'orecchio nel silenzio, cercando di
udire qualche suono rivelatore. Non ce ne furono. Raggiunsero il
pianerottolo del primo piano e guardarono nei corridoi bui. C'erano i
corpi di altre guardie. Tay era stupito. Non s'era udito alcun gemito!
Come mai quei soldati, quei Cacciatori degli Elfi usciti da un lungo
addestramento, erano morti senza dare l'allarme? Il corridoio si univa
ad altri due, che portavano alle ali del palazzo dove dormiva la
famiglia reale. Jerle si girò verso Tay, con gli occhi fiammeggianti e
lo sguardo duro, e gli fece segno di andare a destra mentre lui andava a
sinistra. Tay lo vide pronto a scattare come un felino, e si avviò nella
direzione a lui assegnata. Proseguì serrando i pugni, e la magia si
accumulò nelle sue mani come una pulsazione pronta a scattare. Dopo
qualche passo, il timore lasciò il posto all'orrore. Si udiva qualche
suono, ora: voci sommesse, singhiozzi e gemiti che si spegnevano subito,
e Tay corse verso quella direzione, senza pensare ad altro. Quando
svoltò a un angolo, davanti a lui si mossero alcune ombre. Colse il
luccichio sinistro delle armi e alcune forme basse e tozze si lanciarono
contro di lui. Gnomi. Tay cessò di pensare e reagì automaticamente.
Sollevò la mano destra e spalancò il pugno: la magia esplose contro gli
assalitori, sollevandoli di peso e scagliandoli contro le pareti con una
forza tale da spezzare loro le ossa. Poi se li lasciò alle spalle come
se non esistessero e passò davanti a camere aperte, i cui occupanti
erano riversi a terra morti - madri, padri e bambini, senza distinzione
- per dirigersi verso le porte ancora chiuse, dove poteva esserci
qualche speranza. Un gruppo di assalitori uscì allo scoperto mentre Tay
passava. Si scagliarono su di lui e lo buttarono a terra. Le armi
mulinarono con furia, affilate e mortali, ma lui era un druido e le sue
difese erano già alzate: le lame gli scivolarono sul corpo come se fosse
stato coperto da un'armatura mentre afferrava gli avversari e li
scagliava lontano da sé. Era forte anche senza la magia, ma con essa ad
aiutarlo, gli Gnomi non erano avversari di cui preoccuparsi. Si rialzò
quasi subito, e il suo fuoco spazzò la zona attorno a lui, in un arco
mortale, abbattendo i pochi rimasti in piedi. Dalle stanze giunsero
nuovi gemiti, e Tay proseguì, inorridito da quanto stava succedendo. Un
attacco, un colpo mortale sferrato all'intera famiglia reale degli Elfi.
Capì che era lo stesso gruppo di Gnomi da lui incontrato nelle pianure a
sud delle Streleheim e che non erano né esploratori né razziatori, ma
assassini, e che il loro capo, il Messaggero del Teschio, non doveva
essere lontano. Passò davanti a camere piene di Ballindarroch uccisi,
grandi e piccoli, ammazzati nel sonno o al risveglio. Una volta
eliminata la Guardia Reale, più niente aveva impedito agli Gnomi di
portare a termine la loro missione di morte. Tay sibilò per la
frustrazione. In quanto era successo, era stata usata la magia. Non
c'era altro mezzo che permettesse agli assassini di entrare senza far
scattare l'allarme. Ribolliva di collera. Arrivò davanti a un'altra
porta e scorse alcuni Gnomi intenti a uccidere un uomo e una donna, dopo
averli spinti con la schiena contro la parete. Tay scagliò la sua magia
contro gli assalitori e li bruciò vivi. Adesso, come in risposta alla
sua azione, si levarono alcune grida, che finalmente diedero l'allarme.
Non provenivano dalla sua ala ma dall'altra, quella dove stava lottando
Jerle Shannara. Lasciò l'uomo e la donna feriti e proseguì perché non
poteva fermarsi ad aiutarli. In quell'ala rimanevano solo alcune porte e
una di esse, rammentò all'improvviso, con una fitta di terrore, era
quella della camera da letto di Courtann Ballindarroch. Entrò subito in
quella, disperato, temendo di arrivare tardi. Passò davanti a una porta
chiusa, alla sua sinistra, e a una aperta, alla sua destra. Da quella
aperta uscì un paio di Gnomi: impugnavano armi insanguinate e i loro
occhietti gialli scintillavano; nel vedere Tay, sulle loro facce da
furetti comparve un'espressione stupita. Il druido mosse la mano nella
loro direzione ed entrambi svanirono in un'esplosione di fiamma, morti
ancor prima di capire cosa succedeva. Tay sentiva diminuire le proprie
forze a causa dell'impiego dei poteri magici. Non aveva mai messo così
alla prova, in passato, la sua resistenza e doveva procedere con
cautela. Bremen l'aveva avvertito molte volte che l'uso della magia
aveva un limite. Tay doveva conservare quella che gli rimaneva per un
momento di reale necessità. Solo allora si accorse che anche la porta
della camera da letto del re era aperta. Era stata forzata e si scorgeva
una lunga crepa nel legno. Tay non ebbe esitazioni. Si lanciò contro la
porta, la spalancò e irruppe all'interno. Nella stanza non c'era alcuna
lampada, ma dalle ampie finestre entrava luce dall'esterno, proiettava
sulle tende e sulle pareti grandi ombre deformi e grottesche. Courtann
Ballindarroch era stato scagliato contro una parete e giaceva a terra,
la faccia e il petto sporchi di sangue, un braccio piegato in modo
innaturale; aveva gli occhi aperti e batteva rapidamente le palpebre. Il
Messaggero del Teschio era fermo ad alcuni passi da lui, incappucciato e
seminascosto dalle ali. S'era impadronito della regina e in quel momento
la stava sollevando dal letto, dopo aver ridotto a brandelli le coperte.
Il corpo della donna era spezzato, privo di vita, gli occhi sbarrati e
fissi. Quando scorse Tay, il mostro la gettò a terra, sprezzante, e si
girò ad affrontare il druido, soffiando minaccioso. Dall'ombra uscirono
alcuni Gnomi che si gettarono su Tay, il quale li cacciò via come se
fossero insetti molesti e nello stesso tempo scagliò contro il loro capo
tutta la forza della sua magia. Il Messaggero venne colto impreparato,
forse perché l'aveva scambiato per un'altra guardia, un'altra vittima
inerme. La magia di Tay esplose contro il mostro in una fiammata che gli
portò via una buona metà della faccia. Il Messaggero gridò di rabbia e
dolore, portandosi inutilmente alla ferita la mano munita di artigli,
poi si gettò contro Tay. La sua velocità era stupefacente, e ora fu il
druido a rimanere sorpreso. Il Messaggero lo colpì prima che potesse
ripararsi, lo scagliò da una parte, infilò la porta e sparì. Tay si
rimise in piedi a fatica, esitò un solo istante per guardare Courtann,
poi si lanciò all'inseguimento. Nel corridoio buio evitò i cadaveri e le
chiazze di sangue, e tese tutti i sensi per cogliere la presenza di
altri assalitori. Davanti a lui, il Messaggero del Teschio era un'ombra
vaga, che si muoveva pesante nel buio. Dall'esterno giungeva adesso un
coro di grida, accompagnato da rumore di passi pesanti e dal clangore
delle armi: era la Guardia Reale che arrivava dalla caserma in risposta
all'allarme. Tay correva, e il cuore gli martellava nelle orecchie.
Gettò via il mantello per muoversi più agevolmente. Quando giunse
all'incrocio con il corridoio principale, il Messaggero del Teschio
proseguì d'istinto verso l'altra ala, evitando il drappello di
Cacciatori degli Elfi che saliva le scale. Quando Tay passò davanti a
loro, gridò di seguirlo. E chiamò anche Jerle Shannara. Il Messaggero si
guardò alle spalle. Alla luce delle torce, la sua faccia era una macchia
di carne gonfia e sanguinolenta. Tay gli lanciò la sua sfida, con voce
carica d'odio, ma il cacciatore alato non rallentò la sua corsa e
imboccò una stretta rampa di scale che portava a un terrazzo. Il mostro
era più veloce di lui e lo stava distanziando. Tay imprecò
rabbiosamente. Poi, all'improvviso, una figura isolata comparve in fondo
al corridoio, uscendo dal buio: una sagoma agile e felina che passava
con sicurezza in mezzo ai cadaveri e si lanciava verso le scale,
all'inseguimento del Messaggero. Era Jerle. Tay proseguì, costringendosi
a correre più in fretta, anche se il suo respiro era ormai un rantolo
rauco. Arrivò alla scala pochi istanti dopo l'amico. Nel buio inciampò e
cadde, ma si alzò risolutamente e proseguì. Sul parapetto del terrazzo,
Jerle lottava corpo a corpo col Messaggero. Doveva essere uno scontro
impari, perché il cacciatore alato era molto più forte dell'elfo, ma
Jerle Shannara sembrava indemoniato. Combatteva come se vivere o morire
non facesse differenza per lui, purché l'avversario non si salvasse. Si
spostavano avanti e indietro lungo il terrazzo, finivano contro il
parapetto, si contorcevano l'uno sull'altro, passavano dall'oscurità
alla luce. Jerle serrava tra le braccia le ali del mostro, impedendogli
di volar via. Il Messaggero del Teschio cercava di colpire con gli
artigli l'elfo, ma Jerle gli stava alle spalle, fuori portata. Con un
grido, Tay corse ad aiutare l'amico. Concentrò la magia sulla punta
delle dita, evocandola come gli aveva insegnato Bremen e unendo la forza
del suo corpo a quella degli elementi che gli avevano dato la vita, per
stimolare il suo fuoco vitale. Il Messaggero del Teschio lo vide
avvicinarsi e si voltò di scatto, ponendo Jerle tra sé e Tay, in modo
che il druido non potesse usare la magia. Sotto di loro, nel cortile, i
soldati alzarono gli occhi accorgendosi solo allora della lotta, e
riconobbero Jerle. Incoccarono le frecce e tesero gli archi, pronti a
colpire. Infine il mostro spezza la presa di Jerle, balzò sul parapetto
e si lanciò in volo. Per un momento parve rimanere immobile nella luce,
enorme e nero, orribile come un incubo, una bestia braccata alla ricerca
di un rifugio. Tay la colpì con tutta la forza che aveva, scagliando il
Fuoco Magico contro la sua forma odiosa. Sotto, gli arcieri scoccarono,
e decine di frecce si piantarono nel corpo della creatura. Il Messaggero
rabbrividì, perse colpi d'ala, poi riprese a volare, lasciando dietro di
sé una scia di fiamme e fumo, come la coda di un aquilone. Era irto di
frecce. Una seconda salva lo colpì, e questa volta perse il controllo di
un'ala. Con uno sforzo disperato, cercò di gettarsi su una macchia di
alberi. Ma ormai aveva perso le forze, il suo corpo non rispondeva più.
Cadde a terra e continuò a battere le ali anche quando i soldati gli
furono sopra con le spade. E anche allora, impiegò molto tempo a morire.
Un'accurata perlustrazione dei giardini reali, della città e delle
foreste adiacenti non portò alla scoperta di altri attaccanti. A quanto
pareva, erano stati eliminati tutti. Forse sapevano di morire. Forse,
nel venire ad Arborlon, già sapevano di far parte di una missione
suicida. Ma la cosa non aveva importanza. Ciò che contava era che la
loro missione era riuscita. Avevano spazzato via tutta la famiglia
reale, uomini, donne e bambini. I Ballindarroch erano morti nel sonno:
alcuni non si erano neppure destati, altri si erano destati per il tempo
sufficiente a capire cosa succedeva e poi avevano perso la vita. La
portata del disastro era stupefacente. Courtann Ballindarroch viveva
ancora, ma era appeso a un filo: i guaritori avevano lavorato su di lui
per tutta la notte, ma anche dopo aver fatto il possibile non c'erano
molte speranze. Un solo figlio era rimasto in vita, il penultimo,
Alyten, che era andato a caccia con gli amici e per puro caso non aveva
condiviso il destino dei familiari. Erano sopravvissuti anche due nipoti
del re, giovanissimi, che dormivano nella stanza dinanzi a cui era
passato Tay per recarsi in quella del sovrano. Erano salvi perché gli
Gnomi assassini non erano ancora arrivati fino a loro. Non si erano
svegliati nel corso dell'attacco. Il maggiore aveva solo quattro anni,
il più piccolo non ne aveva ancora due. Nel giro di poche ore la città
si era trasformata in un accampamento. In tutti i quartieri montavano la
guardia i Cacciatori. Lungo tutte le strade e nella Valle di Rhenn erano
state inviate pattuglie a dare l'allarme. Gli abitanti della città erano
stati svegliati e avevano ricevuto l'ordine di prepararsi a sostenere un
attacco su larga scala. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo, tutti
erano attoniti e terrorizzati dall'assassinio della famiglia reale nel
proprio letto. Tutto sembrava possibile, e la gente era pronta a
fronteggiare qualunque catastrofe stesse per abbattersi sulla città.
All'alba il tempo cambiò, la temperatura scese, il cielo si coprì di
nuvole, l'aria si fece pesante e immobile. Poco più tardi prese a cadere
una pioggia leggera ma insistente, che riempì l'aria di foschia e portò
via la luce del giorno. Tay sedeva accanto a Jerle Shannara nella
rientranza di una finestra, in un'alcova all'ingresso del palazzo reale,
e guardava la pioggia cadere. I cadaveri erano stati portati via. Tutte
le stanze erano state ispezionate due volte, alla ricerca di eventuali
assassini ancora nascosti. Il sangue versato nell'attacco era stato
lavato, le camere da letto dov'era avvenuto il massacro erano state
svuotate del mobilio e pulite. Tutto questo era stato fatto nella notte,
prima dell'alba, come per nascondere il dramma e scordare l'orrore. Ora
il palazzo era vuoto. Anche i due nipoti superstiti di Courtann
Ballindarroch erano stati portati in altre case, in attesa di decidere a
chi affidarli. "Sai perché l'hanno fatto, vero?" chiese Jerle,
all'improvviso, rompendo un silenzio che durava già da qualche tempo.
Tay lo guardò. "Il massacro?" Jerle annuì. "Per spezzare la nostra
organizzazione. Per creare instabilità. Per impedirci di mobilitare
l'esercito" disse con voce stanca. "In breve, per impedirci di aiutare i
Nani. Morto Courtann, gli Elfi non faranno nulla finché non avranno un
nuovo re. Il Signore degli Inganni lo sa. Per questo ha mandato ad
Arborlon i suoi assassini, con l'incarico di uccidere tutti. Quando ci
saremo riorganizzati a sufficienza per prendere una decisione, per i
Nani sarà troppo tardi. La Terra dell'Est sarà ormai caduta." Tay trasse
un profondo respiro. "Non possiamo permetterlo." Jerle sbuffò
ironicamente. "Non possiamo farci niente, è già successo!" Agitò la
mano, come per chiudere l'argomento. "Courtann Ballindarroch sarà
fortunato se sopravvivrà ancora un giorno. Hai visto come l'hanno
conciato. Non è mai stato molto robusto. Non so come faccia a essere
ancora vivo." Jerle appoggiò la schiena alla parete e posò i piedi sulla
panca davanti a lui: in quel momento sembrava un bambino costretto a
rimanere in casa controvoglia. Aveva i vestiti strappati perché non si
era ancora cambiato dopo la lotta. Aveva anche un brutto taglio sulla
guancia; se l'era lavato e dimenticato. Sembrava uno straccione. Tay si
guardò. Non era in condizioni migliori dell'amico. Entrambi avevano
bisogno di un bagno e di una dormita. "Secondo te" chiese Jerle a bassa
voce "cosa farà ancora, per fermarci?" Tay scosse la testa. "Non farà
più niente, qui. Che altro vuoi che faccia? Ma penso che darà la caccia
a Risca e a Bremen. Forse li sta già inseguendo." Si girò a guardare la
pioggia, ascoltò il rumore delle gocce contro i vetri. "Mi dispiace di
non poterli avvertire. Vorrei sapere dov'è Bremen." Pensò alla
situazione degli Elfi dopo quella notte. La famiglia reale decimata, il
loro senso di sicurezza infranto, la loro pace mentale perduta. Avevano
perso molto, e Tay non era certo che potessero recuperarlo. Jerle aveva
ragione. Finché il re non fosse guarito o non fosse stato incoronato il
successore, il Gran Consiglio non avrebbe preso alcuna iniziativa per
aiutare i Nani. Nessuno si sarebbe preso la responsabilità di una simile
decisione: anzi, non era chiaro chi potesse prenderla. Alyten forse
avrebbe tentato di agire in nome del padre, ma era poco probabile. Non
era come lui: era un giovane impulsivo, che non aveva mai avuto
responsabilità. Era stato per lo più aiutante di campo del genitore, e
aveva eseguito ordini. Sarebbe stato nominato re se Courtann fosse
morto, ma i Consiglieri non avrebbero ratificato facilmente le sue
decisioni. Né Alyten le avrebbe prese facilmente. Si sarebbe dimostrato
prudente e indeciso, preoccupato di non commettere errori. Per lui era
il momento meno adatto per diventare re. Il Signore degli Inganni non
avrebbe perso tempo ad approfittarne. La dimensione e la complessità del
dilemma erano deprimenti. Gli Elfi conoscevano il responsabile
dell'attacco. Prima di essere fatto a pezzi, il Messaggero del Teschio
era stato visto chiaramente, e anche i Cacciatori degli Gnomi erano
stati riconosciuti. Entrambi i gruppi servivano il Signore degli
Inganni. Ma Brona era una figura senza volto, una minaccia presente in
ogni angolo delle Quattro Terre, una forza senza centro, una leggenda
che sconfinava nel mito, e nessuno sapeva dove cercarlo. C'era e non
c'era. Esisteva, ma dove? Come potevano muovere contro di lui? Ora che i
Druidi di Paranor erano stati distrutti, non c'era nessuno a dire agli
Elfi cosa fare, nessuno ad avvertirli, nessuno a consigliarli, nessuno
che rispettassero a sufficienza da obbedirgli. Con due rapide mosse, il
Signore degli Inganni aveva distrutto l'equilibrio dei poteri nelle
Quattro Terre e immobilizzato la Razza più forte. "Non possiamo restare
qui con le mani in mano" commentò Jerle, come se leggesse i pensieri di
Tay. Tay annuì. Pensava che il tempo scivolava via, che correva il
pericolo di non mantenere le promesse fatte a Bremen. Guardò fuori: la
grigia foschia della pioggia rendeva confuso e indistinto il panorama.
Fino a poco tempo prima era certo di tutto, adesso non c'era più niente
di sicuro. "Se non possiamo fare niente per i Nani, dobbiamo almeno fare
qualcosa per noi" disse piano, fissando Jerle. "Dobbiamo andare alla
ricerca della Pietra Nera." L'amico lo studiò per un momento, poi annuì
lentamente. "Si potrebbe, davvero. Courtann ha già dato l'assenso." Nei
suoi occhi azzurri si accese un lampo di eccitazione. "Ci darà qualcosa
da fare mentre aspettiamo che qui la situazione si risolva. E se
troveremo la Pietra, avremo un'arma da usare contro il Signore degli
Inganni." "O gliene toglieremo una che potrebbe usare contro di noi"
disse Tay, ripensando agli avvertimenti di Bremen sul potere della
Pietra Nera. Si raddrizzò e sentì svanire la depressione. Gli ritornò la
determinazione. "Bene, bene. Vorrei che ti vedessi ora" osservò Jerle,
con aria saputa. "Ti preferisco così." Tay si alzò, impaziente di
lasciare la città. "Quando possiamo partire?" Sulle labbra di Jerle
Shannara si affacciò un sorriso. "Quanto ti occorre, per prepararti?"
11
Partirono all'alba del giorno seguente: Tay, Jerle e i pochi che avevano
scelto. Si allontanarono in silenzio, mentre i cittadini dormivano, e la
loro partenza passò inosservata. Erano soltanto in quindici, e non fu
difficile dileguarsi senza farsi vedere. Tay e Jerle avevano avvertito i
compagni la sera prima: una segretezza dovuta soltanto alla cautela.
Meno gente sapeva della loro partenza o li vedeva allontanarsi, meno
gente poteva parlarne. Anche le chiacchiere potevano arrivare alle
orecchie sbagliate. Soltanto il Gran Consiglio era al corrente del loro
piano. Alyten, che ancora non era tornato dalla caccia, l'avrebbe saputo
dopo. Questo era sufficiente. Neppure i loro stretti familiari sapevano
dov'erano diretti e lo scopo della spedizione. Dopo quello che era
accaduto ai Ballindarroch, nessuno voleva correre rischi inutili. La
situazione che si lasciavano alle spalle era quanto mai preoccupante.
Courtann Ballindarroch era tra la vita e la morte e non era chiaro se
fosse in grado di ristabilirsi. Il Gran Consiglio si sarebbe occupato
degli affari di stato in sua assenza, come previsto dalla legge degli
Elfi, ma praticamente avrebbe fatto poco, finché il destino del re non
fosse deciso. Alyten, come unico figlio superstite, avrebbe regnato in
nome del padre, ma soltanto nominalmente, finché non ci fosse stata
l'incoronazione ufficiale. La vita sarebbe andata avanti, ma gli affari
di governo si sarebbero rallentati fin quasi all'immobilità L'esercito
sarebbe rimasto in allarme, gli ufficiali avrebbero fatto il necessario
per proteggere la città e i suoi abitanti, e in grado minore anche gli
Elfi delle zone rurali più vicine. Ma l'attività dell'esercito si
sarebbe strettamente limitata alla difesa e nessuno avrebbe proposto di
uscire all'esterno dei confini finché Courtann Ballindarroch non si
fosse ristabilito o il figlio non ne avesse preso il posto. Questo
significava che non sarebbe stato mandato alcun aiuto ai Nani: il Gran
Consiglio era così fermo su questo punto che rifiutò perfino di
informare i Nani di quanto era successo. Tay e Jerle, separatamente,
supplicarono di farlo, ma ricevettero soltanto l'assicurazione che la
loro richiesta sarebbe stata presa in esame. All'improvviso, segretezza
era la parola d'ordine. Vedendo che non avrebbero ottenuto nulla, Tay e
Jerle decisero di non rimandare ulteriormente la partenza. Che il re
vivesse o no, che Alyten diventasse re o no, che il Gran Consiglio
mandasse l'avvertimento ai Nani o preferisse tacere, tutto questo
sarebbe stato deciso, prima o poi, e la loro presenza ad Arborlon non
avrebbe influenzato le decisioni. Era meglio partire alla ricerca della
Pietra Nera, dove la loro presenza poteva essere importante. Inoltre,
c'erano nuove ragioni per partire. A causa dell'assassinio, si erano
verificati due fatti imprevisti, uno riguardante Tay, l'altro Jerle, e
tutti e due consigliavano di lasciare la città. Per quanto riguardava il
primo, alcuni avevano cominciato a chiedersi perché l'attacco contro la
famiglia reale fosse coinciso col ritorno di Tay da Paranor. I Druidi
erano rispettati, ma erano anche guardati con sospetto. Coloro che ne
diffidavano non erano molti, ma dopo un disastro così inatteso e
spaventoso, la gente era più disposta a prestar loro orecchio. I Druidi
disponevano di grandi poteri e le loro azioni erano misteriose: una
combinazione preoccupante, soprattutto dopo la loro decisione di
isolarsi alla fine della Guerra delle Razze. Non era possibile, dicevano
ora quelle voci, che i Druidi fossero implicati in ciò che era successo
ai Ballindarroch? Tay era andato a parlare con il re e il Gran Consiglio
la notte stessa del massacro. Che ci fosse stata tra loro qualche
discussione che aveva incollerito Tay nella sua veste di rappresentante
dei Druidi? E non era stato il primo a entrare nella camera del re
mentre avveniva il massacro? Era una semplice coincidenza? Qualcuno
aveva visto cos'era successo? Qualcuno aveva visto quello che aveva
fatto Tay? Non aveva importanza il fatto che tali domande gli fossero
già state rivolte in una riunione o nell'altra, da un ufficiale o da un
altro, e che nessuno, nel Gran Consiglio e nell'esercito, nutrisse il
minimo dubbio sul comportamento di Tay. Importava il fatto che non
c'erano risposte precise e fatti indiscutibili, e in loro assenza erano
destinate ad affacciarsi le ipotesi più assurde. Il secondo fatto era
ancora più preoccupante. Poiché quasi tutta la famiglia Ballindarroch
era stata spazzata via, qualcuno già sosteneva che, se Courtann fosse
morto, si doveva dare la corona a Jerle Shannara. Era un ottimo
principio rispettare le regole di successione, ma Alyten era debole e
indeciso, e non molto amato dal popolo su cui avrebbe dovuto regnare. E
se gli fosse successo qualcosa, il suo erede sarebbe stato un bambino di
quattro anni, con la necessità di una reggenza che nessuno voleva.
Inoltre erano tempi difficili, pericolosi, che richiedevano un sovrano
forte. L'attacco contro la famiglia reale segnalava l'inizio di qualcosa
di grave. Su questo, tutti erano d'accordo. Il Nord era già stato
conquistato dal Signore degli Inganni con i suoi cacciatori alati e i
suoi mostri. Forse le nuove vittime designate erano gli Elfi.
Circolavano voci che le sue armate fossero già in movimento, dirette a
sud. Jerle Shannara era cugino del re e primo nella linea di
successione, se i Ballindarroch fossero stati spazzati via. Forse era
meglio che regnasse subito, senza badare al discendente diretto di
Courtann. Come ex capitano della Guardia Reale, stratega degli alti
comandi dell'esercito, consulente del Gran Consiglio e della Corona, era
la persona più adatta. Forse era meglio scegliere il nuovo re senza
badare ai precedenti e al protocollo. E sceglierlo in fretta. Tay e
Jerle vennero a conoscenza di queste voci abbastanza presto, videro dove
potevano portare e compresero che il miglior modo di affrontarle stava
nel togliersi di mezzo finché la situazione non si fosse normalizzata.
Le chiacchiere, unite alla necessità di concludere in fretta la ricerca,
li spinsero ad affrettare la partenza. In ventiquattr'ore organizzarono
la spedizione, riunirono l'equipaggiamento, fecero i piani di viaggio e
partirono. La città era avvolta nella nebbia: da parecchie ore cadeva
una pioggia gelida che non dava segno di voler cessare. Le strade erano
già intrise d'acqua e sui rami e sui tronchi degli alberi si allargavano
grandi macchie nere. La foschia usciva dalla foresta, si levava dal
terreno ancora caldo, riempiva di bizzarri movimenti le depressioni del
terreno. Ogni cosa era avvolta nella penombra e nell'oscurità, e la
compagnia si muoveva all'incerta luce dell'alba come una fila di spettri
che inseguisse la notte. Per il primo tratto avevano scelto di procedere
a piedi, portando con sé unicamente le armi e le provviste per un
giorno. In seguito avrebbero lavato i vestiti e si sarebbero procurati
il cibo cacciando, finché non avessero raggiunto il Sarandanon, dopo tre
giorni circa. Laggiù avrebbero trovato cavalli, vestiti puliti e
rifornimenti per il resto del viaggio, fino alle Terre di Confine. Erano
un gruppo stranamente assortito. Eccettuato uno solo, tutti i suoi
componenti erano stati scelti da Jerle Shannara, con l'approvazione di
Tay, perché questi era rimasto lontano da Arborlon per troppo tempo e
non sapeva chi fosse più adatto ad aiutarli. Occorrevano Cacciatori
degli Elfi, soldati scelti: Jerle ne scelse dieci, portando così a
dodici il numero dei componenti. Sicura come sempre, Preia Starle aveva
già affermato la sua intenzione di partire con loro, e Jerle e Tay non
avevano perso tempo a opporsi. Jerle aveva scelto un altro esploratore,
un veterano di nome Retten Kipp, il quale faceva parte della Guardia
Reale da più di trent'anni. Infatti, per essere coperti anche alle
spalle, e non soltanto davanti, era necessario più di un esploratore;
inoltre, se fosse successo qualcosa a Preia, avrebbero avuto bisogno di
un sostituto. Tay non avrebbe voluto ascoltare quei discorsi, ma non
poté trovarvi nulla di sbagliato. Questo portò il numero a quattordici.
Tay chiese ancora una persona. L'uomo che voleva era Vree Erreden.
Sembrava una scelta stravagante, di primo acchito, e Jerle glielo disse
subito. Vree Erreden non era tenuto in grande considerazione dagli Elfi:
appartato, timido e un po' lunatico, non si occupava d'altro che del suo
lavoro. E su questo le opinioni divergevano. Era un locat, un veggente
specializzato nel trovare le persone scomparse e gli oggetti smarriti.
La sua abilità era oggetto di molte contestazioni. Coloro che credevano
in lui mostravano una fede incrollabile. Gli altri lo ritenevano un
mezzo matto e un balordo. Era sopportato perché di tanto in tanto le sue
ricerche avevano successo e perché, in generale, gli Elfi avevano una
grande tolleranza per gli eccentrici, dopo essere stati oggetto di molti
sospetti, nel corso degli anni, da parte delle altre Razze. Vree Erreden
non parlava mai delle proprie capacità; erano gli altri a parlarne e a
magnificarle, ma ciò non lo rendeva più accetto ai suoi detrattori. Tay
non era fra questi: anzi, benché non l'avesse mai detto a nessuno,
pensava di avere molte cose in comune con lui. In un certo senso,
sentiva una sorta di fratellanza spirituale. Se l'avesse voluto, Vree
sarebbe potuto entrare fra i Druidi. Le sue doti gliel'avrebbero
permesso e Tay avrebbe appoggiato la sua richiesta. Entrambi possedevano
un talento naturale che in seguito era stato addestrato da anni di
pratica: Tay l'evocatore di elementi, Vree il locat. Il talento di Tay
era quello più facilmente visibile e dimostrabile, perché utilizzava
conoscenze magiche e scientifiche attinte alle energie della terra:
manifestandosi, i suoi poteri davano sempre la prova di quanto stesse
facendo. Il talento di Vree Erreden, invece, risiedeva completamente
dentro di lui, aveva una natura passiva ed era difficile da verificare.
I veggenti si basavano sulla prescienza, sull'intuito, sul lampo di
genio, doti che possedevano con intensità assai maggiori rispetto agli
uomini normali, ma difficili da vedere. I locat erano molto apprezzati
all'epoca in cui gli Elfi e le altre creature di Faerie si servivano
abitualmente dei loro poteri. Ora ne rimaneva una manciata, gli altri
s'erano persi con la fine del vecchio mondo e il cambiamento di natura
della magia. Ma Tay era uno studioso delle antiche usanze e capiva il
potere di Vree, che per lui era reale al pari del suo. Era andato a
trovare il locat il pomeriggio precedente alla partenza e l'aveva scorto
nel cortile, curvo su un mucchio di carte geografiche e di appunti: la
sua figura minuta era china sui fogli, le sue mani tracciavano linee e
parole sulle carte. Aveva alzato gli occhi quando Tay aveva aperto il
cancello della sua casa, piccola e anonima, poi l'aveva guardato
stringendo gli occhi perché aveva il sole in faccia e perché aveva la
vista corta. Ogni anno, si diceva, la vista gli peggiorava, ma a mano a
mano che gli occhi diventavano più deboli, la sua intuizione diventava
più acuta. "Sono Tay Trefenwyd" aveva detto, avvicinandosi in modo che
il sole gli illuminasse la faccia. Vree Erreden l'aveva guardato senza
dar segni di riconoscimento. Tay era assente da cinque anni: era
possibile che non si ricordasse di lui. Inoltre, non indossava la veste
scura del suo ordine, perché era tornato agli abiti ampi e comodi degli
Elfi, e forse il locat non aveva associato al nome il fatto che si
trattava di un druido. "Mi occorre il tuo aiuto per cercare un oggetto"
aveva continuato Tay, senza badarci. L'altro aveva sollevato leggermente
la faccia. "Se mi aiuterai, potrai salvare molte vite, in gran parte di
Elfi. Sarà la più importante ricerca della tua vita. Se riuscirai a
trovare quell'oggetto, nessuno oserà più dubitare di te." Sulla faccia
di Vree era comparsa un'espressione divertita. "E' un'affermazione molto
impegnativa, Tay." Tay aveva sorriso. "Nella posizione in cui sono, devo
fare affermazioni impegnative. Domani parto per il Sarandanon e per le
Terre di Confine. Devo convincerti ad accompagnarmi. Non ho il tempo per
cercare mezzi di persuasione più sottili." "Che cosa cerchi?" "Una
Pietra Nera degli Elfi, perduta fin dal tempo di Faerie, migliaia di
anni fa." Il locat l'aveva guardato. Non aveva chiesto a Tay perché
fosse venuto o se davvero si fidava di lui. Aveva dato per scontato che
Tay credesse nei suoi poteri, forse perché era un veggente, forse per
quello che aveva fatto in passato. O forse perché non si era posto il
problema. Ma l'aveva fissato con curiosità e con una sfumatura di dubbio
sul viso. "Dammi le mani" gli aveva detto. Tay le aveva sollevate e Vree
Erreden le aveva afferrate. La sua stretta era straordinariamente forte.
Aveva guardato Tay negli occhi per un momento, poi aveva fissato un
punto lontano, e lo sguardo gli si era sfocato. Era rimasto così per
parecchi minuti, immobile come una statua, fissando qualcosa che Tay non
poteva vedere. Infine aveva battuto le palpebre e lasciato le mani di
Tay, e si era messo a sedere. Aveva sorriso. "Verrò con te" aveva detto.
Nient'altro. Aveva chiesto dove si sarebbero trovati e che
equipaggiamento portare, poi era tornato ai suoi scritti e alle sue
carte, senza una parola, dimentico di tutto. Tay si era soffermato
ancora per qualche istante, fino ad avere la certezza che non c'era
motivo di fermarsi ulteriormente, poi se n'era andato. Così erano
partiti in quindici da Arborlon, all'alba e con la pioggia: una fila di
persone avvolte nel mantello e incappucciate, irriconoscibili nella
penombra, che prendevano parte alla spedizione per ragioni di cui, dopo
l'incontro iniziale, nessuno avrebbe più parlato. Scesero lungo il
Carolan fino alle prime cateratte del Rill Song, attraversarono il fiume
servendosi del traghetto a disposizione della cittadinanza e si
avviarono verso ovest passando tra le ombre dell'antica foresta.
Avanzarono per tutto il giorno nella pioggia, che non cessò mai di
cadere, anche se occasionalmente diminuì d'intensità. Si fermarono solo
una volta per mangiare e altre due quando incontrarono una fonte e
riempirono d'acqua gli otri. Nessuno era stanco, neppure Vree Erreden.
Erano Elfi, abituati a percorrere lunghe distanze, e tutti erano in
grado di tenere il passo moderato di Jerle Shannara. I sentieri erano
fangosi e scivolosi, e più volte furono costretti a superare tratti
allagati a causa della pioggia. Nessuno si lamentò. Nessuno aveva voglia
di parlare. Anche quando si fermarono per mangiare, si sedettero a una
certa distanza l'uno dall'altro, ben avvolti nel mantello per ripararsi,
ciascuno immerso nei propri pensieri. Una volta Tay si avvicinò a Vree
Erreden per dirgli che era lieto della sua decisione di unirsi al
gruppo, e il locat lo guardò come se fosse matto, o come se avesse detto
la più grande stupidaggine della storia. Tay sorrise e lasciò che
passasse avanti; in seguito non gli parlò più. Per tutto il giorno
continuarono ad allontanarsi da Arborlon e dai monti che la circondavano
e ad avvicinarsi al Sarandanon. Scese la notte, e montarono
l'accampamento. Non venne acceso il fuoco e la cena venne consumata
fredda. Sotto gli alberi regnavano l'oscurità e il silenzio; il solo
movimento era dato dalle gocce di pioggia che cadevano con regolarità.
Per uscire dalla foresta e raggiungere la distesa aperta della valle era
necessaria un'altra giornata; poi il panorama sarebbe cambiato
drasticamente, perché avrebbero attraversato la regione agricola dove si
producevano le derrate alimentari che nutrivano la nazione degli Elfi.
Al di là di quella, dopo altri quattro giorni di viaggio, c'erano le
Terre di Confine, che erano la loro destinazione. Dopo avere cenato, Tay
continuò a sedere in disparte e a fissare la foresta buia. Era bagnato e
infreddolito, perso nei suoi pensieri. Nella speranza di trovare qualche
spunto che gli era sfuggito, riandò alla visione della Pietra Nera
rivelata a Bremen al Perno dell'Ade. I particolari gli erano ormai
familiari: a furia di riesaminarli, li aveva staccati l'uno dall'altro
in modo da poterli studiare isolatamente. Al suo ritorno dall'evocazione
dello spettro di Galaphile, Bremen gli aveva descritto il nascondiglio
del talismano, e adesso occorreva soltanto trovare il luogo
corrispondente alla descrizione. Questo poteva avvenire in vari modi.
Preia Starle e Retten Kipp potevano scoprire la Pietra Nera mettendo
insieme le tracce trovate nelle loro esplorazioni. Tay poteva scoprirla
come esperto degli elementi, grazie alle interruzioni delle linee
d'energia causate dalla magia del talismano. Oppure poteva scoprirla
Vree Erreden con il suo talento di locat, cercando la Pietra come
avrebbe fatto con un qualsiasi oggetto smarrito, servendosi della
prescienza e dell'intuizione. Tay si voltò verso il locat, che si era
già addormentato. Ormai anche molti degli altri dormivano, o stavano per
addormentarsi. Lo stesso Jerle Shannara s'era avvolto nella coperta e
steso a terra. Un solo cacciatore faceva il turno di guardia, girando
attorno al perimetro dell'accampamento, ombra tra le ombre. Tay lo
guardò per un attimo, distrattamente, poi tornò a osservare Vree
Erreden. Il locat gli aveva letto nel pensiero la visione di Bremen,
quando gli aveva preso le mani in occasione della sua visita. Adesso ne
era certo, anche se al momento non gliene era venuto il sospetto. Era
stata la visione a convincere il locat, quella breve occhiata su un
luogo perso nel tempo, su una magia sopravvissuta a un mondo scomparso,
su cose un tempo note e che potevano essere di nuovo rivelate. Il furto
era stato commesso con grande destrezza, e Tay non poté nascondere una
certa ammirazione per l'audacia del suo autore. Non era da tutti
scassinare la serratura della mente di un druido. Dopo qualche minuto si
alzò perché non riusciva a dormire e si portò nella zona percorsa dalla
sentinella. Il cacciatore lo notò, ma non accennò ad avvicinarsi e
continuò il proprio giro. Tay osservò gli alberi carichi di pioggia, e
quando i suoi occhi si abituarono al buio cominciò a scorgere strane
forme, strane figure nella pioggia, anche in assenza di luna e di
stelle. Vide passare un cervo, piccolo e delicato nella penombra: aveva
gli occhi allarmati e le orecchie ritte. Vide gli uccelli notturni
passare rapidi da un ramo all'altro, alla ricerca di cibo, e poi, quando
lo trovavano, tuffarsi con stupefacente velocità verso terra e infine
rialzarsi con qualche piccola creatura nel becco o tra gli artigli. In
quelle vittime gli parve di vedere il popolo degli Elfi in caso di
vittoria del Signore degli Inganni: un popolo inerme e indifeso, quando
Brona avesse iniziato la caccia. Già in quel momento aveva l'impressione
che qualcuno pensasse a loro come a una prossima preda. E anche se
quella sensazione non gli piaceva, non pensava che potesse svanire
facilmente, almeno per il momento. Stava ancora chiedendosi il
significato di quella sensazione, quando Preia Starle comparve
all'improvviso accanto a lui. Tay trasalì suo malgrado, poi si costrinse
a calmarsi quando vide il sorriso della donna. Era stata via per tutto
il giorno, dopo essere partita all'alba in avanscoperta con Retten Kipp.
Nessuno sapeva quando sarebbero tornati, perché gli Esploratori erano
liberi di fare ciò che giudicavano necessario e di seguire proprie
tabelle di marcia. Quando vide la faccia preoccupata di Tay, Preia gli
sorrise. Senza parlare, lo prese per il braccio e lo ricondusse
nell'accampamento. Indossava vestiti da foresta ampi e comodi, guanti e
stivali leggeri, e tutti i suoi abiti erano intrisi d'acqua. La pioggia
le incollava sulla pelle i corti capelli ondulati color cannella e le
scorreva sulle guance, ma lei pareva non accorgersene. Accompagnò Tay a
qualche passo di distanza dal resto del gruppo, fino a una chiazza di
erba asciutta, sotto una quercia. Si sfilò la cintura con i lunghi
coltelli da caccia, posò la corta spada e l'arco, e si sedette. A Tay
parve troppo fragile e giovane per portare tante armi. "Non riesci a
dormire, Tay?" gli chiese a bassa voce, stringendogli il braccio. Lui
incrociò le lunghe gambe, poi scosse la testa. "Dove sei stata?" "Qua e
là." Si asciugò la pioggia dal viso e sorrise. "Non mi avevi vista,
vero?" Lui la guardò con riprovazione. "Qual è la risposta, secondo te?
Ti piace accorciare la vita alle persone spaventandole così? Se non
riuscivo a dormire prima, come pensi che ci riesca adesso?" Lei si
sforzò di non ridere. "Mi aspetto che tu ci riesca. Dopotutto sei un
druido, e i Druidi riescono a fare qualsiasi cosa. Impara da Jerle. Lui
dorme sempre come un neonato. Si rifiuta di rimanere sveglio, anche
quando io preferirei che lo rimanesse." Batté le palpebre perché si era
accorta di quello che si poteva intuire dalle sue parole, e si affrettò
a guardare da un'altra parte. Dopo un attimo, riprese: "Kipp è andato
fino al Sarandanon per assicurarsi che i cavalli e i rifornimenti siano
pronti.LO sono tornata per avvertirvi dei Cacciatori degli Gnomi". Lui
si girò di scatto a guardarla, in attesa di chiarimenti. "Due grosse
squadre" proseguì lei. "Tutt'e due a nord. Potrebbero essercene altre.
Ho trovato un mucchio di tracce. Non credo che sappiano di noi, almeno
per ora. Ma dobbiamo fare molta attenzione." "Sai dirmi cosa ci fanno
qui?" Lei scosse la testa. "Vanno a caccia, penso. Il tipo di tracce lo
farebbe pensare. Si tengono vicino al Kensrowe, a nord della prateria.
Ma potrebbero spostarsi, specialmente se si accorgessero di noi." Lui
rimase in silenzio per un momento, riflettendo sulla notizia. Lei attese
la sua risposta, studiando la sua faccia nella penombra. In mezzo a
coloro che dormivano, qualcuno diede un colpo di tosse e cambiò
posizione. La pioggia cadeva con un lento tambureggiamento, un
sottofondo continuo che giungeva dal buio. "Hai visto qualche
Messaggero?" chiese infine Tay. Preia scosse di nuovo la testa. "No."
"Qualche traccia insolita?" "No." Tay annuì, augurandosi che l'assenza
fosse significativa. Forse il Signore degli Inganni aveva lasciato a
casa i suoi mostri. Forse avrebbero dovuto affrontare soltanto i
Cacciatori degli Gnomi. Accanto a lui, la donna si sollevò in ginocchio.
"Riferisci a Jerle il mio rapporto, Tay.LO devo tornare laggiù."
"Subito?" "Subito è meglio di poi, se vuoi che il lupo stia lontano da
noi." Sorrise. "Ricordi il proverbio? Lo ripetevi sempre, quando dicevi
di voler andare a Paranor per diventare un druido. E dicevi che ci
avresti protetti: noi, i poveri amici casalinghi che ti lasciavi alle
spalle." "Ricordo." Tay le prese il braccio. "Hai fame?" "Ho mangiato."
"Perché non resti fino all'alba?" "Meglio di no." "Non vuoi fare
rapporto a Jerle di persona?" Lei lo osservò per un momento, riflettendo
tra sé. "Voglio che gli dia tu queste notizie. Lo farai?" Il suo tono di
voce era cambiato. Non era più disposta a discutere. Lui annuì senza
parlare e staccò la mano dal suo braccio. Preia si alzò, riprese i
coltelli e la spada, sollevò l'arco e gli sorrise. "Pensa a quello che
mi hai appena chiesto" gli disse. Scivolò di nuovo nell'ombra e, dopo un
istante, sparì. Per qualche tempo Tay non si mosse, perché rifletteva
sulle parole di Preia, poi si alzò per andare a svegliare Jerle. La
pioggia continuò a cadere per tutto il giorno seguente, senza
interruzione. La compagnia proseguì attraverso la foresta, con ogni
senso all'erta per la presenza di Gnomi e pronta a tutto. Le ore
trascorsero lente, dall'alba al tramonto, senza molte differenze, perché
in tutta la giornata il solo chiarore fu la luce grigia che filtrava tra
le nubi plumbee e le foglie cariche di pioggia. La marcia fu lenta e
monotona. Nei boschi non incontrarono nessuno. Nell'umido grigiore nulla
si muoveva. La notte giunse e passò, ma né Preia Starle né Retten Kipp
fecero ritorno. All'alba del terzo giorno giunsero nelle vicinanze del
Sarandanon. La pioggia era cessata e il cielo cominciava a schiarirsi.
Il sole faceva capolino dalle nubi sotto forma di stretti raggi sullo
sfondo turchino. L'aria si riscaldò e la terra cominciò ad asciugarsi.
Poco più tardi, in una radura illuminata dal sole e rallegrata da fiori
selvatici, s'imbatterono nell'arco di Preia Starle, spezzato e
infangato. Non c'erano altre tracce della giovane donna. Ma le impronte
degli Gnomi erano dappertutto.
12
Il sole tramontava e l'oscurità si affacciava dall'Anar, quando la
retroguardia dell'imponente esercito del Signore degli Inganni uscì dal
Passo di Jannisson per riversarsi nelle Pianure di Raab. C'era voluta
tutta la giornata perché uscisse dalle Streleheim, dato che il Passo era
stretto e serpeggiante e l'armata era rallentata da un convoglio di
animali da soma, bagagli e carri lungo quasi due miglia. I combattenti
si muovevano a velocità diverse: la cavalleria procedeva rapida e
impaziente, ma la fanteria leggera, gli arcieri e i frombolieri erano
più lenti, e la fanteria pesante era ancora più lenta. Ma nessuna delle
varie componenti dell'esercito era lenta e impacciata come il convoglio
dei rifornimenti, che percorreva il Passo con una lentezza esasperante e
ogni pochi minuti era ferma perché si era rotta una ruota o una stanga,
i finimenti si erano allascati o gli animali avevano bisogno di acqua,
c'era stata una collisione, uno scontro, un ingorgo. Lo spettacolo dava
a Risca, che lo guardava da un nascondiglio nei Denti del Drago, mezzo
miglio più a sud, un cupo senso di soddisfazione. Tutto ciò che
intralciava l'avanzata del Signore degli Inganni era il benvenuto,
continuava a dirsi. Tutto ciò che rallentava il suo odioso procedere
verso sud, verso la sua terra. La maggior parte dell'esercito era
costituita di Troll dall'aria stolida e dalla pelle più spessa del
cuoio, virtualmente privi di connotati e più simili a bestie che a
uomini. I più grossi e feroci erano i Troll delle Montagne, alti in
media più di un metro e ottanta e pesanti in proporzione. Costituivano
il nerbo dell'esercito, e la loro marcia precisa e disciplinata
testimoniava della loro efficienza in battaglia. I Troll erano presenti
anche nelle altre squadre, per colmare il divario. Nella cavalleria e
nella fanteria leggera predominavano gli Gnomi: i piccoli e tenaci
combattenti di una razza tribale simile a quella dei Troll, anche se
meno abile e meno addestrata. Obbedivano al Signore degli Inganni per
due ragioni: la prima, e la più importante, stava nel fatto che avevano
un reverenziale timore per ogni sorta di magia, e quella di Brona
superava ogni loro immaginazione. La seconda, assai importante
anch'essa, nel fatto che avevano visto quello che era successo quando i
Troll - che erano più robusti, più feroci e meglio armati - avevano
cercato di resistere; così, avevano preso rapidamente la decisione di
passare dalla parte del vincitore con le buone, prima di essere
costretti a farlo con le cattive. Poi c'erano le creature senza nome,
mostri usciti dai mondi inferi, esseri venuti dagli abissi dov'erano
stati scagliati nei secoli precedenti, e adesso liberati con la magia
dal Signore degli Inganni. Alla luce del giorno si nascondevano sotto
larghi mantelli col cappuccio: in mezzo alla polvere sollevata dalla
marcia erano forme nere e indistinte che si tenevano in disparte,
reiette sia per la loro natura sia per l'unanime consenso. Ma quando il
sole tramontava e le ombre si allungavano sulla prateria, si toglievano
il mantello e si rivelavano: mostri spaventevoli e deformi, evitati da
tutti. Tra loro c'erano i Messaggeri del Teschio, i cacciatori alati che
facevano da braccio destro a Brona. Un tempo erano uomini: erano Druidi
che per avere abusato della magia ne erano stati corrotti. Stavano
volando anche adesso, approfittavano dell'ultima luce del giorno per
cercare le prede con cui saziare la loro fame abietta E nel centro di
tutto, in mezzo alle orde che la portavano inesorabilmente avanti,
simile a una zattera su un mare squassato dalla tempesta, c'era la
grande lettiga coperta di seta nera del Signore degli Inganni stesso.
Era sorretta da una trentina di Troll, la sua copertura era
impenetrabile anche alla luce più forte, i suoi sostegni di ferro erano
irti di uncini e di lame affilate come rasoi, i suoi stendardi erano
blasonati di teschi bianchi. Risca vide tutti coloro che la circondavano
inchinarsi servilmente, e comprese che, anche se non potevano scorgerlo,
il loro signore e padrone era perfettamente in grado di vederli. Con
l'approssimarsi della notte, e dopo aver visto per intero l'esercito
uscire dalle Terre del Nord, pronto a invadere l'Anar e a conquistare i
Nani, Risca si sedette scoraggiato nel crepaccio dove s'era nascosto e
lasciò che le tenebre lo avvolgessero. Bremen aveva ragione,
naturalmente: aveva previsto tutto. Brona era sopravvissuto alla Guerra
delle Razze ed era rimasto nascosto per tutti quegli anni semplicemente
per ritrovare le forze con cui colpire di nuovo. Adesso era tornato come
Signore degli Inganni e i Troll e gli Gnomi erano con lui: dopo essere
stati sconfitti, adesso servivano la sua causa. Se i Druidi erano stati
distrutti come previsto da Bremen - e Risca ormai non aveva più dubbi nessuno sarebbe intervenuto a difendere le Razze ancora libere, nessuno
in grado di opporsi alla magia. Sarebbero caduti a uno a uno: i Nani,
gli Elfi e gli Uomini. A una a una, le Quattro Terre sarebbero diventate
schiave. E sarebbe successo in breve tempo. In quel momento nessuno lo
credeva possibile, e quando tutti se ne fossero accorti sarebbe stato
troppo tardi. Risca aveva visto di persona quanto fosse vasto l'esercito
del Signore degli Inganni. Gigantesco, inarrestabile, mostruoso.
Soltanto con l'unione le tre Razze libere avevano una speranza di
salvezza. Ma sarebbe occorso tempo per convincerle a unirsi. La politica
avrebbe rallentato ogni decisione. L'egoismo avrebbe spinto a una
inopportuna cautela. Le Razze avrebbero discusso e indagato, e prima
ancora di capire cosa succedeva si sarebbero trovate in schiavitù.
Bremen aveva previsto tutto questo, e ora spettava ai pochi che gli
avevano dato retta agire in modo da fermare l'inevitabile. Risca frugò
nella sacca, prese un pezzo di pane del giorno prima che aveva comprato
in uno degli ultimi villaggi della Frontiera e cominciò a masticarlo
distrattamente. Aveva lasciato Bremen e i compagni tre giorni addietro,
nella Valle d'Argilla, e si era diretto a est, per avvertire i Nani
dell'arrivo del Signore degli Inganni e convincerli a opporsi alla sua
avanzata. Ma una volta arrivato alle Pianure di Raab, aveva pensato che
il suo compito sarebbe stato facilitato se avesse potuto riferire di
aver visto con i propri occhi l'esercito nemico: avrebbe potuto
valutarne la dimensione e la forza, e dare maggiore efficacia alle
proprie parole. Di conseguenza si era diretto a nord e aveva marciato
per tutto il secondo giorno, fino a raggiungere il Passo di Jannisson.
Laggiù, il terzo giorno, si era nascosto sulle alture ai piedi dei Denti
del Drago e aveva visto sfilare, proveniente dalle Streleheim,
l'esercito del Signore degli Inganni: sempre più grande, tanto da dare
l'impressione che non avesse fine. Risca aveva contato le unità e gli
ufficiali, gli animali e i carri, le insegne delle tribù e gli stendardi
da battaglia, fino a farsi un'idea delle dimensioni. Pareva che l'intera
nazione dei Troll fosse stata chiamata alle armi. Era il più grande
esercito che Risca avesse mai visto. I Nani non avevano speranza di
resistere. Potevano rallentarne l'avanzata, trattenerlo, ma non
fermarlo. E anche se gli Elfi fossero venuti ad aiutarli, il nemico
sarebbe stato enormemente superiore di numero. Inoltre, i Nani e gli
Elfi non disponevano di magie simili a quelle di Brona, dei Messaggeri
del Teschio e delle creature infernali. Avevano soltanto Bremen, Tay
Trefenwyd e lui, gli ultimi Druidi. Risca scosse la testa e continuò a
masticare il suo pane duro. Lo svantaggio era troppo grande. Occorreva
trovare un modo per ridurlo. Terminò il pane e bevve un lungo sorso di
birra dall'otre che portava a tracolla. Poi si alzò e tornò sul ciglio
della rupe da cui poteva osservare dall'alto l'accampamento nemico.
Ormai era scesa la notte, erano stati accesi i fuochi, l'intera pianura
ardeva di falò, l'aria era appesantita dal fumo. L'esercito occupava
un'area di almeno un miglio, brulicante di attività, piena di chiasso e
di movimento. I cuochi cucinavano il rancio, i soldati stendevano i
giacigli, i carpentieri riparavano i carri e i generali preparavano i
piani d'attacco. Risca continuò a osservare dalla sua altura,
scoraggiato e incollerito. Se la forza di volontà e la collera fossero
state sufficienti a fermare quella follia, le sue sarebbero bastate.
Scorse due Messaggeri che volavano nel cielo color dell'inchiostro, al
di là della zona illuminata dai fuochi, in cerca di spie, e si nascose
ancor meglio tra le rocce, fino a divenire una cosa sola con le
montagne, una delle tante macchie incolori di terreno scabro. I suoi
occhi vagavano sull'intero campo, ma ogni volta tornavano alla lettiga
coperta di seta nera che ospitava il Signore degli Inganni. Adesso
l'avevano posata a terra ed era circondata da Troll e creature non
umane: una piccola oasi di silenzio entro un formicolare di attività.
Accanto ad essa non c'erano fuochi, nessuno si avvicinava dalla zona
illuminata. L'oscurità pareva ammassarsi attorno ad essa, come acqua che
affluisce in un lago, lasciandola isolata con un marchio di
inviolabilità. Risca strinse le labbra. Tutti i guai hanno avuto inizio
dal mostro che occupa quella lettiga, e con lui finiranno, pensava. Il
Signore degli Inganni è la testa del mostro che ci minaccia. Taglia la
testa e il mostro muore. Uccidi il Signore degli Inganni e il pericolo
finisce. Uccidi il Signore degli Inganni... Era un impulso irrazionale,
selvaggio, e non si concesse di seguirlo. Lo allontanò da sé e si
costrinse a riflettere sulle proprie responsabilità. Bremen gli aveva
affidato un compito. Doveva informare i Nani della presenza dell'armata,
in modo che si preparassero all'invasione. Doveva convincere i Nani ad
affrontare un esercito assai più grande del loro, in una battaglia
impossibile a vincersi. Doveva convincere Raybur e gli Anziani del
Consiglio che si stava preparando l'arma capace di distruggere il
Signore degli Inganni e che i Nani dovevano, a prezzo delle loro vite,
guadagnare il tempo occorrente. Era un ordine difficile da accettare:
avrebbe richiesto un grande sacrificio. E il comando di quell'esercito
sarebbe toccato a lui, al druido guerriero in grado di sconfiggere
qualunque creatura mandata contro di loro dal Signore degli Inganni.
Risca era nato per lottare. Era la cosa che sapeva fare meglio. Era
vissuto fino alla maggiore età nelle Montagne del Corvo, in una famiglia
che era sempre vissuta in quelle terre barbariche dell'Est. Il padre era
esploratore e la madre cacciava con le trappole. Il padre aveva otto
fratelli e la madre sette, e quasi tutti abitavano a poche miglia di
distanza, cosicché Risca era stato allevato un po' da tutti: negli anni
dell'infanzia, aveva passato più tempo con gli zii e i cugini che con i
genitori. Prendersi cura dei giovani, nella sua famiglia, era una
responsabilità che toccava a tutti. In quella regione, i Nani erano
costantemente in guerra contro le tribù di Gnomi, e si rischiava la vita
a ogni istante. Ma Risca era in grado di badare a se stesso. Fin da
bambino gli era stato insegnato a combattere e cacciare, e aveva
scoperto di essere molto abile. Sentiva cose che gli altri non
sentivano, riusciva a individuare ciò che per gli altri era invisibile.
Era svelto e agile, più forte della sua età. Conosceva per istinto
l'arte della sopravvivenza. Usciva vivo quando gli altri cadevano. A
dodici anni era stato aggredito da un Koden e l'aveva ucciso. Ne aveva
tredici quando, con un gruppo di venti Nani, era caduto in un'imboscata
degli Gnomi. Lui solo era sopravvissuto. Poi la madre era stata uccisa
mentre tendeva le trappole. Lui aveva solo quindici anni, ma aveva
seguito le tracce dei colpevoli e li aveva uccisi tutti, da solo. Quando
il padre era morto in un incidente di caccia, aveva portato il suo corpo
nel cuore della terra degli Gnomi e l'aveva sepolto laggiù, perché il
suo spirito potesse continuare la lotta contro i nemici tradizionali
della sua razza. A quell'epoca, metà dei suoi fratelli erano morti, di
malattia o in battaglia. Viveva in un mondo violento e inclemente, dove
la vita era dura e incerta. Ma lui era sopravvissuto, e la gente diceva
- quando lui non sentiva, perché era molto superstizioso - che non era
stata ancora forgiata la spada in grado di ucciderlo. A vent'anni era
sceso a Culhaven ed era entrato al servizio di Raybur, da poco
incoronato re dei Nani e guerriero molto ammirato. Ma il sovrano l'aveva
tenuto con sé per un breve periodo, poi l'aveva mandato presso i Druidi
di Paranor. Riconoscendo il suo talento, Raybur aveva pensato di rendere
un miglior servizio al popolo dei Nani facendo addestrare dai Druidi
quel giovane con il cuore di guerriero e gli istinti del cacciatore.
Anche lui, come Courtann Ballindarroch degli Elfi, conosceva Bremen e lo
ammirava. Così, aveva mandato al vecchio druido una lettera in cui lo
invitava a tenere in particolare considerazione Risca e a prenderlo come
suo allievo. Con la lettera, il giovane era giunto a Paranor e vi era
rimasto, per poi divenire un seguace di Bremen e un convinto sostenitore
della magia. Con gli occhi fissi sulla tenda di seta nera, pensava a
come impiegare la magia. La sua era la più forte dopo quella di Bremen -
almeno oggi, dato che era più giovane e resistente dell'altro - ossia lo
era a parer suo, perché Tay Trefenwyd avrebbe messo certamente in dubbio
l'asserzione. Al pari di Tay, Risca aveva studiato con assiduità le
lezioni di Bremen, continuando ad addestrarsi anche dopo che il maestro
era stato bandito e a mettere alla prova le sue capacità. Aveva studiato
e si era allenato virtualmente da solo, perché nessun altro druido,
neppure Tay Trefenwyd, si considerava un guerriero o cercava di
apprendere come lui le arti marziali. Per Risca la magia poteva avere un
solo scopo utile: proteggere chi la usava e i suoi amici e distruggere i
nemici. Gli altri suoi rami guarigione, divinazione, prescienza,
empatia, magia naturale, dominio delle forze elementari, evocazione dei
morti e storia delle arti magiche - non rivestivano alcun interesse per
lui. Era un guerriero: la sua unica passione era la forza delle armi. I
ricordi si affacciarono e svanirono, e i suoi pensieri tornarono alla
situazione del momento. Che doveva fare? Non poteva declinare le sue
responsabilità, ma, d'altro canto, non poteva dimenticare di essere un
guerriero. Sotto di lui, le pieghe di seta della tenda parevano agitarsi
alla danza dei falò. Un solo colpo, pensò, non ne sarebbero occorsi di
più. Con che facilità si sarebbero risolti tutti i problemi, se avesse
potuto sferrare quel colpo! Trasse un profondo respiro e poi lo esalò
lentamente. Non aveva paura di Brona. Sapeva quanto era pericoloso e
potente, ma non aveva paura. Anche lui conosceva bene la magia; se
l'avesse impiegata per un attacco mirato, nessuno sarebbe stato in grado
di resistere, pensava. Chiuse gli occhi. Perché gli venivano in mente
quelle cose? Se avesse fallito, nessuno avrebbe avvertito i Nani del
pericolo. Avrebbe perso la vita per niente! Ma se il colpo fosse
riuscito... Ritornò in mezzo alle rocce, si sfilò il mantello e cominciò
a togliersi le armi. Aveva deciso fin dal momento in cui gli era venuta
in mente l'idea. Uccidere il Signore degli Inganni e porre fine a quella
follia. E lui era il più adatto a quel compito. Era il momento ideale:
l'esercito del Nord era ancora nei pressi della sua regione d'origine e
Brona si sentiva al sicuro da attacchi nemici. Anche se Risca fosse
morto, ne sarebbe valsa la pena. Lui era disposto a sacrificarsi. Un
guerriero era sempre pronto a quel sacrificio. Quando rimase in calzoni,
giubba e stivali, s'infilò un pugnale nella cintura, impugnò la scure da
guerra e scese verso l'accampamento. Era quasi mezzanotte quando giunse
ai piedi del monte e si avviò lungo la pianura. Sopra di lui, i
Messaggeri circolavano ancora, ma Risca era dietro di loro e inoltre si
era avvolto in una magia che lo nascondeva ai loro occhi. I cacciatori
alati guardavano lontano per cercare nemici, e non l'avrebbero visto.
Avanzò senza fretta e senza fare alcun rumore, immerso nel buio: la luce
dei falò lo nascondeva a tutti coloro che avrebbero potuto notare il suo
arrivo. La disposizione delle sentinelle era pietosamente inadeguata.
C'era un perimetro di guardie, una mescolanza di Gnomi e Troll, ma
troppo distanziate tra loro e troppo vicine ai falò per poter scorgere
una persona che arrivasse dal buio. Il cielo era coperto di nuvole e
l'aria della notte era velata dal fumo: anche in circostanze più
favorevoli, sarebbero stati necessari occhi ben più acuti per scorgere
qualche movimento nella pianura. Tuttavia, Risca non volle correre
rischi. Si avvicinò tra l'erba alta e i cespugli e quando si diradarono
proseguì a schiena curva e ginocchia piegate. Cercò con cura il punto da
cui entrare, scegliendo come bersaglio uno degli Gnomi di guardia.
Lasciò la scure in mezzo all'erba alta e proseguì con il solo pugnale.
La sentinella non lo vide arrivare. Risca trascinò il corpo in mezzo
all'erba alta, lo nascose, indossò il mantello del morto, si schermò la
faccia col cappuccio, raccolse la scure e ripartì. Un altro ci avrebbe
pensato due volte, prima di entrare nel campo nemico come se niente
fosse. Risca non ci pensò affatto sapeva che un attacco diretto è sempre
il migliore, quando si vuol cogliere qualcuno con la guardia abbassata.
Infatti, si tende a dare meno importanza a ciò che si ha di fronte, e a
darne di più a ciò che si coglie con la coda dell'occhio. Di solito
nessuno prende in considerazione le assurdità, e l'idea che un solo
nemico si dirigesse in tutta calma verso il centro di un accampamento
fortemente presidiato era assolutamente incredibile. Tuttavia, Risca si
tenne ai margini della zona illuminata dai falò, quando si mosse, con la
faccia ben nascosta nel cappuccio. Non si mosse furtivamente e non
abbassò la testa, perché avrebbe destato sospetti. Camminò come se
facesse parte dell'accampamento e non rallentò il passo. Oltrepassò il
perimetro esterno di fuochi e guardie e si diresse al centro del campo.
Una nuvola di fumo gli passò davanti e la usò come schermo. Tutt'intorno
a lui si levavano grida e risate, i soldati mangiavano e bevevano, si
raccontavano barzellette e si scambiavano spacconate. Qua e là si
sentivano tintinnare le armi e le corazze, gli animali da tiro
scalpitavano e sbuffavano nel buio. Risca passò in mezzo a tutti senza
rallentare e senza perdere di vista la sua destinazione: una massa di
pali e stendardi scuri che s'innalzavano al di sopra del brulichio del
campo. Tenne bassa la scure, quasi contro le gambe, e si servì della
magia per proiettare la propria immagine: quella di un soldato
qualsiasi, uno dei tanti Cacciatori degli Gnomi che si dirigeva in un
luogo senza importanza. Passò in mezzo al labirinto di falò e di uomini,
evitando i carri e le cataste di rifornimenti, le file di animali da
soma legati per la cavezza, i carpentieri che riparavano carri e
attrezzature, i fasci di picche e di lance con le punte rivolte al
cielo. Quando poté, si tenne nelle parti dell'accampamento occupate da
Gnomi, ma di tanto in tanto fu costretto a passare in mezzo a gruppi di
Troll, e in quei casi si comportò come un vero gnomo: intimidito e
deferente, senza paura ma desideroso di non irritarli, si allontanava
dal loro cammino quando venivano verso di lui e non guardava mai
direttamente le loro facce rugose e anonime, i loro occhi induriti dalle
battaglie. Sentiva i loro sguardi posarsi sulla sua figura e poi
allontanarsi. Nessuno lo fermò o gli disse di tornare indietro. Nessuno
lo smascherò. Aveva la schiena madida di sudore, e non perché la notte
fosse calda. Ora l'accampamento si preparava a dormire, la gente si
avvolgeva nei mantelli, davanti ai fuochi, e taceva. Risca procedette
più in fretta. Aveva bisogno del chiasso e del trambusto per
mimetizzarsi: se tutti si fossero addormentati, lui sarebbe stato
notato. Comunque, ormai stava per giungere alla tenda del Signore degli
Inganni: già la vedeva levarsi davanti a lui. Più s'avvicinava alla
tenda nera, minore era il numero dei fuochi e anche il numero di soldati
attorno ad essi. Nessuno aveva il permesso di avvicinarsi troppo alla
tenda del Signore degli Inganni e nessuno aveva voglia di farlo. Risca
si fermò accanto a un falò, dove una decina di soldati giacevano
addormentati: erano tutti Troll, giganteschi, dai lineamenti a malapena
abbozzati, e dormivano con le armi a portata di mano. Li ignorò, ed
esaminò il tratto di terreno aperto tra lui e la tenda. Su ogni lato,
tra la tenda nera e gli uomini c'erano almeno venti passi. Non si
scorgevano sentinelle, ma Risca esitò. Perché non c'erano guardie? Si
guardò attorno con attenzione, ma non ne vide. In quel momento, per poco
non abbandonò il progetto. Sentiva che qualcosa non andava. Perché non
c'erano guardie? Che aspettassero all'interno della tenda? O si erano
nascoste dove era impossibile vederle? Per scoprirlo avrebbe dovuto
attraversare il terreno aperto tra il falò e la tenda. C'era abbastanza
luce da rivelare la sua presenza, perciò avrebbe dovuto usare la magia
per non farsi vedere. Si sarebbe trovato completamente solo, senza alcun
nascondiglio a disposizione. Rifletté in fretta. Poteva esserci qualche
Messaggero del Teschio? Erano tutti a caccia o qualcuno era rimasto a
proteggere il suo signore? C'erano altre creature di guardia? Le domande
continuarono a bruciare dentro di lui, senza risposta. Esitò ancora un
momento, guardandosi attorno, tendendo l'orecchio, saggiando l'aria. Poi
strinse saldamente in pugno l'ascia da guerra e si avviò. Usò la magia
per nascondersi, per confondersi nella notte, per diventare ombra tra le
ombre Soltanto una pennellata superficiale, in modo da non farsi notare
da chi avesse familiarità con le arti magiche. Si sentì prendere dalla
smania di agire. Poteva farcela. Doveva. Attraversò il terreno aperto
silenzioso come una nube che scivolasse nel cielo spazzato dal vento.
Nessun rumore gli giunse all'orecchio. Nessun movimento attirò il suo
sguardo. Anche adesso che era vicino, non vide nessuno a proteggere la
tenda nera. Infine le giunse accanto. L'aria era mortalmente immobile,
suoni, odori e movimenti dell'esercito parevano svaniti nella distanza.
Rimase fermo accanto alla tenda e attese che il suo istinto lo
avvertisse di una trappola. Ma non ebbe alcun segnale, e allora appoggiò
il filo della scure da guerra, affilata come un rasoio, contro il
tessuto e lo tagliò fino in fondo. In quel momento udì un suono: un
sospiro, forse, o un gemito molto fioco. S'infilò veloce nell'apertura.
Nonostante l'oscurità che regnava all'interno, in pochi istanti i suoi
occhi si abituarono. Nella tenda non c'era niente: persone, mobili,
armi, un letto, un segno di vita... nulla di nulla! Risca guardava
incredulo. Poi, nel silenzio si levò un soffio basso e roco che invadeva
tutta la tenda e l'aria, davanti agli occhi del nano, si mosse. Il buio
si addensò fino a formare una figura dove prima non c'era niente. Una
forma ammantata di nero prese lentamente corpo. Risca comprese cos'era
successo e venne scosso da un brivido di terrore. Il Signore degli
Inganni era sempre stato presente, nel buio, invisibile, a vigilare e
attendere. Forse aveva sempre saputo della presenza di Risca.
Diversamente da quanto il nano aveva creduto, non era una creatura di
carne e sangue, che si potesse uccidere con le normali armi. Mediante la
magia aveva trasceso il suo guscio mortale e ormai poteva assumere
qualsiasi forma... o nessuna. Non c'era da stupirsi che non ci fossero
guardie. Non ce n'era bisogno. Il Signore degli Inganni alzò la mano per
afferrarlo. Per un istante, Risca scoprì di non potersi muovere e pensò
che sarebbe morto senza muovere un dito per salvarsi. Poi la forza della
sua determinazione spezzò la paura e lo spinse ad agire. Lanciò un
ruggito di sfida alla terribile figura nera, alla mano scheletrica che
lo voleva afferrare, agli occhi rossi come il sangue, al proprio
terrore, alle beffe del destino. Sollevò la scure percorsa da cima a
fondo dalle fiamme della magia. Il Signore degli Inganni mosse la mano,
e Risca si sentì stringere, come da strisce d'acciaio. Con uno sforzo
immane, spezzò quell'incantesimo e scagliò la scure. L'arma colpì la
forma avvolta nel mantello ed esplose in una fiammata. Risca non attese
di vedere l'effetto del colpo. Sapeva per istinto che non era una lotta
da cui potesse uscire vincitore. Le armi robuste e i guerrieri
addestrati non erano sufficienti per sconfiggere quel nemico. Nello
stesso istante in cui lanciò la scure, si gettò verso l'apertura della
tenda, rotolò a terra per immediatamente rialzarsi, e corse via di gran
carriera, per riguadagnare la libertà. Attorno ai falò si levavano già
le prime grida, i soldati si destavano dal sonno. Il nano non si guardò
alle spalle, ma sentì la presenza di Brona, una nube nera che cercava di
afferrarlo e riportarlo indietro. Attraversò di corsa il terreno aperto
e saltò sul fuoco più vicino, scalciando via le fiamme morenti e
spargendo tutt'intorno una pioggia di faville e di braci. Afferrò la
spada di un soldato che dormiva e si lanciò nella nube di fumo levatasi
dal falò. In tutto l'accampamento si alzarono grida d'allarme. La mano
del Signore degli Inganni cercò ancora di afferrarlo, stringendosi sul
suo petto, ma diveniva sempre più debole con il crescere della distanza.
Risca aveva perso la padronanza di sé, ma adesso cercò di recuperarla.
Un Troll gli si parò davanti per bloccargli il passaggio, e gli piantò
il pugnale in gola. Agì per istinto, ancora incapace di pensare
chiaramente Tutt'intorno a lui, i soldati correvano in ogni direzione,
cercando la causa del trambusto, senza sapere che si trattava di lui. Si
impose di rallentare il passo, di ignorare il battito tumultuoso del
cuore e l'ansia che lo soffocava. Per tutte le ombre! C'era mancato
poco! Ora prese a camminare in fretta ma senza correre, perché un uomo
in corsa avrebbe richiamato l'attenzione. Evocò di nuovo la magia,
abbandonata nel momento della fuga, e soltanto allora si accorse di
averne perso quasi completamente il controllo, di essersi lasciato
dominare dalla paura. Si avvolse nella magia e prese a sinistra, verso
le praterie, scegliendo una strada diversa da quella dell'andata, una
direzione in cui non avrebbero pensato di guardare. Se fosse stato
scoperto e avesse dovuto farsi strada con le armi, l'avrebbero ucciso.
Erano troppi. Troppi per chiunque, druido o non druido. Attraversò
veloce l'accampamento, e l'agitazione dello scontro col Signore degli
Inganni continuava a minacciare di soffocarlo. Si impose di respirare
normalmente, di ignorare il trambusto, le grida, il trepestio delle
squadre che venivano mandate in ogni direzione. Davanti a sé, vide
stendersi il buio delle pianure, la distesa vuota che si allargava al di
là del chiarore dei falò. Tutto il perimetro era sorvegliato dalle
guardie, ma queste scrutavano nel buio, in attesa di un attacco
proveniente da quella direzione. Provò un desiderio quasi irresistibile
di guardarsi alle spalle, di controllare cosa succedeva, ma l'istinto
gli diceva che così facendo si sarebbe tradito. Forse il Signore degli
Inganni l'avrebbe guardato negli occhi e riconosciuto, nonostante la
magia che lo nascondeva. O avrebbe riconosciuto la sua faccia. Perciò
non si voltò. Proseguì verso i limiti del campo, rallentando per meglio
scegliere il punto da cui uscire. "Tu e tu!" ordinò a un paio di Gnomi,
passando in mezzo a loro senza rallentare per non farsi vedere in faccia
e parlando nella loro lingua: una lingua che parlava correntemente fin
da bambino. Fece cenno di seguirlo. "Venite con me." Non discussero il
suo ordine. I soldati non lo fanno quasi mai. Risca aveva l'aspetto e il
portamento di un ufficiale, e i due lo seguirono subito. Si diresse
verso l'oscurità come se sapesse cosa stava facendo, come se avesse una
missione da compiere. Li condusse fino a una certa distanza
dall'accampamento, poi li mandò in direzioni opposte e si limitò a
proseguire. Non cercò di recuperare le armi e l'equipaggiamento, perché
sarebbe stato troppo pericoloso. Era fortunato a essere vivo e non
voleva sfidare ulteriormente il destino. Respirò a fondo l'aria della
notte per rallentare i battiti del cuore. Bremen conosceva davvero la
natura del loro nemico? si chiese. Il vecchio druido si rendeva conto
del potere del Signore degli Inganni? Forse sì, perché era stato nella
tana del mostro e l'aveva spiato. Risca si pentì di non essersi
informato meglio, quando ne aveva avuto la possibilità. Se l'avesse
fatto, non avrebbe mai tentato di uccidere Brona. Avrebbe capito di non
possedere le armi adatte. Ora comprendeva perché Bremen cercasse un
talismano. E perché si fosse affidato alle visioni dei morti per trarne
consiglio. Scrutò il cielo, alla ricerca di Messaggeri del Teschio, ma
non ne vide. Tuttavia continuò ad avvolgersi nella magia per restare
invisibile. Entrò nelle pianure di Raab e si diresse a sudest per
raggiungere l'Anar. Prima che la luce del mattino lo tradisse, contava
di essere al sicuro in mezzo agli alberi. Ne era uscito vivo per
affrontare nuove battaglie, e si considerava fortunato di poterlo dire.
Ma quale genere di lotta si poteva condurre contro un nemico come il
Signore degli Inganni? Che cosa doveva dire ai Nani per dare loro una
speranza? Le risposte gli sfuggivano. Proseguì nella notte, continuando
a cercarle.
13
Due giorni più tardi, l'esercito del Nord era accampato a meno di venti
miglia da Storlock. Aveva attraversato le pianure senza incontrare
ostacoli, piegando a est verso l'Anar e mantenendosi lontano dalle
foreste che rischiavano di ritardarne il passo. Richiamava alla mente un
enorme, torpido verme che, con pesante lentezza, si portasse sempre più
vicino al rifugio dei Nani. I fuochi di guardia si stagliavano lontani,
sullo sfondo del cielo crepuscolare: formavano una linea gialla e
lucente che si stendeva per miglia attraverso la pianura. Kinson
Ravenlock riusciva a vederne il chiarore benché si trovasse
relativamente distante, sull'ultima propaggine dei Denti del Drago, al
limitare della Valle d'Argilla. L'esercito aveva impiegato l'intero
pomeriggio ad attraversare il Fiume Raab e si era accampato. All'alba
dell'indomani avrebbe ripreso la marcia verso sud, e al tramonto avrebbe
raggiunto un punto direttamente davanti al villaggio degli Stor. Questo
significava, comprese il cacciatore della Frontiera, che lui e Mareth
dovevano attraversare la pianura quella notte stessa, portandosi davanti
all'esercito, se non volevano finire intrappolati nella parte sbagliata
del territorio. Si era nascosto nell'ombra di un crepaccio tra le rocce,
un po' in alto rispetto alla pianura, e rimpiangeva di non essere
riuscito ad arrivare laggiù il giorno prima, in modo che non fosse
necessaria una traversata notturna. Sapeva che al calar delle tenebre i
cacciatori alati di Brona si sarebbero levati in volo e avrebbero
setacciato il territorio scoperto che stava tra loro e la libertà. Non
era un'idea piacevole. Si guardò alle spalle, verso il punto dove Mareth
si era seduta e dove - dopo aver gettato gli stivali, senza tante
cerimonie, a terra a far compagnia al mantello e alle loro poche scorte
- si massaggiava i piedi doloranti per la marcia forzata di quel giorno.
Ma sarebbe stato impossibile arrivare prima; Kinson lo sapeva. Per
giungere laggiù, la giovane donna aveva dovuto fare appello a tutte le
proprie forze. Era ancora indebolita dall'esperienza nel Castello dei
Druidi; si stancava subito e aveva bisogno di riposare spesso. Ma non si
era mai lamentata, neppure quando il cacciatore le aveva annunciato che
avrebbero dovuto rinunciare al sonno finché non fossero giunti a
Storlock. Aveva una grande forza di volontà, ammise lui con riluttanza.
Avrebbe voluto capirla un po' meglio. Guardò di nuovo le pianure, i
fuochi di guardia, l'oscurità che dilagava da est e che scendeva in
strati sempre più fitti sul paesaggio. Allora, era per quella notte.
Rimpianse di non conoscere una magia che li nascondesse, ma era come
rimpiangere di non saper volare. Non poteva chiedere a Mareth di usare
la sua, naturalmente, perché Bremen l'aveva proibito. E lo stesso Bremen
era ancora assente; da lui non c'era da aspettarsi aiuto. "Vieni a
mangiare qualcosa" lo chiamò lei. Si volse e scese dalle rocce. La
giovane donna aveva tolto dallo zaino pane, formaggio e frutta e aveva
versato la birra in due tazze metalliche. Si erano procurati le
provviste da un contadino, nei pressi di Varfleet, la sera precedente, e
quelle erano le ultime. Kinson si sedette davanti a lei e cominciò a
mangiare, senza guardarla. Avevano lasciato il vuoto Paranor due giorni
prima, erano nuovamente scesi per il Passo di Kennon e si erano diretti
a est costeggiando il Fiume Mermidon fino al luogo dov'erano adesso.
Bremen li aveva mandati avanti, aveva ordinato di continuare senza di
lui, di seguire il fiume fino alle Pianure di Raab e infine di
raggiungere Storlock. Laggiù dovevano cercare notizie di un uomo che,
secondo il vecchio druido, si trovava in qualche zona selvaggia della
Terra dell'Est, a nord dell'Anar: un uomo che Kinson non aveva mai
sentito nominare. Dovevano rintracciarlo e, fatto questo, attendere il
suo ritorno. Il druido non aveva spiegato cosa intendeva fare nel
frattempo. E neppure cosa voleva dallo sconosciuto. Si era limitato a
dar loro gli ordini - o meglio, li aveva dati a Kinson perché Mareth in
quel momento dormiva - e poi era scomparso in mezzo agli alberi. Secondo
Kinson, era tornato nella rocca dei Druidi, e si chiese ancora una volta
perché. Erano fuggiti da Paranor in mezzo a una tempesta di suoni e di
furia, di magia che imperversava scatenata e che in parte era quella di
Mareth e in parte proveniva dalla rocca stessa. Pareva che si fosse
destata una bestia feroce intenzionata a divorarli; a Kinson era parso
di sentire il suo fiato sul collo, di udire i suoi artigli raspare sulla
pietra, dietro di loro. Ma erano riusciti a raggiungere la foresta e vi
si erano nascosti, mentre già sorgeva l'alba e la furia della bestia si
spegneva e moriva. Erano rimasti sotto la protezione degli alberi per
tutto il giorno seguente e avevano lasciato che Mareth dormisse. Bremen
si era preso cura di lei: dapprima era visibilmente preoccupato ma poi,
quando la giovane donna si era destata abbastanza a lungo da bere una
tazza d'acqua prima di riaddormentarsi, si era tranquillizzato. "La sua
magia è troppo forte per lei" aveva spiegato a Kinson, mentre la
vegliavano a turno, nelle ultime ore del mattino, dopo che lei si era
svegliata e addormentata una seconda volta. Il sole era alto su di loro
e i cupi ricordi della notte precedente cominciavano ad affievolirsi.
Paranor era una presenza silenziosa, dietro la cortina di alberi, ed era
tornata immobile come la morte, s'era svuotata di ogni vita. "E' ovvio
che Mareth si era recata dai Druidi per trovare il modo di capire meglio
il suo talento magico. Suppongo che non sia rimasta con loro abbastanza
a lungo per farlo. Forse si è aggregata a noi nella convinzione che
potessimo aiutarla." Aveva scosso la testa dai capelli grigi. "Hai
visto? Ha evocato la sua magia per proteggermi dai mostri di Brona, e ha
perso immediatamente il controllo! Sembra incapace di giudicare la
quantità di magia occorrente. O forse non è affatto questione di
giudicare, e la spiegazione è che la magia di Mareth, una volta evocata,
assume la forma che vuole. Comunque sia, prorompe da lei come un'onda di
marea! Nella rocca dei Druidi ha divorato quei mostri come se fossero
stati moscerini. Era talmente forte da destare la magia protettiva della
rocca, la magia della terra messa in opera dai primi Druidi. E' la magia
che ho risvegliato al mio ritorno, per essere certo che difendesse il
castello da un tentativo di distruzione. Non ho potuto salvare i Druidi
dal Signore degli Inganni, ma ho potuto proteggere Paranor. La magia di
Mareth è stata così travolgente, nel distruggere le creature di Brona,
da dare l'impressione che la rocca stessa fosse in pericolo: di
conseguenza, s'è destata anche la magia della terra." "La magia di
Mareth è innata, dicevi l'altro giorno" aveva osservato Kinson. "Che
origine può avere, per essere così forte?" Il vecchio aveva sporto il
labbro, riflettendo. "Un altro druido, forse. Un elfo che ha ancora
nelle vene la magia del passato. Una creatura di Faerie, sopravvissuta
al vecchio mondo. Una qualsiasi di queste fonti." Aveva inarcato un
sopracciglio, perplesso. "Mi chiedo se lei lo sa." "E io mi chiedo se è
disposta a dircelo, nel caso lo sappia" era stata la replica di Kinson.
Fino a quel momento, lei non ne aveva parlato. Quando si era svegliata,
Bremen li aveva ormai lasciati. Era stato Kinson a riferirle che non
doveva usare la magia finché il druido non fosse tornato e non ne avesse
parlato con lei. La giovane donna aveva accettato l'imposizione con poco
più di un cenno del capo. Non aveva parlato di quanto era successo nella
rocca: pareva essersi completamente dimenticata dell'accaduto. Terminato
il pasto, il cacciatore della Frontiera sollevò lo sguardo. Lei lo stava
osservando. "A che cosa pensi?" gli chiese. Lui si strinse nelle spalle.
"All'uomo che dobbiamo cercare. Mi chiedevo perché Bremen lo considera
così importante." Lei annuì lentamente. "Cogline." "Sai il suo nome?"
Lei non rispose. Come se non lo avesse udito. "Forse uno dei tuoi amici
di Storlock sarà in grado di aiutarci." "Non ho amici a Storlock." Lo
sguardo di lei divenne inespressivo. Per qualche istante, Kinson la
fissò senza capire. "Ma non hai detto a Bremen che tu...?" "Gli ho
mentito." Mareth trasse un profondo respiro e distolse lo sguardo da
lui. "Ho mentito a lui e a tutti i Druidi di Paranor prima di lui. Era
il solo modo di entrare. Avevo la disperata necessità di studiare con i
Druidi, e sapevo che non mi avrebbero accolta se non avessi dato loro
una ragione. Perciò ho detto di avere studiato con gli Stor. Ho dato
loro dei documenti per dimostrare ciò che affermavo, ma erano tutti
falsi. Li ho ingannati deliberatamente." Sollevò gli occhi. "Ma adesso
vorrei smetterla con le menzogne e dire la verità." L'oscurità era ormai
completa, l'ultima luce del giorno era svanità. Sedevano nel loro
nascondiglio ammantati dall'ombra della notte, a malapena in grado di
vedersi. Poiché più tardi avrebbero attraversato la Pianura di Raab,
Kinson non aveva acceso il fuoco. Ora rimpianse di non averlo fatto,
perché avrebbe voluto vederla in faccia. "Penso" disse lentamente "che
potrebbe essere il momento adatto per la verità. Ma come posso essere
certo che non si tratta di un'altra bugia?" Lei sorrise tristemente. "Lo
capirai." Kinson la fissò negli occhi. "Le menzogne riguardavano la tua
magia, vero?" suggerì. "Sei un uomo sensibile, Kinson Ravenlock" rispose
lei. "Mi piace questo tuo lato. Sì, le bugie erano necessarie a causa
della mia magia. Ho un bisogno estremo di trovare il modo..."
s'interruppe per cercare la parola giusta "... di vivere con me stessa.
Da troppo tempo devo lottare contro il mio potere, e comincio a essere
stanca e disperata. A volte ho pensato di uccidermi per quello che mi ha
fatto." Tacque per qualche istante, fissando il buio. "Possiedo la magia
fin dalla nascita. Magia innata, come ho detto a Bremen. Questo era
vero. Non ho mai conosciuto mio padre. Mia madre è morta nel darmi alla
luce. Sono stata allevata da persone che non appartenevano alla mia
famiglia. Se ho parenti, non si sono mai fatti vivi. Quelle persone si
sono prese cura di me per motivi che non ho mai capito. Erano gente dura
e taciturna, e non mi hanno mai parlato della mia origine. Penso che mi
abbiano tenuta perché si sentivano obbligati, ma non mi hanno mai
rivelato la natura dell'obbligo. A dodici anni mi hanno mandata via,
cedendomi come apprendista a un vasaio. Dovevo trasportare i materiali,
pulire, osservarlo al lavoro, se volevo, ma soprattutto fare quello che
mi diceva lui. Possedevo la magia, certo, ma anch'essa, come me, era
ancora immatura, era solo una vaga presenza che si manifestava in
occasioni di poco conto. "Quando sono diventata donna, anche la magia è
cresciuta dentro di me. Un giorno il vasaio ha cercato di battermi, e io
mi sono difesa istintivamente, evocando la magia perché mi proteggesse.
Per poco non l'ho ucciso. Allora me ne sono andata e mi sono recata
nella Frontiera per trovare un nuovo posto in cui vivere. Per un certo
periodo sono vissuta a Varfleet." Sorrise. "Può darsi che le nostre
strade si siano incrociate, in quella occasione. O eri già lontano?
Probabilmente eri già via." Si strinse nelle spalle. "Un anno più tardi,
sono stata aggredita di nuovo. Erano parecchi uomini, e penso che
avessero in mente qualcosa di più delle semplici percosse. Ho di nuovo
fatto ricorso alla magia. Non sono riuscita a controllarla e ne ho
uccisi due. Ho lasciato Varfleet e mi sono diretta a est." Sorrise in
modo amaro, ironico. "In tutto questo comincerai a vedere una sorta di
disegno ricorrente, vero? Presto cominciai a pensare di non poter vivere
con nessuno perché non potevo fidarmi di me. Passavo da una comunità
all'altra, da una fattoria all'altra, guadagnandomi la vita come potevo.
Fu un periodo utile, perché scoprii nuovi lati della mia magia. Non era
soltanto distruttiva, era anche in grado di curare. Ero un'empatica,
scoprii. Con la mia magia potevo guarire le ferite. Me ne sono accorta
per caso, quando un uomo che mi era amico si ferì in una caduta e corse
il rischio di morire. Fu una rivelazione che mi diede speranza. La
magia, impiegata in quel modo, era controllabile. Non capivo perché, ma
sembrava obbedire al mio volere, quando la usavo per guarire e non per
distruggere. Forse la collera è intimamente meno controllabile della
simpatia. Non saprei. "In ogni caso, sono davvero andata dagli Stor, a
chiedere che mi permettessero di studiare con loro, per imparare a usare
il mio talento. Ma, non conoscendomi, non mi hanno accettata nel loro
ordine. Sono Gnomi, e nessun membro di un'altra razza ha mai avuto il
permesso di studiare con loro. Si sono rifiutati di fare un'eccezione
per me. Ho cercato per mesi di convincerli a prendermi, rimanendo nel
loro villaggio, guardandoli al lavoro, mangiando con loro quando me lo
permettevano, chiedendo solo che mi dessero una probabilità. "Poi un
giorno è giunto un uomo che veniva dalla foresta per fare visita agli
Stor. Ha chiesto loro qualcosa, qualcosa delle loro tradizioni, e quelli
non hanno avuto alcuna esitazione a darglielo.LO ero meravigliatissima.
Dopo mesi in cui li imploravo di darmi le briciole, non ero riuscita a
ottenere niente. Ed ecco che arriva quell'uomo, sbucato da chissà dove uno del Sud, non uno gnomo - e gli Stor lo accontentano immediatamente.
Decisi di chiedergli perché." Con la punta dello stivale incise un solco
in terra, come per scavarne fuori il passato. "Era un individuo
dall'aspetto strano, alto e magro, tutto spigoli e ossa, con la faccia
affilata e i capelli arruffati. Pareva perdersi continuamente nei propri
pensieri, come se una normale conversazione fosse la cosa più difficile
del mondo. Ma riuscii a farlo parlare. Lo costrinsi ad ascoltare la mia
storia e nel parlargli divenne chiaro che conosceva bene la magia. Così
finii per dirgli tutto. Sentivo di potermi fidare. Mi disse che gli Stor
non mi avrebbero presa, che era inutile per me rimanere nel villaggio.
Vai a Paranor, dai Druidi, mi disse, e io risi. Gli feci notare che
neanche loro mi avrebbero voluta. Ma lui disse di no. Mi spiegò cosa
dire loro. Mi aiutò a inventare una storia, e scrisse i documenti che mi
avrebbero fatta accogliere nell'ordine. Affermò di conoscere i Druidi
perché era uno di loro, molto tempo addietro. Però, non avrei dovuto
fare il suo nome. Non godeva delle loro simpatie, mi spiegò. "Allora gli
chiesi il suo nome, e lui me lo disse: Cogline. Aggiunse che i Druidi
non erano più quelli di una volta. Mi disse che con l'eccezione di
Bremen non viaggiavano più per le Quattro Terre com'era loro abitudine.
Che avrebbero accettato senza discussioni la mia storia se fossi
riuscita a mostrare le mie capacità di guaritrice. Non si sarebbero
presi la briga di svolgere ulteriori controlli perché erano fiduciosi in
modo addirittura eccessivo. Aveva ragione. Feci come mi aveva detto e i
Druidi mi presero." Sospirò. "Ora capisci perché ho chiesto a Bremen di
prendermi con sé? Lo studio della magia non viene incoraggiato a
Paranor, non in modo significativo. Solo alcuni, come Risca e Tay, la
comprendono realmente. Non mi è stata data la possibilità di scoprire
come controllare la mia. Se avessi rivelato la sua presenza, sarei stata
subito espulsa. I Druidi hanno paura della magia. Anzi, avevano paura,
perché adesso sono morti." "La tua magia è diventata più potente?"
chiese Kinson quando lei ebbe terminato. "Più incontrollabile? E' stato
così, quando l'hai evocata nella rocca?" "Sì" ammise lei, stringendo le
labbra. Gli occhi le brillarono per le lacrime. "Hai visto. Mi ha
completamente sopraffatta. E' stata come un'onda di piena che minacciava
di sommergermi. Non potevo respirare!" "E così hai cercato Bremen perché
ti aiutasse a dominarla. Questo perché Bremen è il solo druido che possa
comprendere la tua magia." Lei lo fissò negli occhi. "Non intendo
chiedere scusa per quello che ho fatto." Lui la guardò a lungo, prima di
rispondere. "Non ho mai pensato, neppure per un momento, che dovessi
farlo. Né ti giudico per la tua scelta. Non ho vissuto la tua vita. Ma
penso che le bugie debbano finire. Quando rivedremo Bremen, racconta
anche a lui quello che hai detto a me. Se ti aspetti il suo aiuto, devi
essere onesta con lui." Lei annuì e, con irritazione, si asciugò le
ciglia. "Avevo già deciso di farlo" asserì. Sembrava piccola e
vulnerabile, ma la voce era dura. Non avrebbe fatto altre concessioni,
intuì Kinson. Anche il poco che gli aveva detto, si rese conto, doveva
essere stato un tormento per lei. "Di me vi potete fidare" disse
all'improvviso, come se gli avesse letto nella mente. "Ma non della tua
magia" corresse lui. "No, anche della magia. Puoi fidarti: non la userò
fino al ritorno di Bremen." Lui la osservò senza parlare per alcuni
istanti, poi annuì. "Abbastanza giusto." Tutt'a un tratto, con una certa
sorpresa, si era accorto che erano molto simili. Entrambi avevano
viaggiato a lungo per lasciarsi alle spalle il passato, e per nessuno
dei due il viaggio era finito. Entrambi si erano legati a Bremen,
avevano intrecciato indissolubilmente la loro vita alla sua ed entrambi
comprendevano di non avere avuto scelta Guardò il cielo e si alzò. "E'
ora di metterci in marcia." Si annerirono la faccia e le mani,
fasciarono le armi e gli oggetti metallici perché non tintinnassero,
scesero dal loro nascondiglio tra le rocce e cominciarono la traversata
del Raab. L'aria della notte era fresca e profumata perché dalle colline
soffiava una leggera brezza che portava l'odore della salvia e del
cedro. Nel cielo avanzavano delle nubi che nascondevano la luna e le
stelle, visibili solo a tratti e come una vaga luce diffusa. I suoni
arrivavano lontano, in una notte come quella, e Kinson e Mareth
camminavano senza far rumore, con molta attenzione, nell'erba alta,
evitando i tratti coperti di ciottoli che avrebbero potuto tradire la
loro presenza. A nord, i fuochi dell'accampamento erano come un alone
color zafferano che si stendeva dai Denti del Drago all'Anar. Ogni pochi
minuti, Kinson si fermava e tendeva l'orecchio, attento ai tipici suoni
della pianura e a quelli che non lo erano. Mareth lo seguiva a un passo
di distanza e non parlava. Kinson sentiva la sua presenza senza bisogno
di girarsi, era come un'ombra alle sue spalle. Le ore passavano e la
pianura si stendeva dinanzi a loro, allungandosi a mano a mano che la
attraversavano, cosicché, per un certo tempo, ebbero l'impressione di
non aver fatto molta strada. Kinson continuava a tenere d'occhio il
cielo coperto di nuvole, attento ai cacciatori alati che volavano nella
notte, ma lo faceva per abitudine, più che per il timore di vedere quei
mostri. Aveva imparato per esperienza che per prima cosa li avrebbe
percepìti, e che in tal caso doveva nascondersi subito, perché se avesse
aspettato di riuscire a distinguerli sarebbe stato troppo tardi. Ma il
prurito sgradevole, l'ansia raggelante, il presagio di una minaccia non
giunsero, così, seguito da Mareth, proseguì la marcia. Fecero una sola
sosta per bere un sorso di birra dall'otre, accucciati sui talloni, nel
letto asciutto e sinuoso di un torrente coperto di arbusti, al buio.
Kinson si scoprì a chiedersi come fosse stata la vita per la giovane,
priva di famiglia, isolata a causa della magia, senza casa perché le
circostanze gliel'avevano tolta, ma anche per propria scelta. Dava prova
di un notevole coraggio, pensò, a continuare la lotta, mentre sarebbe
stato facile cedere. Nella scelta della sua strada, non era mai scesa a
compromessi con sé o con altri. Si chiese fino a che punto Bremen si
fosse reso conto della situazione, quando l'aveva presa con loro. Si
chiese anche fino a che punto la giovane fosse riuscita a ingannare il
vecchio druido. Meno di quanto lei credesse, pensò. Sapeva per
esperienza che Bremen riusciva a leggere nell'anima di una persona come
se fosse fatta di vetro, e a vederne le parti in movimento. Era una
delle qualità che gli avevano permesso di rimanere in vita per tanti
anni. Poco dopo mezzanotte, un Messaggero del Teschio tagliò loro la
strada. Giunse dall'est, da dove loro erano diretti, e questo sorprese
il cacciatore, che ne aspettava la venuta dal Nord. Sentì la sua
presenza e si gettò subito a terra, a faccia in giù, in un cespuglio,
portando con sé Mareth. Dall'espressione di lei, capì che sapeva
perfettamente cosa stava succedendo. La attirò accanto a sé, nel
nascondiglio. "Non alzare la testa" le sussurrò. "Non pensare alla
creatura che vola sopra di noi. Sentirebbe la nostra presenza." Si
schiacciarono contro il terreno mentre la creatura si avvicinava, e la
paura salì dentro di loro fino a diventare una vampata, rovente come
quella del sole a mezzogiorno. Kinson si costrinse a respirare
normalmente e a pensare al passato, a quando era bambino e andava a
caccia con i fratelli. Cercò di rimanere immobile, il corpo fermo, i
muscoli rilassati, gli occhi chiusi. Accanto a lui, Mareth respirava
all'unisono con lui e cercava di mantenere una pari immobilità. Il
Messaggero del Teschio passò sopra di loro, volando in cerchio. Il
cacciatore della Frontiera sapeva in ogni momento quanto era vicino:
questo grazie alla sua esperienza, ai mesi trascorsi a esplorare le
Terre del Nord, quando i cacciatori alati setacciavano in lungo e in
largo, ogni notte, il territorio su cui viaggiava. Bremen gli aveva
insegnato a evitarli e a sopravvivere. Alle sensazioni suscitate dai
mostri era impossibile sfuggire, ma le si poteva dominare. Le
sensazioni, dopotutto, non fanno alcun male. Mareth l'aveva capito.
Nella stretta delle sue braccia, non si mosse e non tremò, non tentò di
alzarsi o di scappare dal nascondiglio. Rimase sdraiata come lui, con
pazienza e decisione. Alla fine, il Messaggero volò via, si portò in
un'altra zona delle pianure. Kinson e Mareth tremavano, ma finalmente
tirarono un sospiro di sollievo. Era sempre così, pensò il cacciatore,
rimettendosi in piedi. Odiava quel senso di paura, odiava la vergogna
che provava nel doversi nascondere in modo così codardo. Ma era pur
sempre preferibile quella vergogna alla morte. Rivolse a Mareth un
sorriso rassicurante, poi ripresero il cammino nella notte. Arrivarono a
Storlock poco prima dell'alba, bagnati fradici e infangati a causa di un
improvviso acquazzone che li aveva colti a circa un miglio dal
villaggio. Seri in volto e deferenti, alcuni Stor dalla tonaca bianca
vennero ad accoglierli. Furono scambiate poche parole perché non erano
necessarie. Gli Stor, a quanto parve, li riconobbero entrambi e non
fecero domande. Forse si ricordavano delle loro visite passate, pensò il
cacciatore, mentre lo accompagnavano all'asciutto. Mareth era vissuta
con loro e lui li aveva visitati parecchie volte, in compagnia di
Bremen. Quale che ne fosse la spiegazione, semplificò i loro rapporti.
Anche se distaccati e presi dalle loro attività come sempre, gli Stor li
accolsero con generosità e offrirono cibo e riparo. Come se fossero
stati avvisati della loro venuta, diedero loro minestra calda, abiti
asciutti e una camera ciascuno nella foresteria del grande edificio.
Entro un'ora dal loro arrivo, Kinson e Mareth dormivano già. Al loro
risveglio era quasi sera. La pioggia era cessata ed entrambi uscirono a
guardarsi attorno. Il villaggio era silenzioso, la foresta sembrava
priva di vita. Per la strada videro solo numerosi Stor, silenziosi come
spettri, presi dalle loro incombenze; a malapena alzavano la testa per
guardare i due stranieri. Nessuno si rivolse a loro. Nessuno parlò.
Visitarono alcuni ospedali dove i Guaritori si prendevano cura di
persone giunte da ogni parte delle Quattro Terre. Nessuno parve badare
alla loro presenza. Nessuno chiese loro di allontanarsi. Mentre Mareth
si soffermava a giocare con un paio di bambini Gnomi che si erano
ustionati in un incidente di cucina, Kinson uscì e si fermò a guardare
la foresta, ormai avvolta dal buio, e pensò ai pericoli cui poteva dar
luogo la presenza dell'esercito del Nord nelle vicinanze. Quella sera, a
cena, riferì a Mareth le sue preoccupazioni. L'esercito doveva ormai
trovarsi assai vicino al villaggio. Se avessero avuto bisogno di cibo o
di altre scorte, come sempre succedeva, i comandanti avrebbero inviato
una squadra di esploratori ad approvvigionarsi, e Storlock avrebbe corso
gravi pericoli. Tutti conoscevano gli Stor e il lavoro da essi svolto, e
tutti rispettavano la loro riservatezza. Ma l'esercito di Brona obbediva
a un altro genere di condotta, a un'altra scala di valori, e non avrebbe
assicurato al villaggio la protezione che normalmente gli veniva
concessa. Che fine avrebbero fatto gli Stor se uno dei Messaggeri fosse
venuto tra loro a caccia di prede? I Guaritori non avevano modo di
proteggersi, non conoscevano le armi. Per la propria salvezza si
affidavano unicamente alla neutralità e al disinteresse per la politica.
Ma questo poteva essere sufficiente per i cacciatori alati? Mentre
riflettevano su quel problema, chiesero notizie di Cogline e vennero a
sapere subito dove trovarlo. A quanto pareva, non si trattava affatto di
un segreto. Cogline aveva regolari contatti con gli Stor: per procurarsi
i rifornimenti preferiva trattare con loro che con le stazioni
commerciali che punteggiavano i margini della foresta dove s'era
ritirato. L'ex druido era andato ad abitare nelle profondità dell'Anar,
nella valle chiamata Pietra del Focolare situata nella regione poco
frequentata di Terrabuia. Neanche Kinson aveva mai sentito quel nome,
benché conoscesse la Terrabuia e la considerasse un luogo da evitare
perché vi abitavano gli Gnomi Ragno: una tribù di esseri sparuti, a
malapena umani, così selvaggi e primitivi da comunicare con gli spiriti
e da fare sacrifici agli antichi dei. La Terrabuia era un mondo a sé,
fossilizzato nel tempo, immutato dal giorno delle Grandi Guerre e Kinson
aveva fatto una smorfia nel venire a sapere che probabilmente vi si
sarebbero recati. Dopo cena gli Stor ritornarono al lavoro e Kinson
rimase a sedere con la giovane donna su una panca dalla spalliera dura e
scomoda, nel portico della mensa, e studiò il cielo sempre più scuro.
Con crescente preoccupazione pensava che Bremen non era ancora arrivato.
Forse era ancora a Paranor. Forse era rimasto intrappolato dall'altra
parte delle Pianure di Raab, e tra lui e Storlock c'era l'esercito del
Nord. L'incertezza lo metteva in agitazione. Non gli piaceva dover
attendere il vecchio druido, rimanere in ozio in un momento in cui
avrebbe preferito agire. Non che fosse incapace di attendere, se
necessario, ma ora non vedeva la ragione di quegli indugi. Pensava che
Bremen avrebbe dovuto mandarlo avanti, alla ricerca di Cogline, anche se
questo comportava andare nella Terrabuia. Gli pareva che perdessero
tempo. Dalla sala uscì una fila di Stor, avvolti nella lunga tunica e
incappucciati, riservati e misteriosi. Scesero i gradini del portico,
attraversarono la strada ed entrarono in un altro edificio. Le loro
lunghe forme bianche svanirono lentamente nell'ombra grigia del
crepuscolo, come una fila di spettri dopo il tramonto. Kinson pensò con
perplessità alla loro monomania alla loro particolare mescolanza di
dedizione al lavoro e indifferenza a tutto ciò che si estendeva al di là
del loro piccolo villaggio. Lanciò un'occhiata a Mareth, cercando di
immaginarla come una di loro, chiedendosi se rimpiangesse ancora di non
essere stata ammessa nell'ordine. Che l'isolamento fosse più adatto a
lei, considerando le preoccupazioni che le dava la sua magia, il rischio
di una sua esplosione incontrollata? Si sarebbe sentità meno limitata
che a Paranor? Il mistero della sua vita lo incuriosiva e lo spingeva a
porsi su di lei domande che non si era mai posto per altre persone.
Quella notte dormì male, perseguitato da sogni in cui si vedeva
minacciato da mostri senza faccia, assetati del suo sangue. Quando si
svegliò poco prima dell'alba, si trovò in piedi e con la spada in mano
prima ancora di capire cosa stava facendo. Dall'esterno giungevano voci
roche e gutturali, il suono metallico delle armi e il clangore delle
armature. Rinunciò a infilarsi gli stivali e, portando con sé solo la
spada, uscì dalla camera da letto e scivolò lungo il corridoio, fino
all'ingresso principale, dove una fila di finestre si affacciava sulla
strada. Tenendosi nell'ombra, guardò fuori. Sulla strada c'era una
numerosa squadra di razziatori dei Troll e, dinanzi a essa, sugli
scalini dell'ospedale di fronte, un gruppo di Stor. I Troll era armati e
minacciosi; dai loro gesti si capiva che volevano entrare. Gli Stor non
si opponevano in modo aperto, ma non li lasciavano passare. Le voci
incollerite erano dei Troll; gli Stor erano silenziosi e impassibili
davanti alle minacce degli invasori. Kinson non capì cosa volevano, se
cibo, rifornimenti o altro ancora. Ma era chiaro che non intendevano
rinunciare alle loro richieste. Capivano benissimo che non c'era
nessuno, in tutto il villaggio, in grado di opporsi. Kinson guardò
rapidamente gli edifici bui, i marciapiedi in ombra, la foresta e la
strada, e valutò le sue possibilità. Poteva stare dove si trovava e
augurarsi che non succedesse niente. In tal caso avrebbe condannato gli
Stor al destino riservato loro dai Troll, qualunque fosse. Poteva
attaccare i Troll alle spalle e probabilmente ucciderne quattro o cinque
prima che gli altri lo sopraffacessero. Non gli parve un grande
risultato: morto lui - e l'avrebbero di certo ucciso - i Troll sarebbero
stati liberi di fare agli Stor tutto quello che volevano. Oppure, poteva
provare con una diversione, ma non aveva la sicurezza di riuscire ad
allontanare tutti i Troll dal villaggio, né che non vi facessero
ritorno. All'improvviso gli venne in mente Mareth. Lei aveva la forza
necessaria per salvare quella gente. La sua magia era abbastanza potente
per ridurre in cenere in un batter d'occhio l'intera squadra di Troll.
Tuttavia le era stato proibito di usare la magia, e senza di essa era
vulnerabile quanto gli Stor. Dall'altra parte della strada, uno dei
Troll aveva cominciato a salire gli scalini che portavano all'ingresso,
e aveva abbassato minacciosamente l'enorme picca. Gli Stor attesero che
salisse, come pecore biancovestite davanti a un lupo. Kinson strinse con
più forza la spada e si avvicinò alla porta, l'aprì lentamente.
Qualunque cosa decidesse di fare, doveva farla in fretta. Era pronto a
uscire dall'ombra quando dagli Stor assediati si levò un grido. Qualcuno
usciva dall'edificio facendosi strada in mezzo a loro: una figura
zoppicante e semisvestita, che barcollava e batteva le braccia come se
fosse stata colpita da una forma di pazzia. Degli stracci le penzolavano
addosso: erano le bende delle sue ferite, che ora si aprivano all'aria,
rosse e purulente. La faccia dell'apparizione era distrutta da pustole e
ulcerazioni, il corpo indebolito da una consunzione che aveva lasciato
solo le ossa, sotto la pelle chiazzata di macchie bianche. Incespicando,
la figura uscì dal gruppo degli Stor e si portò sugli scalini, gemendo
disperata. I Troll sollevarono le armi, con esitazione, e il primo fece
un passo indietro per la sorpresa. "Peste!" gridò la creatura devastata,
e la parola echeggiò nel silenzio, aspra e terribile. Uno sciame di
insetti si levò dalla schiena dell'apparizione, ronzando follemente.
"Peste, dappertutto peste! Fuggite! Fuggite!" La creatura barcollò e
finì in ginocchio. Dal corpo le si staccarono lembi di carne, dalle
ferite aperte il sangue gocciolò sugli scalini di legno e dalle macchie
si levò un filo di vapore che salì nell'aria gelida della notte. Kinson
rabbrividì, inorridito. A causa della malattia, cadeva letteralmente a
pezzi! Nemmeno i Troll ressero. Soldati dalla testa ai piedi, erano
coraggiosi di fronte a qualsiasi nemico visibile, ma temevano
l'invisibile come il più pacifico bottegaio. Indietreggiarono in
disordine, cercando di non mostrare paura, ma decisi a non rimanere un
altro momento nelle vicinanze della disgraziata figura che era crollata
sugli scalini dinanzi a loro. Con un gesto sprezzante e iroso, il capo
della squadra fece segno di lasciare gli Stor e il villaggio, e l'intero
drappello si affrettò ad allontanarsi in direzione del Raab, per poi
sparire nella foresta. Quando se ne furono andati, Kinson uscì alla luce
e abbassò la spada, mentre il cuore gli tornava a battere normalmente.
Guardò gli Stor sugli scalini e li vide riuniti attorno alla strana
apparizione, noncuranti del morbo che la distruggeva. Costringendosi a
ignorare la paura, il cacciatore attraversò la strada per dare il suo
aiuto. Quando li raggiunse, trovò Mareth in mezzo a loro. "Ho infranto
la promessa" disse lei, con espressione ansiosa e preoccupata. "Mi
dispiace, ma non potevo lasciare che li attaccassero." "Hai usato la
magia!" comprese finalmente il cacciatore, stupito. "Soltanto una
briciola. Soltanto la parte che mi serve per le guarigioni, quella che
utilizzo per empatia. Posso invertirla per far sembrare malato quello
che è sano." "Sembrare?" "Be', sì." S'interruppe. Lui notò la
stanchezza, i cerchi neri attorno agli occhi, le ultime linee di dolore
incise agli angoli della bocca. La giovane aveva la fonte madida di
sudore, le dita contorte e rigide. "Capisci, Kinson, era necessario." "E
pericoloso" aggiunse lui. Mareth batté le palpebre. Rischiava il
collasso. "Adesso sto bene. Devo solo dormire. Mi aiuti a camminare?"
Lui scosse la testa, sconsolato, la sollevò senza fare parola e la
riportò nella sua stanza. Dopo essersi assicurato che la magia
protettiva della rocca dei Druidi fosse ritornata al suo posto e che il
castello non avesse subìto danni, era andato ancora una volta al Perno
dell'Ade per parlare con gli spiriti dei trapassati. Sperava di
apprendere qualche nuovo particolare sulle visioni ricevute nel corso
dell'ultima visita, che gli venisse rivelato qualcosa di più; ma gli
spiriti non gli avevano voluto parlare, non erano voluti apparire, e le
acque del lago si erano levate con una tale furia, alla sua evocazione,
da minacciare di sommergerlo, di trascinarlo nelle loro profondità per
punirlo di un'intrusione così temeraria. Nel descrivere il modo in cui
era stato trattato, la sua voce divenne tagliente. A quanto pareva, gli
era stato dato tutto l'aiuto che poteva ricevere. Il suo destino, da
quel momento in poi, dipendeva unicamente da lui. Quando gli chiesero di
Cogline, il vecchio druido evitò di rispondere. Avrebbero avuto tempo di
parlarne. Per il momento dovevano pazientare e lasciare che un povero
vecchio riposasse un po'. Kinson e Mareth non mossero obiezioni. Perché
Bremen riprendesse le forze erano necessari alcuni giorni. Ma
l'indomani, prima che sorgesse il sole, il druido andò a prenderli nei
loro letti e nel profondo silenzio dell'ora che precede l'alba,
lasciarono il villaggio degli Stor ancora addormentati e si avviarono
verso la Terrabuia. Il giorno seguente l'esercito del Nord smontò le
tende e proseguì verso sud e l'indomani ricomparve Bremen. Mareth si era
ripresa dagli effetti della magia e pareva di nuovo forte e sana, ma il
vecchio druido dava l'impressione di aver preso il suo posto. Era stanco
e male in arnese, impolverato e infangato, e chiaramente in collera.
Mangiò, si lavò, indossò abiti puliti e infine raccontò loro cosa
l'aveva trattenuto.
14
Con l'assenza di Preia Starle e di Retten Kipp e con l'avvicinarsi del
Sarandanon, Tay Trefenwyd si assunse la guida della piccola compagnia
proveniente da Arborlon. Sulle prime Jerle Shannara mosse qualche
obiezione, ma si arrese all'osservazione di Tay che i suoi talenti di
druido erano i più adatti ad accorgersi di un'eventuale minaccia. Tay
intessé una leggera rete di magia, fatta di fili sottili come
terminazioni nervose, che l'avrebbe avvertito di ciò che gli stava
davanti. Sfruttò la sua padronanza degli elementi per scoprire la
presenza di intrusi. Non ne trovò. Dietro di lui, i compagni si
allargarono a ventaglio, per sorvegliare a destra e a sinistra. La
mattinata si riscaldò, l'umidità dei due giorni precedenti sparì, gli
alberi dinanzi a loro si diradarono fino a rendere visibile il
Sarandanon: un'ampia distesa che si estendeva in tutte le direzioni fino
ai monti dell'Ovest, dove si perdeva nella foschia. Tay si concesse di
pensare ad altro. Per la prima volta dal suo ritorno da Paranor, si
sorprese a riflettere che cosa significasse per lui la perdita di Preia.
Era una strana riflessione, perché in realtà non era mai stata sua, e di
conseguenza non avrebbe potuto perderla. Nella misura in cui apparteneva
a qualcuno, apparteneva a Jerle. Gli era sempre appartenuta e Tay
l'aveva sempre saputo. Ma ora comprese di averla considerata come
qualcosa di suo, e di averla sempre amata senza nutrire alcuna invidia
per Jerle, accettando come dato di fatto il legame tra lei e il suo
migliore amico, accontentandosi di conservarla come un ricordo, che
poteva evocare e ammirare ma non possedere realmente. Tay era un druido,
e i Druidi non si sposavano: dedicavano la vita alla ricerca della
conoscenza e alla diffusione del sapere. Vivevano separati dal resto
dell'umanità e morivano da soli. Ma i loro sentimenti erano uguali a
quelli di tutti gli altri, e Tay si rendeva conto di aver sempre tratto
un forte sostegno dal suo affetto per Preia. Cos'avrebbe significato per
lui la sua perdita? La domanda bruciava come il fuoco e minacciava di
consumarlo. Riusciva a malapena a formularla, non certo a trovare la
risposta. E se fosse morta? Era pronto a perderla, ma in altri modi.
Sapeva che un giorno si sarebbe sposata con Jerle. Sapeva che avrebbe
avuto una famiglia e che sarebbe per sempre vissuta lontano da lui. Lo
stesso Tay aveva rinunciato a ogni altra possibilità molto tempo
addietro, quando era andato a vivere con i Druidi. Quello che provava
per lei non poteva trovare espressione nella vita reale, era una
fantasia chiusa nella sua immaginazione, perché nella vita reale
potevano essere soltanto amici. Ma il pensiero che fosse morta, che la
sua vita fosse finita, lo costrinse ad ammettere ciò che non aveva mai
ammesso in precedenza: che aveva sempre nutrito una speranza, per quanto
debole, che in qualche modo potesse accadere l'impossibile e Preia
lasciasse Jerle per unirsi a lui. Questa consapevolezza lo colpì con
tanta forza che per un momento perse la cognizione della situazione in
cui si trovava. Si lasciò sfuggire i fili della magia con cui esplorava
il terreno, trascurò il controllo dei luoghi bui che li aspettavano e
riuscì a pensare soltanto a quell'unica verità. Preia sua... aveva
mantenuto in vita quel sogno, l'aveva accuratamente protetto nel più
segreto angolo della sua mente. Preia sua, perché non riusciva a
smettere di desiderarla. Oh, per tutte le ombre! L'istante successivo
riprese la padronanza di sé, raccolse di nuovo i fili della magia e
proseguì il cammino. Non poteva permettersi quel genere di pensieri, e
non osò più pensare a Preia Starle. Gli tornarono alla mente le parole
di Bremen, pesanti come un'armatura di ferro. Convincere gli Elfi ad
andare in aiuto dei Nani. Trovare la Pietra Nera. La sua vita doveva
essere dominata da quei due compiti. Null'altro aveva importanza. Molte
vite - oltre alla sua e a quella di coloro che amava - dipendevano dalla
sua perseveranza, diligenza e decisione. Fissò con risolutezza lo
sguardo sulla foschia della valle dinanzi a lui e per pura forza di
volontà si staccò dal passato per pensare all'avvenire. Verso
mezzogiorno entrarono nel Sarandanon, dopo avere incontrato per ben due
volte le tracce dei Cacciatori degli Gnomi senza però scorgere gli
Gnomi. Gli Elfi erano sulle spine, ansiosi di trovare i cavalli promessi
e di allontanarsi dalla zona. Se fossero stati sorpresi allo scoperto da
forze superiori senza possibilità di fuggire, si sarebbero trovati
veramente nei guai. Tay controllò la terra e l'aria alla ricerca di
Gnomi e scoprì dappertutto le tracce del loro passaggio, ma non la loro
presenza. Gli Gnomi, a quanto pareva, perlustravano quella parte della
vallata alla loro ricerca. Se avevano trovato Preia, dovevano anche aver
capito che non era sola. Un esploratore non poteva che far parte di un
grosso gruppo, e doveva essere in perlustrazione. L'avevano scoperta?
Pareva la conclusione inevitabile, dopo il ritrovamento del suo arco
spezzato in mezzo a un mucchio di orme del nemico. E da questa
conclusione si passava alla seconda domanda, quella che Tay cercava
disperatamente di evitare. Jerle conosceva tutti gli avamposti della
valle dove si tenevano i cavalli a disposizione dei Cacciatori degli
Elfi, e si diresse verso il più vicino. Il territorio, leggermente
ondulato, era lontano dalle zone coltivate e per questo coperto di erba
alta. Si tennero sempre nella zona incolta e nelle depressioni fra i
rilievi. Quando furono a meno di un miglio dalla loro destinazione, Tay
sentì la presenza dei Cacciatori degli Gnomi e ordinò al gruppo di
fermarsi. In qualche luogo delle vicinanze era stata tesa una trappola.
Gli Gnomi li stavano aspettando. Lasciando gli altri ad aspettare il
loro ritorno, Tay e Jerle proseguirono da soli, piegando prima a sud e
poi a nord, per giungere da una direzione diversa da quella prevista dal
nemico. La magia di Tay li protesse e fornì loro gli occhi con cui
vedere. Quando furono nei pressi del piccolo gruppo di costruzioni che
costituiva l'avamposto, Tay ebbe la certezza che la trappola era stata
allestita laggiù. Il vento - poco più di una brezza leggera - soffiava
verso di loro, ed entrambi sentirono l'odore del nemico, una sgradevole
mescolanza, acre e densa, di terra e dell'olio con cui si ungevano la
pelle. Non avevano fatto alcun tentativo di nasconderlo, e questo
allarmò subito Tay, perché in genere gli Gnomi non erano così sbadati.
Strisciando sul terreno, raggiunsero un punto da cui potevano scorgere
la stalla e il recinto dei cavalli. Non c'era nessuno. Il recinto era
vuoto. Nello spiazzo tra gli edifici niente si muoveva. Dalla casa non
giungeva alcun rumore. Eppure c'era qualcuno nascosto lì. Tay ne era
certo. Né lui né Jerle volevano allontanarsi prima di aver accertato
cos'era successo: senza avere il coraggio di dirlo, tutt'e due temevano
che Preia fosse prigioniera. Perciò procedettero carponi, dentro un
fosso al limitare di un campo di grano, da cui potevano vedere la
facciata della casa e della stalla. Tay percepì, in entrambi gli
edifici, movimenti inquieti e furtivi. Cacciatori degli Gnomi in
agguato. Cercò di cogliere la presenza di qualche altra entità più
pericolosa, ma non ne trovò. Respirando lentamente, con calma, seguì
Jerle che avanzava in silenzio. Sentiva il fruscio degli steli di grano
agitati dal vento e il profondo silenzio della prateria, e ripensò a ciò
che aveva provato quando erano entrati nel palazzo reale, la notte del
massacro: i presentimenti, la sensazione che qualcosa non andava. Infine
raggiunsero il punto scelto da Jerle, riparato in mezzo al frumento, ma
abbastanza vicino alle case perché si potesse scorgere bene la facciata.
Jerle sollevò cauto la testa e l'abbassò subito, pallido come un cencio.
Tay lo fissò per un momento, lo guardò negli occhi e sollevò a sua volta
con circospezione il capo. Retten Kipp era crocefisso alla porta del
granaio con grossi chiodi conficcati nelle mani e nei piedi. Il sangue
sgorgava dalle ferite rigando il legno. Capelli e abiti pendevano come
da uno spaventapasseri. Poi Kipp mosse leggermente la testa. Il vecchio
esploratore, benché in fin di vita, non era ancora morto. Tay si lasciò
scivolare a terra e chiuse gli occhi per qualche istante. Provò rabbia e
paura, che cercarono di prendere il sopravvento sulla ragione. Allora
capì perché gli Gnomi non si erano preoccupati di nascondere la loro
presenza. Con Retten Kipp come esca, sapevano che gli Elfi sarebbero
usciti allo scoperto. A fatica riprese il controllo delle proprie
emozioni e fissò cupo Jerle Shannara. L'amico si curvò verso di lui. I
suoi occhi azzurri erano gelidi e fermi. "Hanno anche Preia?" sussurrò.
Tay non ripose. Non si fidava delle proprie emozioni. Invece di parlare,
chiuse di nuovo gli occhi e inviò nella casa e nella stalla i fili della
sua magia, per cercare la giovane elfa. Era rischioso, ma non c'era
altro modo. Impiegò parecchio tempo, penetrando in profondità in ogni
edificio per accertarsene. Alla fine riaprì gli occhi e mormorò: "No".
Jerle annuì, senza lasciar trasparire ciò che provava Strinse le labbra.
Parlò a voce bassissima, quasi impercettibile. "Non possiamo salvare
Retten Kipp... ma non possiamo lasciarlo così." Fissò Tay, che annuì.
Sapeva cosa voleva Jerle. "Capisco" rispose a bassa voce. Sarebbe stato
pericoloso. Forse i Cacciatori degli Gnomi non erano in grado di
accorgersi della sua magia, ma un Messaggero del Teschio l'avrebbe
notata di certo. Quando aveva cercato Preia, non aveva scoperto
cacciatori alati, ma era possibile che si fossero nascosti
intenzionalmente. La trappola poteva essere stata preparata per lui, uno
dei Druidi che cercavano, per spingerlo a tradirsi e poi scattare. Se
era presente un Messaggero, facendo quello che gli si chiedeva non
avrebbe avuto scampo. Tuttavia non gli rimaneva molta scelta. Non poteva
lasciare che Kipp morisse in quel modo. Si avvolse nella propria magia
come in un mantello buio e l'aria intorno a lui vibrò e nel petto si
diffuse il calore della passione. Tenne gli occhi aperti, perché questa
volta doveva dirigere la magia con precisione. Il viso gli si irrigidì
in una maschera di morte. Vide Jerle ritrarsi istintivamente da lui,
sconvolto. Riconobbe la sua espressione. Poi sollevò la testa quanto
bastava per scorgere la figura lacera e torturata di Retten Kipp, e tese
verso di lui un filo di magia, sottile come un cavo di salvataggio.
Procedette con cautela, saggiando a palmo a palmo l'etere in cui
penetrava, attento a ciò che poteva nascondere. Ma non trovò nulla di
minaccioso e proseguì. Arrivato al cuore di Retten Kipp, sentì il suo
dolore e la sua pena e gli parve che il respiro affannoso
dell'esploratore si sovrapponesse al suo. Allora portò via l'aria che
entrava ancora nei polmoni del moribondo, ormai prossimi a fermarsi, e
attese con pazienza che il suo respiro cessasse. Quando ebbe terminato,
scivolò accanto a Jerle. Aveva la faccia lucida di sudore e le lacrime
agli occhi. "Fatto" sussurrò. Jerle gli appoggiò la mano sulla spalla e
gliela strinse piano, per consolarlo. "Era necessario, Tay. Soffriva e
non potevamo lasciarlo là." Tay annuì in silenzio. Sapeva che l'amico
aveva ragione, ma Jerle non avrebbe dovuto vivere con il ricordo della
vita di Retten Kipp che pulsava fra le sue dita e poi si spegneva. Si
sentiva freddo e vuoto. Si sentiva ferito e abbandonato. Jerle gli
rivolse un cenno e tornarono indietro, lungo il fosso e attraverso i
campi, lasciandosi alle spalle l'avamposto e i suoi occupanti, i vivi e
i morti.
Impiegarono quasi un'ora a riunirsi ai compagni. Si era ormai a metà
pomeriggio e il sole calava verso le cime appuntite delle Terre di
Confine. Camminarono in quella direzione, abbagliati dal sole quando
dovevano uscire dall'ombra di qualche piccola altura per camminare allo
scoperto. Tay continuò a guidare il gruppo, esplorando con la sua magia
il terreno. Dopo essere tornato dall'avamposto, s'era ripetutamente
guardato alle spalle, alla ricerca di inseguitori, ma non ne aveva
trovati. Davanti a loro, però, si scorgevano quasi ovunque tracce di
Gnomi. Non era in grado di dire quanto fossero numerosi i gruppi, ma ce
n'era più di uno. Si erano chiesti se non convenisse aspettare il buio
prima di continuare, ma avevano deciso che sarebbe stato meno pericoloso
muoversi che rimanere fermi. Jerle rimase accanto a Tay per guidarlo
verso un nuovo avamposto che distava poche miglia, augurandosi che non
fosse stato scoperto. Nessuno dei due parlò. Accanto a loro, i compagni
scrutavano i dintorni, alla ricerca di nemici. Poi, all'improvviso, Vree
si portò accanto al druido e gli disse, con voce ansiosa: "Laggiù!".
Indicò un punto alla loro sinistra. "Cavalli, dodici o tredici, nascosti
in quella radura!" Tay e Jerle Shannara si fermarono e guardarono nella
direzione indicata, ma videro solo alcuni campi coperti di germogli di
grano. Il locat guardò prima l'uno e poi l'altro, impaziente. "Non
perdete tempo a guardare! Di qui non si possono vedere!" "Allora, come
lo sai?" chiese subito Jerle. "Intuito!" ribatté lui. "Che altro?" Il
guerriero lo guardò dubbioso. "L'avamposto dove siamo diretti è proprio
davanti a noi. Ci sono cavalli anche lì?" Vree gli rispose in tono
brusco per la fretta: "Io so soltanto quello che mi dice il mio intuito!
Ci sono dei cavalli, dietro quelle collinette, in una radura!". Per
sottolineare le proprie parole, indicò di nuovo la direzione. Jerle
Shannara aggrottò la fronte, irritato dall'insistenza dell'altro. "E se
ti sbagli, locat? Quanto dista, quella radura che nessuno di noi può
vedere?" Tay si affrettò ad alzare la mano per prevenire la risposta
incollerita di Vree Erreden. Tacque per un istante, valutando le
possibilità, poi osservò ancora una volta i campi. "Sei certo di quei
cavalli?" chiese con calma al veggente. L'altro lo guardò come se
volesse incenerirlo. Tay fece una leggera smorfia, poi annuì. "Penso che
dovremmo andare a vedere cosa c'è a sinistra." Nonostante i dubbi di
Jerle, cambiarono direzione e si avviarono lungo la pianura. La parte
centrale del Sarandanon si estendeva dinanzi a loro: i campi coltivati
erano un mosaico di terra scura e di messi verdi. Adesso erano allo
scoperto, chiaramente visibili a chiunque li cercasse. Era inevitabile.
In qualunque direzione viaggiassero, a dire la verità, si sarebbero
trovati allo scoperto, ma la cosa non dava molta consolazione a Tay,
perché si allontanavano dall'avamposto e se Vree Erreden si fosse
sbagliato le loro possibilità di sopravvivenza sarebbero diminuite
notevolmente. Tay cercò di non preoccuparsi. Era per questo che aveva
portato con loro il veggente: per la sua capacità di vedere quello che
sfuggiva perfino alla magia dei Druidi. Il piccolo uomo non avrebbe
detto nulla se la sua intuizione non fosse stata forte. Conosceva quanto
Tay i rischi della loro situazione. La rete magica di Tay si allargò
ancor di più alla ricerca dei nemici, e questa volta li trovò.
Arrivavano rapidi da nord: una pattuglia di Gnomi a cavallo; erano
ancora lontani, ma arrivavano al galoppo. Non poteva vederli, ma le loro
intenzioni erano inequivocabili. Lanciò un grido d'avvertimento a Jerle
e la piccola compagnia si mise a correre. Davanti a loro, i campi
lasciavano il posto a una fila di basse colline. La radura doveva
trovarsi dietro di esse, pensò Tay. E anche i cavalli, si augurò, perché
erano troppo lontani dall'avamposto per poter sfuggire in altro modo. In
quel momento comparvero altri Gnomi, un altro gruppo uscito dal suo
nascondiglio nell'avamposto, che adesso era a malapena visibile dietro i
campi. Il nuovo gruppo era appiedato, ma si lanciò di corsa verso gli
Elfi, per rallentarli fino all'arrivo dei compagni a cavallo. Tay
digrignò i denti, mentre correva. Dall'avamposto non c'era da sperare
aiuto. La loro unica speranza era l'intuito di Vree. Jerle Shannara gli
passò davanti senza sforzo, volando sui solchi. Anche qualche altro elfo
lo superò, più veloce di lui. Ansimando e con una morsa al petto, il
druido provò una fitta di panico. E se i cavalli visti da Vree fossero
stati un'altra trappola? Se ci fossero stati altri Gnomi, in sella a
quei cavalli, in attesa del loro arrivo? Freneticamente, cercò di
gettare la sua rete di magia al di là della collina, per scoprire se la
sua paura era giustificata, ma la sua forza stava scemando: non riuscì
ad arrivare a quella distanza. Dagli Gnomi che li inseguivano si levò un
coro di grida rauche e minacciose. Tay le ignorò. Qualche istante più
tardi gli si affiancò Vree, che correva senza fatica, in forma fisica
migliore di quanto Tay si aspettava. Tay gli gridò qualche parola di
avvertimento, ma l'altro sembrò non udirlo. Lo superò e proseguì. Adesso
Tay era l'ultimo. Si disse ironicamente: è il prezzo che si paga per la
vita sedentaria. Jerle Shannara uscì dal campo e cominciò a salire la
collina. In quell'istante risuonò un nitrito acuto, e da dietro l'altura
si sentirono scalpitare numerosi cavalli. Nella limpida aria del
pomeriggio si levò una nuvola di polvere. Jerle rallentò, incerto su ciò
che avrebbero trovato, portò la mano alla spada e la estrasse dal
fodero. I suoi Cacciatori corsero a proteggerlo. Le lame metalliche
balenarono al sole: la luce danzò sulle superfici lucide con improvvisi
barbagli. L'istante successivo comparve una fila di cavalli che scendeva
verso di loro, contro la luce abbagliante del sole, in un'esplosione
improvvisa di suoni e colori. Ce n'erano dodici o più, legati insieme, e
galoppavano come un miraggio portato in vita. Li guidava un solo
cavaliere, curvo sul collo del primo animale. Tay Trefenwyd si fermò ai
margini del campo, con il cuore che batteva selvaggiamente e il sangue
che gli rombava nelle orecchie. Il cavaliere era Preia Starle. La donna
passò accanto a Jerle senza rallentare e liberò alcuni cavalli
gettandogli le redini. Proseguì, consegnando gli altri cavalli ai
Cacciatori degli Elfi. Continuò poi in direzione di Tay e fece impennare
il cavallo davanti a lui. "Salta su, Tay Trefenwyd, e scappiamo! Siamo
circondati da Gnomi!" Aveva la faccia e il vestito sporchi di sangue.
Tay le vide sul viso graffi e lividi. Spinse il cavallo verso di lui e
per poco non lo gettò a terra. "Salta su!" gli gridò. Non c'era il tempo
di pensare. Gli altri erano già in sella e si stavano allontanando. Tay
infilò il piede nella staffa che Preia gli aveva lasciato libera e montò
dietro di lei. "Tieniti a me!" gridò la donna. In un turbine di polvere
e con un pesante scalpitio di zoccoli, si lanciarono al galoppo dietro
gli altri. Fu una corsa folle. Gli Gnomi appiedati si erano sparsi nei
campi dinanzi agli Elfi per impedire loro la fuga. Alcuni erano armati
di fionde, altri di archi. Intanto, visibili per la prima volta,
apparvero a nord i loro compagni a cavallo. Insieme, superavano gli Elfi
nella proporzione di quattro a uno. Erano troppi per pensare di
sconfiggerli in battaglia campale. Jerle Shannara prese la guida e si
lanciò dritto contro gli Gnomi appiedati. La ragione era ovvia. Per gli
Elfi, la sola speranza stava nel distanziare gli Gnomi a cavallo, e il
solo modo per farlo era portarsi davanti a loro. Se avessero piegato a
sinistra - come cercavano di spingerli a fare gli Gnomi appiedati
sarebbero tornati fra le collinette, dove il terreno li avrebbe
costretti a rallentare consentendo agli Gnomi a cavallo di
intercettarli. Se si fossero diretti a destra, sarebbero finiti in mezzo
agli inseguitori a cavallo. E, naturalmente, era inutile tornare
indietro. Di conseguenza, potevano solo andare avanti, spezzare lo
schieramento degli Gnomi appiedati e lanciarsi al galoppo verso ovest,
perché tutti sapevano, gli Gnomi non meno degli Elfi, che lo gnomo
capace di correre più di un elfo doveva ancora nascere. I Cacciatori di
Jerle si lanciarono nel campo, allargandosi il più possibile per
confondere i nemici armati di arco e così sfuggire alla trappola. Gli
Gnomi correvano in tutte le direzioni, lanciandosi grida d'avvertimento,
cercando di catturare la preda. Gli Elfi correvano piegati sulla sella
per offrire un bersaglio minore. Solo Jerle sfidò la sorte, alzandosi
sulle staffe e gridando come un folle agli Gnomi davanti a lui e
mulinando la spada sopra la testa come una falce mortale. Dalla sua
posizione, a sinistra, Tay riusciva a malapena a distinguerlo mentre si
lanciava contro la linea degli Gnomi e il suo grande baio saltava tra i
solchi seminati. Tay comprese le sue intenzioni: voleva attirare su di
sé il massimo numero di nemici per dare ai compagni maggiori possibilità
di fuga. Poi Preia gli gridò di stare giù, e lanciò il nervoso sauro in
un basso argine, lasciando il campo dove cominciavano le alture. Tay
sentì qualcosa fischiargli accanto alla testa. Si abbassò sulla schiena
sottile di Preia, proteggendola come un mantello, stringendola alla
vita. La sentiva muoversi ora da un lato ora dall'altro, e il cavallo
ogni volta cambiava direzione. Per qualche istante gli parve di vedere
qualcuno correre verso di loro: un confuso movimento di gambe e braccia
in mezzo al grano. Qualcosa di piccolo e duro gli colpì la spalla,
rendendogli insensibile il braccio. Tay non riuscì più a stare
aggrappato e sarebbe forse caduto se la donna non avesse teso la mano
aiutandolo a tenersi in sella. Arrivarono alla fine del campo,
superarono d'un balzo un canaletto e furono su un ampio tratto erboso.
Adesso erano nella pianura. Tay azzardò un'occhiata alle proprie spalle:
al limitare del campo, alcuni Gnomi, con un ginocchio a terra,
scagliavano come forsennati pietre e frecce. Ma gli Elfi erano fuori
tiro. Il druido guardò di nuovo dinanzi a sé. I compagni continuavano a
galoppare al loro fianco; presto si lasciarono alle spalle l'avamposto e
si addentrarono nella prateria. Tay cercò di contare i compagni, e in
particolare di controllare se Jerle fosse salvo, ma la polvere e la
foschia del tardo pomeriggio lo costrinsero a rinunciare e a
concentrarsi sul compito di tenersi in sella. Gli Elfi si raggrupparono
a poca distanza dall'avamposto e misero i cavalli al trotto perché erano
affaticati. Miracolosamente, erano tutti salvi e quasi tutti illesi.
Jerle Shannara aveva appena un graffio. Tay scoprì di essere stato
colpito alla spalla da un sasso scagliato con la fionda: ora nel punto
colpito c'era un grosso livido. Riusciva di nuovo a muovere il braccio,
ma gli faceva male. Niente di rotto, si disse, e non ci pensò più. Gli
Gnomi a cavallo li inseguirono, piegando a occidente nella prateria
quando compresero che la preda era sfuggita alla trappola tesa nel
campo. Ma i loro cavalli erano stanchi e non conoscevano il territorio
come gli Elfi. Prendendo la guida ancora una volta, Jerle scelse il
percorso più vantaggioso. Era la sua terra: dove il terreno si abbassava
all'improvviso, conosceva il passaggio più in alto; sapeva tenersi alla
larga da paludi od ostacoli; conosceva i punti in cui guadare i fiumi
larghi e tumultuosi. La fuga proseguì, ma gli Gnomi vennero
progressivamente distanziati e al tramonto non erano più visibili
all'orizzonte. Tuttavia, anche dopo avere messo i cavalli al passo
perché non si ferissero nell'oscurità della notte, proseguirono il
cammino. Non volevano rischiare di essere scoperti casualmente da
qualche altro gruppo di nemici. Jerle li portò verso nord lungo il letto
di un ruscello, per non lasciare tracce della loro deviazione. Quando
l'oscurità li avvolse, fu come ritrovare un caro amico. Il calore del
giorno si dileguò e l'aria cominciò a rinfrescarsi. Per qualche tempo
cadde una pioggia sottile, che presto finì. Continuarono ad avanzare nel
più completo silenzio, interrotto soltanto dallo scalpiccio dei cavalli
nell'acqua e, quando furono di nuovo all'asciutto, dal tonfo soffocato
degli zoccoli sulla terra morbida. Quando si sentì al sicuro, Tay si
accostò all'orecchio di Preia e le sussurrò: "Cosa vi è successo?". Lei
si girò a guardarlo. I suoi occhi erano straordinariamente luminosi in
mezzo ai graffi e ai lividi che aveva sulla faccia. "Una trappola!"
sibilò a bassa voce, con ira. "Kipp era andato avanti per procurarsi i
cavalli al primo avamposto.LO esploravo la zona per cercare gli Gnomi
da noi scoperti nell'area. Ma ci stavano aspettando.LO sono stata
fortunata, Kipp no." "L'abbiamo trovato, io e Jerle" le riferì, a bassa
voce. Lei annuì, senza rispondere. Avrebbe voluto spiegarle quello che
aveva fatto e perché, ma non ne trovò il coraggio. "Come l'hanno
scoperto?" domandò invece. Lei si strinse nelle spalle. "Non lo
sapevano. Hanno tirato a indovinare. L'esistenza di quegli avamposti non
è un segreto. Gli Gnomi sapevano che avremmo cercato la Pietra Nera e si
sono limitati ad aspettarci. Penso che ci aspettino in tutti gli
avamposti." S'interruppe, poi riprese: "Se avessero conosciuto con
esattezza i nostri piani, se avessero saputo come trovarci, avrebbero
preso anche me, e non solo Kipp. Ma io li ho trovati prima che
trovassero me". "Ma hai dovuto lottare, per cavartela. Abbiamo trovato
il tuo arco." Lei scosse la testa. "Temevo che lo trovaste. Non ho
potuto farne a meno." "Abbiamo pensato che..." "L'ho lasciato cadere
quando sono fuggita" lo interruppe Preia, prima che riuscisse a dire
quello che avevano pensato. "Poi ho seguito Kipp. Fu allora che ebbe
luogo la lotta. All'avamposto, poco dopo che l'avevano catturato. Ma
erano troppi, e ho dovuto lasciarlo nelle loro mani." Lo disse con
grande amarezza. Riferire quegli avvenimenti le costava molto. "Anche
noi siamo stati costretti a lasciarlo" confessò Tay. Lei non si voltò.
"Vivo?" Tay scosse lentamente la testa. Preia sospirò. "Non sono potuta
tornare ad avvertirvi. C'erano troppi Gnomi fra me e voi. Sono dovuta
correre avanti per assicurarmi i cavalli. Sapevo che senza cavalli non
avremmo avuto scampo. Ho anche pensato che avrei potuto attirarne
qualcuno dietro di me." Rise nervosamente. "Un'illusione, temo.
Comunque, sono riuscita a rubargli un cavallo sotto il naso la notte
scorsa, mentre dormivano, e sono corsa a sud, fino a un avamposto
esterno alla valle che gli Gnomi non conoscevano, ho preso i cavalli su
cui cavalchiamo ora, li ho portati qui e ho atteso che arrivaste." Tay
la fissò con stupore. "Come sei riuscita a fare tutto in una giornata?"
Lei si strinse nelle spalle. "Non è stato difficile come credi." Per
qualche tempo, nessuno parlò e si udì solo lo scalpitio dei cavalli.
"Meno difficile di quello che hai dovuto fare tu." Preia si girò e gli
rivolse un sorriso triste. "Ti sei comportato bene, Tay." Lui si sforzò
di ricambiare il sorriso. "Tu ti sei comportata meglio." "Mi
dispiacerebbe perderti" disse lei all'improvviso, e si girò. Tay rimase
in silenzio, incapace di trovare una risposta. Cavalcarono per tutta la
notte e si accamparono poco prima dell'alba in una piccola forra fitta
di giovani frassini e betulle. Dormirono poche ore, si svegliarono,
mangiarono e proseguirono. Era tornata la pioggia, e con essa una nebbia
che copriva di grigio la regione. La nebbia e la pioggia li
nascondevano, perciò continuarono a cavalcare quel giorno e il seguente,
e anche per buona parte della seconda notte, invisibili a coloro che li
cercavano. Tay stava con Preia Starle, e si serviva della magia per
scrutare nella nebbia, preoccupato non tanto di essere scoperto dagli
Gnomi, quanto di incappare accidentalmente in loro. Per gran parte del
tempo avanzarono a piedi, portando i cavalli alla briglia, per
risparmiare le loro forze ed evitare che si azzoppassero nella terra
impregnata di pioggia. Tay e Preia non parlarono, concentrati nel fare
la guardia, lui con la magia e lei con gli occhi. Ma si tenevano molto
vicini per proteggersi dalla pioggia, e questo per Tay era sufficiente.
Si concesse di immaginare che significassero l'uno per l'altra più di
quanto non fosse. Non serviva a molto, ma per qualche tempo ebbe
l'impressione di aver trovato un proprio posto nel mondo, anche
all'esterno di Paranor. Forse, se si fosse sforzato, l'avrebbe trovato
anche senza Preia. Lei non poteva seguirlo, ma forse poteva aiutarlo a
trovare la strada. Tay continuò a tenerla per la vita, riparandola dalla
pioggia, sentendo il calore del corpo di lei contro il suo. Ripensò a
come fosse arrivato a ciò che era. Ripensò alle scelte fatte e si chiese
se oggi sarebbero state diverse. Il terzo giorno dormirono fino
all'alba, in un bosco di alti abeti, in una valle ai margini del
Kensrowe. Erano quasi giunti in fondo alla valle, e davanti a loro
c'erano la distesa scura dell'Innisbore e il passo attraverso il Baen
Draw che li avrebbe portati alle Terre di Confine. Quel giorno Tay non
aveva trovato tracce di Gnomi. Cominciava a pensare che li avessero
distanziati, e che presto sarebbero riusciti a perdersi in mezzo ai
monti. Tay si alzò presto e trovò Jerle Shannara già sveglio, ai limiti
del campo, intento a guardare in direzione dell'alba. La giornata si
annunciava cupa e scura come le precedenti, il tempo non era cambiato.
Il guerriero si volse nel sentirlo arrivare. "Tay. Troppo breve questa
notte, eh?" Tay si strinse nelle spalle. "Ho dormito abbastanza bene."
"Non come eri abituato, però. Non è come a Paranor, dai Druidi, in un
letto, in una stanza asciutta, con cibo caldo ad aspettarti al
risveglio." Tay si avvicinò a lui, ma evitò il suo sguardo. "Non
importa. I Druidi sono morti. Paranor è distrutta. Quella parte della
mia vita è finita." L'amico lo studiò con attenzione. "C'è qualcosa che
ti preoccupa. Ti conosco troppo bene per sbagliarmi. In questi ultimi
giorni eri distratto. E' per Retten Kipp? E' per quello che hai dovuto
fare per liberarlo dalle sofferenze?" "No" rispose Tay, senza mentire.
"E' una cosa più complicata." Jerle attese un istante. "Devo indovinare
o preferisci che lasci perdere?" Tay esitò: non sapeva se rispondere o
no. "Riguarda il fatto di essere tornato dopo tanto tempo" spiegò alla
fine, scegliendo con cura le parole. "Sono stato lontano dall'Ovest per
quindici anni. Adesso sono di nuovo qui, ma mi sembra che non sia il mio
posto. Non so dove andare e che fare. Se non fosse per questa ricerca,
sarei completamente smarrito." "Forse la ricerca è sufficiente, per ora"
suggerì l'amico, gentilmente. "Forse il resto verrà col tempo." Tay
scosse la testa. "Non credo. Ho l'impressione di essere cambiato e di
non poter più tornare quello di un tempo. Gli anni a Paranor mi hanno
cambiato in modi che comincio a capire soltanto ora. Mi sento preso tra
quello che ero e quello che sono. Non mi pare di essere né una cosa né
l'altra." "Sei appena ritornato. All'inizio, non puoi pensare che tutto
sia come una volta. E' naturale che ti sembri strano." Tay guardò
l'amico. "Forse dovrei andare di nuovo via, una volta che tutto sarà
finito." Jerle Shannara si passò la mano tra i capelli biondi. Sulla
faccia gli brillavano goccioline di nebbia. "Mi dispiacerebbe molto, se
succedesse" disse. "Ma ti capirei, Tay. E saremmo sempre amici." Gli
posò una mano sulla spalla e Tay gli sorrise. "Saremo sempre amici"
confermò. Ripresero il viaggio verso ovest, in mezzo alla foschia. Con
il passare delle ore, la pioggia divenne più fitta. Quel giorno
percorsero l'ultima parte del Sarandanon, avvolti nella penombra, quasi
invisibili l'uno all'altro. Era come se il mondo da cui venivano e in
cui si recavano fosse scomparso e rimanesse soltanto il piccolo tratto
di terra su cui cavalcavano: un tratto che si materializzava davanti a
loro e spariva alle loro spalle e durava i pochi istanti occorrenti per
attraversarlo. Giunsero al Baen Draw, che dal Kensrowe portava alle
Terre di Confine, al crepuscolo, quando ormai la luce era sparita.
Laggiù trovarono nuovamente gli Gnomi, che li avevano preceduti. Nella
valle si era insediato un grosso contingente che bloccava il passaggio.
Non era il gruppo che li aveva attaccati nella valle: questi erano lì da
molto tempo. Preia Starle andò in esplorazione e trovò il loro
accampamento: era ormai vecchio e stabile, riferì. Le sentinelle erano
schierate attraverso l'imboccatura della valle e non c'era modo di
passare. Gli Elfi potevano aggirare la valle, ma avrebbero allungato il
viaggio di tre giorni e non potevano permetterselo. Dovevano trovare il
modo di passare. Dopo qualche riflessione, scelsero un piano che si
basava soprattutto sulla sorpresa. Attesero la mezzanotte, poi montarono
a cavallo e si diressero verso il passaggio. Incappucciati e avvolti nel
mantello, nascosti dalla notte e dalla pioggia, erano a malapena
visibili tra loro, non certo per le sentinelle degli Gnomi. Avanzarono
senza fretta, apparentemente calmi, dando l'impressione di essere nel
posto giusto. Quando furono abbastanza vicini da essere avvistati dalle
sentinelle, Tay, che a Paranor aveva imparato molte lingue, si rivolse
agli Gnomi nella loro lingua, dicendo che erano attesi. Rinforzi, lasciò
capire, e gli Elfi continuarono ad avanzare. Prima che gli Gnomi
riuscissero a prendere una decisione, gli Elfi li sopraffecero, diedero
di sprone e si lanciarono lungo la gola. Si diressero al galoppo verso
il campo, disperdendo in tutte le direzioni gli Gnomi e i loro fuochi,
gridando come se fossero un centinaio invece che una decina. La sorpresa
fu completa. Gli Gnomi balzarono dai giacigli e si lanciarono
all'inseguimento, ma gli Elfi erano già lontani. A quel punto, però, la
loro fortuna finì. Come precauzione contro quel genere di attacco, gli
Gnomi avevano allestito una seconda linea di difesa alla fine della
gola: nell'udire le grida dei compagni, gli Gnomi della seconda linea
attesero gli aggressori. Così quando si avvicinarono alla fine della
valle, gli Elfi vennero bersagliati da un nutrito lancio di frecce,
giavellotti e pietre. Non c'era il tempo di rallentare, di trovare
un'altra strategia, di fare qualcosa di più che curvarsi al massimo e
sperare di passare. Senza paura, Jerle Shannara si lanciò diritto contro
il più nutrito gruppo di difensori. Tutte le armi volarono contro di lui
per abbatterlo. Ma come sempre, il gigantesco guerriero pareva protetto
da una magia: riuscì a rimanere in sella e il suo cavallo rimase in
piedi. Insieme piombarono sugli Gnomi, e Tay Trefenwyd vide i loro corpi
volare via come pezzi di legno. Un attimo più tardi, Jerle era oltre lo
schieramento nemico. Anche Tay e Preia riuscirono a sfuggire: il loro
robusto cavallo si fece strada in mezzo a un gruppo di Gnomi
all'estremità sinistra dal passaggio, poi superò d'un balzo una corda
tesa che doveva farlo inciampare. Le grida dei cacciatori e dei cacciati
si mescolarono ai nitriti dei cavalli. I cavalieri continuarono correre,
simili a forme incorporee che entravano e uscivano dalle tenebre.
Disperato, Tay usò la magia per avvolgere gli Elfi rimanenti in uno
schermo, in modo da nasconderli agli Gnomi. Ma quando si riunirono ad
alcune miglia di distanza dal passo, sei mancavano. Adesso il loro
numero si riduceva a otto, mentre le centinaia di Gnomi presenti nel
Sarandanon si sarebbero dirette al Passo per seguirli nelle Terre di
Confine. E laggiù non avrebbero smesso di seguirli finché non li
avessero trovati.
15
Al tramonto del giorno seguente, gli Elfi erano ormai penetrati in
profondità nelle montagne. Avevano continuato a cavalcare per tutta la
notte, dopo essere sfuggiti agli Gnomi al Passo di Baen, e si erano
addentrati nella prima fascia pedemontana delle Catene di Confine
fermandosi soltanto quando la luce dell'alba aveva cominciato a
strisciare fuori dall'est e a riversarsi nella grande conca del
Sarandanon. Si erano riposati per alcune ore, si erano rimessi in piedi,
avevano mangiato ed erano ripartiti. La pioggia era cessata, ma il cielo
rimaneva rannuvolato e grigio, la nebbia si stendeva sulle valli come
una fitta coperta. Nell'aria gravava una densa umidità che puzzava di
terra e legno marcio. Quando salirono di quota, le colline divennero
rocciose e brulle, e l'odore sparì. Ora l'aria era gelida e chiara, e la
nebbia si diradava progressivamente. Verso mezzogiorno si lasciarono
alle spalle quelle alture e cominciarono a salire. Jerle Shannara aveva
già avvertito i compagni che intendeva proseguire finché non facesse
buio perché voleva distanziare i loro inseguitori e, prima di fermarsi,
giungere su un terreno dove fosse impossibile trovare le loro tracce.
Nessuno mosse obiezioni. Cavalcarono al buio, in silenzio, mentre la
nebbia si diradava e le montagne si facevano più erte. La Catena del
Confine era una parete di rocce spezzate, di monti che svettavano fino
al cielo per sparire infine tra le nubi, di precipizi che strapiombavano
per centinaia di braccia, di massicci affioramenti e di crepacci
irregolari generati dalle pressioni interne della terra all'epoca in cui
il mondo si stava ancora formando. Le montagne si spingevano verso il
cielo come se volessero liberarsi dal mondo, simili a braccia di giganti
tese verso l'alto e solidificate dal tempo. Fin dove l'occhio riusciva a
spingersi, a nord e a sud, era visibile la Catena di Confine: una
barriera impenetrabile, una fortezza chiusa a qualunque invasione. Gli
Elfi fissarono in silenzio le montagne. Di fronte a una simile
stabilità, provarono l'inquietante sensazione della loro mortalità. Al
tramonto avevano ormai superato la prima catena; guardandosi alle
spalle, non riuscivano più a scorgere le colline che avevano
attraversato e la valle del Sarandanon. Si accamparono in un boschetto
di abeti, in una stretta vallata chiusa tra due monti brulli su cui la
neve formava un manto scintillante. Laggiù trovarono erba e acqua per i
cavalli e legna per il fuoco. Non appena si furono sistemati ed ebbero
mangiato, Preia Starle si allontanò per ripercorrere la strada fatta e
controllare se qualcuno li inseguiva. Mentre attendevano il suo ritorno,
Tay parlò con Jerle e Vree Erreden della visione che aveva rivelato la
posizione della Pietra Nera. Ancora una volta, il druido fece l'elenco
dei particolari che gli aveva comunicato Bremen, preoccupandosi di
descrivere tutto. Jerle Shannara lo ascoltò con grande concentrazione,
fissandolo attento. Vree Erreden, invece, pareva un po' distratto; di
tanto in tanto si guardava attorno, nella notte, come per cercare
qualcosa. "Non sono mai stato in questa parte della Terra dell'Ovest"
osservò infine, quando Tay ebbe finito. "Non conosco la sua geografia.
Se devo indovinare il posto che cerchiamo, prima devo arrivargli più
vicino." "Bell'aiuto" commentò Jerle, ironico. Si era accorto della
distrazione con cui il veggente aveva ascoltato le parole di Tay e quel
modo di comportarsi gli aveva dato fastidio. "Non sai fare di meglio?"
Vree Erreden alzò le spalle. Ma Jerle era infervorato. "Forse potresti
fare di più se ascoltassi le parole di Tay!" Il veggente lo guardò
socchiudendo gli occhi, che scintillavano minacciosi. "Lasciami dire una
cosa. Quando Tay Trefenwyd è venuto a chiedermi aiuto, ho letto nella
sua mente. E' una cosa che posso fare, di tanto in tanto. Ho visto la
visione di Bremen, quella che Tay ci ha descritto or ora, e il mio
ricordo è molto chiaro, amico mio. Se non lo fosse, non sarei qui. Il
posto esiste, ne sono certo, ma non posso trovarlo senza nuovi
elementi!" "Jerle" li interruppe Tay, preoccupato di evitare uno
scontro. "Tu hai fatto molti viaggi in questa zona. Hai riconosciuto
qualcosa di familiare, nelle mie descrizioni?" L'amico scosse la testa,
di malumore. "Perlopiù, i miei viaggi si sono limitati ai passi di Halys
e di Worl, e al territorio vicino. Formazioni di monti, in particolare,
con due cime che assomigliano a dita alzate, ne avrò viste dieci o
dodici." "E non sapresti dire quale?" "Io cos'ho detto?" ribatté Jerle,
irato. Il druido non capiva le ragioni di quella irritazione. Continuò:
"Allora, da che parte consiglieresti di andare?". Jerle si alzò. "Cosa
vuoi che ne sappia? Chiedi al nostro amico, il locat, di dirti la più
probabile!" "Un momento" intervenne Vree Erreden, alzandosi a sua volta.
Fissò Jerle negli occhi, piccolo e snello, senza lasciarsi intimidire
dall'imponenza dell'altro. "Sei disposto a fare una prova? Potrei
aiutarti a ricordare, se hai visto davvero quelle montagne." Anche il
druido si affrettò ad alzarsi: aveva capito all'istante le intenzioni
del veggente. "Puoi fare con Jerle quello che hai fatto con me?" chiese.
"Puoi recuperare i ricordi di Jerle come hai fatto con la visione di
Bremen?" "Che stai dicendo?" scattò Jerle, guardando prima l'uno e poi
l'altro. "Può darsi" rispose il veggente. Poi squadrò Jerle Shannara.
"L'ho già detto. A volte sono in grado di leggere nel pensiero. L'ho
fatto con Tay e ho visto le visioni di Bremen. Posso provare con te, per
vedere se nella tua memoria c'è il ricordo della formazione rocciosa che
cerchiamo." Jerle arrossì. "Va' a provare le tue magie su qualcun
altro!" Fece per allontanarsi, ma Tay lo afferrò per il braccio e lo
costrinse a girarsi verso di loro. "Ma non c'è nessun altro, vero,
Jerle? Abbiamo solo te. Hai paura?" Il guerriero lo fissò con
un'espressione assai vicina alla collera, ma Tay non indietreggiò,
soprattutto perché non aveva scelta. Il cielo si era schiarito e la sua
grande volta era piena di stelle, di una luminosità accecante. Alla loro
luce, sulla montagna, obbligato a un inatteso litigio col suo migliore
amico, Tay si sentiva stranamente scoperto. Jerle staccò lentamente il
braccio dalla presa di Tay. "Io non ho paura di niente, e lo sai" disse
a bassa voce. Tay annuì. "Lo so. Adesso, per favore, lascia che Vree
faccia il tentativo." Tornarono a sedere, vicini e in silenzio. Vree
Erreden afferrò Jerle per i polsi e lo fissò negli occhi. Poi chiuse le
palpebre. Tay li guardò preoccupato. Jerle era teso come un gatto che si
prepari a saltare, pronto a scattare al primo accenno di pericolo. Il
locat, invece, era calmo e distaccato, soprattutto in quel momento, come
se si fosse calato in qualche profondità interiore per cercare ciò che
gli serviva. Rimasero fermi in quella posizione per alcuni istanti,
l'uno stretto all'altro, una strana coppia che non rivelava nulla di
quanto stava succedendo. Poi Vree Erreden si staccò da Shannara e
rivolse un cenno a Tay. "L'ho trovato. Almeno, è un inizio. La tua
memoria è molto buona. Le due cime gemelle che formano una V sono
chiamate Le Pinze, almeno da te." "Ora ricordo" disse il guerriero a
bassa voce. "Cinque o sei anni fa, quando cercavo un terzo passaggio
verso le Pianure di Hoare. Nei monti a nord del Worl Run, dove la massa
era più impenetrabile. Ma non c'era alcun passo, da quelle parti, e
abbiamo lasciato perdere. Però ricordo quella formazione. Sì, adesso la
ricordo!" Poi il suo entusiasmo parve spegnersi, sostituito nuovamente
dall'irritazione. "Basta, adesso." Scosse la testa, più a beneficio di
se stesso che degli altri, e si alzò. "Abbiamo il punto di partenza che
cercavamo. Spero che tutti siano contenti, adesso. Forse, finalmente,
potrò dormire." Volse loro la schiena e si allontanò. Tay e Vree Erreden
lo guardarono allontanarsi. "Di solito non è così" commentò Tay, dopo
qualche tempo. Il veggente si alzò. "Ha appena perso sei uomini i quali,
fidandosi di lui, sono finiti in un'imboscata che lui avrebbe dovuto
prevedere." Tay lo fissò con stupore, e il locat si strinse nelle
spalle. "E' il pensiero che lo ossessiona in questo momento. Non ha
potuto nasconderlo, anche se avrebbe voluto farlo." "Ma la morte di
quegli uomini non è colpa sua" protestò Tay. "Non è colpa di nessuno."
Il veggente gli lanciò un'occhiata. "Jerle Shannara non la vede così. Se
tu fossi nei suoi panni, come la vedresti?" Poi si allontanò, lasciando
Tay a riflettere sulla domanda. La compagnia ripartì all'alba, diretta a
nord verso il Worl Run. Preia Starle era tornata durante la notte e
aveva riferito che non c'era traccia di inseguitori nelle vicinanze. Con
questo, nessuno s'illuse di essere al sicuro. Semplicemente, s'erano
guadagnati un po' di respiro. Gli Gnomi li stavano ancora cercando, ma
avrebbero avuto difficoltà a trovarli su quelle montagne, dove le tracce
tendevano a scomparire in mezzo alle pietraie e ai passaggi tortuosi.
Con un po' di fortuna, non sarebbero stati scoperti finché non avessero
trovato ciò che cercavano. Era un'illusione, pensava Tay, ma era la loro
unica speranza. Cavalcarono verso nord per il resto della giornata senza
scorgere gli inseguitori, procedendo lungo una serie di profonde vallate
che serpeggiavano fino al passo del Worl Run. Quella notte si
accamparono su un alto pianoro da cui si scorgevano il passo e le valli
che portavano al Sarandanon, e Jerle riferì che erano ormai vicini alla
formazione a V da lui soprannominata Le Pinze. Quel giorno, il suo umore
era un po' migliorato; era ancora silenzioso e chiuso in se stesso, ma
non dava risposte brusche, forse perché aveva un'idea precisa della loro
destinazione. Arrivò persino a scusarsi con Tay, benché in modo
indiretto, commentando, a un certo punto, la facilità con cui,
purtroppo, gli saltava la mosca al naso. Non disse niente a Vree
Erreden, ma Tay non insistette. Preia Starle non pareva affatto turbata
dal cambiamento d'umore di Jerle e passò il tempo a parlargli come se
tutto andasse nel migliore dei modi. Evidentemente, si disse Tay,
conosceva i suoi sbalzi d'umore, e si era abituata ad affrontarli. Provò
una fitta di gelosia perché tra lui e la donna non c'era mai stato quel
genere di intimità. Una volta di più, si rese conto di essere un
estraneo, venuto da un mondo diverso e ancora privo del proprio posto.
Non sapeva perché la cosa lo preoccupasse tanto: forse perché, conclusa
la sua vecchia vita a Paranor, la sua nuova vita pareva incentrarsi
sull'ambiguità del suo rapporto con Jerle e Preia. Non poteva fingere
che il suo rapporto con loro fosse limpido, perché nascondeva a tutt'e
due i suoi sentimenti verso Preia. O forse li avevano capiti benissimo,
e lui si ostinava a fare il gioco dei segreti quando i segreti erano
ormai noti a tutti. Ripartirono all'alba e verso mezzogiorno arrivarono
alle Pinze. Tay le riconobbe subito, basandosi sulla descrizione di
Bremen. Le cime formavano una netta V sull'orizzonte, e tra l'una e
l'altra si stendeva un ammasso di cime più basse, consumate dal tempo e
dalle intemperie e quasi del tutto spoglie, a parte qualche macchia di
abeti e di ontani e qualche pascolo coperto d'erba e fiori selvatici. Al
di là della formazione, in mezzo alla spaccatura della V, si scorgeva
una parete che la nebbia rendeva irriconoscibile. Jerle si fermò ai
piedi di un passo che portava alle cime gemelle e smontò di sella. In
alto, gli uccelli da preda volavano sullo sfondo del cielo turchino,
descrivendo cerchi ampi ed eleganti. La giornata era chiara e luminosa,
le nubi gravide di pioggia si erano spostate più a est, in direzione del
Sarandanon. Tay sentiva sulla faccia i raggi del sole, caldi e
rassicuranti, mentre guardava il grande ammasso di rupi e pietraie
chiedendosi quali segreti nascondesse. "Lasceremo i cavalli qui" disse
Jerle "e proseguiremo a piedi." Sorrise nel vedere l'espressione del
druido. "In qualsiasi caso, non potremmo fare ancora molta strada a
cavallo, Tay. Dovremmo lasciarli nel passo, visibili ai nostri
inseguitori. Lasciandoli adesso, invece, possiamo nasconderli in mezzo
agli alberi. Può darsi che dobbiamo fuggire di corsa, prima che tutto
sia finito." Preia confermò le parole di Jerle e Tay capì che avevano
ragione, anche se provava un certo fastidio a lasciare gli animali che
li avevano portati per tanti giorni. Inoltre, non era stato facile
procurarseli. Ma anche i loro inseguitori, se fossero arrivati fino a
quel punto, sarebbero stati costretti a procedere a piedi, si consolò.
Jerle incaricò uno dei Cacciatori, un veterano dai capelli grigi
chiamato Obann, di rimanere a guardia dei cavalli. Gli disse di
nascondere bene gli animali e poi di attendere il loro ritorno. Obann
propose di raggiungerli dopo aver nascosto gli animali, ma Jerle gli
fece notare che c'era il rischio di dover cambiare nascondiglio se gli
Gnomi si fossero avvicinati troppo, e che forse Obann avrebbe dovuto
portar loro i cavalli, in caso di attacco. Con riluttanza, Obann annuì,
prese le redini degli animali e si allontanò dal passo. Poi Jerle portò
i rimanenti - ridotti adesso a sette: lui, Tay, Preia, Vree Erreden e
gli ultimi tre Cacciatori degli Elfi - lungo il sentiero tra le rocce
che portava alla spaccatura tra le due Pinze. Si arrampicarono sulle
rocce per il resto della giornata. Mentre si avvicinavano alla loro
destinazione, Tay si chiedeva di nuovo come affrontare il compito che lo
attendeva. Benché gli altri partecipassero al recupero della Pietra
Nera, la responsabilità era sua. Inoltre, era il solo a conoscere la
magia, quanto meno la magia che poteva proteggerli, il solo in grado di
trovare e prendere la Pietra. Ricordava la parte della visione
riguardante il pericolo che circondava la Pietra, i neri tentacoli che
la difendevano dai ladri, l'inconfondibile aura di male. Trovare la
Pietra era solo il primo passo: il secondo consisteva
nell'impadronirsene, e non sarebbe stato né facile né privo di pericoli.
Se la Pietra era rimasta indisturbata per tanti secoli, doveva essere
protetta molto bene. Vree Erreden e Preia Starle potevano aiutarlo a
trovarla. Jerle e i suoi Cacciatori potevano aiutarlo a prenderla. Ma in
definitiva il compito più gravoso sarebbe spettato a lui. E questo era
giusto, rifletté. Si era preparato a quel tipo di impresa per quindici
anni, per quasi tutta la sua vita di adulto. Il tempo passato a Paranor
era servito a metterlo in condizione di compierla, sempre che servisse a
qualcosa. Ma non c'era nulla, di quanto aveva fatto fino a quel giorno,
che si potesse avvicinare a ciò che gli veniva richiesto ora. Come gli
altri Druidi, aveva trascorso il tempo a Paranor immergendosi nello
studio e dedicandosi alla ricerca della conoscenza, e l'aver continuato
per tanti anni a sviluppare le sue capacità magiche non cambiava il
fatto che avesse condotto una vita sedentaria. Per quindici anni era
vissuto in una fortezza raccolta e isolata, senza occuparsi del mondo
circostante, ma adesso la permanenza a Paranor era terminata e la sua
vita sarebbe cambiata. La sua nuova vita cominciava lì, in quelle
montagne, tra le rovine di un'epoca lontana, alla ricerca di un
talismano che, da quando esisteva l'uomo, nessuno aveva mai visto. Non
poteva fallire. Questo era l'aspetto più importante. L'insuccesso
significava la fine della speranza di sconfiggere il Signore degli
Inganni, di creare un'arma capace di distruggerlo, e probabilmente la
fine della vita di Tay Trefenwyd. Non avrebbe avuto un'altra occasione,
non avrebbe avuto la possibilità di riprovare. Quell'impresa era il
coronamento dei tanti anni in cui aveva praticato la magia dei Druidi:
il suo successo avrebbe giustificato il ruolo della magia e dei Druidi.
Era la chiave di volta. Da lì nascevano le sue preoccupazioni. La
compagnia era stanca di essere inseguita, di dover correre e
nascondersi, di dover sfuggire alle imboscate, di perdere il sonno e
delle lunghe ore di viaggio. Da più di una settimana non mangiavano
regolarmente perché non erano loro giunti i previsti rifornimenti, ed
erano stati costretti a nutrirsi di ciò che riuscivano a cacciare
durante la fuga. Erano amareggiati dalla morte dei compagni e dal timore
- che lentamente si faceva strada sotto l'apparente determinazione - che
la ricerca non avesse esito positivo. Nessuno parlava di queste cose, ma
erano perfettamente visibili sulle facce, negli occhi, nel modo di
muoversi, visibili a chiunque le volesse riconoscere. Il tempo
cominciava a mancare, secondo Tay Trefenwyd. Sfuggiva come acqua dalle
mani tenute a coppa, e se non avessero fatto attenzione, tutt'a un
tratto sarebbero rimasti senza. Al tramonto erano ancora nel passo e si
accamparono in una piccola macchia di ontani ai piedi dei monti. Faceva
freddo, lassù, ma non tanto da dare fastidio. Al tramonto giunsero
all'imboccatura del passo e si accamparono in un rado boschetto di
ontani. Era freddo, lassù, ma non tanto. La roccia pareva conservare il
calore della giornata, forse perché di lì si scendeva in una valle che
si stendeva da est a ovest. Mangiato qualche boccone, ma ancora con una
buona riserva d'acqua, si avvolsero nelle coperte e dormirono senza
essere disturbati. All'alba si rimisero in marcia. Il sole illuminò il
loro cammino sollevando lunghi pennacchi di nebbia. Preia Starle li
precedeva, esplorando il terreno a qualche centinaio di passi dal gruppo
e avvertendoli degli ostacoli e dei sentieri praticabili. Tay scambiò
qualche parola con Jerle, ma nessuno dei due aveva voglia di parlare.
Quando uscirono dalla valle e si lasciarono alle spalle le due cime
gemelle, si trovarono bloccati da un massiccio che pareva formato di
grandi strati di roccia frantumati e raccolti dalle mani di un gigante.
Ancora più avanti si levava la Catena di Confine: le sue cime spezzate,
unite a casaccio dalle stesse mani di gigante in base a un criterio
incomprensibile, parevano attendere che qualcuno venisse a rimetterle in
ordine. Preia si riunì al gruppo e lo portò a sinistra, ai piedi del
massiccio, per quasi un miglio, fino a un sentiero che saliva in mezzo
alle rocce. A quel punto, Jerle non poteva più fare appello ai ricordi
delle passate esplorazioni: potevano soltanto andare avanti finché non
avessero trovato qualche altro particolare corrispondente alla visione
di Bremen. Si arrampicarono sulle rocce, evitando i crepacci che si
aprivano improvvisi davanti a loro e cadevano a perpendicolo nell'ombra,
e tenendosi lontani dal ciglio dei precipizi e dalle salite ripide, dove
chi scivolava era perduto. Jerle aveva avuto ragione, pensò Tay, a
lasciare i cavalli. Sarebbero risultati inutili. In cima al massiccio
trovarono una stretta gola serpeggiante, a malapena distinguibile dal
terreno circostante, che scendeva verso una nuova parete di roccia. La
percorsero con cautela, preceduti da Preia che passava agilmente dalle
macchie di luce a quelle d'ombra, e un attimo era visibile e l'attimo
successivo spariva. Quando la raggiunsero, era ferma all'uscita della
gola e fissava i monti davanti a lei. Si voltò verso i compagni, e la
sua eccitazione era perfettamente visibile. Indicò dinanzi a sé, e Tay
scorse i pinnacoli di roccia che s'innalzavano ad angoli assurdi,
circondati alla base da un'ampia distesa di rocce sgretolate dal tempo.
Simili a dita strette insieme, serrate a formare un'unica massa. Tay
sorrise stancamente. Era il riferimento cercato, la parete di roccia che
nascondeva al suo interno un castello dimenticato dal tempo di Faerie:
il castello che, nella visione di Bremen, custodiva la Pietra Nera. Era
stato più facile di quanto Tay si fosse aspettato: prima le due cime
gemelle, poi le rocce che assomigliavano a dita strette insieme. Vree
Erreden aveva recuperato un ricordo, Preia aveva esplorato il terreno,
ed erano arrivati alla meta con una velocità e un'efficienza che
sfidavano la logica. Se in vari punti lungo il percorso non si fossero
intromessi i Cacciatori degli Gnomi, sarebbero arrivati senza problemi.
Ma a quel punto sorse una grave difficoltà. Per due giorni cercarono
inutilmente un passaggio che permettesse di accedere al castello. Nella
massa di rocce, macigni e lastre di pietra si scorgevano decine di
aperture, che però non portavano da nessuna parte. Lentamente, con
scrupolo, esplorarono ogni passaggio, per trovare ogni volta una parete
di roccia o un crepaccio che impediva di proseguire. La ricerca proseguì
il terzo giorno e poi il quarto, ma gli Elfi non trovarono nulla.
L'irritazione crebbe. Aver fatto tanta strada, a un costo così elevato,
e trovarsi bloccati era insopportabile. Avevano la fastidiosa
impressione che rimanesse poco tempo, che il pericolo si stesse
avvicinando da est, con gli Gnomi che proseguivano la ricerca; la
speranza perdeva attrattiva e subentrava la delusione. Jerle Shannara li
teneva in movimento. Invece di diventare sempre più cupo e chiuso, come
Tay si aspettava, o di lasciarsi andare ad accessi di collera com'era
successo con Vree Erreden dopo la perdita di sei uomini a Baen, rimaneva
deciso e calmo. Li spingeva avanti senza pietà, naturalmente: perfino
Tay. Insistette perché continuassero la ricerca. Li costrinse a
ritornare sui loro passi, a guardare di nuovo in ogni apertura tra le
rocce. Per semplice forza di volontà, si rifiutava di darsi per vinto.
Era un capo davvero eccezionale, pensò Tay. Vree Erreden non fornì
l'aiuto che Tay si aspettava da lui. Non ebbe visioni, né lampi o
illuminazioni che rivelassero l'accesso al castello. Il veggente non
pareva preoccupato da ciò, anzi, era fiducioso. Secondo Tay, doveva
essere abituato al fallimento: doveva avere accettato che il suo talento
non si metteva in moto a comando, ma si manifestava in momenti
imprevedibili. Comunque, non se ne stava seduto in attesa
dell'ispirazione. Come tutti gli altri, proseguì la ricerca esplorando
le aperture tra le rocce, frugando in ogni angolo e in ogni crepaccio.
Non fece alcun commento sull'incapacità di aiutarli con il suo talento
e, va detto a suo onore, non ne fece neppure Jerle Shannara. Fu Preia
Starle a scoprirlo. Anche se l'area era un vasto dedalo, dopo quattro
giorni ne avevano setacciato gran parte e tutti avevano l'impressione
che, se la visione non li aveva messi sulla strada sbagliata, il
castello doveva essere nascosto in qualche modo che non avevano preso in
considerazione. Il quinto giorno Preia si alzò prima dell'alba e andò a
guardare le grandi rocce frastagliate: un po' per la frustrazione e un
po' perché sentiva il bisogno di studiarle in una condizione diversa
dalle precedenti. Si sedette sotto un'alta rupe affacciata verso ovest e
osservò le rocce illuminarsi progressivamente a causa della luce che
giungeva da dietro le sue spalle, il grigio della notte trasformarsi
nell'argento e nell'oro del nuovo giorno. Guardò i raggi scendere lungo
il fianco dei monti e delle rupi come una macchia di vernice su un
pannello di legno, facendo risaltare ogni particolare di ogni monte. E a
quel punto vide gli uccelli. Erano grandi, spigolosi, bianchi: uccelli
marini, a molte miglia dal più vicino corso d'acqua, e uscivano da una
spaccatura della roccia, parecchie decine di braccia al di sopra della
sua testa. Gli uccelli comparvero tutti insieme, almeno quindici o
venti, e si allontanarono verso est, incontro al nuovo giorno. Che cosa
ci facevano, si chiese subito Preia, tanti uccelli di mare fra quei
monti brulli? Andò subito a riferirlo agli altri. Descrisse quello che
aveva visto e spiegò che valeva la pena di andare a vedere, e
immediatamente Vree Erreden esclamò che sì, sì, era proprio quello che
cercavano! Tutti passarono subito all'azione, e anche se erano stanchi
per le fatiche dei giorni precedenti, e faticavano a muoversi dopo avere
dormito sulla nuda pietra, affamati del cibo che non avevano e stanchi
di mangiare quello che avevano, uscirono con grande decisione dal campo
e si avviarono verso la montagna. Impiegarono alcune ore per raggiungere
la spaccatura da cui erano usciti gli uccelli. Non c'era un percorso
diretto e il sentiero che furono costretti a seguire si snodava
faticosamente sulla parete di roccia, costringendoli a innumerevoli
giravolte oltre che a prestare la massima attenzione a dove mettevano i
piedi. Preia, che come sempre guidava la salita, arrivò per prima e
sparì all'interno della montagna. Quando gli altri furono arrivati alla
piccola sporgenza di roccia davanti all'apertura, lei era già di ritorno
con la notizia che esisteva un passaggio. Entrarono uno alla volta. Poco
dopo le pareti del passaggio cominciarono a stringersi, il calore del
sole lasciò il posto all'ombra e all'umidità, la luce svanì. Presto
anche la volta cominciò ad abbassarsi e la poca luce rimasta era quella
che penetrava dalle fessure che si aprivano nella roccia ogni pochi
passi. I loro occhi si abituarono al buio e cominciarono a scoprire
piume bianche, rametti e fili d'erba probabilmente trasportati dagli
uccelli che volevano farsi il nido; i nidi stessi, naturalmente,
dovevano trovarsi più avanti, dove c'era più luce e aria. Proseguirono.
Dopo qualche tempo, la galleria si abbassò ulteriormente e tutti furono
costretti a chinare la testa. Poi incontrarono una biforcazione. Preia
disse loro di aspettare e si diresse a destra. Tornò dopo parecchi
minuti e indicò ai compagni l'altro passaggio. Dopo un breve tratto, la
volta si alzò e tutti poterono riprendere a camminare normalmente.
Davanti a loro, apparve la luce: l'uscita era vicina. Dopo una
cinquantina di passi si trovarono all'aperto, in riva a un ampio lago.
La sua presenza era così inattesa che tutti si fermarono a guardarsi
attorno. Erano in un ampio cratere, e la superficie del lago era
assolutamente immobile: non si scorgeva la minima onda. In alto, il
cielo era del tutto privo di nuvole e la luce del sole riscaldava
l'interno del cratere. Le acque del lago riflettevano in tutti i
particolari le pareti di roccia che le circondavano. Tay osservò le
pareti del cratere e scorse i nidi degli uccelli, nascosti tra le rocce.
Nessun uccello era visibile. Entro la barriera di montagne e sulla
piatta superficie del lago, nulla si muoveva: il silenzio era assoluto e
fragile come vetro. Dopo essersi consultata con Jerle, Preia Starle li
condusse lungo la riva del lago. Il terreno era composto di frammenti di
roccia e di grosse lastre di pietra, e lo scricchiolio dei loro stivali
echeggiava sinistro nel silenzio. Con la sua magia, Tay esplorò il
terreno, alla ricerca di pericoli nascosti, ma trovò linee di forza
terrestre così forti e antiche da spezzare la sua fragile rete. Chiamò
Jerle e lo avvertì: in quel luogo era attiva una potente magia, antica
come il tempo e altrettanto radicata. Proteggeva il cratere e il suo
contenuto. Tay non vi trovò una minaccia precisa, ma non riuscì a
trovarne la fonte o a scoprirne lo scopo. Non pensava che costituisse un
pericolo, ma era meglio procedere con cautela. Proseguirono lungo la
sponda del lago, senza scorgere segni di vita e senza vedere altro che
rocce e acqua. Né Tay con la sua magia dei Druidi né Vree Erreden con il
suo talento di veggente riuscirono a scoprire ciò che cercavano. Il sole
era salito al di sopra dei monti e splendeva a picco su di loro,
bruciante in mezzo al cielo turchino. Non potevano alzare gli occhi
senza rimanere abbagliati, ed erano costretti a guardare in terra. Fu
allora, con l'avvicinarsi del mezzogiorno, che Tay notò l'ombra. Si era
allontanato dalla riva ed era salito sulle rocce, per poter osservare la
sponda opposta senza essere abbagliato dal riflesso del sole sull'acqua.
Nel guardarsi attorno alla ricerca del punto d'osservazione più adatto,
notò il modo in cui il sole proiettava l'ombra di una sporgenza
rocciosa, attraverso tutto il lago, fino alla parete di fronte, a
parecchie centinaia di passi da lui. L'ombra copriva tutta una striscia
verticale di parete fino a una stretta apertura e lì si fermava.
Qualcosa, al di sopra dell'apertura, attirò lo sguardo di Tay, che inviò
la sua magia. Ciò che trovò, scolpita nella roccia, era un'iscrizione.
Si affrettò a raggiungere Preia, e tutta la compagnia si diresse verso
quel punto. Qualche minuto più tardi, tutti guardavano in silenzio le
parole incise in alto nella roccia. La scritta era antichissima,
indecifrabile. I caratteri erano quelli degli Elfi, ma le parole erano
sconosciute. La scritta, poi, era talmente consumata da risultare quasi
illeggibile. In quel momento si fece avanti Vree Erreden, con la faccia
ispirata, chiese a Tay e Jerle di sollevarlo sulle loro spalle e prese a
passare le dita sulle parole. Per qualche istante chiuse gli occhi, ma
continuò a passare adagio le mani sull'iscrizione. Infine si fece
mettere a terra e come in trance, con lo sguardo fisso, prese un sasso
appuntito e scrisse alcune parole su una pietra liscia. Tay si chinò a
leggere.
QUESTA E' LA FAUCE MAGNA. NOI VIVIAMO ANCORA. NON TOCCATE NULLA. NON
RUBATE NULLA. LE NOSTRE RADICI SONO PROFONDE E ROBUSTE. ATTENTI!
"Che significa?" chiese Jerle. Tay scosse la testa. "Che quanto
troveremo oltre quest'apertura è protetto dalla magia. Che qualsiasi
disturbo provocherà spiacevoli conseguenze." "Dice che sono ancora vivi"
intervenne Vree Erreden, incredulo. "Ma è impossibile. Guardate la
scritta! Risale all'epoca di Faerie!" Continuarono a fissare la scritta
e l'apertura e a scambiarsi occhiate. Dietro di loro, Preia e i
Cacciatori aspettavano ordini. Nessuno parlava. Sembrava che il tempo
fosse svanito, che il passato e il presente si fossero uniti
trascendendo la durata della vita umana e l'oblio della storia. Avevano
l'impressione di trovarsi sul ciglio di un dirupo e che bastasse un
passo falso per precipitare incontro a morte sicura. La presenza di una
grande magia era così forte da far fremere Tay. Una magia antica,
potente, inflessibile, risvegliatasi nel momento del bisogno: e adesso
premeva contro tutti i suoi sensi minacciando di travolgerlo. "Non siamo
venuti qui per tirarci indietro all'ultimo momento" osservò con calma
Jerle Shannara, fissandolo. "Per nessun motivo." Tay annuì. Anche lui
intendeva proseguire. Guardò Vree Erreden, Preia Starle, i Cacciatori
dietro di lei e infine Jerle. Gli rivolse un sorriso tirato. Poi respirò
a fondo ed entrò nell'apertura buia.
16
Dopo alcuni passi, l'apertura si allargò fino a divenire un corridoio,
alto più di un uomo e largo a sufficienza perché vi si potesse camminare
affiancati. Da questo si passava a una rampa di scale che scendeva verso
un buio talmente fitto che neppure Tay riuscì a vedere dove portasse.
Scesi i primi scalini, Tay si mosse a tastoni e sentì sotto le dita,
sulla parete, una piastra di metallo. Quando la toccò, la piastra
s'illuminò di una pallida luce fredda e giallastra. Il druido fissò con
sorpresa la piastra: era una magia che non aveva mai incontrato. La luce
rivelò un'altra piastra, a qualche scalino di distanza, proprio ai
margini della zona illuminata. Tay la raggiunse, vi posò la mano e
anch'essa s'illuminò. Stupefacente, pensò. Udiva alle proprie spalle i
passi dei compagni e si chiese cosa pensassero. Ma nessuno parlò, e non
si girò verso di loro. Continuò a toccare le piastre metalliche, una
dopo l'altra, illuminando la scala. Continuarono a scendere per parecchi
minuti. Tay perse il senso del tempo perché dedicava tutta la sua
attenzione a scrutare gli scalini, mediante la magia dei Druidi, alla
ricerca di trabocchetti. La presenza di quelle piastre metalliche
luminose rivelava una complessità che Tay non si sarebbe aspettato. La
magia di Faerie non era ben conosciuta perché era stata dimenticata col
passare del tempo, ma Tay aveva sempre pensato che si basasse sulle
forze degli elementi naturali, e non sulla scienza e la tecnologia. E
invece quelle piastre parevano suggerire che non era così, e questo lo
preoccupava. Non dare niente per scontato, in questo luogo, si disse.
Con la magia continuò a esplorare le correnti d'aria, le fessure tra le
pietre, le particelle di polvere mosse dal loro passaggio e determinò
con precisione i segreti del mondo in cui erano entrati. Non scoprì
alcuna traccia di vita umana, anche se l'iscrizione al di sopra
dell'ingresso faceva pensare che ce ne fosse. Non scorse tracce del
passaggio di altre persone: almeno, non tracce recenti. Da secoli, forse
da millenni, nessuno era entrato in quei corridoi. Tuttavia, nonostante
questo, ebbe la netta impressione di essere sorvegliato e valutato, come
se qualche entità paziente e inesorabile fosse in attesa del suo arrivo.
La scala terminava davanti a una massiccia porta di ferro. Non si
scorgevano catene o chiavistelli e non era custodita dalla magia. Sul
suo architrave arrugginito si leggevano le parole FAUCE MAGNA, scolpite
nella pietra: solo quelle due parole, non l'intera scritta che avevano
letto sopra l'imboccatura del passaggio. I compagni si affollarono
attorno a lui. Inginocchiata a terra, Preia Starle esaminò il pavimento
davanti alla porta, poi si alzò e scosse la testa. Da molto tempo
nessuno era passato per quella porta. Tay tastò la porta e la parete
attorno a essa, ma non trovò nulla. Fece un passo avanti, afferrò la
pesante maniglia di ferro e provò ad abbassarla. La maniglia ruotò senza
difficoltà, la serratura scattò e la porta si aprì verso l'interno,
perfettamente bilanciata. Dall'apertura filtrò una luce lattiginosa che
vibrava in modo irreale, come se passasse attraverso un vetro bagnato
dalla pioggia. Davanti a loro c'era un'imponente fortezza. I blocchi di
pietra erano così antichi che gli angoli erano smussati e la superficie
lucida e consumata, coperta di crepe e di ragnatele. Era una costruzione
meravigliosa, con mura e torri, parapetti sporgenti e archi rampanti,
ponti sottili e scale a chiocciola che facevano pensare a un arazzo
intessuto al telaio. Il castello s'innalzava a perdita d'occhio, le sue
parti più alte risultavano invisibili. Era circondato da montagne: i
pochi tratti di cielo che si riuscivano a scorgere erano coperti di
foschia. Sui monti cresceva una ricca vegetazione, con rami e liane
sporgenti che parevano protendersi verso il castello: formavano una
sorta di baldacchino di foglie, che filtrava la luce e le dava le
caratteristiche liquide che avevano notato. Tay attraversò la porta e si
trovò in un ampio cortile che si allargava ai lati e verso il corpo
centrale del castello. Solo allora comprese di avere alle spalle il muro
di cinta del castello, che ormai erano a ridosso delle pareti di roccia
dei monti. Guardò le mura, stupito, e comprese che col passare del tempo
le montagne si erano spostate, stringendosi attorno all'antica fortezza
finché le sue pietre non avevano cominciato a cedere e a fessurarsi.
Palmo a palmo, le montagne si riappropriavano del territorio su cui era
stata costruita la fortezza, e un giorno sarebbero riuscite a
schiacciarla definitivamente. Avanzarono tutti nel cortile, guardandosi
attorno con circospezione. L'aria era pesante e fetida, e puzzava di
palude e di fiori marci: uno strano odore, per un luogo situato
all'interno delle montagne. Ma Tay rifletté che avevano percorso un
lungo tratto in discesa: forse erano vicini al livello del mare. Sollevò
lo sguardo verso la vegetazione che copriva la parete dei monti e
sporgeva dal muro di cinta. L'umidità che stillava dalle foglie era
quasi pioggia: sentì le goccioline colpirgli la faccia. Poi studiò le
porte e le finestre del castello, che sembravano orbite vuote e scure.
Rimanevano soltanto i serramenti di metallo, perché il legno si era
polverizzato. L'umidità aveva aggredito anche la pietra e la calce,
consumandole e sbriciolandole. Tay si avvicinò alla torre più vicina e
passò la mano sulla pietra. La superficie si sgretolò come se fosse di
sabbia. L'antica fortezza, Fauce Magna, dava la spiacevole impressione
di poter crollare da un momento all'altro. Poi Tay scorse Vree Erreden.
Il locat si era inginocchiato al centro del cortile, aveva la testa
bassa, si teneva abbracciato come fosse sull'orlo di un collasso e
ansimava rauco. Tay si inginocchiò accanto a lui, e dopo un attimo venne
raggiunto da Preia e da Jerle, che lo guardarono con ansia. "Cosa
succede?" gli chiese Tay. "Stai male?" Il locat annuì, si strinse ancora
di più le braccia attorno al corpo e si appoggiò a lui per non cadere.
Tremava come una foglia. "Questo posto!" ansimò. "Per tutte le ombre,
non lo senti?" Tay lo tenne stretto. "No. Non sento nulla. Tu cosa
senti?" "Un simile potere! Maligno, ostile, come tanti artigli che mi
graffiano! Non sentivo nulla, e poi, all'improvviso, era dappertutto! Mi
ha schiacciato! Per qualche momento, non riuscivo neppure a respirare!"
"Da dove proviene?" chiese Jerle, accostandosi a lui. Il veggente scosse
la testa. "Non saprei dirlo! Non è qualcosa di familiare, non è qualcosa
che ho già incontrato! Non era una visione, una premonizione o...
qualcosa del genere. Era una macchia d'oscurità, seguita da un senso
di..." Trasse un profondo respiro per riprendere la padronanza di sé,
chiuse gli occhi e non si mosse più. Tay fece per sollevarlo, pensando
che avesse perso i sensi, ma Preia lo toccò e scosse la testa. Vree
Erreden stava solo prendendo fiato. Tay lasciò che si riprendesse.
Continuò a sorreggerlo, e l'intera compagnia attese con lui. Infine il
veggente riaprì gli occhi, respirò profondamente, si staccò da Tay e si
alzò. Era di nuovo sicuro di sé, nel guardarli, ma gli tremavano ancora
le mani. "La Pietra Nera" bisbigliò. "E' qui. Ecco cosa ho sentito. La
radice del male." Batté le palpebre, poi fissò Tay. "Il suo potere è
immenso!" "Sai dirmi dov'è?" chiese Tay, cercando di non agitarsi. Il
locat scosse la testa e incrociò le braccia sul petto come a
proteggersi. "Davanti a noi, nel castello." Avanzarono all'interno della
fortezza vera e propria, guardandosi attorno con sospetto. Anche ora era
Tay ad aprire la strada, esplorando con la sua magia, i sensi all'erta
verso tutti i pericoli. Entrarono dalla porta centrale e si trovarono in
un lungo corridoio. Tay si accorse di avere Jerle al fianco e Preia
dietro. Lo volevano proteggere, pensò. Scosse la testa. Lo turbava
ancora il fatto di non essersi accorto della vicinanza della Pietra
Nera, mentre Vree Erreden ne aveva sentito così chiaramente la presenza.
La magia dei Druidi l'aveva tradito. Forse perché era inutile nel
castello? No, rispose a se stesso: aveva colto nettamente una presenza,
quando era entrato; aveva avuto l'impressione di essere osservato da
qualcuno che si teneva nascosto. Chi poteva essere? La Pietra Nera non
poteva possedere un'intelligenza, ma c'era chiaramente un'entità che
viveva laggiù. La fortezza faceva pensare a una tomba. L'ombra gravava
su ogni cosa, come una cappa di velluto odoroso di muschio. La polvere
che si levava al loro passaggio formava una nube nell'aria.
L'arredamento che in passato abbelliva il castello era in briciole.
Rimaneva soltanto qualche scheggia di metallo e qualche pezzo di
tessuto. Dalle pareti sporgevano i chiodi che un tempo reggevano arazzi
e quadri. Un tempo, artisti e artigiani avevano lavorato qui, ma nessuno
dei loro prodotti era sopravvissuto. Le stanze che si aprivano sui
corridoi erano saloni vasti e regali oppure vani piccoli e raccolti,
tutti privi di vita. Una parte del corridoio era occupata da file di
panche; quando Tay posò la mano su una di esse, si ridusse in polvere.
Nelle nicchie si scorgevano mucchi di frammenti di vetro. A terra
c'erano armi spezzate e inutili, mucchietti di legno marcio e di metallo
arrugginito. Il soffitto era nascosto dietro una fitta nube di oscurità,
le finestre li fissavano come orbite cieche e vuote. Tutto taceva: il
silenzio di una tomba. All'incrocio di alcuni ampi corridoi, Vree
Erreden li fece fermare bruscamente. Si teneva la testa tra le mani e il
suo viso era una smorfia di dolore. "A sinistra!" ansimò, indicando con
mano tremante. Si diressero da quella parte. Preia Starle rimase
indietro per prendere il locat sottobraccio e aiutarlo a reggersi. Aveva
ripreso ad ansimare e batteva le palpebre come se qualcosa gli desse
fastidio agli occhi. Tay si girò a osservarlo, poi guardò di nuovo
avanti. Anche ora, non percepìva alcun pericolo. Si sentiva indifeso,
come se la magia l'avesse abbandonato. Strinse i denti e si costrinse a
proseguire, dicendosi risolutamente che la magia non l'avrebbe mai
abbandonato. Mai. Incontrarono una rampa di scalini che scendeva a
spirale attorno a quella che doveva essere una grande sala circolare.
Per qualche tempo si udì soltanto il rumore smorzato dei loro piedi sul
pavimento coperto di polvere, e Tay ebbe di nuovo l'impressione di
essere osservato. La sensazione era assai più forte, questa volta, più
precisa. L'entità che abitava nel castello era vicina. Giunti in fondo
alla scala, scorsero un cortile illuminato da una luce diffusa, simile a
quella di una giornata coperta; come Tay notò subito, le ombre erano
bruscamente scomparse, e così l'odore di muffa e di aria stagnante. Sul
pavimento del cortile sotterraneo non si scorgeva traccia di polvere. In
mezzo al cortile c'era un giardino. Era ancora visibile il vialetto che
gli girava attorno, pavimentato di pietre e piastrelle smaltate i cui
colori parevano vibrare, tanto splendevano. Il giardino era di forma
rettangolare. Nella parte più esterna c'erano soprattutto fiori
multicolori, di una varietà che Tay non aveva mai visto, mentre la zona
centrale era occupata da un boschetto di alberi alti e sottili, dal
tronco curiosamente maculato e dalle foglie verdi e lucide, talmente
coperti di rampicanti da costituire un unico, indissolubile intreccio.
Un giardino! pensò Tay, meravigliato. Provò un curioso senso di
esaltazione. Un giardino nei sotterranei di quell'antico castello, dove
non poteva crescere nulla, dove non penetrava la luce del sole!
Incredibile! Quasi senza pensare, scese gli ultimi scalini e si avviò
verso il giardino. Aveva già fatto quattro o cinque passi, quando Jerle
Shannara lo prese per il braccio e lo tirò indietro. "Non avere tanta
fretta, Tay" lo avvertì. Stupito, il druido guardò l'amico, poi vide che
Vree era di nuovo caduto in ginocchio e scuoteva lentamente la testa,
mentre Preia lo reggeva. Solo in quel momento comprese quanto fosse
stato forte l'impulso di buttarsi avanti, come fosse trascinante l'ansia
di esplorare. E si accorse di avere completamente allentato le difese.
L'impazienza era stata così forte da fargli abbassare lo scudo difensivo
di magia dei Druidi. Senza fare parola, tornò subito dove era
inginocchiato Vree Erreden. Il locat sentì la sua presenza, più che
vederlo, e lo afferrò subito attirandolo a sé. "La Pietra Nera..."
sibilò fra i denti serrati per il dolore "è laggiù!" La sua mano
tremante indicò il giardino. Preia sfiorò delicatamente il braccio di
Tay perché si girasse verso di lei. Nei suoi occhi chiari si leggeva una
forte preoccupazione. "E' crollato nello stesso momento in cui tu hai
lasciato la scala. Qualcosa deve averlo attaccato. Cosa sta succedendo?"
Tay scosse la testa. "Non capisco bene..." Prese Vree Erreden per i
polsi e li strinse. Il veggente rabbrividì, poi s'immobilizzò. Tay evocò
la magia per trasmettergli una parte della sua forza e aiutarlo a
riprendersi. Vree Erreden sospirò e lasciò cadere la testa, immobile.
Preia rivolse a Tay un'occhiata interrogativa, ma il druido le disse:
"Puoi tenerlo?". Poi si alzò e si accostò a Jerle. "Secondo te" gli
chiese "a che serve, in un posto così, questo giardino?" Il guerriero
scosse la testa. "A niente di buono, se è il nascondiglio della Pietra
Nera.LO non ci andrei, se fossi in te." Tay annuì. "Tuttavia non posso
prendere la Pietra Nera senza entrarci." "Dubito che tu possa prenderla,
anche entrando. La visione diceva che la Pietra è difesa. Forse la sua
difesa è questo giardino. o qualcuno che vive al suo interno." Entrambi
alzarono gli occhi verso l'intreccio di rami e liane, cercando di
scoprire la natura del pericolo che percepìvano. Le foglie si agitarono
per in istante, come mosse dal vento, ma non ci furono altri movimenti.
Tay sollevò il braccio e lanciò verso il giardino un filo di magia dei
Druidi, per esaminarne l'interno. Serpeggiando, il sottile tentacolo
esplorò attentamente la vegetazione, ma trovò solo ciò che avevano già
visto: gli alberi alti e sottili, le liane, le foglie verdi e lucide, il
terreno su cui crescevano. Eppure, laggiù sentiva una sorta di entità,
un'altra forma di vita, oltre a quella suggerita dalle piante, una
presenza forte, antica e mortale. "Vieni con me" disse a Jerle, dopo
qualche istante. Lasciarono la compagnia e iniziarono lentamente, con
cautela, a esaminare il perimetro del giardino. Il vialetto lastricato
era ampio e senza ostacoli, per cui erano in grado di guardarsi ai
fianchi e alle spalle. Il giardino era largo più di un centinaio di
passi e lungo trenta o poco più, e il suo aspetto non cambiava, da
qualsiasi lato lo si guardasse: gli stessi fiori ai bordi, alberi e
liane al centro. Non c'erano sentieri, non si scorgevano altre forme di
vita. E non si vedeva la Pietra Nera. Quando furono di nuovo nel punto
da cui erano partiti, Tay si fermò accanto a Vree Erreden. Il veggente
aveva ripreso i sensi e sedeva in terra, accanto a Preia. Aveva gli
occhi aperti e fissava il giardino, anche se dava l'impressione di
vedere qualcosa di totalmente diverso. Tay s'inginocchiò accanto a lui.
"Sei certo che la Pietra Nera sia qui?" gli chiese a bassa voce. Il
locat annuì. "E' in qualche punto di quel labirinto" sussurrò, con la
voce incrinata dalla paura. Fissò Tay. "Ma non devi andare laggiù! Non
ne usciresti più, Tay Trefenwyd! Ciò che protegge la Pietra, ciò che
vive in questo luogo, ti sta aspettando!" Sollevò la mano, la strinse a
pugno. "Dammi retta! Non puoi farcela contro di essa!" Tay si alzò e
raggiunse Jerle. "Devi fare una cosa" gli disse, parlando a bassa voce
perché Vree Erreden non lo udisse. "Chiama gli altri Cacciatori. Lascia
soltanto Preia con il locat." Jerle lo fissò per un istante, poi fece un
gesto ai suoi uomini. Quando furono attorno a lui, rivolse a Tay
un'occhiata interrogativa. "Dovete tenermi per le braccia" disse loro.
"Due per parte. Tenetemi stretto e, qualunque cosa io dica o faccia,
continuate a tenermi. Non lasciatemi. Non date retta a ciò che vi dirò.
Evitate di guardarmi, se potete. Siete in grado di farlo?" I Cacciatori
si scambiarono un'occhiata e annuirono. "Che intendi fare?" gli chiese
Jerle. "Servirmi della magia dei Druidi per scoprire cosa c'è nel
giardino" rispose Tay. "Non mi succederà niente, se farete come vi ho
detto." "Faremo come dici" promise Jerle. "Lo faremo tutti. Ma non mi
piace." Tay sorrise, anche se aveva il cuore in tumulto. "Non piace
neanche a me." Chiuse gli occhi ed eliminò dalla propria mente la
presenza degli altri. Raccogliendo a sé la magia, scese all'interno del
proprio essere. Laggiù, nel nucleo del suo spirito, creò un simulacro di
se stesso, un'entità di spirito e non di sostanza, e lo proiettò davanti
a sé in un lungo, lento respiro. Poi uscì dal proprio corpo, sotto forma
di un fantasma invisibile, un pezzetto di etere entro la luce grigia
dell'antica fortezza. Passò davanti a Jerle Shannara e ai Cacciatori
degli Elfi, davanti a Preia Starle e a Vree Erreden, e si diresse verso
il labirinto di alberi e liane in mezzo al giardino silenzioso. Come vi
entrò, sentì sempre più chiaramente la magia che vi era sepolta: una
magia antica, astuta e sicura di sé, radicata assai più in profondità
degli alberi e delle liane che la nascondevano. Era l'entità in cui
convergevano le linee di potere magico che proteggevano la fortezza.
Spuntavano da essa come fili di seta e avvolgevano pietra e metallo, dal
muro di cinta alle cime delle torri, dai più profondi sotterranei ai più
alti bastioni. Si stendevano su tutta la montagna fino al cielo: una
vasta concentrazione di pensiero e di sensazioni e di forza. Tay arrivò
a contatto della rete e la attraversò con attenzione, badando
accuratamente a non toccarla. Si trovò nel giardino e si fece strada in
mezzo al labirinto di alberi e liane, fra la terra muschiosa e
l'intreccio di foglie. In ogni punto, il giardino era uguale a se
stesso, profondo, segreto, avvolgente. Tay volò avanti, incorporeo e
immateriale, scansando le linee di potere che si estendevano
dappertutto, evitando ogni movimento che rischiasse di svegliare
l'entità che sorvegliava quei luoghi. Era penetrato così in profondità
nel giardino da avere l'impressione di essere quasi arrivato dall'altra
parte, quando s'imbatté in una massiccia concentrazione di linee di
forza, in un punto dove la luce era più fioca e pareva cedere al dominio
delle ombre. Laggiù alberi e liane scomparivano. Laggiù dominava il
buio. Si scorgeva solo la terra nuda: in tutta l'area non cresceva nulla
e la luce veniva assorbita come da una spugna. Laggiù c'era un'entità
invisibile, che pulsava con l'intensità e la regolarità di un cuore,
protetta da molteplici strati di magia, avvolta nello stesso potere che
la nascondeva. Tay Trefenwyd si avvicinò, scrutando nelle tenebre
soffocanti, scivolando oltre le linee protettive. Nascosto nel suo
travestimento di magia, si immobilizzò e ridusse al silenzio anche il
battito del polso, il sussurro del respiro, il tremito del cuore. Ritirò
tutto se stesso, tranne una piccolissima parte di coscienza, e divenne
tutt'uno con le tenebre. E allora la vide. Su un antichissimo supporto
di metallo, che recava incise rune e bizzarre creature, c'era una gemma
nera come l'inchiostro, così impenetrabile che sulla sua superficie non
si rifletteva alcuna luce. Opaca, priva di profondità, dotata di un
potere che Tay Trefenwyd non avrebbe mai creduto possibile, laggiù la
Pietra Nera degli Elfi aspettava. Aspettava lui. Oh, per tutte le ombre!
Aspettava lui! Come una falena attirata da una fiamma, Tay cercò di
afferrarla: lo fece d'impulso, senza pensare, incapace di resistere.
Cercò di afferrarla con la disperazione e il bisogno di un uomo che si
sente affogare, e questa volta non c'era Jerle Shannara a fermarlo. Tay
era solo un'immagine, uno spettro privo di sostanza: non pensò a ciò che
faceva. In quel momento aveva perso la ragione: l'unica cosa che contava
era il suo bisogno. Il fatto di essere uno spettro e niente di più fu
ciò che lo salvò. Nel momento in cui la sua mano si chiuse sulla Pietra
Nera, venne riconosciuto. Sentì le linee di potere vibrare in reazione
alla sua presenza, le sentì tendersi e ronzare prima che scattassero.
Cercò di tirarsi indietro, di sfuggire al pericolo, ma non c'era
possibilità di fuga. La sentinella che non era riuscito a identificare,
l'entità che viveva nelle rovine di Fauce Magna, prese improvvisamente,
orribilmente forma. Quando l'entità si svegliò, la terra ebbe un
sussulto: le liane che crescevano in tutto il giardino - e che fino a un
momento prima pendevano flaccide - scattarono verso di lui e divennero
le spire mortali contro cui l'aveva messo in guardia l'ombra di
Galaphile. S'infilarono come serpi negli spazi tra gli alberi, pronte a
colpire. La magia le spingeva, le animava, e Tay Trefenwyd, anche nella
sua forma spirituale, capì subito cosa fossero. Gli si avvinghiarono
sulle gambe e sulle braccia, sul corpo e sulla testa, a decine,
provenienti da tutte le direzioni. Si strinsero e cominciarono a
stritolarlo. Tay non avrebbe dovuto sentire quella pressione: era puro
spirito. Ma la magia del giardino aveva il potere di colpirlo anche come
essere incorporeo. Una magia capace di afferrare una magia: una magia
capace di distruggere perfino un druido. Tay ebbe l'impressione di
essere fatto a pezzi. Gli sfuggì un grido: il dolore era reale, nel suo
spirito. Raccolse tutta la coscienza nel nucleo del simulacro di se
stesso, mentre questo veniva fatto a pezzi, ridusse a una briciola la
parte che conteneva il suo essere, s'infilò in un piccolo varco tra le
liane e fuggì verso la luce. Si ritrovò subito nel proprio corpo: si
contorceva e urlava, si inarcava come se fosse stato colpito dal
fulmine, lottava follemente per divincolarsi, a tal punto che Jerle
Shannara e i Cacciatori dovettero fare appello a tutta la loro forza per
tenerlo. Ansimò, rabbrividì e infine crollò tra le loro braccia, privo
di forze. Era madido di sudore; nel tentativo di liberarsi si era
stracciato le vesti. Davanti a lui, il giardino si agitava ancora
freneticamente, come un oceano dalle intenzioni mortali, un banco di
sabbie mobili cui era impossibile sfuggire. Eppure, lui c'era riuscito.
Chiuse le palpebre, riducendo gli occhi a due fessure. "Per tutte le
ombre!" mormorò, cercando di dimenticare quelle liane che saettavano su
di lui per farlo a pezzi. "Tay?" chiese Jerle, disperato. Lo teneva
fermo e tremava violentemente. "Tay, mi senti?" Tay Trefenwyd abbracciò
l'amico e aprì gli occhi. Adesso era tutto a posto, disse a se stesso.
Adesso era al sicuro. Trasse un lungo respiro per riprendere la
padronanza di sé. Era tornato nel mondo dei viventi: dell'orribile magia
della Pietra Nera aveva scoperto quanto voleva sapere. Riferì ai
compagni ciò che aveva visto. Li radunò tutti attorno a sé, perché non
c'era ragione di nascondere loro la verità, e spiegò l'accaduto. Non
mentì, ma tenne per sé i particolari più tenebrosi. Cercò di non lasciar
capire quanto fosse impaurito, anche se, nel raccontare la sua
esperienza, il terrore lo invase di nuovo come un fiume travolgente.
Disse poche frasi, con voce calma. Terminata la spiegazione, chiese
qualche minuto per riflettere sulla prossima mossa. Tutti si
allontanarono da lui, tranne Vree Erreden. Il locat lo seguì e, non
appena furono lontani dagli altri, lo prese per il braccio. "Non hai
parlato del guardiano. Non hai detto chi è, ma devi conoscerne
l'identità." Gli serrò sul braccio le dita sottili. "Ho sentito che ti
aspettava... aspettava proprio te, come se tu avessi un'importanza
particolare per lui. Dimmi cos'è, Tay Trefenwyd." Raggiunsero la scala
da cui erano giunti e si sedettero sui gradini, nel silenzio della
fortezza. Davanti a loro, il giardino era di nuovo immobile: era tornato
a essere un giardino e niente più. Pareva che non fosse successo niente.
Tay fissò per un istante il locat, poi distolse gli occhi. "Ti spiego
tutto, ma deve rimanere tra noi. Nessun altro lo deve sapere." Vree
Erreden annuì. "Si tratta del Signore degli Inganni?" chiese, con un
filo di voce. Tay scosse la testa. "Il potere che regna qui è molto più
antico. Ciò che vive nel giardino è composto di ciò che viveva nella
fortezza. E' un conglomerato di vite, una mescolanza di creature di
Faerie. Soprattutto Elfi, che nei passati millenni erano come me e te.
Ma hanno bramato il potere della Pietra Nera con una tale intensità da
non poter resistere. Hanno usato la Pietra, tutti insieme in qualche
rito, o uno alla volta, e la Pietra li ha distrutti. Non so come sia
successo, ma all'improvviso ho scoperto che conoscevo la loro storia, ho
compreso il loro orrore e la loro follia. Si sono trasformati, sono
divenuti la sostanza di questo giardino: una coscienza collettiva, un
potere che deriva dalla cooperazione di tutti. La loro magia tiene
insieme ciò che resta della fortezza, e sono riuniti quaggiù, dove ciò
che rimane di loro ha messo radice, sotto forma di liane e alberi."
"Esseri umani?" chiese il veggente, inorridito. "Una volta, ma adesso
non più. Hanno perso la loro umanità quando hanno evocato il potere
della Pietra Nera." Tay lo fissò inquieto. "Bremen mi ha avvertito del
pericolo. Mi ha detto che qualunque cosa succeda non devo usare, per
nessun motivo, la Pietra Nera. Evidentemente sa quello che mi
costerebbe, se lo facessi." Vree Erreden abbassò la faccia e batté
ripetutamente le palpebre. "Ho sentito che quell'entità ti aspettava: te
l'ho detto. Ma perché ti aspetta? Cerca esseri della sua stessa specie,
dotati di potere, capaci di usare la magia? O li teme? Che cosa la
spinge? Ha scartato me, penso, perché la mia magia è debole e vaga.
Infatti, la mia magia è visione e istinto, e non ha bisogno di
definizione e di forza. Ma, per tutte le ombre, ho sentito perfettamente
la sua malvagità!" Fissò di nuovo Tay. "Tu hai il potere dei Druidi, che
è assai più forte del mio. Chiaramente, o teme la tua magia o desidera
impadronirsene." Tay rifletté rapidamente su quelle parole. "Protegge la
Pietra Nera degli Elfi perché è la fonte del suo potere e della sua
vita.LO ho minacciato questo stato di cose quando sono entrato nel
giardino e ho interferito con le linee di potere magico che l'entità ha
teso in tutto il castello. Ma sa che sono un druido? Non posso dirlo."
"Sa che sei un nemico, questo è certo. Infatti ha cercato di
distruggerti. Sa che non sei stato corrotto dalla magia." Il veggente
esalò un lungo, faticoso respiro. "Si aspetta che tu provi di nuovo,
Tay. Se ritorni in quel giardino, verrài divorato." Si fissarono negli
occhi, senza parlare. Sa che sei un nemico, pensò Tay, ripetendo le
parole di Vree Erreden. Sa che non sei stato corrotto dalla magia.
All'improvviso gli tornò in mente qualcosa. Per un momento non riuscì a
definirlo con esattezza, poi capì. Era il racconto di Bremen: il modo da
lui seguito per entrare nella rocca del Signore degli Inganni. Bremen
aveva cambiato il suo aspetto, la sua forma, il suo pensiero, per
confondersi con i seguaci di Brona. Bremen si era trasformato fino a
diventare tutt'uno con i mostri che vi abitavano. Poteva farlo anche
lui? Sentì un nodo alla gola e si affrettò a girarsi perché Vree Erreden
non gli leggesse negli occhi. Lui stesso non riusciva a credere a ciò
che aveva pensato. Era inconcepibile. Era una pazzia! Ma che altra
scelta aveva? Nessuna, lo sapeva. Osservò i compagni, raggruppati
davanti al mortale giardino. Avevano fatto molta strada per arrivare
alla Pietra Nera e nessuno di loro si sarebbe tirato indietro adesso.
Inutile pensare ad altre ipotesi. La posta era troppo grande, il prezzo
di un insuccesso troppo alto. Prima di fuggire, avrebbero scelto la
morte. Eppure, doveva esserci un altro modo! La sua mente si
arrovellava. Come poteva riuscire? Che possibilità aveva? Questa volta,
se avesse fallito, non avrebbe avuto scampo. Sarebbe stato consumato...
Divorato. Si alzò, come per allontanarsi dalla propria paura e
fronteggiare la decisione presa. Lasciò la scala - e il veggente lo
guardò senza capire - e si staccò anche dagli altri, da Jerle e da Preia
e dai Cacciatori, per riprendere la padronanza di sé e valutare bene le
sue possibilità. Si sentiva stanco e consunto come la pietra che lo
circondava, vulnerabile al tempo come lo era il castello. Sapeva che
cos'era: soprattutto un druido, ma uno degli ultimi, un appartenente a
un ordine che si avviava probabilmente all'estinzione. Il mondo cambiava
e alcune sue componenti dovevano finire. Forse sarebbe successo così a
lui, a Bremen, a Risca. Ma loro non intendevano lasciarsi estinguere
senza lottare, si disse con ira. Non volevano finire come spettri, che
sparivano al sorgere del sole, privi di importanza e di credibilità. Non
dobbiamo mai essere inferiori a quello che siamo. Rinfrancato da queste
parole e armato delle proprie convinzioni, fece appello a tutto il suo
coraggio e chiamò Jerle Shannara.
17
"Ho trovato il modo di raggiungere la Pietra Nera" disse Tay, con voce
ferma a Jerle Shannara. "Ma posso farlo solo io, e devo farlo da solo."
Erano a una certa distanza dagli altri. Tay si sforzava di sorridere, ma
un nodo gli serrava la gola. La giornata si avviava al crepuscolo, e non
voleva rimanere intrappolato lì al buio. Jerle lo guardò per un istante,
senza parlare. "Ti servirai della magia dei Druidi, vero?" "Sì." Gli
occhi perspicaci lo fissarono. "Un travestimento?" "Sì, in un certo
senso." Tay s'interruppe. "Non starò a spiegarti i particolari. Fidati
di me. Lasciatemi solo, qualunque cosa succeda. Nessuno dovrà
avvicinarsi a me finché non vi darò il permesso. Sarà dura, per voi,
perché sentirete il bisogno di avvicinarvi." "Sarà pericoloso." Jerle lo
disse come una constatazione. Tay annuì. "Devo entrare nel giardino. Se
non dovessi più uscirne tu raduna la compagnia e ritorna ad Arborlon.
No, aspetta che abbia finito" aggiunse, per prevenire le proteste
dell'altro. "Se fossi ucciso, nessuno di voi sarebbe in grado di
entrare. Tu sei coraggioso, Jerle, ma non conosci la magia, e senza di
essa non si può sconfiggere l'entità del giardino. Devi tornare ad
Arborlon e aspettare Bremen, che sarà in grado di aiutarti. Noi abbiamo
trovato la Pietra Nera: ora basta scoprire il modo di recuperarla. Se
non ci riuscirò io, ci riuscirà lui." Jerle Shannara si appoggiò le mani
contro i fianchi e distolse lo sguardo. Era offeso. "Non sono capace di
rimanere a guardare mentre un altro rischia la vita... specialmente se
sei tu." Tay incrociò le braccia e abbassò la testa. "Lo so.LO mi
sentirei allo stesso modo, se fossi nei tuoi panni. Aspettare è sempre
sgradevole. Ma devo chiederti di farlo. Avrò bisogno della tua forza più
tardi, quando la mia sarà esaurita. Ancora una cosa. Quando uscirò,
quando mi rivedrai, anche se non sarai sicuro che si tratti di me,
pronuncia il mio nome." "Tay Trefenwyd" disse il guerriero, come per
obbedire alle sue parole. Si fissarono per qualche istante, ripensando
ai tanti anni trascorsi insieme, ai progetti del passato e a ciò che
stavano per fare. "Va bene" disse infine Jerle. "Va'. Fa' quello che
devi fare." Dietro suggerimento di Tay, condusse gli altri membri della
compagnia sui primi scalini, lontano dal giardino. Tay li guardò una
sola volta, incrociando per un istante lo sguardo con quello di Preia
Starle prima di voltarsi. Non aveva più pensato a lei da quando erano
entrati in Fauce Magna, perché non poteva permettersi distrazioni. Ora
lo fece di nuovo, concentrandosi sulla sua vita di druido, sugli anni
dedicati allo studio della magia, alle discipline e alle abilità
apprese. Pensò a Bremen, alla sua faccia affilata e coperta di rughe,
agli occhi strani e imperiosi, alla determinazione che emanava da lui.
Ripensò all'incarico che gli aveva affidato e che l'aveva spinto laggiù.
Ora fissò il giardino, con il suo mortale intrico di liane, i recessi
tenebrosi, l'invisibile forza che attendeva nelle sue profondità. Poi si
calmò, rallentò il battito del cuore, fermò i pensieri, si avvolse in un
manto di tranquillità. Cercò gli elementi che alimentavano la sua magia:
aria, acqua, fuoco e terra, i suoi strumenti. Evocò quelli che poté
trovare, li cercò attorno a sé e li recuperò, si circondò della loro
esaltante fusione. Li inspirò, si infuse della loro natura e lentamente
cominciò a cambiare. Iniziò con cautela il compito che si era imposto: a
piccoli passi, invocò la magia dei Druidi, si trasformò senza fretta. Si
spogliò della vecchia identità, strato dopo strato, eliminò le sue
vecchie caratteristiche, cambiò la sua figura, e alla fine della sua
vecchia apparenza fisica non rimase traccia. Poi entrò nel proprio corpo
per cambiare anche quello che c'era all'interno. Riunì fedi e
convinzioni, emozioni e pensieri, codici di comportamento e valori:
tutto ciò che faceva di lui ciò che era. Li chiuse in un luogo segreto,
da cui nulla e nessuno sarebbe stato capace di farli uscire, tranne il
suo nome pronunciato da Jerle. Poi cominciò a ricostruirsi, e per farlo
attinse a piene mani alla vita del giardino. Prese ispirazione dalle
creature un tempo umane ma adesso non più. Trovò l'essenza di ciò che
erano, il nucleo di ciò che la Pietra Nera le aveva fatte diventare, e
lasciò che fiorisse dentro di lui. Divenne come loro, cupo e perduto,
vuoto e depredato, una copia della loro follia e della loro dannazione.
Divenne come loro, a parte il fatto che conservò il fondamento del
proprio essere, in modo da potersi muovere tra loro. Tra il suo destino
e il loro c'era solo un passo, ma erano così vicini che quel passo
costituiva la sola differenza. Gli Elfi che lo guardavano lo videro
cambiare. Videro la sua figura, alta e leggermente curva, raggrinzirsi e
piegarsi. Videro le braccia e le gambe, lunghe e dritte, diventare curve
e nodose. Videro la malvagità strisciare sopra e dentro di lui finché
non rimase altro. Sentirono l'odore di marcio e in bocca il sapore della
corruzione. Era l'opposto di tutto ciò che è buono e lo stesso Jerle
Shannara, benché sapesse cosa intendeva fare l'amico, si ritrasse
istintivamente da lui. Nella mente di Tay Trefenwyd prese a scorrere una
vena di follia, impetuosa e ossessionante. Subì tutti gli effetti
distruttivi della magia del giardino, la degenerazione toccata a coloro
che vi avevano infuso la loro vita e ne avevano fatto la loro casa. Per
un momento, ebbe l'impressione di conoscere quella magia, di capire come
fosse nata dall'impiego traviato della Pietra Nera, ma era una
conoscenza che rischiava di travolgere le sue ultime vestigia di sanità
mentale, il piccolo nucleo che lo legava al suo scopo, e fu costretto a
tirarsi indietro. Entrò nel giardino come compagno delle creature che
aveva assorbito. Entrò senza paura, perché era il solo modo di entrare
che avesse senso. Entrò come uno di loro, ancora preso dalle incombenze
che esse avevano abbandonato quando avevano cambiato forma, ancora
vivente nel mondo che esse si erano lasciate alle spalle. Scivolò fra i
tronchi sottili degli alberi e sfiorò le liane che pendevano flaccide
come un serpente entrato nel rifugio dei serpenti. Era velenoso come
loro, e nessuna delle loro caratteristiche era peggiore di quello che si
rifletteva in lui. Avanzò verso il punto in cui le ombre erano più
fitte, cercando il loro conforto, infilandosi sinuosamente nel loro
abbraccio, senz'anima. Il giardino e le creature che gli davano vita
reagirono come Tay aveva sperato. Gli diedero il benvenuto. Lo
abbracciarono come uno di loro, lo accolsero come un familiare. E lui si
immerse nella loro malvagità, nella loro corruzione, lasciando che i
tentacoli della loro mente collettiva si insinuassero in lui per
leggergli nei pensieri le sue intenzioni. Era il loro custode, videro.
Era colui che si prendeva cura del giardino. Era venuto a portar loro un
cambiamento che avrebbe dato soddisfazione a qualche desiderio
inespresso. Era venuto a liberarle. Entrò in profondità nel giardino:
così in profondità che si smarrì completamente in ciò che era divenuto.
Tutto il resto svanì: se non fosse riuscito ad andarsene, Tay se lo
sarebbe dimenticato per sempre. Si chiuse in un nodo da cui, una rossa
goccia dopo l'altra, stillava via la sua vita. Era solo follia e
desiderio: uno spettro lacero, che non conservava alcun ricordo della
sua precedente identità. Era perso a tutto ciò che era stato fino a quel
momento. Ma era anche dominato dal fine inalterabile e bruciante che si
era imposto. Era venuto per la Pietra Nera, e anche nella sua follia era
deciso a impadronirsene. Con un desiderio monomaniaco e inesorabile, si
avvicinò alla Pietra. Le linee di forza lo sfiorarono e si ritrassero,
le liane rabbrividirono, ma di soddisfazione, non di collera. La vita
del giardino gli permise di chinarsi sulla Pietra Nera, di prenderla in
mano e di portarsela al petto. Era venuto a prendersi cura della Pietra.
Era venuto a trarne nuove magie, magie che avrebbe condiviso con loro,
che avrebbero nutrito e soddisfatto la loro fame. Questo era infatti il
travestimento scelto da Tay. Le creature che componevano il giardino non
potevano più evocare il potere che le aveva trasformate, non potevano
più nutrirsene, erano bloccate nella condizione in cui la Pietra le
aveva cambiate, intrappolate nelle liane e negli alberi e nei fiori di
quel rettangolo di terra, nella profondità della fortezza che un tempo
era la loro casa, radicate laggiù per sempre. Proteggevano il castello
come avrebbero protetto il lucchetto delle loro catene, in attesa
dell'arrivo della chiave che le aprisse. Tay portava loro quella chiave.
Era la speranza concessa loro dalla follia. Un passo dopo l'altro, come
all'andata, Tay attraversò a ritroso il giardino, tenendo fra le mani la
Pietra Nera. Le linee di potere lo seguivano e gli facevano strada, le
liane si ritiravano per farlo passare. Schiocchi soffocati segnavano il
suo passaggio, e il giardino rabbrividiva per il dolore. Ma quel dolore
si ripercuoteva su di lui, e il suo brivido era delizioso. Il dolore
prometteva l'agonia, l'agonia della trasformazione. Una nuova volontà,
sovrapposta alla sua, si era impadronita di Tay e lo spingeva a uscire:
un nuovo potere che esaminava la sua forma contorta, lo sfiorava per
saggiare le sue intenzioni, come il solletico di tante dita di seta. Era
la magia della Pietra Nera, che si destava lentamente, impaziente di
venire di nuovo scatenata, seducente nella promessa di potere. Accarezzò
Tay Trefenwyd come un'amante. Solleticò la sua forma corrotta e lo
riempì di gioia. Poteva tenere per sé tutto il potere, gli sussurrava.
Bastava che ordinasse, e avrebbe avuto qualsiasi cosa. Tay uscì
dall'ombra del giardino e si trovò alla luce, lontano dalle liane, dalle
voci e dal contatto delle creature che vi abitavano. Era una creatura
orribile e ributtante, non più umana, ma così bassa e vile da essere
irriconoscibile. Strisciando e zoppicando, trasudando umori repellenti,
giunse sulle piastrelle multicolori. Stringeva al petto la Pietra Nera,
le linee di potere lo seguivano invisibili, legami che soltanto lui
poteva vedere, fili che in un istante sarebbero stati in grado di
riportarlo indietro. Davanti a lui, gli Elfi lo guardavano inorriditi.
Nel vederlo emergere, portarono la mano alle armi e si prepararono a
difendersi dal suo attacco. Lui li guardò senza riconoscerli. Li guardò
e non si curò di loro. Poi Jerle alzò la mano per fermare i compagni. Si
fece avanti da solo fissando l'oscena figura. Quando fu a pochi passi,
si fermò e sussurrò nel silenzio del castello, con voce roca, disperata:
"Tay Trefenwyd?". Al suono del suo nome pronunciato da Jerle Shannara,
Tay ritrovò la sua vita. La magia dei Druidi, nascosta nel più profondo
e impenetrabile nucleo del suo essere, salì ed esplose dentro di lui. Lo
liberò dal travestimento, lo fece uscire dalle tenebre che l'avevano
avvolto, dalle sabbie mobili in cui era affondato. Bruciò in un istante
la maschera che si era dato. Bruciò la follia che s'era impossessata di
lui. Lo ricostruì in un attimo, gli ridiede l'aspetto e l'identità, la
ragione e le convinzioni di prima. Nello stesso tempo, bruciò le linee
di potere che lo avvolgevano e diede a lui soltanto il possesso della
Pietra Nera Il giardino impazzì. Liane e alberi balzarono verso di lui
con una tale forza da strapparsi quasi dal terreno. Cercarono di
afferrare la Pietra Nera e Tay Trefenwyd, la prima per riprenderla, il
secondo per distruggerlo. Ma Tay era protetto dal suo Fuoco Magico, la
magia evocata al momento della sua liberazione, preparata da lui in
anticipo per proteggersi dalla vendetta del giardino. Le liane lo
sferzarono, si avvinghiarono a lui e cercarono di riportarlo
all'interno, nelle profondità tenebrose. Ma il fuoco le fermò, le
ridusse in cenere e protesse il druido. Jerle Shannara e gli altri
corsero avanti, colpendo con le spade e i coltelli l'ondeggiante massa
di liane. No! pensò Tay, cercando di fermarli. No, state lontano! Aveva
ordinato loro di non avvicinarsi, aveva detto espressamente a Jerle di
avvertirli! Ma gli Elfi non erano riusciti a trattenersi: l'avevano
visto arrivare con la Pietra Nera, e ora credevano che fosse in
pericolo. Perciò andarono all'attacco, temerariamente, con le armi in
pugno, senza pensare alla dimensione del pericolo. Troppo tardi si
accorsero dell'errore. Il giardino si lanciò contro di loro, veloce come
il pensiero. Afferrò l'elfo più vicino, prima che riuscisse ad
allontanarsi, lo strappò dai compagni e lo fece a pezzi. Freneticamente,
Tay estese la protezione del Fuoco Magico ai compagni attaccati, anche
se, così facendo, indeboliva la propria protezione. Poi si lanciò di
corsa verso le scale, gridando di seguirlo. Tutti gli obbedirono.
Eccetto uno: un altro dei Cacciatori, troppo lento per reagire, che,
mentre si voltava per fuggire, fu preso per le spalle e trascinato verso
la morte. Tay raggiunse le scale e cominciò a salire di corsa.
Tutt'intorno a sé sentiva spezzarsi le linee di potere. La magia del
giardino si stava consumando. Il furto della Pietra Nera degli Elfi
aveva causato un danno irrimediabile nelle profondità della forza vitale
di Fauce Magna: la rete che la teneva insieme si era strappata
irreparabilmente. Sotto i piedi, sentiva la terra fremere. "Che
succede?" gridò Jerle, accostandosi a lui. "Il castello sta crollando!"
esclamò Tay. "Dobbiamo uscire!" Senza fermarsi, ripercorsero i passaggi
bui, le sale e i corridoi vuoti, diretti alla stretta apertura per cui
erano entrati. Tay provava una strana sensazione che era insieme di
esaltazione e sconforto. Era libero, il suo trucco aveva avuto successo,
e questa idea gli faceva scorrere più veloce il sangue nelle vene. Ma il
costo che aveva dovuto pagare non gli era ancora chiaro. Non si sentiva
a posto; nel giardino doveva avere subìto qualche danno che non sapeva
ancora valutare. Abbassò gli occhi, come per controllare se era tutto
intero. Ma non vide ferite. Il danno era dentro. Lungo le pareti della
fortezza cominciarono ad apparire le prime crepe, che si aprivano e si
allargavano davanti a loro. Molti blocchi di pietra, scossi con
violenza, andavano in briciole. Tay aveva distrutto il potere di Fauce
Magna, la magia accuratamente calibrata che teneva insieme il giardino e
il castello, il quale era assai più fragile di quanto non apparisse.
Fauce Magna stava crollando. I suoi giorni nel mondo, che per tanto
tempo si erano prolungati, stavano finendo. Preia Starle lo sorpassò
rapida e corse avanti, gridando qualcosa. Aveva ripreso il posto di
esploratore e volava fra le pietre che sobbalzavano, i capelli color
cannella che sventolavano. Tay la guardò allontanarsi, ma non riusciva a
distinguerla bene. Non riusciva a mettere a fuoco e faticava a
respirare. Respirò a fondo alcune volte, ma non bastò a fargli
riprendere fiato. Stava per incespicare, ma Jerle Shannara lo raggiunse,
lo afferrò e lo trascinò avanti. Dietro di loro venivano Vree Erreden e
l'ultimo Cacciatore. Quando uscirono dal castello e attraversarono il
cortile per dirigersi verso il muro di cinta e la porta da cui erano
entrati, pareti e soffitti cominciavano a crollare. Tay sentiva come un
fuoco che gli bruciava nel petto. Una parte dell'immonda magia del
giardino doveva ancora essere dentro di lui. Cercò di isolarla, di
allontanarla dal resto del corpo usando la propria magia per soffocarla.
Abbassò lo sguardo sul proprio petto, cercando di trarre rassicurazione
da ciò che vedeva. Con suo orrore, la Pietra Nera pulsava debolmente
contro il suo petto. Distolse subito lo sguardo e si affrettò a coprire
la gemma nera in modo che gli altri non la vedessero. I cinque uscirono
in fretta dal cortile e si affrettarono a salire la scala che portava al
cratere e al lago. Il rombo che si levava alle loro spalle era più
forte; adesso si udiva anche lo scricchiolio delle pietre che si
spaccavano e scivolavano le une sulle altre. Il passaggio era pieno di
polvere, riuscivano a malapena a respirare. Anche Vree Erreden
incespicava, adesso, e il Cacciatore che correva accanto a lui lo aiutò.
I quattro uomini continuarono ad avanzare a fatica, come vecchi,
soffocando e tossendo, mentre Preia Starle li distanziava sempre più Dal
profondo della montagna si udì un'esplosione e una grande nuvola di
detriti li colpì da dietro, facendoli cadere sugli scalini. Scossi e
storditi, si alzarono e proseguirono con determinazione. Tay sentiva
scemare progressivamente le forze. Il dolore al petto si allargava.
Sentiva le pulsazioni della Pietra Nera crescere d'intensità contro la
sua pelle. La parte di magia del giardino ancora chiusa dentro di lui si
alimentava dei poteri della Pietra. Si era mascherato troppo bene. Si
era alterato troppo profondamente. Aveva creduto di poter tornare ciò
che era, ma il male di cui si era coperto non si lasciava cacciare via
così facilmente. Strinse i denti e continuò a correre. Era stato lui ad
assumersi quel rischio. Adesso era inutile recriminare. Giunsero infine
all'apertura e al declivio pietroso che scendeva fino al lago,
all'interno del cratere. Preia Starle era ferma a pochi passi da loro, e
sembrava paralizzata dalla sorpresa "Per tutte le ombre!" sibilò Jerle
Shannara. Davanti a loro, disposti a semicerchio in modo da bloccare
ogni via di scampo, c'erano decine di Gnomi. Al centro, ammantati di
nero e curvi come spettri in attesa del tramonto, c'erano due
spaventevoli Messaggeri del Teschio. I loro inseguitori erano riusciti a
trovarli. Gli Elfi si fermarono bruscamente dietro Preia. Tay fece
presto i conti. Erano in cinque contro un centinaio. Non avevano
possibilità di scampo. Preia indietreggiò adagio, fino a portarsi
accanto a Jerle. Non aveva estratto alcuna arma. "Li ho trovati qui ad
aspettarci, quando sono uscita" spiegò con voce calma, senza traccia di
paura. Lanciò un'occhiata a Tay, con espressione stranamente serena.
"Sono troppi per noi." Jerle annuì. Guardò cupo Tay. Dietro di loro, dal
passaggio, scaturì una nube di polvere, mentre una nuova serie di
esplosioni scuoteva la montagna. La terra tremò sotto i loro piedi.
Un'ultima reazione al crollo di Fauce Magna e alla fine della sua magia.
"Dobbiamo tornare indietro" sussurrò Jerle. "Forse c'è un'altra uscita."
Ma non ce n'erano: Tay lo sapeva. C'era solo quella che passava
attraverso i Messaggeri del Teschio e gli Gnomi. Ritornare nel passaggio
era un suicidio. L'intera montagna stava crollando, e ogni creatura
intrappolata nelle sue gallerie sarebbe rimasta schiacciata. Dietro di
lui, l'ultimo Cacciatore degli Elfi si staccò da Vree Erreden e lasciò
che si accasciasse a terra. Il locat era semisvenuto. Aveva la testa e
la faccia insanguinate. Quando era stato ferito? si chiese Tay. Non se
n'era accorto. Il Cacciatore degli Elfi si portò al suo fianco. La loro
situazione era disperata, pensò Tay. Si staccò da Jerle, per controllare
se era in grado di tenersi in piedi senza aiuto. Scoprì di poterlo fare.
Si raddrizzò, poi fissò l'amico. Jerle lo guardò con sospetto, e Tay gli
sorrise, anche se questo gli costò uno sforzo. Preia Starle lo guardava
incuriosita. Nei suoi occhi si scorgeva una luce di sfida: forse aveva
visto ciò che Jerle non era riuscito a vedere. "Aspettatemi qui" disse
loro. "Che intendi fare?" gli chiese il guerriero, prendendolo per il
braccio e cercando di fermarlo. Tay si liberò, con calma. "Tutto a
posto" lo rassicurò. "Aspettatemi qui." Scese lungo il pendio, saggiando
con cura i punti dove metteva i piedi sulla roccia liscia e friabile e
percependo le vibrazioni della montagna mentre la distruzione di Fauce
Magna proseguiva inesorabile. Alzò lo sguardo verso le cime dei monti
per cogliere tutta la dimensione del cratere e del lago che vi era
imprigionato, le pareti di roccia, il sole che tramontava, e lasciò che
i suoi pensieri vagassero lontano. Pensò a Bremen e a Risca, che in quel
momento, in qualche altra regione delle Quattro Terre, combattevano le
loro battaglie. Cercò di immaginare dove fossero in quel momento. Pensò
alla famiglia e alla casa di Arborlon, ai genitori e a Kira, al fratello
e alla sua famiglia, ai vecchi amici, ai luoghi dov'era vissuto. Pensò
alla rocca di Paranor, condannata alla morte, e ai Druidi. In pochi
momenti rivisse il passato e il presente, li allargò davanti a sé e poi
li chiuse di nuovo. Si fermò quando giunse a una decina di passi dai
Messaggeri del Teschio. Si erano rizzati in piedi e lo guardavano con
occhi rossi come la brace, il volto nascosto nel cappuccio. Tay sapeva
di non avere la magia occorrente per vincerli. L'aveva consumata a Fauce
Magna, ed era esausto e malato. Accettò con calma questa realtà. La
ricerca della Pietra Nera era finita: ormai era sufficiente portarla ad
Arborlon. I suoi compagni dovevano assolutamente poter tornare a casa. E
toccava a lui, Tay, metterli in condizione di farlo. Un tempo sarebbe
riuscito a difenderli tutti, ma adesso aveva a malapena la forza di
proteggere se stesso. Eppure doveva farlo, i suoi compagni non avevano
altra risorsa che lui. Abbassò lo sguardo sulla propria mano. In essa
stringeva il potere della Pietra Nera. Bremen l'aveva avvertito di non
usarla, e lui aveva promesso. Ma non sempre le cose vanno come si vuole.
Sollevò bruscamente il pugno e sentì la Pietra Nera pulsare contro il
suo palmo. Facendo appello a tutta la forza e alla determinazione che
rimanevano in lui, scese fino al cuore della gemma e ne evocò il potere.
I Messaggeri del Teschio stavano già entrando in azione. Accortisi del
pericolo, avevano già attivato il loro fuoco mortale e un verde chiarore
malvagio saettò contro di lui per ucciderlo. Ma non furono abbastanza
svelti. La Pietra Nera era in attesa del comando di Tay, l'aveva
previsto, si era legata a lui fin dal momento in cui l'aveva prelevata,
in un rapporto di padrone-schiavo, ma con i ruoli ancora da definire.
Pulsando d'impazienza, la magia della Pietra scaturì dalle dita di Tay
in una lama di non-luce, un vuoto nero che inghiottiva tutto ciò che
trovava sul suo cammino. Distrusse il fuoco dei Messaggeri. Distrusse i
Messaggeri stessi. Distrusse gli Gnomi dal primo all'ultimo, anche
quelli che cercarono di fuggire in preda al terrore. Divorò tutto.
Ridusse in cenere uomini e mostri, poi rubò le loro vite e le riversò in
colui che la impugnava. Tay fremette e gridò, quando la magia della
Pietra ritornò a lui, impregnata delle vite delle vittime. La malvagità
dei Messaggeri e la forza del loro fuoco penetrò in profondità dentro di
lui, insieme con le loro cupe finalità; le loro brame perverse si
accumularono dentro di lui, straziandolo. In quell'istante, Tay comprese
il segreto delle Pietra Nera degli Elfi: annullare il potere delle altre
magie, rubarlo e farlo proprio. Ma il prezzo era orrendo, perché il
potere rubato si trasferiva in chi usava la Pietra e ne cambiava per
sempre la natura. In pochi istanti, tutto finì. Tutti i nemici che li
minacciavano erano spariti. Nel cratere si scorgevano solo mucchietti di
cenere, qualche arma, pezzi di stoffa e cuoio. Nell'aria gravava un
forte odore di carne bruciata. Sulla superficie del lago si allargavano
le onde causate dal calore della Pietra Nera. Tay s'inginocchiò, mentre
la magia continuava a muoversi dentro di lui. Sentì che consumava il suo
corpo e il suo spirito, li riduceva in polvere, ma non poteva far nulla
contro di essa. La magia lo stava distruggendo e ricostruendo. La Pietra
Nera gli sfuggì dalle dita e cadde tra i sassi. La sua non-luce era
spenta, non pulsava più. Tay la fissò, cercando di concentrare la
propria magia per fermare l'invasione del suo corpo. Chiuse le palpebre
per il dolore. Non si sarebbe mai aspettato qualcosa di simile. Aveva
disobbedito a Bremen, e quello era lo scotto. Jerle Shannara gli si
avvicinò, lo sorresse e si chinò a dirgli qualcosa Con lui c'era anche
Preia. Tay udiva le loro voci ma non capiva le parole. Chiuse gli occhi
e continuò a lottare contro la magia della Pietra. Era rimasto per
troppo tempo nel giardino. La magia era entrata in lui, aveva messo
radici in attesa che cedesse alla tentazione di usarla. Tay non aveva
previsto quella trappola. Aveva dovuto pensare a tanti altri
particolari, erano successe tante cose. "Tay!" gridò Preia, accanto a
lui. Una sorta di buio stava crescendo dentro il suo essere, un'entità
invadente e incredibilmente malvagia. Tay veniva trasformato in una
creatura diversa, per effetto della magia che si era riversata in lui e
che conteneva l'immonda essenza dei Messaggeri del Teschio. Quella magia
lo stava corrompendo, e lui non era in grado di opporsi perché troppo
debole. "Preia!" mormorò. "Avverti Bremen..." Poi si sentì portar via,
verso un altro tempo e un altro luogo. Ad Arborlon era estate e lui era
bambino. Giocava con Jerle ed era caduto mentre cercava di salire su un
muretto. Aveva battuto la testa ed era steso sull'erba. Jerle, vicino a
lui, diceva: "Oh, non fare tanto il bambino! E' una caduta da nulla! Non
ti sei fatto niente!". E lui cercava di alzarsi, anche se gli girava la
testa ed era stordito e s'era graffiato i gomiti e la faccia. Ma Preia,
che giocava con loro, l'aveva preso tra le braccia e gli aveva detto:
"Non preoccuparti, Tay. Aspetta che ti passi lo stordimento. Non c'è
nessuna fretta". Aprì gli occhi. Jerle Shannara lo teneva fra le braccia
e il suo viso era affranto. Preia era inginocchiata accanto a lui, gli
occhi pieni di lacrime e le gote che luccicavano. Trovò la mano di lei e
la strinse. Poi, come aveva fatto con Retten Kipp, usò la poca magia che
gli rimaneva per fermare il cuore e i polmoni. Lentamente, sentì il
cuore rallentare i battiti. Anche la distruzione del suo corpo rallentò,
e venne bloccata. La sonnolenza si impadronì di lui. Era tutto ciò che
gli rimaneva. Dormire. Una coltre di oscurità gli velò gli occhi e gli
rubò la vista. Dopo un solo gemito, giunse rapida e pietosa la morte,
che lo portò via con sé.
Parte terza
LA FUSIONE DELLA SPADA
18
Bremen, Mareth e Kinson Ravenlock impiegarono quasi una settimana a
raggiungere la Pietra del Focolare. Percorsero a piedi l'intero
tragitto, perché tanto il druido quanto il Cacciatore erano certi di
risparmiare tempo andando a piedi anziché a cavallo. Era una regione ben
nota a entrambi, perché l'avevano attraversata molte volte, e talune
scorciatoie scoperte nel corso degli anni non si potevano percorrere in
sella. Dopo un breve tratto in pianura si entrava in una regione dove
era necessario rinunciare ai cavalli, perciò avevano risolto di fare
l'intero percorso a piedi e non complicarsi la vita. Tutto bene per
loro, aveva pensato Mareth. Entrambi erano abituati a compiere a piedi
lunghissimi percorsi. Lei no, ma non aveva fatto commenti. Kinson era in
testa e procedeva a un passo che, secondo lui, doveva essere agevole per
tutti e tre. Sapeva che la giovane non era abituata a camminare come lui
e Bremen, ma l'aveva giudicata abbastanza robusta. Per i primi due
giorni camminarono in piano, su strade e sentieri ben tracciati. Si
fermavano spesso perché Mareth riposasse e ogni volta le ricordavano la
necessità di bere in abbondanza. La sera Kinson le controllava gli
stivali e i piedi per assicurarsi che fossero a posto. Stranamente, lei
non si opponeva. Dal giorno del ritorno di Bremen si era un po' isolata,
e Kinson pensava che si preparasse a rivelare al druido la verità su se
stessa. Attraversarono il passo delle Montagne del Wolfsktaag ed
entrarono nella Terrabuia. Per gran parte del tempo avevano seguito il
Fiume Raab, perché era un buon punto di riferimento e permetteva loro di
rifornirsi d'acqua. Le giornate erano pigre e soleggiate, le notti
tranquille. I fitti boschi li nascondevano e il viaggio proseguiva senza
incidenti. La terza notte Mareth mantenne la promessa, rivelando a
Bremen di avergli mentito sulla sua permanenza a Storlock. Non
appartenendo agli Stor, non era stata accettata nell'ordine e non aveva
studiato con loro le arti della guarigione. Le sue conoscenze le aveva
apprese con la pratica, a volte con fatica e dolore. Aveva l'impressione
che la sua magia operasse meglio quando la impiegava per guarire, di
riuscire a tenerla più sotto controllo. Parlò anche di Cogline. Ammise
che era stato lui a consigliarle di recarsi a Paranor, dove i Druidi
potevano aiutarla a dominare la sua magia, e a procurarle i documenti
falsi che l'avevano fatta accettare come apprendista. Con una certa
sorpresa da parte di Kinson, Bremen non s'incollerì affatto. Ascoltò con
attenzione la giovane donna, annuì alcune volte e non fece commenti.
Sedevano tutti e tre attorno al fuoco, dopo cena. Le fiamme erano ormai
ridotte a poche braci, la notte era illuminata dalla luna e dalle
stelle. Bremen non guardò mai Kinson. Anzi, pareva essersi dimenticato
della sua esistenza. Quando la fanciulla terminò la narrazione, Bremen
le sorrise incoraggiante. "Be', sei una giovane davvero intraprendente.
E sono lieto della tua fiducia in Kinson e in me. Cercheremo di
aiutarti, naturalmente. Quanto a Cogline, l'idea di mandarti a Paranor
con documenti falsi e di incoraggiarti a mentire è proprio da lui.
Cogline non ha alcuna simpatia per i Druidi ed è sempre disposto a
giocargli un tiro. Ma sapeva anche, ritengo, che se tu fossi stata
sufficientemente determinata nel cercare la verità sulla tua magia,
prima o poi avresti trovato il modo di parlarmi." "Conosci bene
Cogline?" gli chiese Mareth. "Come chiunque altro. Era un druido ben
prima che io entrassi a Paranor, all'epoca della Guerra delle Razze. Ha
conosciuto Brona e in una certa misura ha condiviso le sue idee. Pensava
che tutte le strade della conoscenza dovessero venire esplorate e che
nessuna forma di studio dovesse essere proibita: in questo, era anche
lui una sorta di ribelle. Ma era anche un uomo serio e attento. Non
avrebbe mai corso i rischi che ha corso Brona. "Ha lasciato l'ordine dei
Druidi prima di Brona perché era profondamente deluso dai vincoli posti
alle sue ricerche. Il suo principale interesse erano le scienze perdute,
quelle utilizzate dal vecchio mondo prima della sua distruzione. Ma il
Grande Druido e il Consiglio non approvavano il suo lavoro. A
quell'epoca preferivano la magia, di cui invece Cogline non si fidava.
Per loro, era meglio lasciare in pace le antiche scienze, che erano
servite a molte cose, nel vecchio mondo, ma l'avevano anche distrutto.
La scoperta dei loro segreti doveva avvenire lentamente, con cautela e
solo per scopi limitati. Tutto questo, per Cogline, era una sciocchezza.
La scienza non si lascia imporre limiti, sosteneva. Non si lascia
svelare secondo le scadenze imposte dagli uomini, ma secondo le
proprie." Bremen incrociò le braccia e sorrise al ricordo. In quella
posizione, sembrava tutto ossa e spigoli. "Così Cogline se ne andò,
infuriato per i torti che gli erano stati fatti e, suppongo, per i
propri errori. Si stabilì nella Terrabuia e riprese gli studi per conto
suo. Di tanto in tanto ci siamo incontrati, per caso, e abbiamo parlato,
ci siamo scambiati informazioni e idee. Tutt'e due siamo degli esuli, in
un certo senso. Ma Cogline si rifiuta di considerarsi un druido, mentre
io rifiuto di considerarmi qualcosa di diverso." "E' vissuto molto più
di te" commentò Kinson, chinandosi a riattizzare le braci con la punta
di un bastone. Non guardò Bremen, nel dirlo. "Conosce il Sonno Magico,
se ti riferisci a questo" rispose Bremen, tranquillo. "E' l'unica
concessione alla magia che si sia mai permesso. Non si fida delle altre
pratiche magiche." Guardò Mareth. "Ritiene la magia pericolosa e
incontrollabile. Dev'essere rimasto molto soddisfatto, penso, nel sapere
che anche tu l'avevi trovata tale. Mandandoti a Paranor, forse cercava
di segnare un punto a proprio favore. Però tu hai nascosto troppo bene
il tuo segreto, e i Druidi non hanno mai scoperto le tue capacità."
Mareth annuì, ma non fece commenti e si limitò a fissare pensierosa le
ombre che li circondavano. Kinson si stiracchiò. Era irritato con tutt'e
due. La gente tendeva a complicarsi la vita inutilmente, e Bremen e
Mareth ne costituivano un esempio. Fissò Bremen. "Visto che stiamo
tirando fuori i nostri segreti e il nostro passato, spiegami una cosa.
Perché andiamo alla Pietra del Focolare? A che ci serve Cogline?" Bremen
lo guardò per un attimo, prima di parlare. "Come ho detto, Cogline ha
proseguito i suoi studi sulle antiche scienze. Conosce segreti che
nessun altro ha mai svelato. Uno di questi potrebbe esserci utile."
S'interruppe e sorrise. A quanto poteva capire Kinson, non aveva
intenzione di dire altro. Probabilmente aveva le sue ragioni, oltre
quella di irritare lui, ma Kinson non gliele chiese. Annuì e si alzò.
"Faccio il primo turno di guardia" disse, allontanandosi. Continuò a
riflettere su Bremen e su Cogline fino a mezzanotte, quando il druido
venne a dargli il cambio. Il vecchio comparve dal nulla - nemmeno questa
volta Kinson l'udì arrivare - e si sedette accanto a lui. Si tennero
compagnia per qualche minuto, senza parlare, gli occhi persi nel buio
della notte. Sedevano su un basso affioramento di roccia da cui si
vedeva il fiume Raab snodarsi tra gli alberi, argenteo e placido alla
luce della luna. Il bosco era tranquillo e silenzioso, l'aria profumava
di ginepro e di abete. Il confine della Terrabuia era a ovest, poco
lontano da dov'erano, e l'indomani vi sarebbero penetrati. Laggiù il
terreno era assai più accidentato e la marcia sarebbe stata più lenta.
"Quello che Cogline ci può fornire" disse improvvisamente il vecchio
druido, a bassa voce "è la sua conoscenza dei metalli. Ricordi la
visione? Riguardava un'arma magica capace di distruggere il Signore
degli Inganni. Una spada. La impugnerà in battaglia un uomo che non
conosciamo ancora. La spada ha bisogno di alcune caratteristiche per
resistere al potere di Brona, e una di queste è una tempra che la renda
robusta quanto le migliori spade del passato. Cogline può insegnarci la
tecnica" Guardò Kinson e gli sorrise. "Pensavo che fosse meglio tenere
per noi questa informazione." Kinson annuì, senza rispondere. Abbassò
gli occhi, annuì una seconda volta e si alzò. "Buona notte, Bremen." Si
voltò per allontanarsi. "Kinson?" Il cacciatore della Frontiera si girò.
Bremen aveva di nuovo distolto lo sguardo, fissava il fiume e gli
alberi. "Non sarei tanto sicuro che abbiamo tirato fuori tutti i segreti
e le storie del passato. Mareth è una giovane molto cauta e decisa. Ha i
propri motivi per agire così e li tiene per sé finché non ritiene
prudente rivelarli." S'interruppe per un istante. "Come sai anche tu.
Buona notte." Kinson rimase accanto a lui ancora per un istante, poi si
allontanò. Proseguirono ancora per tre giorni in un territorio così
accidentato che le sole piste erano quelle degli animali. Non videro
altri esseri umani, non trovarono impronte. Il terreno era collinoso,
spezzato da pietraie, affioramenti di rocce e letti asciutti di torrenti
scavati dalle inondazioni primaverili del Fiume Raab: il tutto soffocato
da sterpaglie ed erba alta fino alla cintola. In decine di punti il
fiume era uscito dall'alveo e formava anse e paludi, e i tre viandanti
non potevano più affidarsi al suo corso per orientarsi. Kinson li
condusse lontano dal fiume e dalle sue tracimazioni per entrare nelle
foreste, dove gli alberi riuscivano a bloccare la crescita degli arbusti
del sottobosco e permettevano di avanzare più agevolmente che negli
acquitrini del Raab. Il cielo rimase sereno, e il piccolo gruppo riuscì
a percorrere un discreto tratto ogni giorno. Mentre camminavano, Bremen
rimase accanto a Mareth per parlarle della sua magia e consigliarla. "Ci
sono dei modi di controllarla" spiegò. "La difficoltà sta nel trovare
quelli adatti a ciascuna forma. La magia innata è più complessa di
quella acquisita, perché quest'ultima si impara gradualmente, attraverso
tentativi ed errori. Scopri ciò che funziona e ciò che non funziona,
impari a prevedere gli effetti delle tue azioni e alla fine scopri anche
la causa di ciò che fai. Ma con la magia innata è impossibile. Quella
magia c'è già, nasce con te, fa parte della tua carne e del tuo sangue.
Fa quello che vuole, quando lo vuole e nel modo che vuole, e a te non
resta che cercare di capire come sia successo. "Inoltre il problema di
controllare la magia innata è complicato da altri fattori che
influiscono sul suo manifestarsi. Il tuo carattere può influire sulla
magia. Le tue emozioni. Anche il tuo corpo: il tuo organismo si difende
da tutto ciò che minaccia la tua salute, e questo può influire sulla
magia. Anche le tue opinioni e il tuo modo di ragionare influiscono. La
magia è come un camaleonte. A volte si limita ad arrendersi e a
scomparire, senza infrangere le tue difese o gli ostacoli che metti sul
suo cammino. A volte si accumula e preme per abbatterli, per aprirsi la
strada nonostante tutto quello che fai per fermarla." "Perché si
manifesta sempre con tanta intensità?" chiese Mareth. E Bremen rispose:
"E' ciò che dobbiamo scoprire". Il sesto giorno arrivarono alla Pietra
del Focolare. Era appena passato mezzogiorno, e avevano attraversato una
serie di collinette scoscese che, procedendo, s'innalzavano fino a
formare le Montagne del Corvo. Erano accaldati, avevano male ai piedi e
da quando si erano lasciati alle spalle il Raab, cioè da due giorni, non
si lavavano. Nessuno aveva molta voglia di parlare: dedicavano ogni
energia a raggiungere la loro destinazione prima di notte, come promesso
da Kinson. Nonostante la cattiva reputazione della Terrabuia, non
avevano corso alcun pericolo, e cominciavano addirittura ad annoiarsi di
un viaggio così monotono. Perciò videro con sollievo il pinnacolo
isolato, vagamente a forma di camino luccicante ai raggi del sole, che
sorgeva in fondo alla valle. Uscirono da una macchia di abeti dove
l'ombra era così fitta da costringerli a farsi strada col bastone, e se
lo trovarono dinanzi. Kinson lo indicò, ma Bremen e Mareth l'avevano già
visto e sorridevano. Scesero lungo il pendio, in mezzo a macchie di
fiori selvatici, fino a raggiungere l'ombra dei boschi che coprivano il
fondo valle. In un completo silenzio, attraversarono alte macchie di
querce, olmi, noci, betulle. C'erano gigantesche conifere, vecchie di
centinaia d'anni, ma dominavano le querce. Chiusi fra un soffitto di
fronde e una parete di tronchi, in breve persero di vista la Pietra del
Focolare. Kinson avanzava cercando impronte ma senza trovarne, e
cominciava a chiedersi il perché. Se Cogline abitava nella valle, non
passava mai di lì? Non c'era traccia di esseri umani. C'erano uccelli e
altri piccoli animali ma nient'altro. Attraversarono un ruscello,
passando in mezzo alla nebbiolina proveniente da una cascatella. Kinson
si passò la mano sulla faccia, chiuse gli occhi e si asciugò il sudore
dalla fronte. Batté le palpebre per liberarsi gli occhi dall'umidità e
guardò Bremen e Mareth, che lo seguivano a breve distanza. Provava una
sorta d'inquietudine, ma non riusciva a capirne la fonte. L'istinto di
cacciatore lo avvertiva che c'era qualcosa di stonato, ma nessuno dei
suoi compagni pareva preoccuparsene. Indietreggiò di un passo per
ricongiungersi a loro. "C'è qualcosa che non va..." mormorò. Mareth lo
guardò senza capire, Bremen si strinse nelle spalle. Irritato, Kinson
proseguì. Attraversarono una radura, raggiunsero un filare di abeti e si
spinsero in mezzo alla cortina di rami. All'improvviso, Kinson sentì
odore di fumo, rallentò e si voltò per avvertire gli altri. "Guarda
davanti a te" lo avvertì Bremen accennando a qualcosa che stava dietro
Kinson, e in quell'istante vide Mareth rimanere a bocca aperta. Kinson
si girò di scatto e si trovò faccia a faccia con il più grosso leone di
palude che avesse mai visto. L'animale era a pochi passi di distanza e
lo guardava. Gli occhi, luminosi come lanterne, erano gialli e il muso
nero, ma il manto di un curioso marrone pezzato. Era difficile vedere
felini di quella razza, e si diceva che comparissero davanti alle
persone in punto di morte. In genere si tenevano lontani dall'uomo,
nelle paludi dell'Est, ed erano difficili da scorgere perché si
mimetizzavano con l'ambiente. In genere erano lunghi sei piedi e la loro
testa arrivava al petto di un uomo, ma quello era più lungo della media
e alto almeno una spanna più dei suoi simili. Riusciva quasi a fissare
Kinson negli occhi. Se avesse voluto attaccarlo, l'avrebbe travolto in
un batter d'occhio. "Bremen" disse sottovoce il cacciatore. Dietro di
lui si levò uno strano cinguettio, e il leone piegò la testa come se lo
riconoscesse. Il richiamo si ripeté e Kinson comprese che era Bremen a
emetterlo. Il felino si leccò il muso, emise in risposta un richiamo
simile e si allontanò. Bremen raggiunse l'attonito uomo della Frontiera
e gli posò la mano sulla spalla, per rassicurarlo. "E' il leone di
Cogline" gli spiegò. "Direi che siamo vicini al nostro uomo, non ti
pare?" Uscirono dagli alberi, attraversarono un prato in cui scorreva un
ruscello e girarono attorno a un'enorme quercia bianca. Il leone li
precedeva, in silenzio, senza fretta ma senza rallentare, in apparenza
disinteressato ma tenendoli sempre d'occhio. Kinson rivolse un'occhiata
interrogativa a Mareth, ma lei scosse la testa. A quanto pareva, ne
sapeva quanto lui. Infine raggiunsero un'ampia radura in cui si scorgeva
una piccola capanna di tronchi. La costruzione era semplice e consumata
dalle intemperie, e avrebbe avuto bisogno di riparazioni: le assi delle
pareti si staccavano, gli scuri pendevano dai cardini, le doghe del
piccolo porticato erano rotte e scheggiate. Il tetto era abbastanza
robusto e il camino era intero, ma l'orto che cresceva davanti alla casa
era trascurato da tempo e le erbacce si affollavano speranzose attorno
alle fondamenta della casa. Un uomo li aspettava davanti alla porta, e
Kinson, dalla descrizione di Mareth, riconobbe subito Cogline. Era alto
e leggermente curvo, scarno e alquanto in disordine, con un vestito che
era pressappoco nelle stesse condizioni della capanna. Aveva i capelli
neri, con molte striature grigie, ritti come gli aculei di un
porcospino. Dal mento gli spuntava una barbetta a punta, e dal labbro
superiore gli pendeva un lungo paio di baffi. Aveva il viso coperto di
rughe che segnalavano qualcosa di più del semplice trascorrere del
tempo. Si portò le mani sui fianchi e aspettò che arrivassero a lui,
mentre un ampio sorriso gli si disegnava sul volto. "Guarda, guarda!"
esclamò allegramente. "La fanciulla di Storlock è venuta a trovarmi. Non
pensavo di rivederti. Hai più fegato di quanto credessi. E hai trovato
il maestro di magia, vero? Benvenuto, Bremen di Paranor!" "Felice di
vederti, Cogline" rispose Bremen, tendendogli la mano. L'altro la
strinse per qualche istante. "Hai mandato il tuo leone a salutarci. Come
si chiama? Cambiacolore? Ha fatto fare un tale salto al mio amico, da
togliergli almeno cinque anni di vita." "Ah, ma noi abbiamo il rimedio
anche per quello, e se il tuo amico è Kinson Ravenlock probabilmente lo
conosce già." Salutò il cacciatore della Frontiera con un cenno della
mano. "Il Sonno Magico ti ridarà quegli anni in men che non si dica!"
Piegò la testa in direzione del leone. "Sai a che cosa mi serve, amico
mio?" Quando l'uomo della Frontiera scosse la testa, spiegò: "Ad
allontanare gli ospiti indesiderati, categoria che comprende quasi
tutti. I soli che arrivano qui sono coloro che sanno parlargli. Bremen è
uno di questi, vero, vecchio mio?". Bremen rise. "Vecchio mio? Senti chi
parla!" "Allora, la fanciulla è riuscita a trovarti, eh? Ce ne ha messo
di tempo. Mareth, vero?" Cogline le rivolse un piccolo inchino. "Un bel
nome per una bella giovane. Spero che, turbati dal tuo fascino, quei
Druidi abbiano fatto una brutta fine." Bremen fece un passo avanti. Non
sorrideva più. "La brutta fine se la sono cercata da soli, temo. Meno di
due settimane fa, Cogline. A Paranor sono morti tutti, tranne me e due
altri. Non lo sapevi?" L'altro lo guardò come se fosse impazzito, poi
scosse la testa. "Non sapevo nulla. Del resto, è parecchio tempo che non
lascio la valle. Tutti morti, dici? Ne sei certo?" Bremen infilò la mano
nella veste e ne trasse l'Eilt Druin. Lo tenne sollevato, facendolo
dondolare alla luce. Cogline fece una smorfia. "Vero. Non potresti
averlo se Athabasca fosse vivo. Morti, dici? Per tutte le ombre! Chi è
stato? Lui?" Bremen annuì. Non c'era bisogno di pronunciare il nome.
Cogline scosse di nuovo la testa, incrociò le braccia sul petto,
rabbrividì. "Non avrei mai augurato loro una fine simile. Non pensavo
che potesse succedere. Ma erano degli imbecilli, Bremen, e tu lo sai.
Hanno innalzato un muro, hanno chiuso la porta e si sono scordati del
loro scopo. Ci hanno cacciati via: noi, gli unici con un pizzico di buon
senso, gli unici che capissero l'importanza delle cose. Galaphile si
sarebbe vergognato di loro. Ma morti? Per tutte le ombre!" "Siamo venuti
per parlare di questo" disse Bremen, con tono pacato. L'altro sollevò
immediatamente gli occhi e lo fissò. "Oh, certo. Hai fatto tutta questa
strada per raccontarmi la novità e parlarne con me. Davvero gentile.
Be', noi ci conosciamo, vero? Uno è vecchio, e l'altro ancora di più.
Uno è un rinnegato, l'altro un esiliato. E nessuno dei due ha mai amato
le vie traverse, eh!" Cogline rise: una risata asciutta e priva di
allegria. Guardò a terra per un istante, poi fissò Kinson. "Ehi,
cacciatore, tu l'hai visto, l'altro, venendo qui, con la tua vista così
acuta?" Kinson ebbe un attimo di esitazione. "L'altro cosa?" "Ah, lo
supponevo! L'altro leone, ecco cosa! Non l'hai visto, vero?" Cogline
sbuffò. "Be', la sola cosa che posso dire è che sei fortunato di godere
dell'amicizia di Bremen, perché altrimenti saresti già in qualche
pancia." Rise di nuovo, poi perse interesse e sollevò le braccia. "Be',
venite, venite! Inutile fermarci qui. C'è una pentola sul fuoco. E
suppongo che vorrete anche lavarvi. Altro lavoro per me, non che vi
importi. Ma io sono un buon padrone di casa, vero? Venite!" Brontolando
tra sé, si volse ed entrò nella capanna, seguito dagli ospiti. Si
lavarono e lavarono i loro vestiti, si asciugarono alla meno peggio, si
rivestirono e al tramonto erano seduti a cena. Il cielo era divenuto
arancione e oro, poi rosso porpora e infine aveva assunto un colore tra
l'indaco e l'ametista che aveva fatto rimanere a bocca aperta anche
Kinson. La cena fu migliore di quanto l'uomo della Frontiera si
aspettasse: zuppa di carne e verdure con pane, formaggio e birra fresca.
Mangiarono in fondo alla capanna, e dalle finestre si scorgeva il cielo
notturno con la sua caleidoscopica collezione di stelle. L'illuminazione
era fornita da alcune candele contenenti una sorta di incenso che, a
detta di Cogline, teneva lontano gli insetti. Forse non era una
vanteria, pensò Kinson, perché per tutta la durata del pasto non gli
parve di vedere animaletti volanti. Quando fece buio, i leoni si unirono
a loro, acciambellandosi per terra vicino al tavolo. Come aveva detto
Cogline, ce n'erano due, fratello e sorella. Cambiacolore, il maschio,
era il più grosso ed era quello che avevano incontrato, mentre la
sorella, Filo di Fumo, era più piccola e snella. Cogline disse di averli
trovati quando erano piccoli come gattini, abbandonati nella zona della
Vecchia Palude e destinati a finire preda dei lupi. Erano affamati e
terrorizzati, e così se li era portati a casa. Rise al ricordo. Erano
due mucchietti di pelo, a quell'epoca, ma erano cresciuti abbastanza in
fretta. Non aveva mai fatto niente per convincerli a rimanere: l'avevano
deciso da sé. Probabilmente apprezzavano la sua compagnia, pensava. Il
crepuscolo si addensò e lasciò il posto alla notte, fatta di silenzio e
di brezze leggere. Dopo cena, seduti davanti a un boccale di birra,
Bremen raccontò a Cogline cos'era successo ai Druidi di Paranor. Al
termine del racconto, l'ex druido scosse la testa, disgustato. "Che
imbecilli, dal primo all'ultimo" commentò. "Mi dispiace per loro, non
gli avrei mai augurato una fine simile, ma sono stati pazzi, perché
hanno sprecato le grandi occasioni che Galaphile e i suoi compagni
avevano dato loro nel costituire il Primo Consiglio. Hanno perso di
vista il loro scopo, la loro ragion d'essere. Non posso perdonarglielo."
Si girò a sputare. Filo di Fumo lo guardò e batté gli occhi, stupita.
Cambiacolore non si mosse. Kinson passò lo sguardo su tutti e tre:
l'eremita dai capelli incolti e i suoi leoni addomesticati, e si chiese
quali danni potesse subire la ragione da una lunga permanenza in quella
capanna. "Dopo avere lasciato i Druidi" continuava intanto Bremen "sono
andato al Perno dell'Ade e ho parlato con gli spiriti dei morti." Bevve
un sorso di birra, mentre le rughe della sua fronte sembravano
approfondirsi, a quel ricordo. "Galaphile stesso è uscito a parlarmi.
Gli ho chiesto come distruggere Brona e lui mi ha mostrato quattro
visioni." Le descrisse a una a una. "Quella che mi porta a te è la
visione dell'uomo con la spada." Cogline aggrottò la fronte, e la sua
faccia spigolosa parve chiudersi come un pugno. "E io dovrei aiutarti a
trovare quell'uomo? E io dovrei conoscerlo?" Bremen scosse la testa.
Alla luce delle candele, i suoi capelli grigi sembravano di seta. "Non è
per l'uomo, ma per la spada che mi occorre il tuo aiuto. E' un talismano
che devo fabbricare. Dalla visione ho saputo che l'Eilt Druin dev'essere
incastonato nell'arma così forgiata, essa sarà in grado di sconfiggere
il Signore degli Inganni. Al momento non conosco ancora tutti i
particolari, ma conosco il tipo di arma. E so che occorre prestare molta
attenzione alla sua tempra, perché sia abbastanza forte da vincere la
magia di Brona." "E sei venuto fin qui per chiedermi informazioni?"
domandò Cogline, come se si fosse alzato improvvisamente un velo e la
verità gli fosse stata rivelata. "Nessuno conosce più di te la
metallurgia. La fucinatura della spada dev'essere una fusione di scienza
e magia, perché abbia successo.LO ho la magia - la mia e quella
dell'Eilt Druin - che prenderà parte al processo. Ma ho bisogno delle
tue conoscenze scientifiche. Mi occorre quello che mi può dare soltanto
la scienza: le giuste proporzioni dei metalli, le temperature corrette
del forno a ogni passaggio, la durata esatta delle lavorazioni. Che tipo
di tempra dovrò usare perché il metallo sia abbastanza forte da
resistere a qualsiasi urto?" Cogline sollevò la mano per interromperlo.
"Puoi fermarti qui. Hai già dimenticato il punto più importante. La
magia e la scienza non si sposano mai. Lo sappiamo tutt'e due. Se vuoi
una spada magica, usa la magia. Da me non ti occorre niente." Bremen
scosse la testa. "Dobbiamo fare uno strappo alle regole. La magia non è
sufficiente, questa volta. Occorre anche la scienza del mondo antico.
Brona è un'entità creata dalla magia, e tutte le sue difese sono contro
di essa. Non conosce la scienza, non le attribuisce valore, non se ne
cura. Per lui, come per tanti altri, la scienza è morta e sepolta, è
qualcosa del mondo antico. Ma noi sappiamo che non è così, vero? La
scienza è semplicemente in letargo come un tempo lo era la magia. Oggi
la magia è la favorita, ma questo non significa che la scienza non abbia
posto nel nostro mondo. Potrebbe essere necessaria per forgiare questa
spada. Se potrò usare le migliori tecniche del mondo antico, avrò una
forza di più su cui contare. E quella forza mi occorre. Ci siamo
soltanto io, Kinson, Mareth e altri due, uno dei quali è andato all'Est,
l'altro all'Ovest. Tutto qui. La magia di cui disponiamo è solo una
piccola parte di quella del nemico. Come vincere il Signore degli
Inganni e i suoi servitori, senza un'arma contro cui non abbiano
difesa?" Cogline sbuffò. "Non esiste un'arma simile. Inoltre, non c'è
niente che ti assicuri che un'arma forgiata, in tutto o in parte,
mediante la scienza sia superiore a un'altra forgiata mediante la magia.
Alla stessa stregua si potrebbe sostenere che soltanto la magia può
vincere la magia e che ogni forma di scienza è inutile." "Io non lo
credo." "Credi quello che ti pare" replicò Cogline, ravviandosi con
irritazione i capelli. Storse le labbra. "Mi sono lasciato alle spalle,
molto tempo fa, il mondo e le sue credenze convenzionali. Non ne ho mai
sentito la mancanza." "Ma entrambi ti raggiungeranno, prima o poi, come
accade a tutti. Non spariranno e non si allontaneranno soltanto perché
tu li rifiuti." Bremen lo fissò. "Un giorno, Brona verrà qui, dopo che
avrà finito con coloro che non si sono nascosti. Lo sai." Cogline serrò
la mascella. "E quel giorno se ne pentirà, te lo prometto!" Bremen
attese. Non disse nulla, non mosse obiezioni a quelle parole. Kinson
guardò Mareth; lei ricambiò lo sguardo e non abbassò gli occhi. Il
cacciatore sapeva che la pensava come lui: la presa di posizione di
Cogline era sciocca e vana, e le sue idee erano ridicole. Tuttavia,
neanche Bremen aveva obiettato. Cogline cambiò posizione, a disagio.
"Perché insisti tanto, Bremen? Che ti aspetti da me?LO non voglio
interessarmi dei Druidi!" Bremen annuì, con calma. "E neanche loro di
te. I Druidi sono morti. Di loro non resta più niente. Ci siamo soltanto
noi due, Cogline, due vecchi che sono vissuti più del dovuto, due
schiavi del Sonno Magico.LO comincio a essere stanco, ma non intendo
fermarmi prima di aver fatto il possibile per coloro che non sono
vissuti così a lungo: uomini, donne e bambini delle Razze. Sono loro ad
aver bisogno del nostro aiuto. Dimmi. Pensi che non dobbiamo
interessarci neanche di loro?" Cogline fece per rispondere, poi
s'interruppe. Tutti sapevano già quello che stava per dire e quanto
sarebbero suonate sciocche le sue parole. Serrò le mascelle, frustrato.
Sul suo volto comparve il dubbio. "Che ti costa aiutarci?" insistette
Bremen, con calma. "Se davvero non vuoi aver nulla da spartire con i
Druidi, pensa a quanto ti dico. I Druidi non mi avrebbero aiutato: anzi,
hanno espressamente deciso di non farlo quando ne hanno avuto
l'occasione. Sono stati loro a decidere che l'ordine rimanesse
distaccato e lontano dalla politica delle Razze. E' stata questa scelta
a distruggerli. Adesso la stessa scelta la offro a te. Ed è proprio la
stessa scelta, Cogline, tienilo presente. Isolamento o coinvolgimento.
Quale scegli?" Scese il silenzio: la notte avvolse nella sua calma i due
vecchi, il cacciatore e la giovane donna. I leoni dormivano, e il suono
del loro respiro era il sibilo leggero e regolare del fiato che usciva
dalle narici umide. L'aria sapeva di fumo, di cibo e di foresta. Nella
radura regnava una grande serenità. Era protetta dai boschi della
Terrabuia e non era difficile, pensò Kinson Ravenlock, immaginare che il
mondo esterno non potesse spingersi fin lì. Bremen si sporse verso
Cogline. "Perché pensarci tanto, amico mio? Tutt'e due sappiamo da
sempre qual è la risposta giusta." Cogline sbuffò in segno di derisione,
si ravviò i capelli dalla fronte, guardò nel buio, poi disse irritato:
"C'è un metallo forte come il ferro, ma assai più leggero e flessibile,
meno fragile. In realtà è una lega che veniva usata nel vecchio mondo,
ideata dall'antica scienza. In gran parte è ferro, temprato con il
carbone a un'alta temperatura. Una spada di quella lega sarebbe davvero
formidabile!" Fissò Bremen. "Ma la temperatura necessaria è molto più
alta di quelle che possono raggiungere i nostri fabbri. Per creare
temperature così alte occorrono macchine, e la conoscenza di quelle
macchine è andata persa." "Conosci il procedimento?" chiese Bremen.
Cogline annuì e si toccò la fronte. "Ce l'ho tutto qui. Te lo darò.
Qualsiasi cosa, pur di mandarti per la tua strada e mettere fine a
queste inutili prediche! Comunque, non vedo come possa esserti utile.
Senza un forno che raggiunga la giusta temperatura..." Kinson tornò a
guardare Mareth. La giovane donna lo fissava: i suoi grandi occhi scuri
erano in ombra, sotto il casco di corti capelli neri la sua faccia era
liscia e serena. In quell'istante ebbe l'impressione di poterla quasi
capire, assai più di prima, e questo grazie alla sua espressione aperta
e all'intensità del suo sguardo. Ma inaspettatamente la giovane sorrise,
le sue labbra si arricciarono agli angoli e il suo sguardo si spostò,
per fissare qualcosa che stava alle sue spalle. Quando si voltò da
quella parte, Kinson scorse Cambiacolore che lo osservava. Il muso del
leone era a pochi centimetri dalla sua faccia, gli occhi fosforescenti
lo fissavano come se fosse la cosa più strana che l'animale avesse
visto. Kinson deglutì. Sentiva sulla gota il calore del fiato
dell'animale. Quando si era svegliato? Com'era arrivato così vicino
senza che se ne accorgesse? Fissò ancora per un istante il grosso
felino, poi respirò a fondo e si voltò. "Non penso che tu voglia venire
con noi" diceva intanto Bremen al loro ospite. "Un viaggio di pochi
giorni, il tempo indispensabile per forgiare il talismano?" Cogline
scosse la testa. "Va' a giocare da un'altra parte, Bremen. Ti darò il
procedimento e vi aggiungerò i miei auguri. Se riuscirai ad approfittare
di entrambi, buon per te. Ma il mio posto è qui." Aveva scribacchiato
qualcosa su un pezzo di pergamena che adesso passò al druido. "Il meglio
che la scienza possa offrire" mormorò. "Prendilo." Bremen lo prese e lo
fece sparire nella veste. Cogline raddrizzò la schiena, guardò prima
Kinson poi Mareth. "Tenete d'occhio questo vecchio" li avvertì. Gli si
leggeva in volto una punta d'irritazione, come se avesse scoperto
improvvisamente qualcosa che gli dava fastidio. "Occorre prendersene
cura più di quanto non creda lui stesso. Tu, Cacciatore, hai a
disposizione il suo orecchio, assicurati che ti dia retta quando ce n'è
bisogno. E tu, fanciulla... Mareth, vero? Tu hai molto più del suo
orecchio, non credi?" Nessuno parlò. Kinson volse lo sguardo su Mareth.
Sul viso della giovane non si leggeva alcuna espressione, ma era
improvvisamente impallidita. Cogline la studiò ancora per qualche
istante, senza pietà. "Non fa niente. Basta che lo salvi da se stesso. E
conservalo bene." Poi s'interruppe, come se si fosse accorto di aver
parlato troppo. Mormorò qualcosa che non riuscirono a decifrare, poi si
alzò: un mucchio d'ossa, la caricatura di se stesso. "Passate qui la
notte, poi andatevene" mormorò in tono stanco. Li guardò con attenzione,
come se si aspettasse di trovare qualcosa che non aveva notato in
precedenza, o come se temesse che fossero qualcosa di diverso da quello
che avevano detto. Poi si voltò e si allontanò. "Buona notte" lo
salutarono, mentre si allontanava. Non rispose. Si allontanò da loro,
con decisione, senza guardarsi indietro.
19
Le nubi sfioravano l'ultimo quarto di luna proiettando bizzarre sagome
che volavano sul terreno come uccelli notturni davanti ai Nani che
avanzavano. Era l'ora lenta e profonda che precede l'alba, allorché la
morte sfiora più dappresso gli uomini e i sogni sono gli assoluti
padroni del loro sonno. L'aria era calda e immobile, la notte immersa
nel silenzio. Si aveva l'impressione che tutto rallentasse, che il tempo
avesse perso qualche scatto nel suo meccanico incedere, che la vita si
fosse staccata dall'inesorabile sentiero a lei prescritto e per qualche
momento fosse riuscita a ingannare la morte. I Nani erano usciti dagli
alberi dell'Anar in un'ondata di forme scure che dilagava come un fiume.
Erano parecchie migliaia, scesi dai massicci del Wolfsktaag attraverso
il Passo di Giada, dieci miglia più a nord della zona dov'era accampato
l'esercito del Signore degli Inganni. L'armata dei Troll aveva lasciato
Storlock due giorni prima, e i Nani, anche se ne avevano spiato
attentamente l'avanzata, avevano deciso di rimandare a quel giorno
l'attacco. Passarono dagli ultimi alberi al punto dove le Pianure di
Raab formavano una lunga depressione, accanto a un piccolo fiume
chiamato Nunne. Laggiù l'esercito del Nord aveva stupidamente montato
l'accampamento. In effetti, laggiù avevano acqua, erba e spazio, ma
lasciavano le alture a un eventuale nemico e i fianchi aperti a un
attacco d'infilata. C'erano le sentinelle, ma facilmente eliminabili, e
neanche la presenza dei Messaggeri del Teschio che volavano in cerca di
preda era sufficiente a scoraggiare dei disperati. Risca li fece
nascondere quando furono abbastanza vicini da doverlo fare, e inviò
qualche fantasma di se stesso a sud, oltre il Nunne, per attirare i
cacciatori alati. Poi, quando le nubi celarono del tutto la luna e le
stelle, i Nani si mossero. Percorsero rapidi l'ultimo tratto che li
separava dall'esercito addormentato, uccisero le sentinelle prima che
potessero dare l'allarme, conquistarono le alture a nord e a est del
fiume e attaccarono. Schierati in cima all'altura per mezzo miglio in
entrambe le direzioni, colpirono con archi e fionde Troll, Gnomi e
mostri, salva dopo salva. Imprecando e urlando, l'esercito si destò, gli
uomini corsero a infilarsi l'armatura e a prendere le armi, inciampando
nei corpi dei morti e gettando a terra i feriti. Nella confusione venne
allestita una carica di cavalleria, un contrattacco condannato in
partenza che venne fatto a pezzi mentre si arrampicava sulla salita, non
appena uscito dalla confusione del campo. Un Messaggero del Teschio uscì
dal buio e si lanciò sui Nani per vendicarsi, snudando artigli e zanne:
un predone silenzioso. Ma Risca lo aspettava ed era già pronto ad agire:
quando il Messaggero comparve, lo lasciò scendere fin quasi a terra, poi
lo colpì col Fuoco Magico e lo costrinse a fuggire, ustionato e urlante.
L'attacco fu rapido e contenuto. Il danno inflitto era molto
superficiale e privo di reali conseguenze per un esercito di quella
dimensione, perciò i Nani non persero tempo. Il loro scopo era creare
disordine e allontanare il nemico dalla sua linea di marcia. E in questo
riuscirono perfettamente. Si rifugiarono di nuovo in mezzo agli alberi,
scegliendo la strada più rapida, poi si diressero nuovamente a nord,
verso il Passo di Giada. Il nemico organizzò subito l'inseguimento. La
forza a cavallo che lasciò l'accampamento era imponente, perché non si
era riusciti a stabilire la quantità degli attaccanti. All'alba gli
inseguitori avevano quasi raggiunto i Nani che si avvicinavano al Passo
di Giada. Tutto andava esattamente come nei piani di Risca. "Eccoli"
disse Geften a bassa voce, indicando gli alberi dinanzi al Passo. Sotto
di loro, gli ultimi Nani della forza d'attacco erano entrati nella valle
e si stavano disperdendo tra le rocce sovrastanti, per prendere
posizione accanto ai compagni già schierati, in numero di quattromila.
Dietro di loro, a meno di un miglio, nelle profonde ombre della foresta,
si scorgevano i primi movimenti degli inseguitori. Risca vide il
movimento allargarsi, come le onde generate da un sasso lanciato in uno
stagno. Era un grosso contingente, troppo grande per poter essere
sconfitto in uno scontro frontale, anche se era presente una gran parte
dell'esercito dei Nani. "Quanto manca?" chiese a Geften. L'esploratore
si strinse nelle spalle: un movimento solo accennato, economico come
tutti i suoi gesti e come lui stesso, taciturno e poco appariscente, a
parte la testa stranamente oblunga e i capelli grigi scarmigliati.
"Un'ora, se si fermano a discutere sull'opportunità di entrare nella
gola senza avere un piano." Risca annuì. "Si fermeranno. Sono già stati
scottati due volte, ormai." Sorrise all'esploratore, un veterano delle
guerre contro gli Gnomi. "Tienili d'occhio.LO avverto il re." Lasciò la
posizione e s'infilò tra le rocce, salendo a una quota superiore a
quella da cui Geften sorvegliava i progressi degli inseguitori. Provava
una forte eccitazione, alimentata dalla certezza che una nuova battaglia
era vicina. Lo scontro delle ore precedenti gli aveva soltanto
stuzzicato l'appetito. Aspirò l'aria del mattino e si sentì forte e
pronto. Aveva atteso per tutta la vita quel genere di avvenimenti, si
disse. Tutti gli anni passati a Paranor a esercitarsi nelle arti
marziali, a studiare le tattiche e l'impiego delle armi. Tutto per
un'occasione come quella, per la possibilità di affrontare un nemico in
grado di sfidarlo come nessuno l'aveva mai sfidato a Paranor. Lo faceva
sentire vivo in un modo che non poteva ignorare, e neanche la situazione
disperata riusciva a diminuire la sua eccitazione. Aveva raggiunto i
Nani tre giorni prima e si era recato subito da Raybur. Già avvertito
della presenza dell'esercito del Nord, già certo delle sue intenzioni,
il re aveva ricevuto Risca senza perdere tempo. Il druido si era
limitato a confermare ciò che il sovrano sapeva già e a dare nuovo
impeto alla sua ansia di agire. Raybur era un re guerriero come Risca
era un druido guerriero, un uomo che aveva trascorso l'intera vita in
battaglia. Come Risca, aveva combattuto contro le tribù degli Gnomi
quando era giovane: un episodio dell'eterna lotta dei Nani per evitare
le incursioni degli Gnomi nelle terre dell'Anar meridionale e centrale
che i Nani consideravano proprie fin dall'alba dei tempi. Divenuto re,
Raybur aveva portato avanti la sua causa con un'ostinazione
impressionante. Guidando l'esercito in profondità nell'interno, aveva
respinto gli Gnomi ed esteso il suo territorio fino a raddoppiarlo, fino
a cacciare gli Gnomi così lontano, a nord del Fiume Raab e a est del
Fiume Argento, da non costituire più una minaccia. Per la prima volta da
secoli, tutto il territorio tra i due fiumi era aperto agli insediamenti
dei Nani. Ma adesso era comparso un altro nemico, questa volta sotto
forma di un esercito in avvicinamento. Raybur aveva mobilitato i Nani in
preparazione della battaglia imminente, quella che, lo sapevano tutti,
non avrebbero potuto vincere senza alleati, ma che dovevano combattere
per sopravvivere. Risca aveva detto loro che gli Elfi sarebbero venuti
in aiuto. Bremen l'aveva promesso, e Tay Trefenwyd si era recato
all'Ovest per convincerli. I Nani avevano il compito di bloccare
l'esercito nemico finché non fossero arrivati. Raybur aveva capito.
Conosceva Bremen e Courtann Ballindarroch, sapeva che erano uomini
d'onore. Avrebbero fatto il possibile. Ma il tempo era prezioso, e non
si poteva dare niente per certo. Raybur capiva anche quello. Perciò
Culhaven era stata evacuata: sarebbe stata la prima città attaccata
dall'esercito del Nord, e i Nani non erano in grado di proteggerla da
una forza così preponderante. Donne, vecchi e bambini erano stati
evacuati nelle profondità dell'Anar, dove potevano rimanere nascosti
fino alla conclusione delle ostilità. Intanto, l'esercito dei Nani si
era portato a nord attraverso il Wolfsktaag per affrontare il nemico.
Raybur si voltò verso Risca, quando lo sentì arrivare, e distolse lo
sguardo dai suoi consiglieri, da Wyrik e Fleer, i suoi due figli
maggiori, dalle mappe del territorio e dai piani di guerra. "Arrivano?"
chiese subito. Risca annuì. "Geften controlla la loro avanzata. Ritiene
che abbiamo un'ora prima che attacchino." Raybur annuì e fece segno al
druido di accompagnarlo. Il re era un uomo massiccio, non alto ma
robusto e largo di spalle, con la testa grossa e il naso imponente, la
faccia barbuta e piena di rughe. Il naso a becco e le folte sopracciglia
gli davano un aspetto quasi ferino, ma sotto l'aspetto esteriore c'era
un carattere amichevole, esuberante e facile al riso. Aveva quindici
anni più di Risca, ma era forte quanto lui: in una lotta ad armi pari
sarebbe stato un degno avversario. Tra i due c'era una forte amicizia,
sotto certi aspetti il legame tra loro era più forte di quello con gli
stessi familiari, perché venivano da esperienze comuni e fin dalla
gioventù erano abituati a vivere duramente e a rischiare la vita.
"Ripetimi il tuo piano" ordinò il re, posando il braccio sulla spalla di
Risca e allontanandosi con lui dal gruppo. "Lo sai già" rispose
l'interpellato, sbuffando. Il piano era di tutt'e due, concepito da
Risca e approvato dal re, e anche se ne avevano parlato a grandi linee
con gli altri, i particolari li conoscevano soltanto loro. "Ripetimelo
lo stesso" disse Raybur, con un'occhiata severa. "Obbedisci. Sono il tuo
re." Risca annuì, sorridendo. "I Troll, gli Gnomi e quant'altro si
dirigeranno verso il Passo. Noi cercheremo di bloccarli all'entrata.
Fingeremo di combattere, poi indietreggeremo, apparentemente sconfitti.
Rallenteremo la loro avanzata tra i monti per un giorno ancora, senza
riuscire a fermarli. Intanto, il resto dell'esercito nemico muoverà a
sud, verso il Fiume Argento. I Nani fuggiranno davanti a loro. Il nemico
scoprirà che Culhaven è stata evacuata, che non c'è nessuno a
contrastarlo. Penserà che l'intero esercito dei Nani combatta sul
Wolfsktaag." "La qual cosa non è lontana dal vero" brontolò Raybur. Con
una mano massiccia, si accarezzò la barba. "La qual cosa non è lontana
dal vero" gli fece eco Risca. "Sicuri della vittoria, perché conoscono
queste montagne, s'impadroniranno del Passo del Cappio e aspetteranno
che i loro compagni ci respingano a sud, lungo le valli, fino a cadere
nelle loro braccia. Gli Gnomi hanno assicurato loro che ci sono soltanto
due vie per uscire dalle Montagne del Wolfsktaag: il Passo di Giada a
nord e il Passo del Cappio a sud. Se l'esercito dei Nani venisse
intrappolato fra i due, non avrebbe possibilità di fuga." Raybur annuì,
succhiandosi pensieroso il labbro superiore e le punte dei baffi. "Ma se
dovessero avanzare troppo o troppo in fretta..." "Non lo faranno" lo
interruppe Risca. "Non glielo permetteremo. Inoltre, non saranno
disposti a correre quel rischio. Saranno cauti. Avranno paura di essere
aggirati da noi, se avanzassero troppo in fretta. E' più facile
aspettare che siamo noi ad attaccarli. Aspetteranno finché non ci
vedranno, e allora colpiranno." Giunsero a una sporgenza di roccia e si
sedettero fianco a fianco, guardando lontano, verso l'interno della
montagna. La giornata era luminosa, ma il Wolfsktaag, lontano dal passo
e nelle valli, era ammantato di foschia. "E' un buon piano" disse
Raybur, dopo qualche momento. "E' il migliore che siamo riusciti a
immaginare" lo corresse Risca. "Bremen saprebbe trovare qualcosa di
meglio, se fosse qui." "Arriverà presto" proclamò Raybur, con sicurezza.
"E così gli Elfi. E l'invasore si troverà in una situazione che non gli
piacerà affatto." Risca annuì senza parlare, ma ripensò al suo incontro
con Brona, pochi giorni prima, e alla vastità dei poteri del Signore
degli Inganni, ricordò come l'avesse paralizzato e come fosse quasi
riuscito a prenderlo. Non sarebbe stato facile sconfiggere un simile
mostro, indipendentemente dalla forza inviata contro di lui. Non era una
semplice guerra di uomini e di armi, ma di magia, e i Nani, in quel
genere di guerra, erano chiaramente svantaggiati, a meno che non si
concretizzasse il talismano apparso a Bremen nella visione. Si chiese
dove fosse in quel momento il vecchio druido. E quante, delle sue
quattro visioni, si stessero realizzando. "I Messaggeri del Teschio
cercheranno di spiare le nostre mosse" rifletté Raybur. Risca sporse il
labbro e rifletté. "Cercheranno di farlo, ma il Wolfsktaag non è un
terreno agevole per loro. La cosa, comunque, non farà differenza. Quando
capiranno il nostro piano, per loro sarà troppo tardi." Il re cambiò
posizione per fissare il druido. "verrànno a cercarti" gli disse. "Sanno
che costituisci la principale minaccia per loro: la sola minaccia,
assieme a Bremen e Tay Trefenwyd. Se riuscissero a ucciderti, non
avremmo alcuna magia a difenderci." Risca si strinse nelle spalle e gli
sorrise. "Allora, mio re, cerca di proteggermi bene!" Per lanciare
l'attacco, all'armata del Nord occorse più tempo di quanto ne aveva
preventivato Geften, ma fu più violento del previsto. Il Passo di Giada
era piuttosto ampio, nel punto in cui si apriva sull'Anar orientale, ma
si stringeva bruscamente nel punto in cui si innalzavano le cime gemelle
che davano accesso al Wolfsktaag. Prevedendo che i Nani avrebbero
opposto una tenace resistenza, l'esercito del Signore degli Inganni
gettò nel Passo l'intera sua forza, in modo da sfondare al primo attacco
le linee nemiche. E il piano avrebbe avuto successo, contro difensori
meno preparati. Ma i Nani avevano difeso i passi del Wolfsktaag per
secoli contro le incursioni degli Gnomi, e in un così lungo periodo di
tempo avevano imparato numerosi trucchi. La dimensione dell'esercito del
Nord risultò inutile già in partenza, dato che il passo era stretto e il
terreno accidentato. Invece di contrastare in campo aperto la carica
dell'armata, i Nani la assalirono dalla protezione delle alture. Nel
terreno erano stati scavati fossati e trabocchetti, dall'alto piovevano
sassi e oggetti pieni di punte, oltre a una quantità di frecce e
zagaglie. Al primo attacco morirono centinaia di invasori. I più decisi
erano i Troll, alti e robusti, corazzati contro le frecce; ma erano
lenti e pesanti, e molti finirono nelle buche o vennero schiacciati dai
massi. Però, continuarono ad avanzare. Vennero infine arrestati
all'altro capo del Passo. Raybur aveva fatto costruire un muro di
tronchi dietro un fosso pieno di legna secca, e quando gli uomini del
Nord si avvicinarono, le fece appiccare fuoco. Spinti avanti da coloro
che li seguivano e troppo pesanti per arrampicarsi sui pendii, i Troll
morirono tra le fiamme. Le urla e il puzzo di carne bruciata riempirono
l'aria. L'attacco si arrestò. Il nuovo attacco venne lanciato verso
mezzogiorno, con maggior cautela, ma anche questa volta i nemici vennero
respinti. Attaccarono una terza volta al tramonto e ogni volta i Nani
vennero ricacciati un po' più addentro nel Passo. La difesa era diretta
da Raybur e dai suoi figli, che si erano posti sui due fianchi del
passaggio e arretravano a malincuore ma oculatamente, in modo da non
sprecare più forze del necessario. Raybur comandava il fianco sinistro
della compagnia di Geften, mentre Wyrik e Fleer comandavano il destro.
Risca sceglieva da sé il punto dove intervenire. I Nani combattevano con
coraggio, contro forze almeno tre volte superiori, ed erano tutti
veterani di innumerevoli scontri. Né i cacciatori alati né le creature
dell'Abisso li attaccarono alla luce del giorno, e Risca non dovette
sprecare la sua magia in difesa dei compagni. Dopotutto, il piano non
prevedeva di vincere la battaglia, ma di perderla nel modo più lento
possibile. La notte portò alla sospensione delle ostilità e al ritorno
del silenzio tra le montagne. Con il lento spegnersi della luce, la
nebbia scese dai monti su difensori e attaccanti. Il silenzio coprì
l'intero campo di battaglia e dai monti scese una brezza umida che
accarezzava e stuzzicava. Nel tocco di quella brezza c'erano esseri
viventi, invisibili e privi di forma, ma immancabili come la notte.
Erano le creature del Wolfsktaag, esseri di magia antichi come il tempo
e anelanti come anime umane. I Nani li conoscevano e sapevano
guardarsene, perché erano le avanguardie di altre creature, più grandi e
potenti, di cui non si doveva ascoltare la voce. Sussurravano menzogne e
false promesse, sogni ingannevoli e visioni fallaci, e seguirle era come
invitare la morte. I Nani lo sapevano e questo li proteggeva. Non era
così per gli Gnomi accampati di fronte a loro, che erano terrorizzati da
quelle montagne e dai loro spettrali abitanti. Superstiziosi e pagani,
timorosi di ogni magia e soprattutto di quella che risiedeva laggiù,
avrebbero preferito evitare del tutto il Wolfsktaag, sede di dèi che
esigevano preghiere e di spiriti che pretendevano offerte. Quella terra
era sacra. Ma il potere del Signore degli Inganni e dei suoi tenebrosi
seguaci li terrorizzava ancora di più, perciò avevano stretto i ranghi
con i Troll, più stolidi e meno impressionabili. Però, l'avevano fatto
senza troppa convinzione, e i Nani si prepararono a sfruttare a proprio
vantaggio quelle paure. Come previsto da Risca, l'esercito del Nord
preparò un nuovo attacco nelle ore che precedevano l'alba, quando i
movimenti della truppa si potevano nascondere nell'oscurità e nella
bruma. Giunsero silenziosi, in forze, ammassandosi a fondovalle del
passo e sulle alture, con l'intenzione di spazzare via i Nani con la
sola potenza del numero. Ma Raybur aveva ritirato di un centinaio di
passi il suo fronte difensivo, e tra il vecchio fronte e quello nuovo
aveva disposto grandi cataste di legna verde e foglie, pronte a prendere
fuoco. Sul fondovalle del passo, fra le cataste di legna, aveva
preparato nuove trincee e nuove barricate, a intervalli regolari. Quando
le avanguardie del Nord raggiunsero il previsto fronte, trovarono la
posizione sguarnita. Che i Nani avessero abbandonato il Passo? Che
fossero tornati indietro, protetti dal buio? Si fermarono, confusi ed
esitanti, e continuarono a girare in tondo mentre i generali decidevano.
Infine, ripresero l'avanzata. Ma ormai i Nani erano pronti. Risca usò la
magia per accendere le cataste che punteggiavano i pendii e il
fondovalle, e all'improvviso gli uomini del Nord si trovarono avvolti da
una cortina di fumo che li accecava e li soffocava. Con gli occhi che
lacrimavano e la gola gonfia, proseguirono ostinatamente. A quel punto,
Risca mandò gli spettri. Alcuni li creò con la magia, altri li attirò
dalla nebbia, e li mandò tutti nel fumo, a creare confusione. Esseri di
zanne e artigli, di occhi neri e fauci rosse, di paure vere e
immaginarie, gli spettri calarono sui boccheggianti, semiaccecati
soldati del Nord. Gli Gnomi impazzirono e si misero a urlare per il
terrore. Nulla e nessuno sarebbero riusciti a trattenerli. Ruppero i
ranghi e fuggirono. A quel punto i Nani attaccarono con frecce,
giavellotti e sassi, colpendo il cuore della forza che li assaliva e
ricacciandola indietro. Gli invasori vennero bloccati e costretti a
indietreggiare, lasciando il campo coperto di caduti. All'alba il passo
era ancora in mano ai Nani. L'esercito del Nord attaccò di nuovo
l'indomani, deciso a passare. Le sue perdite erano spaventose, ma anche
i Nani perdevano uomini, e non avevano vite da sprecare. Nel primo
pomeriggio, Raybur cominciò a preparare la ritirata. Resistere per due
giorni contro un esercito così grande era sufficiente. Era tempo di
ritirarsi un po', per indurre i nemici ad avanzare. Attesero fino al
tramonto, finché l'oscurità non fu nuovamente scesa. Poi accesero
un'ultima pira di legna verde, in modo che il fumo nascondesse i loro
movimenti, e scivolarono via. Risca rimase alla retroguardia per
assicurarsi che non li seguissero troppo da vicino. Con un piccolo
drappello di Cacciatori dei Nani difese da un attacco il punto più
stretto del Passo prima di riunirsi agli altri. Una volta si mostrò un
Messaggero del Teschio, e cercò di infilarsi sotto il fumo e la nebbia,
ma il druido contrattaccò col Fuoco Magico e lo costrinse ad
allontanarsi. Marciarono per tutta la notte, addentrandosi nelle
montagne. Li guidava Geften, che conosceva tutti i canaloni e le
pietraie, le cime e i dirupi, e sapeva dove andare e come arrivarci.
Evitarono i passaggi bui e stretti dove abitavano i mostri, le entità
sopravvissute dai tempi più antichi che davano esca alle superstizioni
degli Gnomi. Ove possibile, si tennero nei luoghi alti e aperti, perché
l'oscurità e la nebbia erano sufficienti a celarli agli inseguitori.
Anche l'esercito del Nord aveva i suoi esploratori, ma erano Gnomi, che
laggiù si sarebbero mossi con cautela. Gli uomini di Raybur, invece,
marciavano in fretta e con decisione. Prima o poi l'esercito del Nord li
avrebbe raggiunti, certo, ma su un terreno scelto da loro. Il giorno
seguente, dopo che i Nani si furono fermati per riposare qualche ora
dopo l'alba ed ebbero ripreso la marcia, vennero raggiunti da una
staffetta proveniente dalla esigua forza che difendeva il Passo del
Cappio, all'estremità sud delle montagne. Riferì che il resto
dell'esercito del Signore degli Inganni era arrivato laggiù, aveva
lasciato le Pianure di Raab per montare il campo. Al tramonto avrebbe
certamente attaccato. I Nani potevano tenere il Passo almeno un giorno,
prima di cedere. Raybur fissò Risca e sorrise. Un giorno era
sufficiente. Si lasciarono raggiungere dall'armata del Nord che scendeva
dal Passo di Giada quel pomeriggio, quando il sole era già calato dietro
i monti e la nebbia cominciava a insinuarsi nel fondovalle dalle cime,
come viticci alla ricerca di luce. Attesero in un canalone i cui argini
si levavano a perpendicolo in mezzo a un dedalo di massi giganteschi e
di crepacci insidiosi, e attaccarono quando il nemico iniziò a uscire da
quella conca naturale. Tennero le posizioni per il tempo sufficiente a
fermare l'avanzata, poi si ritirarono ancora una volta. Intanto era
scesa l'oscurità e gli inseguitori furono costretti a fermarsi per la
notte, senza poter restituire il colpo. All'alba, i Nani erano spariti.
I soldati del Nord si lanciarono avanti, impazienti di metter fine a
quel gioco del gatto e del topo. Ma i Nani li sorpresero ancora una
volta, a mezzogiorno, attirandoli in una valle cieca e poi colpendoli ai
fianchi, dov'erano indifesi, mentre cercavano di ritirarsi. Prima che
l'esercito del Signore degli Inganni si fosse ripreso, i Nani erano di
nuovo spariti. Per tutto il giorno continuò così, con una serie di mordi
e fuggi, di attacchi e ritirate, e la forza più piccola continuò a
stuzzicare e umiliare quella più grande. Ma il limitare meridionale
delle montagne si stava avvicinando e i soldati del Nord, furiosi per
non essere riusciti a costringere i Nani alla battaglia decisiva,
cominciarono a rincuorarsi al pensiero che ben presto la loro preda
sarebbe rimasta a corto di nascondigli. La lotta era diventata molto
seria. Un solo passo falso, e per i Nani non ci sarebbe stato scampo. Le
staffette correvano avanti e indietro tra coloro che attaccavano il
nemico proveniente dal Nord e coloro che, a sud, difendevano il Passo
del Cappio. La scelta del momento era importante. A sud, il nemico
impegnava tutte le sue forze per impadronirsi del Passo del Cappio, ma i
Nani reggevano bene. Quel Passo era più facile da difendere e più
difficile da conquistare, indipendentemente dalle forze in campo. Ma i
Nani l'avrebbero abbandonato all'alba e si sarebbero ritirati pian
piano, intenzionalmente, facendo credere all'esercito del Nord di avere
vinto. I soldati del Signore degli Inganni si sarebbero impadroniti del
passo e poi avrebbero atteso che i compagni spingessero contro le loro
lance i Nani, numericamente inferiori e chiusi in quella specie di
tenaglia. Giunse l'alba, e mentre una delle forze di Brona prendeva
possesso del Passo del Cappio, l'altra proseguiva senza sosta verso sud.
Ai Nani, presi tra le due, non rimaneva via di fuga. Per tutto il giorno
l'armata di Raybur aveva lottato allo scopo di rallentare l'avanzata del
nemico. Il re dei Nani aveva usato tutte le tattiche messe a punto in
trent'anni di lotta contro gli Gnomi, colpendo gli invasori quando se ne
presentava l'occasione, creandola quando non si presentava. Aveva diviso
la sua forza in tre parti, affidando ai suoi generali il comando della
più grande, perché fornisse al nemico un ovvio bersaglio da inseguire.
Le due compagnie più piccole, una comandata da lui, l'altra dal suo
primogenito Wyrik, erano divenute la tenaglia che aveva torturato senza
sosta l'armata del Nord. Lavorando all'unisono, attiravano il nemico
prima da un lato poi dall'altro. Quando l'uno costringeva il nemico a
scoprirsi il fianco, l'altro era pronto ad attaccare. Inafferrabili e
follemente irritanti, i Nani colpivano i nemici a proprio piacimento,
senza lasciarsi mai attirare in campo aperto. Al cader della notte erano
esausti. Peggio, i Nani provenienti da nord erano arrivati a ridosso di
quelli che risalivano da sud. I due gruppi si unirono e si fusero, dopo
essersi ritirati il più possibile, e all'improvviso non ebbero più
spazio di manovra. La notte e la foschia li proteggevano a sufficienza
da consigliare di rimandare al mattino seguente qualsiasi iniziativa, ma
la caccia continuò, soprattutto perché i soldati del Nord erano troppo
incolleriti e frustrati per attendere ancora. Il Passo del Cappio era a
poche miglia di distanza. I Nani erano intrappolati, privi di vie di
fuga, e adesso, finalmente, i soldati del Signore degli Inganni erano
certi che la superiorità numerica avrebbe dato loro la vittoria per
troppo tempo rimandata. Quando scese la notte e la foschia si addensò
sul fondo della valle in cui i Nani si erano ritirati, Raybur inviò
alcuni esploratori per segnalare l'avvicinarsi del nemico. Non c'era più
tempo, si doveva agire in fretta. Venne chiamato Geften e i primi
difensori si prepararono alla fuga che era stata programmata fin
dall'inizio. Doveva aver luogo con il favore delle tenebre e per la
mezzanotte essere finita. Costituiva l'apogeo del piano concepito dal re
e da Risca non appena il druido era ritornato da Paranor, un piano
basato su conoscenze possedute soltanto dai Nani. Infatti, sconosciuta a
tutti tranne che a loro, c'era una terza via d'uscita dalle montagne.
Nei pressi del luogo dove si trovavano, a poca distanza dal più
accessibile Passo del Cappio, una tortuosa serie di gallerie, crepacci e
cenge attraversava il Wolfsktaag e portava a est, nelle foreste
dell'Anar centrale. Era stato Geften a scoprire quel passaggio nascosto,
a esplorarlo con un manipolo di fidi e a riferirne a Raybur, circa otto
anni prima. La sua esistenza era stata gelosamente custodita. Da allora,
un limitato numero di Nani l'aveva percorso per controllare che fosse
agibile e impararne la topografia, ma nessun altro ne era stato messo a
conoscenza. Risca ne era stato informato da Raybur in occasione di una
visita, alcuni anni prima, perché il re dei Nani aveva voluto
condividere il segreto con il solo dei suoi uomini che gli fosse caro
come un figlio. Risca se n'era ricordato quando l'esercito nemico si era
diretto a est, e aveva concepito il piano. Ora i Nani lo attuarono.
Lentamente cominciarono a ridurre il proprio numero, allontanandosi in
una lunga fila sul percorso meticolosamente predisposto da Geften.
L'esercito del Nord si avvicinò e gli esploratori corsero a riferirlo.
Tuttavia, restava da portare a compimento la parte più pericolosa del
piano. Occorreva bloccare gli uomini di Brona finché i Nani non si
fossero messi in salvo. Accompagnato da Risca, Raybur prese con sé un
piccolo gruppo di venti volontàri e si diresse a nord. Si nascosero in
un ammasso di rocce da cui si dominava il Passo e quando comparve
l'avanguardia dell'esercito del Nord, attaccarono. Fu una breve
scaramuccia, che mirava solo a confondere il nemico, perché i Nani erano
estremamente inferiori di numero. Si servirono degli archi, dalla
protezione delle rocce, e scoccarono il numero di frecce necessario a
richiamare su di sé l'attenzione prima di fuggire. Eppure, anche così,
la fuga non fu facile. I soldati del Nord li inseguirono come furie. Il
terreno roccioso era ingannevole, al buio: era una distesa di pietre
taglienti e profondi crepacci, e la luce era scarsa, come sempre nel
Wolfsktaag. La nebbia scesa al tramonto ricopriva il fondovalle. I Nani
avevano una maggiore familiarità con il terreno, perciò riuscirono ad
attraversare in fretta quel labirinto, ma i soldati del Nord erano
dappertutto, brulicavano in mezzo alle rocce. Alcuni dei difensori
vennero raggiunti. Altri presero la direzione sbagliata. Gli uni e gli
altri furono uccisi. La lotta fu feroce. Risca usò la magia, colpendo
col Fuoco Magico gli inseguitori, e riuscì a ricacciarli indietro. Ma
alcune delle mostruosità venute dai mondi sotterranei comparvero dietro
di loro, e inseguirono i Nani in fuga, cosicché Risca fu costretto a
fermarsi per respingerli. E per poco non riuscirono a prenderlo. I
nemici si gettarono su di lui da tre direzioni, attirati dal chiarore
del Fuoco Magico. Volarono armi, creature di tenebra si scagliarono
contro di lui cercando di gettarlo a terra. Risca lottò con furia ed
esaltazione, perché in quel momento si sentiva più vivo che mai, un
guerriero nel suo elemento naturale. Era forte e veloce, per nulla
disposto a farsi sopraffare. Ricacciò indietro gli assalitori, rintuzzò
i loro colpi, usò la magia per celare i suoi movimenti, e sfuggì alla
trappola. Poco dopo era giunto alla fine del labirinto e si trovava
dietro gli ultimi Nani. Il loro numero si era dimezzato, e i superstiti
erano esausti e insanguinati. Raybur aspettò che Risca lo raggiungesse:
era serio in volto e coperto di sudore. Una lama della sua doppia ascia
da battaglia si era spezzata. "Ci sarà da correre" commentò, avviandosi.
"Li abbiamo addosso." Risca annuì. Dalle rocce sotto di loro arrivavano
frecce e giavellotti. Si arrampicarono sul pendio, negli orecchi le
grida dei soldati del Nord. Un altro nano cadde, con una freccia nella
gola. Dei venti che erano partiti per la missione, ne rimanevano meno
della metà. Risca avvertì un fruscio in alto e si girò a scagliare una
palla di fuoco contro un Messaggero, che si affrettò ad allontanarsi. La
nebbia stava infittendo. Se fossero riusciti a distanziare gli
inseguitori ancora per qualche minuto, avrebbero fatto perdere le loro
tracce. E così fu, anche se dovettero correre fino allo stremo e oltre,
quando a sorreggerli rimase solo la volontà. Otto in tutto, gli ultimi
Nani raggiunsero il luogo di raduno convenuto, dove adesso rimaneva il
solo Geften. Senza parlare, si affrettarono a seguire l'ansioso
esploratore, che li guidò fra i monti retrostanti. Alle loro spalle, i
soldati del Nord irruppero nella valle, spezzando i rami degli alberi e
sradicando gli arbusti, gridando per la rabbia. Pensavano che i Nani
fossero nascosti e intrappolati in qualche punto vicino a loro. Presto
li avrebbero trovati. La caccia proseguì in direzione sud, verso il
Passo del Cappio. Con un po' di fortuna, pensò Risca, le due parti
dell'esercito del Signore degli Inganni sarebbero finite l'una contro
l'altra, nella nebbia e nel buio, e ciascuna avrebbe creduto di aver
stanato il nemico. Con un po' di fortuna, ciascuna avrebbe ucciso un
buon numero degli appartenenti all'altra prima di accorgersi
dell'errore. S'infilò tra i massi dove iniziava il passaggio. Lì i
soldati del Nord non li avrebbero seguiti, soprattutto con quel buio, e
all'alba i Nani avrebbero ormai oltrepassato il punto dove si potevano
scoprire le loro tracce. Raybur aspettò che Risca lo raggiungesse, poi
gli batté la mano sulla spalla a mo' di congratulazioni. Il druido gli
sorrise, ma nei suoi pensieri non c'era né gioia né calore. Conosceva la
forza dell'esercito che dava loro la caccia. Conosceva la natura
dell'entità che lo comandava. Certo, questa volta i Nani erano riusciti
a fuggire. Ingannando i soldati del Nord, li avevano spinti a una lunga
e inutile caccia, che aveva ritardato la loro avanzata, ed erano
sopravvissuti per combattere un altro giorno. Ma quel giorno ci sarebbe
stata la resa dei conti. E, temeva Risca, sarebbe giunto troppo presto.
20
Ad Arborlon pioveva e la città era ammantata da una coltre di foschia e
di grigio. Erano le prime ore del pomeriggio. La pioggia era iniziata
all'alba e dopo nove ore non accennava a smettere. Jerle Shannara la
osservava dall'interno del padiglione estivo del re, suo attuale
rifugio, per non dire nascondiglio. La guardava cadere sui vetri, sui
marciapiedi sulle centinaia di pozzanghere che si erano già formate.
Colpiva gli alberi e li trasformava, facendone diventare neri i tronchi,
lucide le foglie. Gli pareva, nel suo sconforto, che continuando a
guardarla si sarebbe trasformato anche lui in qualcosa di diverso. Il
suo umore era pessimo. Lo era fin dal suo ritorno in città, tre giorni
prima. Era rientrato con i resti della spedizione: Preia Starle, Vree
Erreden e i cacciatori Obann e Rusk. Aveva riportato la Pietra Nera e il
corpo di Tay Trefenwyd. Non aveva portato gioia e non ne aveva trovata
ad aspettarlo. Durate la sua assenza, Courtann Ballindarroch era morto
per le ferite. Il figlio Alyten era salito al trono e il suo primo
ordine era stato quello di organizzare una spedizione per cercare gli
assassini del padre. Follia pura. Ma nessuno l'aveva fermato. Jerle era
rimasto disgustato. Era stata l'azione di uno stupido, e temeva che agli
Elfi fosse toccato in eredità uno stupido come re. O quello, o erano
privi di sovrano. Infatti, Alyten Ballindarroch era partito da Arborlon
una settimana addietro e da allora non aveva più fatto avere notizie. In
silenzio continuò a fissare la pioggia, la distanza tra una goccia e
l'altra, il grigiore, il nulla. Il suo sguardo era vuoto. Anche il
padiglione d'estate era vuoto: c'era soltanto lui, con i suoi pensieri.
Una brutta compagnia per chiunque. I suoi pensieri lo ossessionavano. La
perdita di Tay era sconvolgente, più dolorosa di quanto avrebbe mai
immaginato, più profonda di quanto fosse disposto ad ammettere. Tay
Trefenwyd era sempre stato il suo migliore amico: indipendentemente
dalle scelte che avevano fatto, dalla loro separazione, dagli eventi che
avevano trasformato la loro vita, quell'amicizia non era mai cessata.
Che Tay fosse divenuto un druido e lui capitano delle Guardie Reali e
poi consigliere del re non aveva cambiato la situazione. Quando Tay era
tornato da Paranor e Jerle l'aveva visto sulla strada per Arborlon, gli
era parso che fossero passati pochi istanti dall'ultima volta che si
erano visti, come se il tempo fosse privo di significato. Ora Tay era
morto, aveva dato la vita per salvare i compagni e per portare la Pietra
Nera ad Arborlon. La Pietra Nera. L'arma omicida. Jerle Shannara venne
preso dall'ira quando pensò al maledetto talismano. Il prezzo della
Pietra era la vita del suo amico, e non aveva la minima idea del suo
impiego. A che cosa serviva? E valeva la vita del suo amico? Non aveva
risposte. Aveva fatto il suo dovere. Aveva portato la Pietra ad Arborlon
impedendole di cadere nelle mani del Signore degli Inganni, e per tutto
il viaggio aveva pensato che sarebbe stato meglio liberarsene gettandola
nel più profondo crepaccio. Se fosse stato solo, Jerle Shannara
l'avrebbe fatto, tanto forti erano la collera e la frustrazione per la
perdita di Tay. Ma Preia e Vree Erreden erano con lui e la custodia
della Pietra era stata affidata anche a loro. Perciò l'aveva portata ad
Arborlon come Tay aveva chiesto, con l'intenzione di liberarsene al suo
arrivo. Ma il destino l'aveva beffato anche in quello. Courtann
Ballindarroch era morto e il suo successore era partito per un'impresa
assurda. A chi consegnare, allora, la Pietra Nera? Non al Gran
Consiglio, che era un mucchio di vecchi perditempo, incapaci di prendere
decisioni e preoccupati soltanto di difendere le loro prerogative,
adesso che Courtann era morto. Non ad Alyten, che del resto era assente:
la Pietra Nera non era per lui. A Bremen, allora, ma il druido non era
ancora arrivato ad Arborlon, ammesso e non concesso che mai vi
arrivasse. Perciò, consigliato da Preia e con l'approvazione di Vree
Erreden - i soli che poteva consultare sull'argomento - aveva nascosto
la Pietra nelle profondità dei sotterranei del palazzo, dove nessuno
avrebbe potuto recuperarla senza il suo consenso e dove sarebbe rimasta
lontana da occhi indiscreti e dalle tentazioni di usarne i segreti.
Tutt'e tre conoscevano di persona il pericolo che essa rappresentava,
avevano visto la potenza della sua magia. In un batter d'occhio, aveva
divorato decine di creature, umane e non. E Tay Trefenwyd, nonostante la
protezione della magia dei Druidi, era stato distrutto dalla reazione.
Un simile potere era una maledizione contro ogni forma di vita, era
cieco e malvagio e doveva venire rigorosamente isolato. Spero che
valesse la tua vita, Tay, pensò Jerle Shannara, cupo. Ma io non riesco a
crederlo. La pioggia aveva raffreddato la temperatura, e Jerle andò ad
aggiungere legna al fuoco del caminetto. Guardò le fiamme alzarsi e
ripensò ai capricci del destino, a tutto quello che aveva perduto nelle
poche settimane precedenti. Quelle perdite erano servite a qualcosa?
Scosse la testa e si passò la mano fra i capelli biondi. Le riflessioni
filosofiche finivano sempre per confonderlo: era un uomo d'azione, un
guerriero, e in simili occasioni sentiva la mancanza di un nemico da
abbattere, di un posto dove colpire con la spada... Il giorno del suo
ritorno si era recato dai genitori di Tay e da Kira ad annunciare la
morte dell'amico. Non era disposto a lasciare ad altri quel compito. I
genitori, vecchi e un po' leggeri di testa, avevano accettato
stoicamente la notizia, con qualche lacrima perché, adesso che la loro
fine era vicina, avevano ormai accettato l'idea che la morte fosse
capricciosa nelle sue scelte, oltre che inevitabile. Ma Kira era rimasta
sconvolta, era scoppiata in pianto e si era disperatamente stretta a
Jerle, cercando la forza che lui non era in grado di darle. E Jerle
nello stringerlo, singhiozzante e piangente, aveva capito di averla
persa esattamente come il fratello: il dolore per Tay era il solo
sentimento che potevano condividere. Si allontanò dal caminetto e tornò
alla finestra. Il tempo passò, la giornata proseguì grigia e umida,
senza portargli alcuna speranza. Poi qualcuno aprì la porta e la
richiuse, si tolse il mantello e lo appese. Preia Starle entrò nella
stanza. Aveva le mani e la faccia bagnati, sulla pelle abbronzata si
scorgevano ancora i segni della spedizione. Si ravviò i capelli color
cannella scuotendoli per liberarli dalla pioggia, e guardò Jerle. Gli
occhi color miele scuro lo studiarono, sorpresi di ciò che vedevano.
"Vogliono farti re" disse tranquillamente. Jerle la fissò stupito.
"Chi?". "Tutti. Il Gran Consiglio, i consiglieri del re, la gente per
strada, le Guardie Reali, l'esercito, tutti." Gli rivolse un debole
sorriso. "Sei la loro unica speranza, dicono. Alyten è troppo
inaffidabile, troppo irruento per regnare. Non ha esperienza. Non ha
particolari capacità. Il fatto che sia già re non ha importanza, perché
non lo vogliono." "Ci sono i due nipoti sopravvissuti! E loro?" "Due
bambini, a malapena in grado di camminare. E poi la gente non vuole
bambini sul trono. Vuole te!" Jerle scosse la testa, incredulo. "Non
hanno il diritto di decidere. Nessuno ce l'ha." "Tu sì" rispose lei. Gli
si avvicinò, flessuosa come un gatto, tutta grazia ed efficienza. Jerle
si meravigliò per l'eleganza con cui si muoveva, per la sua calma. Era
ammirato dalla grande forza che mostrava anche ora, con tutto quello che
era successo. Per qualche momento, lei si massaggiò le mani, scaldandole
al fuoco; poi rimase a fissare le fiamme. "Ho sentito la sua voce, oggi"
disse. "In strada. La voce di Tay. Mi chiamava, pronunciava il mio nome.
L'ho sentità con chiarezza. Mi sono girata, e desideravo tanto vederlo
che mi sono scontrata con un uomo. L'ho spinto di lato, senza ascoltare
le sue proteste, perché cercavo Tay." Scosse adagio la testa. "Non
c'era. Mi ero immaginata tutto." Lo disse con un filo di voce. Non si
girò verso Jerle. "Io non riesco ancora a rendermi conto che è morto"
disse lui, dopo un momento. "Continuo a pensare che mi sono sbagliato,
che è là fuori ed entrerà da un momento all'altro." Alzò la testa e
fissò le ombre davanti alla porta. "Non voglio essere re. Voglio che Tay
ritorni a vivere. Che tutto torni come prima." Preia annuì, senza
parlare, e continuò per qualche momento a guardare il fuoco. Si udiva
soltanto il tamburellare della pioggia contro il tetto e le finestre, e
il sibilo del vento. Poi Preia si girò verso Jerle e lo raggiunse. Lo
fissò, con uno sguardo carico di emozioni che lui non riuscì a
interpretare bene. "Mi ami?" gli chiese, senza mezzi termini. Jerle
rimase così sorpreso dalla domanda, che lo aveva colto con la guardia
abbassata, che non riuscì a darle una risposta. La fissò a bocca aperta.
Preia sorrise. Poi, con gli occhi lucidi, riprese la parola. "Lo sapevi
che Tay era innamorato di me?" Jerle scosse lentamente la testa,
sorpreso. "No." "Lo è sempre stato" continuò Preia. S'interruppe, poi
riprese: "Proprio come tu lo sei di Kira". Alzò una mano e gli appoggiò
il dito sulle labbra per farlo tacere. "No, lasciami finire. Sono cose
che vanno dette. Tay era innamorato di me, ma non avrebbe mai fatto
niente per conquistarmi. Non ne parlava neppure. La sua amicizia per te
era troppo forte. Sapeva che mi ero promessa a te, e anche se non era
certo dei tuoi sentimenti, non voleva interferire. Pensava che tu mi
amassi e che mi avresti sposata, e non voleva mettere a repentaglio la
sua amicizia con tutti e due. Sapeva di Kira, ma sapeva che non era
fatta per te... anche se tu non ci credevi". Ora piangeva, ma non si
asciugò le lacrime. "Quello era un lato di Tay Trefenwyd che tu non hai
mai visto. E non l'hai visto perché non guardavi. Tay aveva una
personalità complessa, proprio come te. Nessuno di voi capiva l'altro
così chiaramente come credeva, ciascuno era l'ombra dell'altro, ma sotto
certi aspetti eravate diversissimi, come lo spirito lo è dalla carne. Io
conoscevo quelle differenze. Le ho sempre conosciute." Deglutì. "Adesso
devi affrontare anche tu la situazione. Devi imparare a vivere anche se
la tua ombra è morta. Tay non c'è più, Jerle. Restiamo noi. Che cosa
faremo? Dobbiamo deciderlo. Tay mi amava, ma è morto. Mi ami anche tu?
Mi ami quanto mi amava lui? O tra noi ci sarà sempre Kira?" "Kira è
sposata" disse Jerle piano, con la voce incrinata. "Kira è viva. La vita
nutre la speranza. Se la desiderassi con sufficiente forza, forse
potresti trovare il modo di averla. Ma non puoi averci tutt'e due.LO ho
perso uno dei due uomini importanti della mia vita. L'ho perso senza
avere il tempo di parlargli come adesso parlo a te. Non permetterò che
succeda una seconda volta." S'interruppe, perché ciò che stava per dire
la metteva a disagio, ma non distolse lo sguardo. "Ti voglio dire una
cosa. Se Tay mi avesse chiesto di scegliere tra voi, forse avrei scelto
lui." Scese un lungo silenzio, mentre continuavano a fissarsi negli
occhi. Si udiva soltanto la pioggia battere e il fuoco scoppiettare. Con
l'avvicinarsi della sera, nella stanza si stava facendo buio. "Non
voglio perderti" disse piano Jerle. Preia non ripose. Voleva qualcosa di
più. "Una volta ero innamorato di Kira" ammise lui. "E penso di volerle
ancora bene. Ma non è come allora. So di averla perduta, e non piango
più la sua perdita. Da anni, ormai. Penso ancora a lei con nostalgia,
quando mi tornano in mente Tay e la nostra infanzia. Lei era parte di
ciò e sarebbe sciocco negarlo." Trasse un profondo respiro. "Mi hai
chiesto se ti amo. Sì, ti amo. Non ho mai riflettuto su questo aspetto
del nostro rapporto... l'ho sempre accettato. Forse pensavo che tu ci
saresti sempre stata, perciò non sono mai andato oltre, nelle mie
riflessioni, perché non mi pareva necessario. Perché farsi domande su
una cosa che è ovvia? Ma mi sbagliavo, e adesso lo capisco. Ti ho sempre
data come acquisita, per me, anche se non me ne rendevo conto. Pensavo
che la vita che facevamo insieme fosse sufficiente. Non pensavo che
potesse cambiare. "Ma ho perso Tay e con lui una parte importante di me.
Ho perso la guida e la direzione. Sono arrivato alla fine di una strada
e non so da che parte girare. Quando mi chiedi se ti amo, mi domando se
l'amore per te non sia la sola cosa che ho. Non è una cosa piccola, una
consolazione per il dolore. E' molto di più. E' la sola realtà, la sola
verità che possiedo. E significa per me più di qualsiasi altra cosa. Tay
me l'ha fatto capire con la sua morte. Ho dovuto pagare un prezzo molto
alto per capirlo." Le appoggiò gentilmente le mani sulle spalle. "Ti
amo, Preia." "Davvero?" chiese lei, piano. Queste parole creavano una
grande distanza tra loro. Jerle la guardò, senza sapere cosa dire. "Sì,
Preia" rispose infine. "Sei la persona che amo più di qualsiasi altra.
Non so cosa aggiungere. Forse questo: spero che tu mi ami ancora." Preia
non rispose, ma continuò a fissarlo negli occhi. Non piangeva più, ma
aveva gli occhi gonfi e le gote umide. Poi gli rivolse un debole
sorriso. "Non ho mai cessato di amarti" sussurrò. Fece un passo avanti,
fra le sue braccia, e lasciò che la stringesse. Dopo qualche istante, lo
abbracciò a sua volta. Sedevano accanto al fuoco quando Vree Erreden
fece la sua comparsa, qualche ora più tardi. Era già buio, la pioggia si
era ridotta d'intensità ma continuava a cadere sui boschi già intrisi
d'acqua. Sulla città era sceso il silenzio. Qua e là, attraverso i rami
appesantiti dalla pioggia, si scorgeva qualche luce, alla finestra delle
case vicine. Il palazzo era al momento disabitato, in attesa che le
riparazioni terminassero, e solo nel padiglione d'estate c'era un
occupante. Tuttavia, la Guardia Reale vigilava su Jerle Shannara, che
oltre a essere uno dei suoi, apparteneva alla famiglia reale e, a dare
retta alle voci, era un possibile re. Le guardie fermarono Vree Erreden
tre volte prima che riuscisse ad arrivare alla porta del padiglione, e
lo lasciarono proseguire soltanto perché Jerle aveva ordinato di farlo
passare in qualsiasi momento. Era strano come fosse cambiato il loro
rapporto. Non avevano niente in comune, e la morte di Tay avrebbe potuto
metter fine a ogni pretesa di amicizia tra loro, perché era stato il
druido a unirli per la spedizione. Morto Tay, ciascuno avrebbe potuto
riprendere la propria strada. Ma non era stato così. Forse avevano
pensato di doverlo fare per Tay, forse erano stati i terribili eventi
del viaggio a unirli. Tay si era sacrificato per loro, ed essi avevano
lasciato da parte le loro divergenze. Durante il viaggio di ritorno
avevano parlato di molte cose: di Tay e dell'importanza da lui
attribuita alla missione che Bremen gli aveva affidato, dello
spaventevole potere della Pietra Nera e della sua importanza, dell'ombra
del Signore degli Inganni che incombeva su tutti. Con Preia Starle
avevano parlato delle intenzioni di Tay e del loro dovere morale di
realizzarle: far giungere a Bremen la Pietra Nera e portare l'esercito
degli Elfi in aiuto ai Nani. Non avevano pensato a se stessi ma al loro
mondo e ai pericoli che lo minacciavano. Durante il viaggio di ritorno,
a due giorni da Arborlon, Jerle aveva chiesto al locat di comunicargli
ogni visione che potesse risultare utile al loro compito di realizzare i
desideri di Tay. Non gli era stato facile chiederlo, e Vree Erreden lo
sapeva: dopo una breve riflessione, il veggente aveva acconsentito,
anzi, si era detto disposto a offrire i suoi servigi a Jerle
personalmente, se pensava di averne bisogno. Jerle aveva accettato. Si
erano stretti la mano per solennizzare l'accordo e di lì era iniziata la
loro amicizia. Così adesso il locat era venuto a trovarlo, bagnato come
un pulcino e tremante di freddo. Preia lo aiutò a sfilarsi il mantello e
lo fece accomodare davanti al caminetto perché si asciugasse. Jerle gli
servì un bicchiere di birra forte. La donna gli diede anche una coperta.
Vree Erreden accettò ogni cosa con qualche parola di ringraziamento. Gli
brillavano gli occhi a causa di ciò che doveva comunicare loro. "Ho una
notizia per te" disse a Jerle non appena smise di rabbrividire. "Ho
avuto una visione che ti riguarda." Jerle annuì. "Cos'hai visto?" Il
locat si strofinò le mani e bevve qualche sorso di birra. Sembrava
affaticato, come se non avesse dormito bene. Era così dal loro ritorno.
Gli eventi di Fauce Magna avevano lasciato il segno su di lui. La
fortezza e i suoi occupanti l'avevano attaccato spietatamente, avevano
cercato di schiacciarlo perché non potesse aiutare Tay Trefenwyd, che
volevano con sé. Non c'erano riusciti, ma il veggente soffriva ancora
per l'attacco. "Quando Tay è venuto a chiedermi di accompagnarlo nella
ricerca della Pietra Nera, gli ho letto nella mente." Si girò per
fissare negli occhi Jerle. Il suo sguardo era serio. "L'ho fatto per
scoprire in fretta tutto quello che voleva dirmi. Non l'ho avvertito di
ciò che facevo, perché non volevo che mi nascondesse qualche pensiero.
"Ciò che ho scoperto era assai più di quanto cercassi. Il druido Bremen
gli aveva riferito quattro visioni. Una riguardava Fauce Magna e la
Pietra Nera degli Elfi, ed era quella che cercavo. Ma ho visto anche le
altre. Ho visto la distruzione di Paranor, con Bremen alla ricerca di un
medaglione appeso a una catena. Ho visto il druido accanto a un lago
dalle acque nere..." S'interruppe, agitando la mano come per far capire
che la cosa non aveva importanza. "Lasciamo perdere. La visione che
conta è l'ultima." Tacque per qualche istante, sembrò distrarsi. "Ho
sentito delle voci. Vogliono farti re. Non vogliono né Alyten né i
nipotini. Vogliono incoronare te." "Chiacchiere" si affrettò a dire
Jerle. Vree Erreden si strinse la coperta sul petto. "Non credo." E
lasciò che le parole rimanessero sospese nell'aria. Preia si avvicinò a
lui. "Cos'hai visto, Vree? Alyten Ballindarroch è morto?" Il locat
scosse la testa. "Non lo so. Non ho avuto quella visione. Ne ho avuto
un'altra. E riguarda la questione del re degli Elfi." Trasse un profondo
respiro. "Nella quarta visione di Bremen che ho letto nella mente di Tay
c'era un uomo armato di spada, su un campo di battaglia. La spada era un
talismano, una magia potentissima. Sull'impugnatura si scorgeva
chiaramente l'immagine dell'Eilt Druin: una mano che stringeva una
fiaccola accesa. Davanti all'uomo c'era uno spettro, incappucciato e
avvolto in un mantello nero: di lui si scorgevano solo gli occhi, due
fessure rosse come braci. L'uomo e lo spettro erano impegnati in un
duello mortale." Bevve un altro sorso di birra e guardò il fuoco.
"Quella visione mi apparve soltanto per un attimo e non le prestai molta
attenzione. Al momento non mi parve importante. Confermava le parole di
Tay sulla sua ricerca. Fino a oggi mi era passata di mente." Sollevò di
nuovo gli occhi. "Oggi leggevo le mie mappe, davanti al fuoco. Il calore
delle fiamme e il rumore della pioggia mi hanno fatto addormentare, e
mentre dormivo ho avuto una visione. E' stata improvvisa, intensa e
inattesa. Strano, perché in genere le mie visioni, le intuizioni che mi
permettono di trovare gli oggetti perduti, sono più lente a
concretizzarsi e meno imperiose. La visione era netta e precisa, e l'ho
riconosciuta subito: era l'immagine apparsa a Bremen, dell'uomo e dello
spettro sul campo di battaglia. Ma questa volta li ho riconosciuti. Lo
spettro era il Signore degli Inganni. L'uomo eri tu, Jerle Shannara."
Jerle per poco non scoppiò a ridere. Forse perché l'idea gli pareva
assurda, forse perché non poteva credere che Tay non l'avesse
riconosciuto mentre Vree c'era riuscito. O forse come reazione a una
sorta di dolorosa premonizione provata nell'ascoltare il locat. "C'è
dell'altro" proseguì il veggente, senza dargli il tempo di pensare.
"Sulla spada c'era lo stesso emblema che compariva sul medaglione
cercato da Bremen nella visione di Paranor. Quel medaglione si chiamava
Eil Druinned, è il simbolo della carica di Grande Druido. Ha una magia
potentissima. La spada era l'arma appositamente forgiata per distruggere
Brona, e il medaglione era fuso con l'arma. Nessuno mi ha raccontato
questi particolari, sai. Ho semplicemente saputo che così stavano le
cose. Allo stesso modo, nel vederti sul campo di battaglia, ho saputo
che eri re degli Elfi." "No" disse Jerle, ostinato. "Ti devi essere
sbagliato." Il locat lo fissò senza abbassare lo sguardo. "Mi hai visto
in faccia?" chiese Jerle. "Non avevo bisogno di vederti in faccia"
rispose Vree Erreden, a bassa voce. "Né di sentire la tua voce. Eri tu,
ed eri il re." "Allora la visione è falsa!" Jerle guardò Preia in cerca
di aiuto, ma lei lo fissava e taceva. "Non voglio averci niente a che
fare!" Nessuno gli rispose. Tolto lo scoppiettio del fuoco, non si udiva
alcun rumore; la notte taceva come per origliare meglio ciò che si
stavano dicendo i tre Elfi. Jerle si alzò e andò alla finestra. Avrebbe
voluto essere invisibile. "Se permettessi loro di incoronarmi..." Non
terminò la frase. Preia si alzò e lo guardò attraversare la stanza.
"Potresti terminare ciò che Tay Trefenwyd ha iniziato. Se tu fossi re,
potresti convincere il Gran Consiglio a mandare l'esercito in aiuto ai
Nani. Potresti liberarti della Pietra Nera senza doverne rispondere a
nessuno. E, soprattutto, potresti distruggere il Signore degli Inganni."
Jerle Shannara si girò di scatto. "Il Signore degli Inganni ha
sterminato i Druidi. Che speranze avrei io contro un simile mostro?"
"Speranze migliori di chiunque altro" rispose subito lei. "La visione è
apparsa ormai due volte: la prima a Bremen, la seconda a Vree.
Probabilmente è una profezia. Se lo è davvero, puoi fare ciò che neppure
a Tay Trefenwyd sarebbe riuscito. Puoi salvarci tutti." Jerle la fissò.
Preia credeva che dovesse diventare re. E gli chiedeva di dare il suo
assenso. "Ha ragione" disse Vree Erreden. Il guerriero non lo ascoltò.
Fissava Preia, pensando che già alcune ore prima gli aveva chiesto di
prendere una grave decisione. Quanto sono importante per te? Adesso gli
rivolgeva la stessa domanda, anche se in forma diversa. Quanto è
importante il tuo popolo per te? Aveva l'impressione di doversi
preparare a un grande cambiamento, sia nel suo rapporto con Preia, sia
nella sua vita, un cambiamento portato in entrambi i casi dalla morte di
Tay Trefenwyd. Eventi che non avrebbe mai creduto possibili si erano
alleati per caricarlo di quelle responsabilità che aveva sempre cercato
di evitare. Un destino autoritario l'aveva preso per il braccio.
Responsabilità, incoronazione, salvezza della sua gente... tutto
dipendeva dalle sue decisioni. Freneticamente, cercò qualche altra
strada. Ma sapeva, con inquietante certezza, che qualunque scelta
facesse avrebbe finito per pentirsene. "Devi affrontare questa
situazione" gli disse Preia. "Devi deciderti." Jerle aveva l'impressione
che il mondo fosse una trottola impazzita. Preia gli chiedeva troppo.
Non c'era alcun bisogno di decidere su due piedi. Per ora, tutto era a
livello di voci e illazioni. Nessuno gli aveva ancora parlato
ufficialmente della corona. Non si sapeva cosa fosse successo ad Alyten.
Inoltre, c'erano i nipoti di Courtann Ballindarroch. Lo stesso Tay
Trefenwyd li aveva salvati. E adesso volevano negare loro la
successione? Jerle riusciva a malapena a pensare a tutta la situazione,
e gli chiedevano di pronunciarsi immediatamente. Ma queste
giustificazioni gli parevano inconsistenti, e dietro di esse vedeva
soltanto lo spettro della propria disperazione. Si allontanò dai due che
aspettavano la sua risposta e andò alla finestra a fissare il buio della
notte. Ma neanche laggiù trovò la risposta.
21
Si avvicinava il crepuscolo e la città di Dechtera era immersa in una
luce rossosangue. L'abitato riempiva l'intera conca tra due file di
basse colline che lo chiudevano a nord e a sud, ed era un disordinato
labirinto di muri e tetti che si stagliava contro l'orizzonte cremisi.
L'oscurità avanzava dalle pianure erbose dell'est. Il sole, tramontando
dietro un banco di nubi basse, aveva dato al cielo e alla terra una
sfumatura prima arancione e poi rossa, come ultimo gesto di sfida di un
giorno che non si rassegnava a morire. Dalla pianura, dove si trovava
con Bremen e Mareth e dove l'ombra si era già impadronita delle pianure
situate tra i rilievi, Kinson Ravenlock osservò senza fare commenti la
loro destinazione, raggiunta dopo tanti giorni di cammino. Dechtera era
una città industriale, facilmente raggiungibile dalle altre principali
città del Sud e situata nei pressi delle miniere che le fornivano i
minerali occorrenti. Era assai più grande delle città del Nord e di
quelle della Frontiera, e anche di quelle dei Nani e degli Elfi. Era
superata in dimensione soltanto da alcune città dei Troll. A Dechtera
c'erano persone, case e negozi, ma soprattutto forni. Erano accesi senza
interruzione, raggruppati in varie parti della città, riconoscibili di
giorno dai pennacchi di fumo nero che si levavano dalle loro ciminiere,
di notte dal chiarore dei focolari sempre aperti, che consumavano
avidamente legno e carbone per estrarre il metallo dal minerale,
fonderlo e lavorarlo. A tutte le ore del giorno e della notte i fabbri
battevano sull'incudine il ferro rosso e ne cavavano piogge di scintille
incandescenti, cosicché Dechtera era un inesauribile spettacolo di suoni
e colori. L'aria era satura di fumo e ceneri che coprivano di una patina
scura gli edifici e la gente. Tra le città della Terra del Sud, Dechtera
era il membro fuligginoso di una famiglia che aveva bisogno di lei più
che desiderarla, la sopportava più che abbracciarla, e non aveva mai
pensato di guardarla con orgoglio o con speranza. Era una scelta
improbabile per andare a fondervi il loro talismano, pensò ancora una
volta Kinson, perché era una città che non dava alcuno spazio
all'immaginazione, una città che sopravviveva con il lavoro,
notoriamente inospitale per i Druidi e la magia. Eppure Bremen gli aveva
detto alcuni giorni prima, quando glielo aveva fatto notare, che laggiù
avrebbero trovato l'uomo che cercavano. Chiunque fosse, aggiunse Kinson
tra sé, perché, anche se il druido aveva detto loro dov'erano diretti,
non aveva rivelato l'identità della persona che dovevano incontrare.
Avevano impiegato quasi due settimane per compiere il viaggio. Cogline
aveva dato a Bremen la formula della lega da usare per la spada, ma
aveva continuato a mostrarsi scettico; quand'erano partiti li aveva
salutati come se fosse sicuro di non rivederli più. Bremen e i suoi
compagni avevano accettato rassegnati il suo commiato, e avevano
lasciato la Pietra del Focolare per tornare a Storlock, ripercorrendo la
Terrabuia. Quel tratto del loro viaggio aveva richiesto quasi una
settimana. A Storlock si erano procurati dei cavalli e si erano diretti
verso le pianure. In quel momento l'esercito del Signore degli Inganni
si trovava più a sud ed era occupato a dare la caccia ai Nani nel
Wolfsktaag, ma Bremen temeva di incontrare le loro forze ancora
schierate all'esterno dell'Anar, perciò aveva portato i compagni fino
alle Montagne di Runne e poi a sud, lungo il Lago Arcobaleno. Così
lontano dall'Anar, pensava, era meno probabile incontrare i servitori di
Brona. Avevano attraversato il Fiume Argento tenendosi lontani dalla
Palude della Nebbia prima di passare nelle Pianure del Tumulo. Il loro
procedere era stato lento e cauto, perché era terreno pericoloso anche
senza la presenza dei mostri di Brona, e non era il caso di correre
rischi inutili. Nelle pianure del Tumulo vivevano creature dell'antica
magia, simili a quelle che infestavano il Wolfsktaag, e anche se Bremen
sapeva come neutralizzarle, la cosa migliore restava evitarle. Si erano
mantenuti fra le distese brulle del Tumulo, con le loro Sirene e i loro
spettri, e le oscure profondità delle Querce Nere, con i loro branchi di
lupi. Avevano viaggiato di giorno e fatto buona guardia di notte.
Avevano sentito, più che vederle, le creature da evitare, del luogo e
forestiere, dell'acqua, della terra e dell'aria, e molte volte erano
stati consapevoli di essere osservati. Ma nessuna li aveva attaccati o
aveva cercato di seguire le loro tracce, e presto si erano liberati dei
pericoli delle Terre di Frontiera. E adesso, al tredicesimo giorno di
viaggio, giungevano in vista dei fuochi di Dechtera, simile a un incubo
industriale. "Sento già di odiare questa città" commentò Kinson,
togliendosi la polvere dal vestito. Il terreno attorno a loro era
brullo, privo di alberi e coperto solo di qualche ciuffo d'erba
polverosa. In quella regione non doveva piovere con molta regolarità.
"Io non riuscirei a vivere in un posto simile" convenne Mareth. "Non
riesco a immaginare come si possa farlo." Bremen non disse nulla.
Continuò a fissare Dechtera, ma il suo sguardo era più lontano. Poi
chiuse gli occhi e rimase immobile. Kinson e Mareth si scambiarono
un'occhiata, aspettando che ritornasse in sé. Davanti a loro si vedevano
già brillare alcune fucine tra le ombre della sera. Le pennellate di
rosso erano svanite nel cielo, il sole era sceso sotto l'orizzonte e il
suo chiarore era solo un alone più chiaro in mezzo alle nuvole. Sulle
pianure era sceso il silenzio e si poteva udire l'eco lontana dei colpi
di maglio sull'incudine. "Siamo venuti qui" disse Bremen,
all'improvviso, riaprendo gli occhi "perché a Dechtera ci sono i
migliori fabbri delle Quattro Terre, tranne forse quelli dei Troll. Gli
uomini del Sud non amano i Druidi, ma non credo che i Troll siano
disposti a fornirci ciò che ci serve. Adesso, la sola cosa che ci
occorre è l'uomo adatto, e sarà tuo compito trovarlo, Kinson. Tu puoi
aggirarti per la città senza richiamare l'attenzione." "Mi sembra
giusto" confermò Kinson, impaziente di mettersi all'opera. "Chi devo
cercare?" "Questo dovrai deciderlo tu." "Io?" fece Kinson, stupefatto.
"Abbiamo fatto tutta questa strada per cercare un uomo che non
conosciamo?" Bremen gli sorrise con indulgenza. "Abbi pazienza, Kinson.
E fidati. Non siamo venuti qui alla cieca, o senza motivo. L'uomo che
cerchiamo è qui, anche se non lo conosciamo di nome. Come ti dicevo, i
migliori fabbri delle Quattro Terre sono a Dechtera. Ma dobbiamo
scegliere tra loro, e scegliere bene. Ci vorrà qualche ricerca. La tua
abilità di esploratore ti verrà utile." "Che caratteristiche devo
cercare, in particolare?" insistette Kinson, irritato della propria
insicurezza. "Quelle che cercheresti in chiunque, ma anche una grande
abilità nel lavoro. Un mastro armaiolo." Bremen gli appoggiò la mano
sulla spalla. "Ma avevi davvero bisogno di chiedermelo?" Kinson sorrise.
Accanto a loro, Mareth sorrise a sua volta. "E cosa farò, quando avrò
trovato il mastro armaiolo?" "Torna da noi. Andremo insieme da lui e
cercheremo di conquistarlo alla nostra causa." Kinson diede un'altra
occhiata alla città, al suo dedalo di edifici scuri e di fuochi, di
ombre nere e di riflessi infuocati. Il turno di giorno aveva lasciato il
posto a quello di notte, ma il lavoro non era diminuito e le fornaci non
si erano spente. "Un fabbro che sappia mescolare i minerali per ottenere
leghe più forti e che sappia temprare i metalli per raggiungere quella
forza." Kinson scosse la testa. "Per non parlare del fatto che
dev'essere disposto ad aiutare un druido a forgiare un'arma magica."
Bremen gli posò la mano sulla spalla. "Non ti preoccupare troppo delle
convinzioni del nostro fabbro. Cerca invece le altre qualità. Trova
l'armaiolo adatto, del resto mi occuperò io." Kinson annuì. Guardò
Mareth e vide che la giovane lo fissava. I suoi occhi sembravano più
grandi del solito "E tu?" "Io e Mareth aspetteremo qui il tuo ritorno.
Da solo ti muoverai meglio per la città." Bremen staccò la mano dalla
sua spalla. "Ma fa' attenzione, Kinson. Questi uomini sono tuoi
compatrioti, ma non sono necessariamente tuoi amici." Kinson posò lo
zaino, controllò le armi e si drappeggiò con cura il mantello sulle
spalle. "Lo so." Strinse la mano che il vecchio druido gli tendeva e la
tenne nella sua per qualche istante. Ossa da uccellino, pensò, più
fragili di quanto non gli fosse parso l'ultima volta. Si affrettò a
lasciargli la mano. D'impulso si chinò su Mareth e, senza saperne bene
la ragione, le diede un bacio sulla guancia. Poi si volse e si avviò giù
per la collina ammantata nel buio della notte, diretto alla città. Il
tragitto richiese più di un'ora. Camminò senza fretta, lungo la pianura
che portava a Dechtera. Non c'era bisogno di correre e non voleva
richiamare l'attenzione. Uscì dal buio ed entrò nella luce.
Nell'avvicinarsi agli edifici sentì che la temperatura dell'aria
aumentava mentre i rumori delle forge si facevano sempre più forti. Una
cacofonia di voci segnalava la presenza di birrerie, taverne, osterie e
postriboli in mezzo alle fornaci e ai magazzini. Fra i brontolii e le
imprecazioni, i colpi di maglio e il rumore delle tramogge si levavano
improvvisamente le risate, e la mescolanza di lavoro e piacere era
onnipresente e imprevista. In quella città non c'era divisione tra
quartieri del lavoro e del piacere, scoprì il cacciatore. Pensò a
Mareth, alla serietà con cui lo guardava, come per studiarlo, valutarlo,
in modi a lui incomprensibili. Strano a dirsi, questo non gli dava
fastidio. Si sentiva rassicurato dal suo sguardo, confortato dal
desiderio di lei di conoscerlo meglio. Non aveva mai provato sensazioni
simili, nemmeno con Bremen. Mareth era diversa. Avevano fatto amicizia,
nelle due settimane precedenti, e avevano parlato a lungo: non del
presente, ma del passato, della loro gioventù nella Frontiera, e avevano
scoperto di avere avuto molte cose in comune, e non tanto esperienze
quanto punti di vista. Avevano imparato le stesse lezioni giungendo a
conclusioni analoghe. Uguale era il loro modo di vedere il mondo. Erano
entrambi soddisfatti di se stessi e accettavano di essere diversi dagli
altri; Ad entrambi piacevano la solitudine e i viaggi, andare a
esplorare ciò che non conoscevano e scoprire cose nuove. Avevano reciso
molto tempo addietro i legami familiari, occultato la scorza di civiltà
sotto il mantello da vagabondi. Consideravano se stessi dei randagi per
scelta, e ritenevano che andasse bene così. Ma, soprattutto, ciascuno
accettava che l'altro avesse qualche segreto. Questo riguardava
soprattutto Mareth, che dava più valore di lui alla sua sfera privata e
che, secondo Kinson, nonostante le recenti rivelazioni, doveva aver
taciuto parecchi particolari sui motivi che l'avevano spinta a unirsi a
loro. Tuttavia, il cacciatore cominciava a pensare che non fossero
importanti: in realtà, benché potesse lasciarli in qualsiasi momento, la
giovane aveva preferito rimanere con loro. Aveva sempre corso gli stessi
rischi dei compagni e, quanto a ciò che le stava più a cuore - la sua
magia - Bremen non le aveva ancora dato alcun aiuto. In un certo senso,
dalla confidenza instauratasi tra loro, ciascuno aveva imparato a
conoscersi meglio, e questo piaceva al cacciatore. Rimaneva tuttavia tra
loro una distanza assai difficile da accorciare: un distacco che non
poteva essere colmato con parole o azioni. Era Mareth a non voler
ridurre quella distanza, come se qualcosa, dentro di lei, le imponesse
di isolarsi dagli altri. Qualche segreto, probabilmente, che lei non era
pronta a confessare; anche se a volte pareva intenzionata a uscire da
quella sorta di prigione, di fatto non ne trovava mai la forza. Kinson
ora capiva perché gli fosse venuto in mente di darle quel bacio d'addio:
per far breccia nelle sue difese. Per un momento era riuscito a
coglierla di sorpresa: ricordava come la giovane avesse automaticamente
sollevato le braccia per proteggersi. Sorrise tra sé. Dechtera era ormai
vicina e si scorgevano i singoli edifici, la luce che filtrava dalle
finestre e dalle porte, i vicoli infestati dai ratti e i marciapiedi
occupati dai mendicanti, la gente che camminava per le vie sporche di
fuliggine. Mise da parte il pensiero di Mareth perché il compito che lo
attendeva richiedeva tutta la sua attenzione. C'era tempo per Mareth.
Lasciò che gli occhi di lei indugiassero ancora un po' davanti ai suoi,
poi li cancellò. Entrò in città da una delle strade principali e impiegò
qualche tempo a studiare gli edifici e la gente che gli si affollava
attorno. Era in un quartiere di grossi opifici, depositi e magazzini.
Molti carri trainati da asini portavano alle fornaci i rottami da
fondere. Gli edifici erano fatiscenti e trascurati; dopo una breve
occhiata, Kinson se ne disinteressò e proseguì. Si addentrò in una zona
di piccole fucine, con un singolo fabbro a battere il ferro per
costruire semplici oggetti, e lasciò anche quella. Passò davanti a
mucchi di scorie e rottami, a cataste di tronchi scortecciati, a file di
baracche vuote. L'odore acido dei rifiuti ammorbava l'aria, e Kinson
lasciò anche quella zona. Alla luce delle fornaci si vedevano guizzare
le ombre di piccole creature che uscivano dai loro nascondigli e
correvano a rifugiarsi in altri. Gli uomini che incrociava erano curvi e
stanchi, lavoravano per tutta la vita, trascinandosi da un giorno di
paga all'altro finché la morte non si impadroniva di loro. Pochi si
giravano a guardare Kinson che passava. Nessuno gli parlò. Arrivò nel
centro della città quando era già notte. Diede un'occhiata dentro le
birrerie e le taverne, chiedendosi se dovesse entrare. Alla fine ne
scelse un paio adatte ai suoi scopi, vi rimaneva quanto bastava ad
ascoltare i discorsi, a rivolgere qualche domanda, a bere un bicchiere
di birra quando il taverniere si rivolgeva a lui, poi passava a un altro
locale. Chi era il miglior armaiolo della città? chiedeva. Qual era il
miglior fabbro? Ogni volta ricevette una risposta diversa, giustificata
da varie considerazioni. Servendosi dei nomi che aveva sentito citare
più di una volta, si fermò da alcuni fabbri per informarsi sul loro
lavoro. Alcuni si strinsero nelle spalle, privi di interesse, altri gli
diedero risposte prolisse, un paio rispose in modo interessante. Kinson
li ascoltava, sorrideva e passava a un'altra officina. Mezzanotte passò.
"Non tornerà prima di domani" disse Bremen, osservando la città,
visibile in lontananza. Nonostante la temperatura mite, si era avvolto
strettamente nel mantello. Mareth, vicina a lui, non fece commenti.
Avevano continuato a guardare la figura del cacciatore della Frontiera
finché non l'avevano visto sparire nell'oscurità. Poi avevano continuato
a guardare in quella direzione, come due sentinelle che sorvegliassero
il progredire della notte. In cielo si accesero le stelle e una sottile
falce di luna, visibili dalle colline, ma non dalla città avvolta nel
fumo dei suoi fuochi. Bremen si spostò di alcuni passi, per andare a
sedersi su un piccolo fazzoletto di erba morbida. Gli sfuggì un sospiro
di soddisfazione e pensò che col passare del tempo gli bastava sempre
meno per essere contento. Per un momento fu tentato di mangiare, poi si
accorse che non aveva fame. Alzò gli occhi nel vedere che Mareth si
sedeva accanto a lui e continuava a tenere gli occhi fissi nel buio come
se qualcuno la attendesse laggiù. "vuoi mangiare?" le chiese, ma la
giovane scosse la testa. Era persa nei suoi pensieri, nel passato o nel
futuro, si disse il vecchio druido che ormai aveva imparato a
riconoscere quel particolare sguardo. La giovane aveva sempre la mente
altrove; spirito inquieto e cuore insoddisfatto, ecco Mareth. Per
qualche tempo Bremen non parlò, riflettendo sul modo migliore di
affrontare la questione. Era una cosa delicata, e se lei si fosse
sentità messa alle strette si sarebbe chiusa del tutto. Eppure occorreva
un chiarimento, e subito. "In notti come questa, mi ritorna in mente la
mia infanzia" disse infine, guardando non la giovane, ma la collina su
cui stavano e il cielo. Sorrise. "Oh, suppongo che una persona con tutti
i miei anni dia sempre l'impressione di non essere stata giovane. Ma lo
sono stato anch'io. Abitavo nella regione delle colline sotto Leah, con
mio nonno, che era un abile lavoratore dei metalli. Anche da vecchio,
aveva mani salde e occhio acuto.LO lo guardavo per ore, stupito della
sua abilità e della sua pazienza. Amava la nonna, e quando lei morì,
disse che si era portata via per sempre un pezzo della sua anima, ma che
sopportava la perdita pensando al tempo che avevano condiviso. Diceva
che al suo posto gli ero stato mandato io. Era un brav'uomo." Guardando
Mareth, vide che la giovane lo ascoltava con interesse. "I miei
genitori, invece, erano diversi. Non erano mai riusciti a fermarsi
abbastanza a lungo in un posto, mai nelle loro brevi vite, e non avevano
mai condiviso l'interesse di mio nonno per il lavoro. Erano sempre in
movimento, cambiavano sempre vita, erano sempre alla ricerca di qualcosa
di nuovo e di diverso. Mi lasciarono col nonno poco dopo la mia nascita.
Non avevano tempo per me." Aggrottò la fronte. "Per molti anni ho
creduto di odiarli per questo, ma alla fine sono riuscito a capirli. E'
sempre così, tra genitori e figli. Ciascuno è una delusione per l'altro,
in tanti modi che non si possono definire, e occorre tempo per superare
la delusione. E' stato così, nel mio caso, per la decisione dei miei
genitori di lasciarmi ai nonni." "Ma tutti hanno il diritto di passare
l'infanzia con i genitori" protestò Mareth. Bremen le sorrise. "Anch'io
la pensavo così. Ma i bambini non capiscono la complessità delle scelte
degli adulti. La miglior cosa per un bambino è che i genitori cerchino
di fare quello che è meglio per lui, ma decidere cosa è meglio è
difficile. I miei genitori sapevano che non sarei cresciuto bene, sempre
in viaggio con loro, perché non avrebbero potuto darmi le attenzioni che
mi occorrevano. Potevano a malapena prendersi cura l'uno dell'altra.
Perciò mi lasciarono col nonno, che mi amava e si prendeva cura di me.
Era la scelta giusta." La giovane rifletté per qualche istante. "Ma ha
lasciato il segno su di te." Bremen annuì. "Per qualche tempo, ma non in
modo durevole. Forse mi ha temprato il carattere, non lo so. Noi
cresciamo come meglio possiamo, nella situazione in cui veniamo a
trovarci. A che serve almanaccare come avrebbe potuto essere, anni dopo?
Meglio limitarci a capire come siamo e servirci di questa conoscenza per
migliorarci." Scese il silenzio. Per parecchi istanti, i due si
fronteggiarono; alla luce delle stelle e della luna i loro volti erano
perfettamente distinguibili. "Ti riferisci a me, vero?" commentò infine
Mareth. "Ai miei genitori, alla mia famiglia." Bremen non cambiò
espressione. "E' quanto mi aspettavo da te, Mareth" rispose con
dolcezza. "La tua intuizione non ti mai ha tradita, vero?" I delicati
tratti del viso si irrigidirono. "Io odio i miei genitori. Mi hanno
abbandonata facendomi crescere tra estranei. Non è stata colpa di mia
madre, che è morta nel mettermi al mondo. Non so chi sia mio padre.
Forse non è stata neppure colpa sua." Scosse la testa. "Ma questo non
cambia ciò che provo per loro. Non toglie niente al mio dolore per
essere stata abbandonata." Bremen cambiò posizione, perché muscoli e
articolazioni cominciavano a indolenzirsi. Quei dolori aumentavano col
tempo, ed era sempre più difficile eliminarli. All'opposto della fame,
pensò con ironia. La vecchiaia si vendicava di lui. Perfino il Sonno
Magico perdeva la capacità di ridargli le forze. Guardò la giovane negli
occhi. "Secondo me, hai altri motivi per essere in collera con i tuoi
genitori, oltre a quelli che mi hai detto. La tua collera è un peso che
hai sul cuore, una grossa pietra che non puoi spostare. Tempo fa ha
fissato i confini della tua vita. Ti ha avviata a Paranor. Ti ha spinta
a cercarmi." Attese che Mareth riflettesse sulle sue parole, che vedesse
cosa c'era nei suoi occhi. Lui non era il nemico che lei cercava, lui
desiderava essere suo amico, desiderava che gli rivelasse ciò che teneva
tanto accuratamente nascosto. "Tu sai tutto" disse infine Mareth. Bremen
scosse la testa. "No, sono riflessioni, niente di più." Le rivolse un
sorriso stanco. "Ma vorrei saperne di più. E offrirti qualche
consolazione, se posso." "Consolazione." Mareth pronunciò la parola in
tono opaco, disperato. "Sei venuta da me per scoprire la verità su te
stessa" proseguì lui, gentilmente. "Può darsi che tu non l'abbia vista
in questo modo, ma è ciò che hai fatto. Hai chiesto aiuto per la tua
magia, un potere di cui non puoi sbarazzarti e non puoi fare a meno. E'
un fardello terribile, ma non peggiore delle verità che nascondi. Ne
sento il peso da qui, bambina. Sono come catene che ti avviluppano."
"No, tu sai" ripeté Mareth, fissandolo a occhi sgranati. "Ascolta. I
pesi che porti sono inestricabilmente legati insieme: la verità che
nascondi e la magia che ti fa paura. L'ho capito viaggiando con te,
osservandoti, ascoltando le tue preoccupazioni. Se vuoi liberarti del
peso della magia, prima devi guardare in faccia la verità che hai nel
cuore. La verità sui tuoi genitori. La tua nascita. Su chi e che cosa
sei. Parlane, Mareth." Lei scosse la testa e distolse lo sguardo,
stringendosi le braccia attorno al corpo come per difendersi dal freddo.
"Dimmelo" insistette Bremen. La giovane deglutì per frenare le lacrime,
tremò per un brivido e alzò la faccia verso le stelle. Poi lentamente,
con trepidazione, cominciò a parlare.
22
"Non ho paura di te" esordì Mareth, parlando in fretta, come se
attingesse a una riserva nascosta di energia. "Potresti pensarlo, dopo
avere ascoltato ciò che devo dirti, ma ti sbaglieresti.LO non ho paura
di nessuno." Bremen rimase sorpreso dall'affermazione, ma non lo diede a
vedere. "Non ho preconcetti su di te, Mareth" disse. "Potrei essere
perfino più forte di te" aggiunse la giovane, in tono di sfida. "La mia
magia potrebbe essere più forte della tua, perciò non ho motivo di aver
paura. Se tu dovessi mettermi alla prova, potresti pentirtene." Lui
scosse la testa. "Non ho nessun motivo di metterti alla prova." "Quando
avrai ascoltato ciò che devo dirti, potresti pensarla diversamente.
Potresti decidere di farlo. Per proteggerti." Trasse un profondo
respiro. "Non capisci? Tra noi, nulla è come sembra! Potremmo essere
nemici mortali!" Bremen rifletté per qualche istante, poi disse: "Non
credo. Comunque, di' quello che ritieni di dovermi dire. Non nascondere
nulla". Mareth lo fissò, come per capire se fosse sincero. Il suo corpo
sottile era raggomitolato. Nei grandi occhi scuri, il druido lesse
agevolmente il tumulto delle emozioni. "I miei genitori sono sempre
stati un mistero" disse infine la giovane. "Mia madre è morta quando
sono nata, e mio padre era sparito ancor prima. Non li ho mai
conosciuti, non li ho mai visti, non mi hanno lasciato alcun oggetto
come ricordo. Quello che so di loro me l'hanno detto le persone con cui
sono cresciuta: mi hanno fatto chiaramente capire che non ero figlia
loro. Non mi hanno trattata male, ma erano gente dura e risoluta, che
lavorava sodo. Si sono presi cura di me, ma non appartenevo a loro. "Ho
saputo della morte di mia madre fin da piccola. Non me l'hanno mai
nascosta, e quando sono stata abbastanza grande mi hanno anche parlato
di lei: era bruna e minuta come me. Era graziosa. Amava i fiori e i
cavalli. A quanto ho capito, la giudicavano una brava persona. Abitava
nel villaggio, ma diversamente dagli altri aveva viaggiato nelle Terre
del Sud e conosceva un po' il mondo. Non era nata nel villaggio, ma non
so da dove venisse. Probabilmente non l'aveva mai detto a nessuno. Non
so se avevo parenti nel Sud, non ne ho mai sentito parlare. E nemmeno le
persone che mi hanno allevata." S'interruppe, ma continuò a fissare il
vecchio druido. "Nella famiglia dove sono cresciuta c'erano due bambini
più vecchi di me. Li amavano e li portavano in visita, ai picnic e alle
riunioni del villaggio. Con me, invece, non lo facevano: fin
dall'inizio, mi era stato fatto capire che non ero come loro.LO dovevo
rimanere a casa e aiutare nei lavori domestici. Crescendo, ho capito che
i miei genitori adottivi provavano una sorta di imbarazzo per la mia
presenza. C'era qualcosa, in me, che suscitava la loro diffidenza. Non
mi permettevano di giocare con i miei fratellastri e io ubbidivo. Mi
davano cibo, indumenti, un tetto, ma ero un'ospite, non una di loro."
"Questa situazione deve averti amareggiato fin da allora" commentò
Bremen. Mareth si strinse nelle spalle. "Ero una bambina. Non mi rendevo
conto di quello che mi facevano. Accettavo la mia situazione e non me ne
lamentavo. Non mi trattavano male. Penso che provassero una sorta di
simpatia, di compassione per me, altrimenti non mi avrebbero presa. Non
me l'hanno mai detto, ma credo che un po' d'affetto dovevano provarlo,
se mi hanno presa." Sospirò. "Poi, a dodici anni, mi mandarono come
apprendista da un vasaio. Sapevo che sarebbe successo, e lo accettai
come una parte della vita a me destinata. Il fatto che i miei fratelli
non venissero mandati a lavorare non mi preoccupò, dato che erano sempre
stati trattati in modo diverso. Da allora, vidi raramente i miei
genitori adottivi. Una volta mia madre venne a portarmi dei dolci, ma si
sentiva a disagio e se ne andò subito. Un'altra volta li vidi entrambi
passare per strada, davanti alla bottega, ma non mi guardarono. A
quell'epoca avevo scoperto che il vasaio approfittava di ogni scusa per
picchiarmi, e li odiavo perché mi avevano mandata da lui. In seguito,
dopo avere lasciato il villaggio, non li ho più visti." "E i tuoi
fratellastri?" chiese Bremen. Mareth scosse la testa. "Non ne sentivo la
mancanza. Tutti i legami tra noi erano cessati con la mia uscita di
casa. Quando penso a loro, provo solo amarezza." "Hai avuto un'infanzia
difficile. Adesso che sei grande lo capisci meglio, vero?" Lei gli
rivolse un sorriso gelido. "Capisco molte cose che da bambina non mi
sono mai state dette. Quando avrò finito la mia storia, potrai giudicare
da te. L'importante, a quel punto, stava nel fatto che poco prima di
andare dal vasaio cominciai ad avere notizie di mio padre. Avevo undici
anni e sapevo già che l'anno seguente sarei andata dal vasaio e avrei
lasciato quella casa, e cominciai a pensare al mondo che mi circondava.
Al villaggio venivano cacciatori, mercanti e calderai, perciò sapevo che
c'erano molti altri villaggi come il mio. A volte mi chiedevo se mio
padre fosse in uno di quelli. Mi chiedevo se sapeva di me. Già da tempo
avevo capito che i miei veri genitori non erano sposati, che non
vivevano insieme come marito e moglie. Quando ero nata, mio padre se
n'era già andato per la sua strada. Dov'era, allora? Nessuno me lo disse
mai.LO avrei voluto chiederlo, ma i miei genitori adottivi mi avevano
fatto capire che non dovevo fare troppe domande. La mia vera madre aveva
qualche colpa, che le era stata perdonata soltanto perché era morta. La
colpa, però, in qualche modo ricadeva su di me. "Quando fui abbastanza
grande per accorgermi di quei silenzi cercai di scoprire la verità. A
undici anni ero già in grado di capire i sotterfugi e di farne.
Cominciai a porre qualche domanda su mia madre, domande banali, che non
destavano sospetti. Mi rivolgevo alla mia madre adottiva perché era la
meno taciturna dei due, e approfittavo dei momenti in cui eravamo sole.
Alla sera lei riferiva le mie domande al marito, io origliavo alla porta
della mia camera da letto e di tanto in tanto coglievo qualche parola.
Mio padre era un forestiero, che era passato alcune volte per il
villaggio, si era fermato per qualche tempo e poi era sparito. Tutti lo
evitavano tranne mia madre, che forse era attratta da lui, forse sperava
che la portasse con sé. Ma gli altri lo detestavano, forse lo temevano.
Una parte di quell'avversione si era trasferita su di me " S'interruppe
per qualche istante, raccogliendo i pensieri. Pareva piccola e
vulnerabile, ma Bremen sapeva che si trattava solo di un'impressione;
continuò a fissarla negli occhi, in attesa che proseguisse. "Già allora
sapevo di essere diversa dagli altri. Conoscevo i miei poteri magici,
anche se cominciavano a mostrarsi in forma limitata, e mi parve logico
concludere che ciò che temevano e odiavano era la magia, e quella
l'avevo ereditata da mio padre. La magia era vista con diffidenza al
villaggio, era un'eredità indesiderata della Guerra delle Razze, quando
gli uomini erano stati corrotti dal druido ribelle Brona per poi essere
sconfitti ed esiliati al Sud. Era stata la magia a causare tutto ciò, ed
era vista come una minaccia per chi vi entrasse in contatto. La gente
del villaggio era superstiziosa e ignorante e chiamava in causa la magia
per tutto ciò che non capiva. La famiglia che mi ha allevata temeva che
la magia di mio padre affiorasse anche in me, e per questo mi
considerava un'estranea. Ho cominciato a capire tutto questo a undici
anni. "Il vasaio sapeva chi ero, anche se all'inizio non ne parlava. Non
voleva ammettere di aver paura di una bambina, per quanto particolare, e
si vantava di avermi presa come apprendista mentre nessun altro ne aveva
avuto il coraggio. Me lo disse lui stesso, in seguito. Quando beveva gli
si scioglieva la lingua." Scosse la testa tristemente e proseguì come se
parlasse di cose ormai remote. "Lo lasciai tre anni più tardi. Aveva
cercato di picchiarmi senza motivo una volta di troppo e io mi ero
opposta. A quell'epoca la mia magia era ormai maturata ed era in grado
di proteggermi. Però, fino a quel momento, non mi ero resa conto del suo
vero potere. Per poco non lo uccisi. Così fuggii dal villaggio, da
quella gente e dalla mia vita per non più ritornarvi. Quel giorno caprì
una cosa che fino ad allora avevo soltanto sospettato. Caprì che ero
davvero figlia di mio padre." S'interruppe; lo sguardo era fermo, ma il
viso tradiva l'emozione. "Avevo scoperto la verità su mio padre,
capisci? Il vasaio si era ubriacato per l'ennesima volta e me l'aveva
rivelata. "Non sai chi sei? Non sai che cosa sei? La figlia di tuo
padre! Una macchia nera sulla faccia della terra, la figlia di un
demonio e della sua cagna! Hai gli stessi occhi, piccola strega! Hai lo
stesso sangue! Sei inutile a tutti, tolto me, perciò è meglio che mi
ascolti, quando ti do un ordine! Altrimenti non avrai nessun posto dove
andare!" "Lo ripeteva tutte le volte, e poi mi picchiava.LO non mi
preoccupavo dei colpi: sapevo come ripararmi e cosa dire per farlo
smettere. Ma alla fine non ne ho potuto più di quelle umiliazioni.
Quando me ne andai, avevo già deciso di fermarlo. Perciò, non appena
insultò mio padre, io mi misi a ridere, a dirgli che era un bugiardo e
un ubriacone. Che non sapeva niente di mio padre. Allora, lui perse del
tutto il controllo. Mi insultò con parole irripetibili. Mi disse che mio
padre era venuto dal Nord, dove abitavano quelli del suo ordine
infernale. Che era uno stregone e un ladro di anime. "Un demonio
travestito da uomo! Con le sue vesti nere! I suoi occhi da lupo! Oh,
sapevamo bene chi era! Sapevamo il suo segreto! E tu sei la sua
immagine, silenziosa e attenta a tutto quello che succede! Credi che non
ce ne siamo accorti? Lo sanno tutti, nel villaggio! Sai perché la
famiglia che ti ha allevato non ti voleva più? Perché sapevano quello
che sei! La figlia di un druido!"" Mareth trasse un profondo respiro e
lo guardò, in attesa che parlasse. Voleva sentire la sua reazione, capì
Bremen. Ne aveva bisogno, ma lui non fece commenti. "Penso che avesse
ragione" proseguì allora la giovane, in tono di sfida inequivocabilmente
indirizzato a lui. "E io stessa l'avevo già pensato. Avevo sentito
parlare degli uomini dalla veste nera che si aggiravano nelle Quattro
Terre e che abitavano al castello di Paranor. Maghi on nipotenti e
onniscienti, creature più spirituali che umane, causa di molti dolori e
sofferenze tra la gente del Sud. Di tanto in tanto si diceva che uno di
loro era passato nelle vicinanze. "E una volta" dicevano, quando non si
accorgevano della mia presenza "uno di loro si è fermato tra noi. Ha
sedotto una donna ed è nata una figlia!" A quel punto alzavano la mano
per fare gli scongiuri e tacevano. La persona di cui parlavano a bassa
voce, con timore, era mio padre!" Mareth si protese verso di lui e
Bremen si accorse che, così facendo, aveva spostato il nucleo della sua
magia dall'interno del corpo alla punta delle dita, preparandosi a
colpire. Un sospetto gli attraversò la mente, simile a una fitta
dolorosa. Ma si impose di rimanere assolutamente calmo per darle il
tempo di finire. "E sono giunta a credere" disse adagio Mareth, in tono
deciso "che parlassero di te." La bottega stava per chiudere quando
Kinson Ravenlock entrò per guardare meglio la spada. Era molto tardi e
le strade cominciavano a svuotarsi. Kinson era stanco di cercare e stava
meditando di trovarsi una locanda quando imboccò una strada con molte
botteghe di armaioli e notò la spada. Era esposta in una piccola vetrina
dai pannelli di vetro tenuti insieme da sbarre di ferro, ed era così
lucida e brillante da richiamare la sua attenzione. Entrato nella
bottega, continuò a fissare la spada, ammirato. Senza dubbio, era la più
bella arma che avesse mai visto. Già dall'esterno, nemmeno il vetro
fuligginoso e la scarsa luce erano riusciti a nascondere la lucentezza
della lama e la precisione dell'affilatura. Era quasi uno spadone:
sembrava troppo grande per una persona di normale statura. L'impugnatura
era cesellata con grande perizia e raffigurava draghi e castelli su uno
sfondo di alberi. C'erano altre lame più piccole, altrettanto pregevoli,
che parevano fatte dalla stessa mano, ma Kinson aveva occhi solo per la
spada. "Scusa, devo chiudere" gli disse l'armaiolo, che cominciava a
spegnere le lanterne in fondo alla bottega. C'erano armi di ogni tipo,
spade, daghe, stiletti, asce, lance e ogni altra sorta di lama, appese
alle pareti e su ogni superficie libera, in rastrelliere e casse. Kinson
diede un'occhiata in giro, ma tornò subito a guardare la spada. "Ti
ruberò solo un attimo" rispose. "Mi serve un'informazione." L'armaiolo
sospirò e si avvicinò. Era snello e robusto, con grandi spalle e mani
forti, e dalla leggerezza con cui si muoveva dava l'impressione di saper
maneggiare bene la sua merce, all'occorrenza. "Un'informazione sulla
spada, vero?" Kinson sorrise. "Proprio così. Come l'hai capito?" L'uomo
si strinse nelle spalle, poi si ravviò i capelli neri, che cominciavano
a diradarsi. "Ho visto la direzione del tuo sguardo, quando sei entrato.
E poi, tutti mi chiedono della spada. Del resto, come dargli torto? Una
delle più belle armi che si possano trovare nelle Quattro Terre. Di
grande valore." "Ne sono certo" rispose Kinson. "E' per questo che non
sei ancora riuscito a venderla?" L'armaiolo rise. "Oh, non è in vendita.
E' solo per vetrina. Appartiene a me, e non la venderei per tutto l'oro
del mondo. Una lavorazione di quel genere non si può comprare per
denaro, e la si trova solo raramente." Kinson annuì. "E' una bella lama.
Ma per maneggiarla ci vuole un uomo molto forte." "Come te?" chiese
l'armaiolo, inarcando un sopracciglio. Kinson sporse le labbra,
riflettendo. "Penso che sia troppo grande anche per me. Mi riferisco
alla lunghezza." "Ah!" commentò l'armaiolo, divertito. "Lo pensano
tutti! E' questa la meraviglia della lama. Ascolta, la giornata è stata
lunga e io sono stanco. Ma ti mostrerò un piccolo segreto. E se ti
piacerà quello che ti farò vedere, forse mi acquisterai un'arma e io
guadagnerò qualcosa in cambio del mio tempo. D'accordo?" Kinson annuì.
L'armaiolo si accostò alla vetrina, infilò la mano sotto il ripiano e
fece scattare un lucchetto. Sfilò una catena avvolta abilmente
sull'impugnatura per assicurare la spada al supporto, poi impugnò con
attenzione l'arma. Si girò verso Kinson, gli sorrise e mosse la spada
davanti a lui senza fatica, come se fosse leggerissima. Kinson lo guardò
incredulo e l'armaiolo rise, poi gli passò la spada, ed il cacciatore
della Frontiera, nell'impugnarla, rimase ancor più stupito. La spada era
così leggera che si poteva brandirla con una sola mano. "Com'è
possibile?" mormorò, osservando con attenzione la lama lucente, stupito
sia della leggerezza sia della qualità della lavorazione. Poi guardò
l'armaiolo: "Così leggera, non può avere nessuna forza!". "E' il metallo
più robusto che tu possa trovare, caro amico" gli spiegò il mercante.
"La lega e la tempra la rendono più forte del ferro, anche se pesa come
una lama di stagno. Ma ora lascia che ti mostri un'altra cosa." Si fece
restituire la spada da un Kinson sempre più ammirato e la rimise al suo
posto, assicurandola di nuovo con la catena. Poi trasse dalla vetrina un
coltello, con una lama lunga quasi due spanne, cesellato con gli stessi
eleganti disegni della spada: evidentemente era opera della stessa mano.
"Questa è la lama che fa per te" dichiarò piano il venditore, passandola
a Kinson con un sorriso. "Questa te la posso vendere." Il coltello era
meraviglioso come la spada, anche se meno impressionante come lunghezza.
Kinson ne rimase subito affascinato. Leggero, perfettamente bilanciato,
finemente cesellato, affilato come gli artigli di un gatto, era un'arma
di una bellezza e una robustezza incredibili. Il cacciatore sorrise,
come per riconoscere il valore dell'arma, e l'armaiolo gli restituì il
sorriso. Kinson gli chiese il prezzo, e l'uomo glielo disse.
Mercanteggiarono per qualche minuto e alla fine si misero d'accordo.
Kinson spese quasi tutto il denaro che possedeva, che non era poco, ma
non fu sfiorato neppure per un istante dalla tentazione di rinunciare
all'acquisto. S'infilò alla cintura coltello e fodero e sentì che la
lama poggiava bene sul fianco. "Grazie" disse. "E' stato un ottimo
suggerimento." "E' il mio lavoro" si schermì l'armaiolo. "Ma devo ancora
rivolgerti la domanda" disse Kinson, mentre l'altro faceva per
accompagnarlo all'uscita. "Già, la domanda. Ma non ho già risposto?
Pensavo che riguardasse la spada." "Riguarda la spada, certo" rispose
Kinson, con un'ultima occhiata all'arma. "Ma si tratta di farne
un'altra. Un mio amico ha bisogno di un'arma come quella, ma dev'essere
forgiata secondo le sue istruzioni. Il lavoro richiede un mastro
armaiolo e l'uomo che ha fatto la tua spada mi sembra la persona
giusta." Il venditore lo guardò come se fosse impazzito. Poi chiese:
"vuoi farti fare una spada dal fabbro che ha fatto la mia?". Kinson
annuì, poi si affrettò a chiedere: "Sei tu per caso?". L'uomo gli
rivolse un pallido sorriso. "No. Ma tra chiederlo a me e chiederlo a
colui che l'ha fatta c'è poca differenza, per quello che ti può
servire." Kinson scosse la testa. "Non capisco." "Già, lo credo
anch'io." L'uomo sospirò. "Ascolta allora, ti spiego come stanno le
cose." La prima reazione di Bremen nell'udire le parole di Mareth fu di
risponderle che era una supposizione ridicola. Ma l'espressione della
giovane lo indusse a tacere. Doveva avere riflettuto a lungo, prima di
arrivare a quella conclusione, e meritava di essere presa sul serio.
"Mareth" le chiese gentilmente. "Che cosa ti fa pensare che sia tuo
padre?" La notte intorno a loro profumava d'erba e fiori e la luce della
luna e delle stelle spandeva sulle colline un colore argenteo che
contrastava con la luce rossastra della città. Mareth distolse lo
sguardo, come per cercare la risposta nella notte. "Mi ritieni una
sciocca" commentò. "No, nient'affatto. Ma ti prego di dirmi come ci sei
arrivata." Lei scosse la testa. "Da ben prima della mia nascita, i
Druidi si sono chiusi a Paranor. Hanno lasciato le Razze e non vanno più
tra la gente. Di tanto in tanto, uno torna a trovare la famiglia, ma
nessun druido apparteneva al mio villaggio. In generale, pochi di loro
si recano nella Terra del Sud. "Ma ce n'era uno che vi si recava
regolarmente. Tu. Tu andavi nel Sud nonostante i sospetti contro i
Druidi. Di tanto in tanto, qualcuno diceva di averti visto. La gente del
mio villaggio sussurrava che eri tu il demone che aveva sedotto mia
madre!" Tacque. Il suo respiro era affrettato. Lo sfidava a negare. La
magia le crepitava sulla punta delle dita, sotto forma di scintille. Lo
fissò con occhi roventi. "Ti cerco da sempre. La magia è come un peso
che porto legato al collo, e ogni giorno mi ricorda la tua esistenza.
Mia madre non ha potuto parlarmi di te: la sola cosa che avevo erano
quelle dicerie. Ma sapevo che nei miei viaggi, prima o poi, ti avrei
incontrato. Sono andata a Storlock per trovarti, ma non sei venuto.
Cogline, però, mi ha permesso di entrare a Paranor, e laggiù,
finalmente, ti ho visto." "Ecco perché sei venuta con noi" commentò
Bremen. "Perché non me l'hai raccontato allora?" Lei scosse la testa.
"Perché volevo conoscerti. Perché volevo sapere che tipo di uomo fosse
mio padre." Bremen annuì, riflettendo. "E nel frattempo mi hai salvato
due volte la vita. Una al Perno dell'Ade, un'altra a Paranor." Lei lo
fissò, ma non fece commenti. "Io non sono tuo padre, Mareth" disse
Bremen. "Oh, sapevo che avresti detto così!". "Se fossi tuo padre"
continuò lui a voce bassa "sarei orgoglioso di ammetterlo. Ma non lo
sono. All'epoca del tuo concepimento viaggiavo per le Quattro Terre,
certo, e può darsi che sia stato nel villaggio di tua madre. Ma non ho
figli: non ne posso avere. Ho moltissimi anni, perché mi ha mantenuto in
vita il Sonno Magico. Ma quel Sonno mi ha tolto molte cose. Mi ha
allungato la vita, ma mi impedisce di avere figli. Perciò non ho mai
stretto rapporti con una donna, non ho mai avuto amanti. Sono stato
innamorato una volta, molto tempo fa, ma sono passati tanti anni che
ricordo a malapena la faccia della donna che amavo. Fu prima che
divenissi un druido, prima che scegliessi questa vita. Da allora, non ce
n'è stata un'altra." "Non ti credo" replicò subito Mareth. Le rivolse un
sorriso triste. "E invece mi credi. Tu sai che è la verità. Lo sai per
istinto. Non sono tuo padre. Ma la verità potrebbe essere più
sgradevole. Con la loro superstizione, gli abitanti del tuo villaggio
hanno subito pensato a me, quando hanno visto uno straniero vestito di
nero che praticava la magia. Però, ascolta, Mareth. Ci sono altre
possibilità, e non ti piaceranno." Lei strinse le labbra. "In un certo
senso, me l'aspettavo." "Nei giorni scorsi ho pensato alla natura della
tua magia. La magia innata fa parte di te, come la carne e la pelle, ma
è una dote rara. Era una caratteristica delle genti di Faerie, migliaia
di anni fa, ma sono morti tutti tranne gli Elfi, i quali però l'hanno
sostanzialmente persa. I Druidi, me compreso, non godono di alcuna forma
di magia innata. Perciò, se tuo padre fosse stato un druido, da dove
verrebbe la tua? Ma supponiamo che lo fosse. Quale druido ha quel tipo
di potere? Un potere che ha richiesto l'uso della magia per ottenere il
tuo concepimento?" "Oh, per tutte le ombre" mormorò la giovane, che
cominciava a capire. "Aspetta, non fare commenti per ora" la invitò il
vecchio druido. Le strinse le mani, e lei non le ritrasse. Aveva gli
occhi spenti, l'espressione sconvolta. "Cerca di essere forte, Mareth.
La gente del tuo villaggio ha descritto tuo padre come un demonio, uno
spettro, una creatura delle tenebre che poteva cambiare aspetto. L'hai
detto tu stessa. Non è il tipo di magia praticata dai Druidi, non la
conoscono neppure. Ma ci sono altre creature che la praticano
facilmente." "Menzogne" protestò Mareth, ma senza convinzione. "Il
Signore degli Inganni ha al proprio servizio creature che assumono
l'aspetto umano. Lo fanno per i più svariati motivi. Per corrompere le
persone, per ingannarle, usarle. A volte lo fanno solamente per
ritrovare una parte di quell'umanità che hanno perso quando sono passate
al servizio del loro signore. La magia praticata da queste creature è
diventata una parte così importante della loro natura e della loro
identità che la usano senza pensare. Non si curano delle persone con cui
entrano in contatto. Agiscono per puro istinto, appagando qualunque
desiderio si impadronisca di loro in un dato momento." Mareth aveva le
lacrime agli occhi. "Mio padre, allora?" Bremen annuì. "Spiegherebbe la
tua magia. Magia innata, il dono che ti ha lasciato tuo padre. Non è una
caratteristica dei Druidi, ma di una creatura per la quale la magia è
divenuta la vita stessa. E' difficile da accettare, Mareth, ma è così."
"E' vero" sospirò la giovane, con voce a malapena udibile. "Eppure, ero
tanto sicura..." Abbassò la testa e pianse, stringendo le mani di
Bremen. La sua magia si affievolì assieme al groviglio di rabbia che
aveva dentro. Il druido le si avvicinò, le mise un braccio attorno alle
spalle. "Ancora una cosa, bambina" le disse con dolcezza. "Io sarò
ancora tuo padre, se lo vorrai. Ti farò da padre come se fossi mia
figlia. Ho molta stima di te. Ti aiuterò a capire la natura della tua
magia. E la prima cosa che devi tenere presente è che non sei tuo padre.
Tu non sei affatto come lui, neppure in ciò che hai ereditato. La magia
che possiedi è soltanto tua. Sei tu a doverne sopportare il potere, e si
tratta di un peso molto gravoso. Ma anche se la magia ti è venuta da tuo
padre, non è essa a stabilire il tuo carattere e il tuo cuore. Tu sei
una persona retta e forte, Mareth. Non hai nulla della malvagia creatura
che ti ha generato." Mareth gli appoggiò la testa alla spalla. "Come
puoi dirlo? Potrei essere proprio così." "No" la rassicurò. "Non sei
come lui, figliola. Assolutamente." Le accarezzò i capelli, la tenne
stretta e la lasciò piangere, lasciò che eliminasse il dolore di tanti
anni. Quando si fosse ripresa, si sarebbe sentità vuota: occorreva darle
la speranza e uno scopo. E Bremen pensava di sapere come. Passarono due
intere giornate prima che Kinson Ravenlock ritornasse. Arrivò al
tramonto, uscendo dallo sfondo delle luci rossastre dei fuochi di
Dechtera. Era impaziente di raggiungerli, per comunicare le novità. Si
tolse il mantello impolverato e li abbracciò con calore. "Ho trovato
l'uomo che ci occorre" annunciò, sedendosi sull'erba e accettando l'otre
di birra che Mareth gli porgeva. "Secondo me, è proprio l'uomo che
cerchiamo." Sorrise loro, poi scosse la testa. "Purtroppo, però, non è
d'accordo con me. Qualcuno dovrà convincerlo, e per questo sono
tornato." Bremen annuì. "Bevi, mangia qualcosa e poi raccontaci tutto."
Kinson reclinò la testa all'indietro e cominciò a bere. L'ultimo
bagliore del sole spariva sotto l'orizzonte e la luce diminuiva in
fretta. Nel balenare rapido di quel passaggio, a Kinson parve di
cogliere una leggera preoccupazione nello sguardo del vecchio druido.
Senza parlare, lanciò un'occhiata a Mareth, che lo guardò a sua volta
con aria di sfida. Il cacciatore della Frontiera abbassò l'otre e studiò
per qualche istante i compagni. "E' successo qualcosa, durante la mia
assenza?" Per qualche istante scese il silenzio. Poi fu Bremen a
rispondere. "Ci siamo raccontati delle vecchie storie" disse con un
sorriso malinconico. Guardò Mareth e poi Kinson. "Ne vuoi ascoltare
una?" Il cacciatore annuì, perplesso. "Se pensi che ci sia tempo."
Bremen prese la mano di Mareth, che non la ritirò. La giovane aveva gli
occhi lucidi. "Penso che dobbiamo trovarlo, per questa" disse il vecchio
druido. E dal modo in cui lo disse, Kinson capì che era vero.
23
Urprox Screl sedeva sulla solita panca davanti alla bottega chiusa, con
lo scalpello in una mano, il pezzo di legno nell'altra. Le sue mani si
muovevano agili: con l'una girava il legno, con l'altra lo intagliava
facendo volare via trucioli lunghi e sottili. Stava scolpendo qualcosa
di bello e aggraziato, anche se per il momento non aveva ancora deciso
di cosa si trattava. Il mistero era una componente del divertimento. Un
pezzo di legno suggeriva sempre alcune possibili figure, quando lo si
osservava con sufficiente attenzione. La scelta dell'immagine veniva da
sé, con il proseguire del lavoro. In fondo, era la scultura stessa a
decidere quello che voleva diventare. Su Dechtera scendeva la sera, e
lontano dai forni la luce diventava sempre più grigia. Faceva molto
caldo, ma Urprox Screl c'era abituato. Poteva starsene in casa, con Mina
e i figli, sulla sedia a dondolo nel portico o all'ombra del vecchio
noce. In casa, lontano dal centro della città, faceva fresco e regnava
il silenzio. Purtroppo, era quello il problema. Sentiva la mancanza del
caldo, del chiasso, dell'odore dei forni. Quando lavorava gli piaceva
sentirli, e per tanti anni l'avevano accompagnato costantemente. E poi
quello era il suo luogo di lavoro. Vi si era recato ogni giorno, per
quarant'anni. Era la bottega di suo padre e forse lo sarebbe stata per i
suoi figli. Quando lavorava, gli piaceva trovarsi lì, dove la sua arte e
il suo lavoro avevano inciso così profondamente la sua vita e quella
degli altri. Era un'affermazione un po' troppo orgogliosa, forse. Ma lui
era un uomo orgoglioso. Matto, secondo alcuni. Solo Mina lo capiva.
Capiva sempre tutto, del marito, e questo era più di quanto si potesse
dire delle mogli degli altri. Al pensiero della moglie sorrise. Prese a
fischiettare tra sé. La gente passava per la strada, davanti alla
bottega di Urprox Screl, come tanti castori presi dalle loro incombenze.
Lui li osservava tutti con la coda dell'occhio, senza farsi scorgere.
Alcuni erano amici: negozianti, artigiani, operai che conosceva da
quando aveva cominciato a lavorare. In genere l'avevano ammirato: la sua
abilità, le sue opere. Alcuni, in passato, avevano addirittura sostenuto
che lui incarnava il cuore e lo spirito della città. Sospirò. Gli era
passata la voglia di fischiare. Certo, li conosceva, ma da tempo avevano
smesso di intrattenersi con lui. Se li fissava, si limitavano a un cenno
del capo, senza fermarsi. Lo evitavano quasi tutti, come se fosse stato
colpito da una disgrazia e temessero che la malasorte li contagiasse.
Ancora una volta, si chiese perché non riuscissero ad accettare la sua
decisione. Posò di nuovo gli occhi sulla scultura che stava intagliando.
Un cane in corsa, con la testa alta e le zampe levate. Decise di donarlo
ad Arken, il figlio della sua primogenita. In genere regalava le sue
sculture, anche se avrebbe potuto venderle. Ma non aveva bisogno di
denaro: ne aveva a sufficienza e in caso di bisogno poteva guadagnarne.
Ciò che gli mancava erano la pace interiore e uno scopo nella vita.
Purtroppo, anche dopo due anni dalla sua decisione, non era riuscito a
trovarli. Si girò a guardare la costruzione dietro di lui, singolarmente
buia e silenziosa in mezzo alla cacofonia della città. Il portone era
chiuso: non aveva perso tempo ad aprirlo. A volte lo faceva, per avere
l'impressione di lavorare davvero, ma ultimamente lo lasciava chiuso,
perché lo deprimeva la visione dell'interno buio e silenzioso, e poi
avrebbe richiamato l'attenzione dei passanti, i quali gli avrebbero
chiesto se non avesse cambiato idea. Con la punta del piede spostò i
trucioli. Era meglio che il passato rimanesse chiuso. Si alzò per andare
ad accendere la lanterna appesa sopra un ingresso laterale che gli
avrebbe permesso di continuare il lavoro. Sapeva che avrebbe fatto
meglio a tornare a casa, ma si sentiva stranamente irrequieto, e non
riusciva a separarsi dai rumori della città. Dechtera era una città
molto particolare, che parlava con un linguaggio tutto suo. Lo si poteva
capire oppure no, ma, se non lo si capiva, se non se ne sentiva il
fascino, era meglio trasferirsi da qualche altra parte. Negli ultimi
tempi, per la prima volta nella sua vita, aveva cominciato a pensare di
avere ascoltato a sufficienza quel linguaggio. Rifletteva su quella
nuova idea, e aveva smesso di scolpire il legno, quando vide arrivare
tre forestieri. Non li vide subito, perché indossavano mantelli scuri
con cappuccio, era già scesa la sera e la strada era affollata, ma li
fissò con curiosità quando si diressero verso di lui. Nessuno era più
venuto a trovarlo, negli ultimi mesi. Lo colpirono i cappucci: non
faceva un po' troppo caldo per tenerli alzati? Che avessero qualcosa da
nascondere? Il fabbro si alzò per salutarli. Era alto e magro, con
braccia massicce, petto ampio, mani enormi. Aveva il viso stranamente
liscio per la sua età, abbronzato e dai tratti decisi. Portava una rada
barbetta e i capelli neri si stavano ritirando dalla sommità del capo
verso le orecchie e il collo. Posò la scultura e lo scalpello, e attese
con le mani appoggiate sui fianchi. Quando i tre lo raggiunsero, il più
alto si sfilò il cappuccio, e Urprox Screl lo riconobbe e lo salutò. Era
il suo visitatore del giorno prima, l'uomo della Frontiera, venuto da
Varfleet: un tipo tranquillo, serio, con molte più cose per la mente di
quante non ne dicesse. Aveva comprato un coltello ed era venuto a
complimentarsi per l'eccellenza del suo lavoro. Almeno, così aveva
detto, e aveva promesso che sarebbe tornato. "Hai mantenuto la promessa"
lo salutò. "Kinson Ravenlock" gli rammentò l'uomo. Urprox Screl annuì.
"Ricordo." "Questi sono gli amici che volevo presentarti." I due si
sfilarono il cappuccio: erano una giovane donna e un vecchio. "Mi
chiedevo se potevamo parlarti per qualche minuto." Il fabbro li studiò,
senza rispondere subito. Provò una vaga inquietudine, un senso di
disagio. Chiaramente, quei tre avevano fatto molta strada e non si
sarebbero arresi con facilità. L'uomo della Frontiera gli aveva chiesto
il permesso per educazione, non perché intendesse lasciargli scelta.
Sorrise. Nonostante i presentimenti, era incuriosito. "Di cosa volete
parlarmi?" Fu il vecchio a farsi avanti, e il cacciatore della Frontiera
si fece da parte. "Abbiamo bisogno della tua abilità di fabbro." Urprox
Screl continuò a sorridere. "Ho cessato l'attività." "Kinson dice che
sei il più abile e che il tuo lavoro è il migliore che abbia visto. Non
lo direbbe se non fosse vero. Conosce bene le armi e gli armaioli.
Kinson ha viaggiato molto nelle Quattro Terre." Il cacciatore assentì.
"Ho ammirato la spada di quel venditore. Non ho mai visto una
lavorazione simile. Hai un talento senza uguali." Urprox Screl sospirò.
"Non perdete altro tempo. Ero bravo in quel lavoro, ma non lo faccio
più. Non lavoro più il metallo, non accetto incarichi particolari.
Adesso scolpisco il legno." Il vecchio annuì, senza scomporsi. Fissò la
scultura che Urprox aveva posato sulla panca. "E' tua?" chiese. "Posso
guardarla?" Urprox si strinse nelle spalle e gliela porse. Il vecchio la
studiò con attenzione, ne seguì le linee col dito, sinceramente
interessato. "E' molto bella" disse infine, passandola alla giovane, che
la prese senza fare commenti. "Ma non come le armi che hai fatto. La tua
vera abilità sta là. Nel lavorare il metallo. E' da molto tempo che
scolpisci il legno?" "Fin da bambino" rispose Urprox, a disagio. "Cosa
volete da me?" "Dovevi avere una ragione molto importante" continuò il
vecchio, senza rispondergli "per tornare a scolpire il legno dopo un
tale successo come armaiolo." Urprox si sentì saltare la mosca al naso.
"Importantissima, e non ho intenzione di discuterne con voi." "Certo, ma
temo che dovrai farlo. Abbiamo bisogno di te, e sono venuto qui per
convincerti ad aiutarci." Urprox lo guardò stupefatto, non era abituato
a tanta sincerità. "Be', almeno sei onesto. Ma adesso che so le tue
intenzioni potrò respingere meglio i tuoi tentativi. Sprechi il tuo
tempo." Il vecchio sorrise. "Le sapevi già. Avevi già capito che abbiamo
fatto molta strada per venire da te e che perciò ti consideriamo molto
importante. Dimmi, allora: perché hai smesso di lavorare il metallo,
dopo tanto tempo?" Urprox Screl aggrottò la fronte. "Ero stufo." Non
aggiunse altro, e dopo qualche istante il vecchio commentò: "Sono sicuro
che c'erano altri motivi". S'interruppe, e Urprox ebbe l'impressione che
i suoi occhi fossero diventati bianchi, fissi e impenetrabili come
quelli di una statua. Gli parve che il vecchio gli leggesse nel cuore.
"Hai perso il coraggio" disse infatti, a bassa voce. "Sei un uomo
gentile, con moglie e figli, e nonostante la tua forza fisica non ami la
violenza. Ma le tue armi uccidevano e ferivano, e infine hai deciso di
non fabbricarne altre. Potevi permettertelo e avevi un'altra attività.
Perciò non hai più acceso il forno e ti sei dedicato ad altro. La sola
che lo sa è tua moglie Mina. Nessuno degli amici ti ha capito. Ti
giudicano pazzo. Ti evitano come se avessi una malattia contagiosa." Gli
occhi ritornarono normali e lo fissarono. "Sei diventato uno straniero
nella tua stessa città e non ne capisci la ragione. Ma la verità è che
possiedi la benedizione di un talento senza pari, e chiunque conosca il
tuo lavoro non accetta che tu lo sprechi così." Urprox Screl sentì un
brivido. "Puoi pensare quello che vuoi . Ma adesso che me l'hai detto,
non ho più voglia di parlare con te. Ti pregherei di andartene." Il
vecchio si guardò attorno, ma non si mosse. La folla si era diradata, la
notte avanzava, e all'improvviso Urprox Screl si sentì solo e indifeso.
A portata di voce c'erano molti conoscenti che l'avrebbero aiutato,
eppure si sentì completamente isolato. La giovane donna gli restituì la
scultura. Nel prenderla, Urprox la guardò negli occhi e fu attratto da
lei in modo inspiegabile. In qualche modo, capì che la giovane aveva
compreso perfettamente la sua decisione. Era lo stesso sguardo di Mina,
e il fabbro fu sorpreso di vederlo sul volto di una sconosciuta. "Chi
siete?" chiese guardandoli tutti e tre. Anche ora, fu il vecchio a
parlare. "Siamo tre persone a cui è stato affidato un incarico di vitale
importanza. Abbiamo fatto molta strada per portarlo a termine. Tu sei
importante per il nostro scopo, ma sei solo una delle tante componenti
che ci occorrono. Ci serve una spada, Urprox Screl, una spada diversa da
tutte le altre. Occorre la mano di un grande fabbro per forgiarla. Avrà
doti straordinarie e non servirà per uccidere, ma per salvare. Sarà al
tempo stesso il lavoro più difficile e più bello che tu o chiunque abbia
mai fatto." Il fabbro sorrise nervosamente. "Grandi parole. Ma non so se
posso crederci." "Non vuoi crederci perché non vuoi forgiare altre armi.
Perché ti sei fatto una promessa e vuoi mantenerla." "Esatto. Quella
parte della mia vita è finita. L'ho giurato e non tornerò indietro,
nemmeno per voi." "E se ti dicessi" continuò il vecchio, in tono grave
"che forgiando quella spada salverai migliaia di vite? Cambieresti
idea?" "Sì, ma è impossibile" insistette Urprox, con ostinazione.
"Nessuna arma può essere in grado di farlo." "E se tra le vite che puoi
salvare ci fossero anche quelle di tua moglie e dei tuoi figli? E se il
tuo rifiuto costasse loro la vita?" Il fabbro gonfiò il petto. "Adesso è
in pericolo anche la mia famiglia? Devi essere davvero disperato, per
arrivare a queste minacce!" "E se ti dicessi che queste cose
succederanno entro pochi anni?" Urprox cominciò a vacillare. Il vecchio
sembrava assai convinto. "Chi sei?" gli chiese di nuovo. Il vecchio gli
si avvicinò. "Mi chiamo Bremen" gli rispose, fissandolo. "Mi conosci?"
Urprox annuì lentamente. Per non arrendersi subito, dovette fare appello
a tutte le sue forze. "Ho sentito parlare di te. Sei uno dei Druidi." Il
vecchio sorrise. "E questo ti fa paura?" "No." "Hai paura di me?" Il
fabbro non rispose. Si limitò a serrare la mascella. Bremen annuì. "Non
devi avere paura. Sono tuo amico, anche se puoi aver pensato il
contrario. Non intendo minacciarti. Dico solo la verità. Ci occorre il
tuo talento, ne abbiamo disperatamente bisogno. Il pericolo riguarda
tutte le Terre. Noi combattiamo per salvare la vita a molte persone, tra
cui ci sono di sicuro tua moglie e i tuoi figli. Non esagero nel dirti
che soltanto noi possiamo salvarli." Urprox sentì di nuovo vacillare la
sua determinazione. "Ma di cosa si tratta, esattamente?" Il vecchio fece
un passo indietro. "Te lo mostrerò." Sollevò la mano e la passò davanti
alla faccia del fabbro. Questi vide l'aria animarsi e brillare, assumere
forma e colore. Vide le rovine di una città, gli edifici abbattuti,
l'aria grigia per il fumo degli incendi. Era Dechtera. La gente giaceva
per strada e nelle case, morta. Le uniche forme che si muovevano per
curvarsi sui cadaveri non erano umane, ma mostruose e perverse. Era una
visione... ma con tutte le parvenze della realtà. La visione svanì. Con
un brivido, Urprox scorse di nuovo il vecchio. "Hai visto bene?" chiese
il druido. Il fabbro annuì. "Era il futuro di questa città. Quando cadrà
Dechtera, il Nord sarà già caduto, Elfi e Nani saranno stati distrutti.
L'onda tenebrosa che li sta travolgendo sarà arrivata fin qui." "E' una
menzogna!" protestò il fabbro. Angosciato, spaventato, non fu capace di
ragionare. Negò la visione. Mina e i suoi figli morti? Morti tutti
coloro che conosceva? No, non era possibile! "Una sgradevole verità" lo
corresse Bremen. "Non una menzogna." "Non posso credere a una cosa
simile! Non ti credo!" "Allora, guardami negli occhi" gli ordinò il
vecchio. Incapace di opporsi, Urprox Screl fece come gli era stato
ordinato. Fissò gli occhi di Bremen e anche ora li vide diventare
bianchi. In qualche modo incomprensibile, gli parve che la sua essenza
venisse aspirata verso di essi, e gli apparvero immagini di ciò che era
già successo e di ciò che stava per succedere, immagini così
sconvolgenti che gridò, disperato: "Basta! Non farmi vedere altro!" e
chiuse gli occhi contro quell'assalto. Bremen abbassò lo sguardo e
Urprox Screl sentì di nuovo lo stesso brivido gelido di prima, che ora
gli percorse tutto il corpo. Il vecchio annuì. "Io ho finito con te. Da
quello che hai visto, hai capito che ho detto la verità. Accetta la mia
parola: la mia necessità è vera e autentica. Aiutami a fare ciò che
devo." Urprox annuì. Sentiva una profonda oppressione al petto. "Ti
ascolterò" concesse a malincuore. "Questo, almeno, posso farlo." Ma già
sapeva che avrebbe fatto anche il resto. Urprox si sedette sulla panca e
Bremen prese posto accanto a lui, come due vecchi amici che parlassero
di lavoro. Il cacciatore della Frontiera e la giovane donna li
ascoltavano, in piedi accanto a loro. Lungo la strada, la gente
continuava a passare senza fermarsi. Forse non li vedeva, pensò Urprox
Screl. Forse erano invisibili. Infatti, non appena Bremen ebbe
cominciato a parlare, il fabbro si rese conto di quanta magia fosse
coinvolta in quel lavoro. Per prima cosa, Bremen gli parlò del Signore
degli Inganni e della conquista delle Terre del Nord. L'Est era stato
invaso e poi sarebbe toccato all'Ovest. Il Sud sarebbe stato l'ultimo, e
a quel punto, come nella visione apparsa al fabbro, non ci sarebbe stato
scampo. Il Signore degli Inganni era una creatura di magia sopravvissuta
al di là della sua vita mortale, che aveva chiamato a sé mostri dalla
forza sovrannaturale. Le normali armi non erano in grado di colpirlo.
Occorreva una spada di ferro e di magia, una lama in cui si unissero le
conoscenze dei Druidi e dei fabbri, magiche e scientifiche. "Dev'essere
forte nei due campi" spiegò Bremen. "Deve resistere a qualsiasi arma le
venga opposta, di ferro o di magia. Il metallo dovrà essere il più
robusto che si possa creare, e occorreranno scienza e magia. Tu fornirai
la prima, io la seconda. Ma il tuo lavoro sarà la parte più importante,
perché se la spada fosse priva delle sue caratteristiche fisiche, la mia
magia non farebbe presa." "Cosa sai della lavorazione dei metalli?"
chiese Urprox che, suo malgrado, cominciava a provare interesse. "I
metalli e le varie temperature devono essere questi, perché la lega
acquisti la robustezza voluta" rispose Bremen, porgendogli le istruzioni
di Cogline. Urprox lesse con attenzione la pergamena, annuendo di tanto
in tanto. Sì, la lega era giusta, e così le prime temperature, poi si
fermò, sorridendo. "Questo calore!" "Hai letto con attenzione? Nessuno
ne ha più raggiunto di simili da quando è stato distrutto il vecchio
mondo! Forni e formule sono spariti insieme. Non abbiamo il modo di
raggiungere questi risultati." Bremen annuì, poi chiese: "A che
temperatura resiste la tua forgia? A che calore può arrivare?". Il
fabbro si strinse nelle spalle. "Qualsiasi calore si possa generare. Io
stesso l'ho costruita, e la parete è di mattoni refrattari, incastrati
fra loro senza calce. Non è il forno a preoccuparmi. Il problema è il
fuoco. Non abbiamo un combustibile in grado di farci raggiungere la
temperatura richiesta dalla formula. Dovresti saperlo." Bremen si fece
ridare il foglio. "Ci basta arrivare per breve tempo alla temperatura
più alta. E posso occuparmene io." Urprox annuì. Il druido intendeva
usare la magia per alzare la temperatura della fusione. Ma era davvero
possibile? Era una temperatura enorme. Gli rivolse un'occhiata dubbiosa
"Sei disposto a farlo?" gli chiese Bremen. "Un'ultima accensione del
forno, un'ultima fusione?" Il fabbro esitò per qualche istante, preso
nel dilemma. Da una parte c'erano le sue promesse di due anni prima,
dall'altra la sfida di costruire una simile arma, davvero unica, per
salvare la famiglia e la città. Ammise che aveva dei buoni motivi per
dire di sì. E anche per dire di no. "Abbiamo bisogno di te, Urprox"
intervenne il cacciatore della Frontiera, e la giovane donna assentì
senza parlare. Tutti attesero la sua riposta. Be', pensò, le sculture in
legno non avevano la perfezione dei suoi lavori in metallo, lo sapeva
anche lui. Erano una scusa. In fondo, era sciocco fingere che la sua
decisione servisse a cambiare il mondo. Perciò poteva benissimo forgiare
un'ultima spada, che avrebbe salvato innumerevoli vite. Il vecchio aveva
detto la verità? Non poteva esserne certo, ma pensava che l'avesse
detta. Per tutta la vita si era vantato di saper riconoscere gli uomini,
oltre ai metalli. Quell'uomo, druido o meno, era onesto e leale, credeva
nella propria causa. Così, finì per annuire e per stringersi nelle
spalle, dicendo: "Be', se è l'unico modo per evitare ulteriori seccature
da parte vostra, ti farò la spada che desideri tanto!". Discussero fino
a tardi di quello che occorreva per forgiare la spada. Urprox doveva
procurarsi i metalli da fondere e il carbone per accendere la fornace, e
sarebbe occorso qualche giorno per far salire la temperatura al valore
richiesto per l'inizio della lavorazione. La fusione in sé avrebbe
richiesto poco tempo, se Bremen fosse stato in grado di alzare la
temperatura nelle ultime fasi. La matrice era pronta da tempo e per
darle le caratteristiche volute da Bremen sarebbe bastata qualche
modifica. Bremen gli mostrò il medaglione con l'immagine del pugno che
stringeva la fiaccola, e gli disse che era l'Eilt Druin, e che occorreva
incastonarlo nell'impugnatura dell'arma. Urprox scosse la testa, dicendo
che il calore l'avrebbe fuso, ma Bremen gli disse di non preoccuparsi.
L'Eilt Druin era stato creato con la magia e poteva essere distrutto
solo dalla magia. Il fabbro non sapeva se credergli o no, ma non fece
commenti. La cosa non lo riguardava, dopo tutto, lui doveva soltanto
controllare che lega e temperature corrispondessero alle istruzioni. In
tre giorni avrebbe fatto il lavoro. Però, c'erano altre considerazioni.
Tutti sapevano che aveva smesso di lavorare, e di conseguenza avrebbero
fatto domande, nel vedere che il forno era acceso. Il vecchio, però, gli
disse di non preoccuparsi. Mentre Urprox Screl si occupava dei fuochi e
dei metalli, lui e i suoi compagni si sarebbero occupati della curiosità
dei concittadini. Quella notte si salutarono con una stretta di mano e
il fabbro, nel tornare a casa, sentì crescere l'eccitazione per quel
nuovo genere di lavoro. L'indomani mattina, mentre facevano colazione,
parlò a Mina della sua decisione. Come sempre, non le nascose niente. La
moglie gli chiese alcuni particolari, ma non cercò di fargli cambiare
idea. Toccava a lui decidere, disse, perché solo lui poteva sapere cosa
gli veniva chiesto e a quali conseguenze andava incontro. Secondo lei,
aveva fatto bene ad accettare. Quanto ai tre forestieri, non doveva dare
ascolto alle voci del popolino sui Druidi, ma giudicarli dalle loro
azioni e dalla loro sincerità. Come sempre, Mina l'aveva capito meglio
di chiunque altro. Quel pomeriggio arrivò il carbone, scavato nelle
miniere dell'Est e portato con le chiatte fino a Dechtera, il portone fu
spalancato e il forno venne acceso. Arrivarono anche i metalli scelti
secondo le istruzioni di Cogline, e Urprox Screl cercò le matrici e le
pulì. Lavorò da solo, rifiutando l'aiuto offerto dagli altri. Si era
costruito lui stesso l'attrezzatura: con ingegnosi sistemi di carrucole
e di manovelle gli bastava una sola mano per spostare ciò che gli
serviva. Quanto ai curiosi, si limitarono a guardare, senza entrare e
senza rivolgergli domande, come lui aveva temuto. Si diceva - anche se
nessuno sapeva dire da dove venisse la voce - che Urprox Screl aveva
acceso il forno non perché avesse intenzione di rimettersi in affari, ma
perché stava trattando la cessione della bottega e l'acquirente voleva
assicurarsi che il forno funzionasse come promesso. Era un uomo del Sud,
si diceva, che si era fatto accompagnare dalla giovane moglie e dal
padre, un uomo avanti negli anni. Di tanto in tanto li si poteva vedere
accanto a Screl, nella bottega, o in qualche altra parte della città, a
informarsi sulla convenienza dell'acquisto. Per Urprox il tempo passò in
fretta. I suoi dubbi svanirono quando riprese il lavoro, entusiasta
all'idea del compito che lo attendeva. A memoria d'uomo, nessun fabbro
aveva mai lavorato con la magia, nelle Quattro Terre, e l'idea di farlo
era eccitante. Sapeva in cuor suo quello che Kinson Ravenlock aveva
affermato, ossia di essere il migliore armaiolo esistente. Adesso gli
veniva chiesto di superare se stesso, di creare un'arma assolutamente
straordinaria, ed era lusingato dalla fiducia che gli veniva dimostrata.
Non sapeva se la spada potesse fare ciò che il vecchio druido si
aspettava da essa, se potesse fermare il Signore degli Inganni. Ma
lasciava a Bremen quel problema e pensava soltanto al lavoro che lo
attendeva e che andava al di là della sua immaginazione. Era così preso
dai preparativi che soltanto due giorni dopo si ricordò di come nessuno
avesse accennato al pagamento... ma dopo un istante capì che il
pagamento, in ciò che stava facendo, era proprio l'aspetto meno
importante. Constatò con piacere di non essersi dimenticato nulla, nei
due anni di inattività. Accese il fuoco e controllò la temperatura del
forno facendo fondere piccole quantità di metalli diversi. Di tanto in
tanto comparivano il druido e i suoi due compagni per chiedergli se
avesse bisogno di loro. Non sapeva dove andavano quando non erano con
lui. Si domandava se il pericolo era veramente grave come gli aveva
detto il vecchio e rifletteva sul proprio coinvolgimento. Ma a quel
punto non avrebbe fatto differenza: ormai aveva preso l'aire e niente
poteva fermarlo. Pensava solo al lavoro e si stupiva di essere riuscito
a farne a meno per tanto tempo: l'acre odore del carbone, il suono del
metallo gettato nel crogiolo, il calore della vampa sulla pelle, le
ceneri e il fumo del camino erano come vecchi amici che venivano a
salutare il suo ritorno. Era preoccupato dalla facilità con cui aveva
ceduto e si chiedeva se sarebbe stato davvero in grado di smettere, una
volta finito quel lavoro. Il terzo giorno, verso sera, i tre fecero
ritorno. La forgia era pronta e sembravano saperlo anche se non
gliel'aveva detto. I metalli erano già nel forno, crogioli, tenaglie e
matrici aspettavano soltanto di essere usati. Urprox Screl conosceva la
formula a memoria. Per qualche tempo sedettero sulla soglia della
bottega, aspettando che la città e la sua gente andassero a riposare.
Non parlarono, e pian piano, attorno a loro, i rumori cessarono: la
popolazione della città era come un mare che si frangeva contro rocce
sempre più lontane. Le taverne e le case si riempirono progressivamente,
la gente sparì dalla strada. Il vecchio si alzò e prese per mano Urprox.
"Questa notte dovrai fare la tua opera migliore" disse. "Dovrà essere
così, se vogliamo essere certi del risultato." Il fabbro annuì. Si era
spogliato fino alla cintola e i suoi muscoli luccicavano di sudore. "Io
farò la mia parte. Tu cerca di fare la tua." Bremen sorrise alla
battuta. "Non hai paura di ciò che stai per fare, vero?" "Paura? Del
fuoco e del metallo? Di fare una spada dopo che ne ho fatte migliaia,
anche se questa sarà forgiata dalla magia?" Scosse la testa. "Sarebbe
come aver paura dell'aria che respiro. E' solo una variante di ciò che
ho fatto per tutta la vita. Di cosa dovrei aver paura? Di sbagliare? Di
non farcela?" "La magia è imprevedibile. Anche se ti comporterai come
sempre, la magia potrebbe tradirci." Il fabbro studiò per qualche
istante il druido, poi rise. "Tu non credi che possa succedere. Nel tuo
campo, sei esperto quanto io lo sono nel mio. Moriresti piuttosto di
sbagliare magia." I due si guardarono in silenzio mentre la vampa della
fornace illuminava il loro volto. "Mi vuoi mettere alla prova un'ultima
volta" disse il fabbro. "Non preoccuparti. Sono pronto." Ma il druido
scosse la testa. "Cerco di valutare i possibili effetti su di te. Non
puoi accostarti alla magia e uscirne senza alcun cambiamento. Dopo
questa notte, la tua vita non sarà più la stessa. Devi saperlo." Urprox
Screl lo guardò con ironia. "Io spero che sia così. Ti confesso una
cosa. A parte Mina e i miei figli, sono stufo della mia vita attuale.
L'ho capito soltanto dopo averti incontrato. Adesso che lo so, saluterei
con gioia qualsiasi cambiamento." Sentì che lo sguardo del druido
penetrava dentro di lui e si chiese se non avesse parlato
avventatamente. Poi Bremen annuì. "Bene. Cominciamo." Per anni, dopo
quella notte, si parlò dell'accaduto; e le voci, passando di bocca in
bocca, si rivestirono dei colori della leggenda. Venivano dalle fonti
più disparate, ma tutte avevano preso le mosse da qualcuno che,
passando, si era fermato a dare un'occhiata a quello che succedeva nella
bottega di Urprox Screl. Il portone era aperto per il ricambio
dell'aria, e coloro che si avvicinarono videro scene che sembravano
frutto di follia. Quella notte Urprox Screl forgiò una spada, ma nessuno
seppe dire con esattezza in che modo l'avesse fatto. L'unico particolare
su cui concordarono tutti i testimoni fu la descrizione dei presenti,
che si muovevano come spettri intorno alla fornace, per portare avanti e
indietro l'occorrente per la fusione. C'era il fabbro, il più famoso
armaiolo della città, colui che da due anni aveva lasciato il lavoro e
che poi, senza parlarne con nessuno, vi era ritornato per una notte.
C'era il vecchio vestito di nero, che a volte pareva quasi trasparente,
a volte duro e impervio come la pietra. E c'erano l'uomo della Frontiera
e la giovane donna. Ciascuno sembrava avere un proprio ruolo. Il fabbro
e il vecchio lavoravano l'uno accanto all'altro per forgiare la spada.
L'uomo della Frontiera li aiutava andando a prendere questo o quello,
mettendo a disposizione la sua forza. La fanciulla stava accanto alla
porta e si assicurava che nessuno entrasse o si fermasse troppo a lungo.
Stranamente, fu lei a colpire maggiormente i visitatori. Alcuni
riferirono che cambiava forma per allontanare i curiosi, e per un
momento diventava una bestia dei mondi inferi o un leone di palude.
Altri dissero che aveva danzato nuda davanti alla fornace, in un rito
propiziatorio della tempra del metallo. Altri ancora sostennero che
bastava una sua occhiata per precipitare un uomo nella follia. Tutti
affermarono che era ben più di quello che sembrava. Sul fatto che quella
notte si fosse usata la magia, tutti erano d'accordo. Il bagliore del
fuoco era troppo intenso, il calore troppo alto, il crepitio, quando
venne versato il metallo fuso, troppo acuto. Alcuni dissero di aver
visto uscire dalle mani del vecchio una luce incandescente che aveva
alimentato il fuoco della forgia, aveva contribuito a sollevare il
crogiolo e poi, dopo la fusione, aveva lucidato la spada e le aveva dato
il filo. Mentre il fabbro infilava nella fornace i vari metalli, mentre
mescolava la lega e ne toglieva le scorie, il vecchio continuava a
intonare una sua arcana salmodia. Il metallo entrò nel fuoco e ne uscì.
La fusione venne versata nella matrice, temprata, martellata. E ogni
volta si accese la magia del vecchio, per contribuire al procedimento.
Oh, certo, nella fusione di quella spada s'era impiegata la magia: tutti
i testimoni lo riferirono. Parlarono anche dell'immagine di una mano che
stringeva una fiaccola. Nessuno ne conosceva il significato, ma era
onnipresente. Alcuni la videro su un medaglione che il vecchio trasse di
tasca. Altri la videro proiettata sulle pareti o sul soffitto dal
riflesso delle fiamme. Altri ancora la videro levarsi dalle fiamme
stesse, nel momento in cui il fuoco era più caldo, come uno spirito si
leva dal corpo dopo la morte. Ma coloro che la videro per ultimi dissero
che era incastonata nell'impugnatura della spada, fusa con il metallo:
la mano pareva stringere l'impugnatura della spada e la fiamma della
fiaccola sembrava percorrere la lama fino alla punta. Per fondere,
temprare, modellare e affilare la spada occorse il resto della notte.
Quando la lama rovente venne tuffata nell'acqua perché prendesse la
tempra, si udirono strani rumori, e non solo il fischio del vapore.
Così, nel fuoco della fornace c'erano colori che nessuno aveva mai
visto, un arcobaleno che trascendeva quello noto a qualsiasi fabbro in
quella città di fabbri. Nell'aria si coglievano sapori e odori
sconosciuti: coloro che passavano davanti alla fornace davano
un'occhiata, si meravigliavano di quelle esplosioni di luce e poi, colti
da una strana oppressione, si affrettavano ad allontanarsi. All'alba la
spada era pronta e i tre forestieri erano spariti. Nessuno li vide
allontanarsi. Nessuno seppe mai dove fossero andati. Anche la spada era
scomparsa, e si disse che l'avessero presa i tre. Per tutto il giorno la
bottega rimase vuota, mentre il forno si raffreddava. Prima che si
raffreddasse del tutto sarebbero passati parecchi giorni. Alcuni che si
avvicinarono all'ingresso per curiosare riferirono che il pavimento
scintillava come per un fuoco fatuo. Magia, sussurravano. Senza dubbio.
Urprox Screl andò a casa e non ritornò. La bottega, annunciò, era di
nuovo chiusa. Parlò ai vicini e ai conoscenti in tono normalissimo e
disse loro che non era successo niente di strano. Aveva forgiato una
spada per un potenziale acquirente, il quale gli aveva chiesto qualche
giorno per riflettere. Nel dirlo, sorrideva. Sembrava tranquillo, ma
aveva lo sguardo lontano, distratto. Dopo meno di un mese, lasciò la
città. Portò con sé la moglie, i figli e i nipoti, l'intera famiglia. A
quell'epoca circolava già la voce che si fosse venduto anima e corpo
agli stregoni del Nord. La gente lo evitava. Meglio che se ne fosse
andato, dissero tutti. Nessuno sapeva dove fosse finito, anche se
circolavano alcune voci. Le voci circolano sempre. Alcuni dicevano che
era andato nelle Terre di Frontiera e che aveva cambiato nome per non
farsi riconoscere. Un uomo raccontò, qualche anno dopo, di averlo visto.
Era un mercante di gioielli, e viaggiava per tutte le Quattro Terre. In
un piccolo villaggio sul Lago Arcobaleno, disse, aveva trovato Urprox
Screl. Solo, non si chiamava più Screl. Ora si faceva chiamare Creel.
24
Vento e pioggia si scagliavano contro i bastioni della Rocca di Stedden,
come per imitare la lotta furiosa che aveva luogo davanti al portone del
castello. Due volte l'esercito del Nord aveva dato l'assalto alle mura e
due volte era stato ricacciato indietro dai Nani. Ormai era notte e la
luce era talmente scarsa che non si riusciva a vedere a più di qualche
passo di distanza, tranne quando i lampi illuminavano l'intera catena
del Corvo. Avrebbero perso anche quella cittadella, pensava Risca,
mentre scendeva veloce la scala che dal muro di cinta portava al cortile
per cercare Raybur. Del resto, nessuno aveva pensato di poterla tenere.
Il fatto di essere riusciti a resistere fino a quel momento era un
piccolo miracolo. E anche l'essere sopravvissuti a settimane di
battaglie e ritirate. Ma il tempo e le risorse a loro disposizione si
esaurivano progressivamente. Ormai non avrebbero più potuto fermare
l'attacco. Dov'erano gli Elfi? Perché non arrivavano? Per settimane,
dopo la fuga dal Wolfsktaag, i Nani erano riusciti a impegnare i soldati
del Nord. L'esercito del Signore degli Inganni li aveva battuti ogni
volta, ma avevano continuato a lottare. Nel Wolfsktaag erano stati
fortunati: erano riusciti a fuggire con un esiguo spargimento di sangue.
Ma una simile fortuna non era durata. Da allora avevano combattuto una
decina di scaramucce, e spesso gli avversari l'avevano avuta vinta, o
per la perseveranza o grazie alla fortuna. I Nani caduti prigionieri
erano stati passati per le armi. Avevano combattuto selvaggiamente e
ucciso un grandissimo numero di attaccanti, ma questi sembravano
indifferenti alle perdite. Inferiori per numero e costretti alla
ritirata, i Nani non avevano possibilità di salvezza contro un esercito
così potente. Erano coraggiosi e decisi, ma erano stati costretti a
ripiegare ad ogni scontro. Adesso erano sulle Montagne del Corvo e
correvano il rischio di dover lasciare anche quella protezione. Il
Wolfsktaag e l'Anar centrale erano in mano al nemico, la città di
Culhaven era stata una delle prime a cadere. Il Fiume Argento, dal Lago
Arcobaleno al Cillidellan, era sotto il dominio degli uomini del Nord.
Non c'era modo di sapere se avessero conquistato anche le Terre della
Frontiera, ma era probabile. Quanto ai Nani, se si fossero dovuti
ritirare dalle Montagne del Corvo, avrebbero potuto rifugiarsi soltanto
nei Picchi e nella fortezza del Dun Fee Aran. Persi quelli, sarebbero
rimaste solo le regioni ancor più a oriente, in gran parte inesplorate.
Sarebbe finita così, supponeva Risca. Il castello sarebbe caduto
l'indomani. I nemici avevano già superato il fossato e i trabocchetti
sotto le mura, e stavano preparando le scale per salire sui bastioni. Né
vento né pioggia li fermavano, perché c'era qualcosa che li spaventava
più delle forze della natura: l'orrida creatura che li comandava. A
spingerli era una magia nera e terribile, e forse, nelle loro attuali
condizioni, persino la morte era preferibile alle conseguenze di un
fallimento. Risca arrivò in fondo alla scala e si avviò attraverso il
cortile. Il rumore della battaglia lo investì subito: una cacofonia che
neppure il fragore della tempesta riusciva ad attutire. Un ariete
continuava a colpire il portone con ottusa, regolare insistenza. Il
legno rabbrividiva e cigolava, ma teneva. In cima alle mura, i Nani
scagliavano frecce e lance contro gli assedianti, ammassati così
fittamente che era impossibile mancarli. In basso, un tratto delle mura
era ancora avvolto dalle fiamme: l'olio incendiato con cui era stato
respinto un precedente attacco. I difensori correvano avanti e indietro,
per riformare gli schieramenti ogni volta che cadeva qualcuno, ma non
erano sufficienti a coprire tutto il perimetro. Raybur comparve
all'improvviso, in mezzo al caos, e lo prese per il braccio. "Riusciremo
a resistere finché non arriveranno con le scale" gridò avvicinando il
viso a quello del giovane. Risca annuì. Era esausto e scoraggiato. Era
stanco di fuggire, stanco di essere inseguito, e l'idea di dover presto
riprendere la fuga lo faceva andare in collera. "La galleria è pronta"
rispose a bassa voce. Era sceso a controllare che la via di fuga fosse
libera. Lo stesso Geften era andato a esplorarla ed era tornato con la
conferma. I Nani sarebbero fuggiti per una galleria scavata nella
roccia; all'uscita si sarebbero trovati nelle fitte foreste del
fondovalle e avrebbero fatto perdere le loro tracce. Raybur lo portò
nella torre da cui Risca era appena uscito. Come furono al riparo, lo
fissò con severità. "Cos'è successo agli Elfi?" chiese con ira
trattenuta a stento. Risca scosse la testa. "Se Tay Trefenwyd avesse
trovato il modo di farli venire subito, sarebbero già qui. Dev'essere
successo qualcosa, ma non abbiamo modo di saperlo." Raybur scosse la
testa, disgustato. "Questa guerra diventa un po' sbilanciata, vero? Noi
e nessun altro, contro un esercito di quella dimensione." Dall'alto
delle mura giunse un grido, e alcuni difensori corsero a sostituire il
nano colpito. "E quanto dovremo resistere? Ad ogni scontro perdiamo
uomini, e non ne abbiamo molti da perdere!" La sua collera era
comprensibile. Uno dei caduti era il suo primogenito Wyrik, ucciso
quattro giorni prima da una freccia. Si stavano ritirando lungo l'Anar
per raggiungere le Montagne del Corvo e Stedden. La freccia era
penetrata nella gola e gli si era piantata nel cervello. Era morto
all'istante. Raybur, che in quel momento era accanto a lui, l'aveva
visto cadere e l'aveva preso fra le braccia. I due uomini si fissarono
per qualche istante; entrambi pensavano alla morte del giovane: ciascuno
lo lesse nello sguardo dell'altro. Raybur distolse gli occhi. "Se solo
avessimo una parola, un'assicurazione che stanno arrivando..." Scosse di
nuovo la testa. "Bremen non ci abbandonerà" asserì Risca. "Qualsiasi
cosa succeda, lui verrà." Raybur aggrottò la fronte. "Se è ancora vivo."
Le parole parvero echeggiare tra loro, taglienti nel silenzio, cariche
d'accusa e di disperazione. Poi, la prospettiva della morte di Bremen
venne improvvisamente cancellata da uno schianto terribile: il gemito
delle lastre di metallo che cedevano e delle travi di legno che si
spezzavano. Entrambi capirono subito cos'era successo, ma il primo a
dirlo fu Raybur. "Il portone" Corsero nel cortile, mentre un lampo
squarciava il buio della notte. Davanti a loro, il portone principale si
era piegato sotto i colpi dell'ariete. La sbarra era rotta, i cardini
erano usciti dal montante. I Nani lo puntellavano con travi, ma presto
anche quelle avrebbero ceduto. Sulle mura, i difensori si preparavano ad
abbandonare le postazioni. All'improvviso comparve Fleer, che si rivolse
al padre: "Dobbiamo fuggire tutti!" gridava. Era pallido e sconvolto.
"Da' l'ordine!" gli rispose secco Raybur. "Ritirarsi dalle mura,
scendere nella galleria! Sono stufo di questo assedio!" Fleer corse via
e Raybur, rosso di collera, si diresse verso il portone. Intuendo le sue
intenzioni, Risca lo seguì e lo prese per il braccio. "No, Raybur" gli
disse. "Tu porta via gli altri. Lo affronto io, l'attacco!" "Da solo?"
ribatté il re, liberando il braccio. "E tu?" ribatté Risca. "Quanti
uomini volevi far rimanere qui? Va', porta via gli uomini!" La pioggia
colava nei loro occhi costringendoli a sbattere le ciglia. "E' una
pazzia!" disse il re, a denti stretti. Risca scosse la testa. "Tu sei il
re e devi salvarti. Che ne sarebbe dei Nani, se tu morissi? Inoltre, io
sono protetto dalla magia dei Druidi, tu no. Va', Raybur!" Nel battente
di destra del portone si aprì una grossa breccia: il legno si scheggiò,
si sbriciolò e cadde a terra. Alcune forme scure si infilarono
nell'apertura, si vedevano scintillare le loro armi. Risca alzò le mani
per evocare la magia. Raybur esitò, poi corse via chiamando i generali e
dando gli ordini per la ritirata. I Nani scesero dalle mura e
raggiunsero la porta della torre da cui si accedeva alla galleria. Gli
uomini che difendevano il portone erano già fuggiti. Risca rimase solo
nel cortile, sotto la pioggia, e attese con calma. Era stata una
decisione facile per lui: era stufo di correre, di essere inseguito.
Voleva fermarsi e combattere. Quando la prima ondata di assalitori uscì
dal varco, Risca scagliò il Fuoco Magico contro di loro bruciando tutto
ciò che gli stava davanti. Le fiamme colpirono le schegge di legno e
distrussero le prime file di guerrieri del Nord, mentre gli altri
indietreggiavano, incapaci di resistere al calore. Risca continuò ancora
per qualche istante a scagliare il fuoco, poi lo lasciò morire. La magia
scorreva dentro di lui come un fiume esaltante che spazzava dubbi e
paure, stanchezza e dolore. Gli succedeva sempre così nelle battaglie,
erano il sangue che gli dava la vita. L'ariete riprese a colpire; in
breve cadde anche il secondo battente, allargando l'ingresso. Ma nessuno
si avvicinò. Risca guardò in alto, e in mezzo alla cortina di pioggia
vide gli ultimi Nani uscire dalle torri di guardia e allontanarsi dai
bastioni. Entro pochi istanti, sarebbe rimasto solo. Sapeva che avrebbe
fatto meglio a fuggire con gli altri, finché poteva. Rimanere era
inutile. Eppure, non riusciva ad allontanarsi. Gli pareva di avere in
mano le sorti della battaglia, come se rimanendo saldo in quella
posizione potesse fermare la distruzione che incombeva su tutti loro.
Poi, nell'ingresso annerito dal fuoco comparve un'enorme forma nera.
Risca aspettò, curioso di vedere cosa fosse. La forma scura arrivò nel
punto illuminato dalla debole luce del Fuoco Magico che si spegneva. Era
una delle creature che Brona aveva evocato dall'inferno. Col favore
delle tenebre era uscita dal suo nascondiglio: una creatura di
mucillagini e sudiciume, spine e piastre ossee, corpo massiccio e
braccia lunghe e muscolose. Si reggeva in piedi come gli uomini, ma
sarebbe stato difficile definirla umana: camminava curva, come
schiacciata dal peso della sua bruttezza; solo i suoi occhi gialli
brillavano per il desiderio di uccidere. Quando scorse il druido,
rallentò e si voltò verso di lui. Portava un'enorme clava, così pesante
che per sollevarla le occorrevano entrambe le mani munite di artigli.
"Be', ci siamo" mormorò Risca tra sé. La creatura rimase ferma per
qualche istante nel varco, poi avanzò in mezzo ai resti del portone. Non
era seguita da nessuno, anche se Risca udiva gli uomini del Nord
muoversi, appoggiare le scale e farsi sotto nel buio per prepararsi
all'attacco in massa che li avrebbe portati nella rocca. E intanto
mandano questa creatura a sfidarmi, pensò Risca. Cosa credono, che non
sia in grado di vincerla? O è una prova per accertarsi dei miei poteri?
Qual è lo scopo di questa stupidaggine? Naturalmente, non sapeva le
risposte. Il mostro si stava avvicinando, era già nel cortile, lo
fissava con occhi simili a lanterne. Cercano di intrappolarmi, decise il
druido. Pensano di impegnarmi con questo loro campione per arrivare in
forze mentre noi combattiamo. L'arroganza di un simile piano lo spinse a
sorridere. La creatura infernale arrivò davanti a lui con la clava
levata, per colpire e parare i colpi. Risca avrebbe ancora potuto
fuggire, ma non arretrò di un palmo. I soldati del Nord lo osservavano.
Sapevano chi era e volevano vedere come reagiva. Be', in tal caso,
avrebbe fornito loro qualcosa di memorabile! Quando il mostro arrivò a
pochi passi da lui, Risca sollevò rapido la scure da guerra,
impugnandola con entrambe le mani, girò su se stesso per darle slancio e
la scagliò contro il nemico, che era quasi sopra di lui e stava per
colpirlo. Il mostro non ebbe il tempo di parare il colpo. L'ascia gli si
piantò nella fronte e gli spaccò la testa con uno scricchiolio di
metallo sull'osso. Per la forza del colpo, la testa del mostro si piegò
all'indietro. Il sangue gli colò sulla faccia: una fetida secrezione
nerastra che gli riempì la bocca spalancata. Il mostro cadde in
ginocchio, morto, e ruzzolò in avanti. Risca si stava già allontanando
in direzione della porta, quando scorse dei movimenti a destra e a
sinistra, nel buio, e proiettò istintivamente una vampata di fuoco. A
quel chiarore improvviso, scorse alcuni Messaggeri del Teschio che si
spostavano furtivi fra le ombre, ali nere e occhi rossi come braci, per
circondarlo. Il nano digrignò i denti. Avevano fatto più in fretta del
previsto: erano scesi dalle mura mentre lui aspettava cavallerescamente
il loro finto campione. Si lanciò a sinistra, contro il più vicino, e lo
colpì con una fiammata di Fuoco Magico. Il cacciatore alato cadde
all'indietro, soffiando con furia, e il suo fuoco esplose tra il nano e
la torre verso la quale si dirigeva. Poi qualcosa urtò Risca e lo
scagliò a terra: uno dei Messaggeri del Teschio, che cercava di colpirlo
con gli artigli. Il druido rotolò su se stesso e si rimise in piedi. Dai
punti colpiti dal fuoco si levava una nube di vapore, che andava a
mescolarsi con la pioggia togliendo ancor più la visibilità. Dal portone
della rocca giunsero le grida trionfali dei soldati del Nord che si
precipitavano nel cortile senza incontrare opposizione. Un altro
Messaggero attaccò, con uno scatto che Risca riuscì a malapena a
evitare. Le prime frecce e i primi giavellotti cominciavano a cadere
accanto a lui, e si diede dello stupido per aver perso tutto quel tempo.
Scagliò una lingua di Fuoco Magico a destra, una a sinistra e si lanciò
in mezzo ai Messaggeri per raggiungere la torre. Non si guardò alle
spalle, nel timore di incontrare una magia che lo paralizzasse;
allontanò un altro Messaggero che gli si era parato davanti per
bloccarlo. Disperato, scagliò fuoco in tutte le direzioni, per farsi
largo tra i nemici che convergevano su di lui, e percorse l'ultimo
tratto correndo freneticamente, come se lui stesso fosse andato a fuoco;
infine, si catapultò attraverso la porta. Rotolò nel buio, si rialzò
subito e si lanciò avanti. All'interno del castello regnava il buio più
profondo, tutte le torce erano spente, ma lui conosceva bene la strada e
non aveva bisogno di luce per trovarla. Arrivò in fondo al primo
corridoio e si girò per un istante: quanto bastava per lasciare dietro
di sé una parete di fuoco. Li avrebbe fermati per poco, ma gli bastava.
Un attimo dopo, entrò nella galleria, si chiuse alle spalle la porta
massiccia rinforzata da barre di metallo e la sprangò. Ormai non
sarebbero più riusciti a prenderlo. Almeno per quella notte. Ma c'era
mancato poco, e forse, la prossima volta, non sarebbe stato così
fortunato. Si asciugò il sangue che gli colava negli occhi e solo allora
sentì il bruciore di una ferita sulla fronte. Niente di grave, comunque,
se ne sarebbe occupato più tardi. Raybur e gli altri lo aspettavano in
qualche punto della galleria. Risca conosceva troppo bene il re dei
Nani, e sapeva che non l'avrebbe abbandonato. Degli amici ti puoi
fidare. Deglutì perché all'improvviso sentì un nodo in gola. Se era
davvero così, si chiese, perché Tay e gli Elfi non arrivavano? La notte
era scesa da tempo anche su Arborlon e la città era avvolta in una
coltre buia. Diversamente dall'Est, non pioveva. Jerle Shannara era
fermo davanti a una finestra del padiglione estivo e aspettava l'alba.
Quella notte non era riuscito a dormire, ancora tormentato dai dubbi che
avevano cominciato ad assillarlo quando era morto Tay Trefenwyd. Era
quasi arrivato in cima alla salita su cui si era incamminato qualche
settimana prima, e l'indomani, all'alba, avrebbe raggiunto la vetta, ma
nel frattempo non poteva fare a meno di pensare a tutte le decisioni che
era stato costretto a prendere perché non aveva scelta. "Ritorna qui,
amore" gli disse Preia, dall'interno della stanza. "Stavo riflettendo"
rispose lui, in tono assente. Lei lo raggiunse e lo abbracciò. "Da
qualche tempo, rifletti un po' troppo." Era vero, pensò Jerle. Non era
così, in passato, quando Tay era vivo, prima dell'arrivo del Signore
degli Inganni e delle tragedie che avevano colpito gli Elfi. A
quell'epoca si sentiva più libero, privo di responsabilità e di scelte
obbligate. Il suo futuro gli apparteneva completamente, tutto il mondo
gli era aperto. Com'era cambiata in fretta, la sua vita! Prese la mano
della giovane donna. "Continuo a non provare alcun desiderio per la
corona." Ma l'avrebbero incoronato l'indomani al sorgere del sole,
secondo una tradizione che risaliva al tempo di Faerie. Ormai la
decisione era presa: a imporre a Jerle quella scelta era stata la serie
di eventi iniziata con la morte di Courtann Ballindarroch e conclusasi
con la scomparsa del suo ultimo figlio. Per qualche settimana gli Elfi
avevano sperato di veder tornare il principe dalla sua folle spedizione
alla ricerca degli assassini del padre. Alyten era un giovane impulsivo,
e avrebbe fatto meglio a non andare in cerca di guai. Gli uomini del
Nord, che speravano in una simile mossa, lo aspettavano. Si erano fatti
scoprire e inseguire da lui, l'avevano attirato in un'imboscata e
ucciso. I pochi superstiti avevano riportato in città il suo corpo. Con
lui moriva l'ultimo erede diretto dei Ballindarroch, e così la speranza
di Jerle di evitare il trono. Naturalmente gli Elfi si erano subito
rivolti a lui. Molti non avrebbero voluto comunque Alyten come re. Gli
uomini del Nord dominavano le Pianure di Streleheim impedendo i contatti
con le altre Razze e presto avrebbero cercato di invadere l'Ovest.
Aspettavano solo che il Signore degli Inganni tornasse dopo aver
sconfitto i Nani. Così avevano riferito gli esploratori. Il Gran
Consiglio, però, non aveva preso decisioni perché aspettava il ritorno
di Alyten e la sua incoronazione ufficiale. Adesso, però, tutti
pensavano che Jerle Shannara, cugino del re e famoso in tutto l'Ovest
come guerriero e stratega, fosse la sola speranza degli Elfi. Tuttavia,
il dibattito sarebbe continuato a lungo se non si fosse verificata una
situazione simile e se non fosse intervenuta Preia Starle. Si era recata
da Jerle non appena avevano riportato il corpo di Alyten, quando nella
popolazione si erano accese le discussioni, con il rischio di
irreparabili divisioni tra gli Elfi. "Non puoi permetterlo" gli aveva
detto. Anche quella volta era notte, una notte afosa come questa. "Sei
l'unica speranza degli Elfi, e lo sai. Ci sarà da combattere, per
sopravvivere. Gli uomini del Nord non ci risparmieranno. Al momento
opportuno, soltanto tu potrai guidarci. Dovendo farlo in qualsiasi caso,
guidaci come re." "Il mio diritto alla corona verrà costantemente messo
in dubbio" aveva ribattuto Jerle, stanco di discutere. "Mi ami?" aveva
chiesto lei, all'improvviso. "Lo sai che ti amo." "Ti amo anch'io.
Perciò, dammi retta. Sposiamoci. Fa' in modo che sia per sempre la tua
compagna e la tua consigliera. Lo sono già, e di conseguenza non sarà un
passo difficile. Ma legati a me davanti a tutti gli Elfi. Di' al Gran
Consiglio che accetti la corona, e che noi adotteremo i due piccoli
Ballindarroch che hanno perso la famiglia e ne faremo i nostri figli.
Non hanno altri parenti, e possiamo prenderli noi. Questo farà cessare
le discussioni. I bambini potranno salire al trono quando saranno
adulti. Così si salderanno tutte le fratture verificatesi con la morte
dei Ballindarroch e gli Elfi potranno pensare alla loro sopravvivenza!"
E così era stato. Con la sua insistenza, Preia l'aveva convinto. In
seguito, Jerle aveva pensato con ammirazione a quanto fosse semplice la
soluzione proposta da lei. Lui l'avrebbe sposata in qualsiasi caso,
perché l'amava. Gli Elfi preferivano che il loro re avesse eredi, e i
Ballindarroch erano cari a tutti: così la gente aveva accolto con gioia
la notizia dell'adozione e con entusiasmo quella dell'incoronazione di
Jerle Shannara. Ora, mentre Preia lo abbracciava, Jerle ripensò a quegli
avvenimenti. Tutto era successo molto in fretta. "Non vorresti avere
figli, Preia?" le chiese. Lei rifletté per qualche istante sulla
domanda... o forse sulla risposta. Jerle cercò di non guardarla. "Voglio
vivere con te" ripose, alla fine. "Per il momento mi è difficile pensare
ad altro. Quando gli Elfi saranno di nuovo al sicuro, quando il Signore
degli Inganni sarà stato sconfitto..." S'interruppe e lo fissò negli
occhi. "vuoi sapere se i legami di sangue faranno qualche differenza
nella mia dedizione ai nostri figli adottivi? Certamente no. Se non
avremo altri figli, i nostri figli saranno quelli. Proprio come se
fossero nostri. Sei soddisfatto?" Jerle annuì, pensando a come si fosse
trasformato il loro rapporto dopo la morte di Tay. Aveva pensato a lungo
all'affermazione di Preia che forse avrebbe scelto Tay, se lui
gliel'avesse chiesto. La cosa, però, non gli dava fastidio. Aveva voluto
molto bene a Tay, e adesso che era morto non riusciva a provare rancore
per lui. "Ti farò entrare nel Gran Consiglio" le disse. "E ci sarà anche
Vree Erreden. Quando potrò farlo, lo nominerò primo ministro. Sei
d'accordo?" Preia annuì. "Hai davvero cambiato opinione su di lui,
vero?" Jerle si strinse nelle spalle. "Chiederò di mobilitare l'esercito
per marciare verso est... anzi, lo ordinerò." Raddrizzò le spalle con
decisione. "Farò ciò che voleva Tay. Non abbandonerò i Nani. E
consegnerò la Pietra Nera a Bremen. Anche se dovessi fallire come re,
non sarà per mancanza di coraggio o di volontà!" Era un'affermazione
impulsiva, fatta per vincere i dubbi e le insicurezze che sentiva. Preia
lo sapeva. Non poteva permettersi esitazioni. La linea di confine tra
successo e fallimento, tra vita e morte, era troppo sottile. Si appoggiò
a lui. "Farai il tuo dovere, e ciò che è giusto. Sarai re. E non avrai
rimpianti. Guiderai il tuo popolo e lo salverai. E' il tuo destino,
Jerle. Vree Erreden l'ha già letto nella visione. Devi fare in modo che
si avveri." Lui tacque a lungo prima di rispondere. "Io vedo soprattutto
che non ho scelta. E penso sempre a Tay." Per qualche minuto rimasero
fermi davanti alla finestra, senza parlare. Poi Preia lo portò
nell'altra stanza del padiglione, dove c'era il loro letto, e rimase
abbracciata a lui fino al mattino.
25
Ansiosi di recuperare il tempo che intuivano d'avere perduto, Bremen e i
suoi due compagni comprarono dei cavalli e si misero in viaggio verso
settentrione, attraverso le Terre del Sud, diretti ai territori della
Frontiera e al Fiume Argento. Mantennero un'andatura regolare,
fermandosi solo per rifocillarsi e riposare, e non parlarono molto. I
loro pensieri erano dominati dai ricordi della forgiatura della spada,
immagini così vivide da dare l'impressione, anche dopo giorni, che tutto
fosse avvenuto solo qualche istante prima. Era innegabile che gli
effetti della magia evocata avessero trasceso la pura e semplice
forgiatura della spada. In qualche modo, forse diverso per ciascuno di
loro, erano stati cambiati dalla creazione del talismano. Erano come
neonati: la forgiatura li aveva rimodellati, e si domandavano cos'erano
diventati. Fu Kinson Ravenlock a portare la spada. Appena fuori città,
Bremen l'affidò a lui, spinto da una necessità che il druido non riuscì
a nascondere del tutto all'amico: era come se non potesse sopportare il
peso dell'arma, tollerarne il contatto. Fu un momento bizzarro e
sconvolgente, ma Kinson prese la spada senza far parola, e se l'agganciò
sulla schiena. Non era certo preoccupato per il peso, ma non poteva non
tenere conto dell'importanza della spada per il futuro delle Quattro
Razze. Tuttavia, non avendo avuto visioni sulla riva del Perno dell'Ade,
non doveva sopportare, come Bremen, il peso di ciò che era connesso col
potere della spada. La portava come avrebbe portato una qualsiasi altra
arma, e se da una parte ripensava di continuo alla sua creazione,
dall'altra non si preoccupava del passato, ma del presente. Di notte, a
volte, sguainava la spada e la esaminava. Non l'avrebbe fatto, se la
prima notte Mareth non glielo avesse chiesto, spinta da una curiosità
più forte della trepidazione, perché le sue riflessioni su ciò che si
era manifestato nella fucina alimentavano il bisogno di esaminare più
attentamente il risultato delle loro azioni. Bremen non si era opposto,
però si era alzato e si era allontanato nel buio, così Kinson non aveva
avuto motivo per non accondiscendere alla richiesta di Mareth. Avevano
tenuto la spada alla luce del fuoco e l'avevano esaminata. Era un'arma
eccellente, perfettamente bilanciata, liscia e sottile e lucente, così
leggera da poter essere usata con una mano sola, malgrado la sua
lunghezza. L'Eilt Druin era fuso nell'impugnatura, all'altezza della
guardia, e la fiamma della torcia nella mano stretta a pugno correva
lungo la lama come per bruciarla fino alla punta. La spada non mostrava
alcun difetto, cosa virtualmente impossibile in una forgiatura normale,
ma giustificata dalla formula di Cogline e dalla magia di Bremen. A
Kinson venne in mente, dopo alcuni giorni, che la sua mancanza di
reverenza per l'importanza di quel talismano derivava in parte dal fatto
che Bremen pareva non sapere ancora come dovesse agire. Indubbiamente
era destinato a distruggere il Signore degli Inganni... ma in quale
modo? La natura della magia di cui la spada era impregnata rimaneva un
mistero perfino per il druido. La spada era destinata a un guerriero
degli Elfi, questo, almeno, gli aveva rivelato la visione di Galaphile.
Ma cosa doveva fare, il guerriero, con quella spada? Doveva usarla come
un'arma normale? Data la natura del potere del Signore degli Inganni,
non pareva probabile. Nella spada c'era di sicuro una magia che Brona
non avrebbe potuto contrastare, una magia che avrebbe sopraffatto tutte
le sue difese e l'avrebbe distrutto. Ma qual era, questa magia? C'era
una certa magia nell'Eilt Druin, si diceva, ma Bremen non era mai
riuscito a scoprire di quale si trattasse ed era sicuro che, qualunque
fosse, nella sua lunga vita non era stata usata neppure una volta. Il
vecchio druido l'aveva ammesso, sia con l'uomo della Frontiera sia con
la giovane donna, senza alcuna reticenza, ma con un misto di perplessità
e curiosità. Il mistero della magia della spada non era un ostacolo per
Bremen, ma una sfida che lui affrontava con la stessa decisione mostrata
nella ricerca del fabbro che la forgiasse. In fin dei conti, non era
ragionevole pensare che la semplice forgiatura bastasse a impregnare la
spada della magia richiesta. Nemmeno l'inserimento dell'Eilt Druin
pareva sufficiente. Occorreva dell'altro, e lui doveva scoprire cosa. Si
sentiva rassicurato, confidò a Kinson a un certo punto, dal fatto che
erano arrivati ad avere la spada. Proprio per questo era convinto di
poter ottenere tutto ciò che cercavano. Secondo il suo modo di pensare,
Kinson la riteneva una premessa alquanto dubbia; ma nel periodo in cui
era stato insieme a lui, il vecchio druido aveva portato a termine un
buon numero di imprese grazie alla pura e semplice forza della
convinzione, quindi Kinson non aveva motivo per cominciare adesso a
mettere in dubbio le sue parole. Se la spada possedeva una magia in
grado di distruggere il Signore degli Inganni, Bremen avrebbe scoperto
di quale magia si trattava. Se il destino prevedeva un confronto, Bremen
avrebbe fatto sì che il risultato fosse favorevole alla loro causa. Così
si addentrarono nelle Terre del Sud e tornarono nelle Pianure del
Tumulo, puntando al Fiume Argento. La destinazione, disse ai compagni il
vecchio druido, era il Perno dell'Ade. Avrebbe fatto un'altra visita
agli spiriti dei morti, per accertare la futura linea d'azione. Lungo la
strada avrebbero cercato di sapere che fine avevano fatto i Nani. Il
tempo caldo e afoso li costringeva a soste frequenti per far riposare i
cavalli. Le ore si trascinavano con lentezza. Non videro traccia del
conflitto che sapevano in atto a settentrione, non trovarono segno della
presenza dell'esercito del Nord, non udirono dai viandanti notizie di
eventi fuori del normale. Tuttavia avevano il persistente, fastidioso
sospetto d'essersi allontanati troppo dallo scopo iniziale del viaggio e
la sensazione che al ritorno avrebbero scoperto d'aver perso troppe
possibilità. Nel tardo pomeriggio del primo giorno nelle Pianure del
Tumulo, Bremen diede l'alt anche se mancavano alcune ore al crepuscolo,
e lasciò le terre basse per inoltrarsi tra le Querce Nere. Come
all'andata, avevano seguito un precario percorso fra le due zone
paludose, tenendosi alla larga dai pericoli di ciascuna. Ora Bremen
abbandonò la prudenza e guidò i compagni direttamente nella foresta
proibita. Kinson si allarmò, ma tenne a freno la lingua. Di sicuro
Bremen aveva un buon motivo per fare quella deviazione. Si inoltrarono
nelle Querce Nere solo per un centinaio di passi, tanto che potevano
ancora scorgere fra gli alberi le praterie scolorite dal sole, pur
avendo davanti le zone più buie della foresta, e smontarono di sella.
Lasciata Mareth a badare ai cavalli, il druido condusse Kinson in un
folto di robinie, esaminò pensierosamente gli alberi, infine trovò un
ramo che gli pareva adatto e disse a Kinson di tagliarlo. L'uomo della
Frontiera ubbidì senza fare commenti, usando il proprio coltello per
intaccare il legno duro. Bremen gli disse di tagliar via i rametti
secondari, poi prese il rozzo bastone e annuì. Tornarono ai cavalli,
rimontarono in sella e uscirono dalla foresta. Kinson e Mareth si
scambiarono occhiate perplesse, ma non domandarono spiegazioni. Si
accamparono poco dopo in una valletta che non era molto di più di una
depressione fra gli alberi. Bremen disse a Kinson di scortecciare il
ramo di robinia per farne un bastone. Kinson lavorò per quasi due ore,
mentre gli altri due preparavano la cena e badavano ai cavalli. Quando
Kinson ebbe fatto del suo meglio, lisciando le sporgenze e i nodi dei
rametti secondari, Bremen riprese il bastone. Il giorno si stava
riducendo a qualche debole striatura luminosa verso ponente e la notte
seguiva dappresso le ombre sempre più lunghe e il cielo sempre più
scuro. I tre si accomodarono intorno a un piccolo fuoco, vicino agli
alberi delle Querce Nere, ben lontani dalle pianure. Poco distante, un
torrentello usciva dalla foresta, scrosciava sopra una serie di rocce e
scompariva serpeggiando nel buio. La notte era calma e vuota, priva
d'intrusioni rumorose, di movimento, di sguardi indiscreti. Bremen si
alzò e si accostò al fuoco, tenendo davanti a sé il bastone, in
verticale, un'estremità saldamente appoggiata al terreno e l'altra
puntata al cielo, le mani strette nel punto mediano. Il bastone era alto
come un uomo, ancora ruvido per la scortecciatura eseguita da Kinson.
"Rimanete seduti finché non avrò terminato" ordinò senza dare
spiegazioni. Chiuse gli occhi e restò immobile. Dopo un momento, le sue
mani cominciarono a risplendere di luce bianca. Lentamente la luce si
diffuse lungo il bastone, verso l'alto e verso il basso. Quando il
bastone ne fu completamente avvolto, la luce cominciò a pulsare. Kinson
e Mareth guardavano in silenzio. La luce impregnò il legno, lo rese
quasi trasparente. Serpeggiò su e giù secondo bizzarri disegni, con
lentezza sulle prime, poi con maggiore rapidità. Per tutto il tempo
Bremen rimase immobile come una statua, a occhi chiusi, concentrato. Poi
la luce morì, tornando nelle mani del druido prima di svanire. Bremen
aprì gli occhi. Trasse un lungo, lento respiro e mostrò il bastone. Il
legno era diventato nero come la pece, liscio e lucido. Una traccia
della luce che l'aveva avvolto si rifletteva nella sua intensa
lucentezza, appena una scintilla che tremolava e spariva prima di
ricomparire in un altro punto, elusiva come il riflesso nell'occhio di
un gatto. Bremen sorrise e porse il bastone a Mareth. "E' per te." Lei
lo prese e si stupì per la sensazione che provava. "E' ancora caldo!" "E
resterà caldo" disse Bremen, tornando a sedersi, con una traccia di
stanchezza nel viso pieno di rughe. "La magia che lo permea rimarrà nel
bastone finché sarà intero." "E qual è lo scopo di questa magia? Perché
dai il bastone proprio a me?" Il vecchio druido si sporse un poco e la
luce del fuoco cambiò la trama di rughe che gli scolpiva il viso. "Il
bastone è destinato ad aiutarti, Mareth. Hai cercato a lungo e a fatica
un modo per controllare la tua magia, per impedire che si scateni, forse
addirittura che ti consumi. Ho riflettuto parecchio su questo problema.
Credo che il bastone sia la risposta. Funziona come un canale di
scarico. Tienilo ben piantato nel terreno, e il bastone smaltirà
l'eccesso della magia che vuoi usare." Esitò, scrutandola negli occhi.
"Capisci cosa significa, vero? Sono convinto che dovrai usare di nuovo
la magia, adesso che viaggiamo a settentrione. Ogni altra previsione
sarebbe poco realistica. Il Signore degli Inganni ci cercherà, e verrà
il momento in cui dovrai proteggere te stessa e forse anche altri.
Potrei non essere presente per aiutarti. La tua magia è troppo
importante, e devi essere in grado di fare affidamento su di essa. Mi
auguro che il bastone ti permetta di usarla senza paura." Mareth annuì
lentamente. "Anche se la magia è innata?" "Anche in questo caso. Ti
occorrerà del tempo per imparare a usare correttamente il bastone.
Vorrei poterti promettere che avrai quel tempo, ma non posso. Devi
ricordare lo scopo del bastone e, se hai la necessità di difenderti,
regola i tuoi pensieri tenendo bene in mente il bastone." Mareth lo
guardò in tralice. "Non devo agire avventatamente. Non devo usare la
magia senza prima pensare al bastone. Non devo usare la magia senza
prima sistemare il bastone e aprire un canale per far defluire
l'eccesso." Bremen sorrise. "Sei svelta, Mareth. Se fossi tuo padre,
sarei davvero orgoglioso di te." Lei ricambiò il sorriso. "Ti considero
mio padre in ogni caso. Non come un tempo, ma sempre con affetto." "Sono
lusingato. Ora il bastone è tuo, non dimenticare a cosa serve. Raggiunto
il Fiume Argento, saremo di nuovo in territorio nemico e ricomincerà la
battaglia contro il Signore degli Inganni." Quella notte dormirono bene
e ripartirono all'alba. Cavalcarono adagio, facendo riposare spesso i
cavalli nel caldo di mezza estate, procedendo sempre verso settentrione.
Alla loro destra, le Pianure del Tumulo tremolavano sotto il sole,
spoglie e deserte, prive di movimento. Alla loro sinistra, le Querce
Nere erano una muraglia scura, silenziosa come le pianure, alta e
impervia. Ancora una volta cavalcarono quasi sempre in silenzio: Kinson
portava la spada, Mareth il bastone, Bremen il peso del loro futuro. Al
calar della sera avevano evitato gli acquitrini della Palude della
Nebbia ed erano giunti al Fiume Argento. Impaziente di arrivare alle
alture che si trovavano subito dopo, in modo da poter controllare quel
giorno stesso le Pianure di Raab e tutto il territorio settentrionale,
Bremen decise di attraversare il fiume. Trovarono un tratto di secche,
dove il fiume era basso a causa del periodo di siccità, e mentre il sole
si tuffava esausto nel piatto luccichio del Lago Arcobaleno, risalirono
una serie di alture fino a un promontorio. Lì, al riparo di un folto
d'alberi, smontarono, impastoiarono i cavalli e procedettero a piedi.
Ormai la luce del giorno era diventata un riflesso grigio argento e le
ombre della sera si allungavano. L'aria, sempre soffocante, era velata
di foschia e sapeva di polvere e d'erba secca. Uccelli notturni volavano
nel buio in cerca di cibo: movimenti fulminei che comparivano e
svanivano nel giro di un istante. Tutt'intorno gli insetti ronzavano,
affamati. Giunsero al bordo del promontorio, mentre il sole arrossava le
terre basse, e si fermarono. Sotto di loro si estendeva l'intero
esercito del Nord. Era accampato parecchie miglia più a settentrione,
nel cuore delle pianure, cosicché i particolari delle insegne da
battaglia non si scorgevano con chiarezza, ma era troppo esteso e scuro
per essere scambiato per qualcos'altro. I fuochi erano già accesi,
piccoli guizzi di luce che punteggiavano come lucciole le praterie.
Cavalli e carri si spostavano pigramente, con cigolio di ruote e di
tirelle, mentre cavalieri e conducenti vociavano in tono aspro nel
riordinare provviste e armi. Le tende, protette dalla massa
dell'esercito, si gonfiavano nella calda brezza. Una di esse, di un nero
impenetrabile, tutta spigoli e punte, si innalzava da sola al centro
esatto dell'accampamento, circondata da un ampio tratto di terreno
sgombro, simile a un fossato. Il druido, l'uomo della Frontiera e la
giovane donna guardarono in silenzio la scena. "Cosa ci fa, qui,
l'esercito del Nord?" domandò alla fine Kinson. Bremen scosse la testa.
"Non saprei. Di sicuro è uscito dall'Anar, dove l'abbiamo visto l'ultima
volta, perciò forse ora va verso ponente..." Lasciò morire la frase
senza precisare il resto. Se l'esercito del Signore degli Inganni si
ritirava dalle Terre dell'Est, allora la battaglia contro i Nani era
terminata e adesso, con ogni probabilità, sarebbe toccato agli Elfi. Ma
che fine avevano fatto Raybur e il suo esercito? Che ne era di Risca?
Kinson Ravenlock scosse la testa, scoraggiato. Erano trascorse settimane
dall'invasione dell'Est. In quel tempo potevano essere accadute molte
cose. In piedi, con la spada di Urprox Screl agganciata sulla schiena,
si domandò all'improvviso se non fossero giunti troppo tardi con il
talismano. Sganciò il fermaglio della cinghia, liberò la spada e la
porse a Bremen. "Dobbiamo sapere cosa sta succedendo. E tocca a me
cercare di scoprirlo." Depose anche la propria spada da guerra tenendone
solo una più corta e il coltello da caccia. "Dovrei tornare all'alba."
Bremen annuì, senza discutere: capiva benissimo cosa voleva dire l'uomo
della Frontiera. Potevano scendere tutti e due a fare un sopralluogo, ma
era il druido quello di cui non potevano fare a meno. Ora che avevano la
spada, dovevano scoprire chi e come l'avrebbe usata. Bremen era l'unico
in grado di farlo. "Vengo con te" disse all'improvviso Mareth,
d'impulso. L'uomo della Frontiera sorrise. Non s'aspettava quella
proposta. Rifletté un momento, poi le disse, non senza gentilezza: "In
due si raddoppiano le difficoltà, se ci si deve muovere di nascosto.
Aspetta qui con Bremen. Aiutalo a tenere d'occhio il mio ritorno. La
prossima volta potrai andare tu al mio posto". Si agganciò il cinturone
con le due armi rimastegli e iniziò a scendere il pendio, nella luce che
si affievoliva. Sparito l'uomo della Frontiera, il vecchio druido e la
giovane donna si spostarono fra gli alberi e si accamparono. Consumarono
un pasto freddo, riluttanti ad accendere un fuoco a causa della
vicinanza dell'esercito delle Terre del Nord e della più che probabile
presenza di Messaggeri del Teschio in caccia. Il viaggio e il caldo
avevano prosciugato le loro energie e si scambiarono solo qualche
parola, prima che Bremen montasse di guardia e Mareth riposasse. Il
tempo passò lentamente, la notte divenne più buia, in lontananza i
fuochi dell'accampamento nemico si fecero più vividi, il cielo si aprì
in un profluvio di stelle. Non c'era luna, quella notte: o era nuova,
oppure così bassa a meridione da non superare lo schermo d'alberi alle
spalle del promontorio. Bremen si accorse che la sua mente andava ad
altri tempi e altri luoghi. Ripensò alla lunga storia di Paranor e si
domandò se il Consiglio dei Druidi si sarebbe riunito ancora. Da dove
sarebbero giunti nuovi Druidi, ora che i vecchi erano morti? Le
conoscenze perdute con la loro morte erano insostituibili. Alcune erano
state trascritte negli Annali, ma non tutte. Per quanto fossero sul
punto di estinguersi e si tenessero in isolamento, i Druidi erano stati
gli individui più brillanti di parecchie generazioni delle Quattro
Terre. Chi avrebbe preso il loro posto? Era una domanda priva di senso,
perché se lui avesse fallito nel tentativo di distruggere il Signore
degli Inganni, non c'era motivo di credere che rimanesse vivo qualcuno
per riunire un nuovo Consiglio di Druidi. Peggio ancora, questa
considerazione lo induceva a riflettere di nuovo sul fatto che lui
ancora non aveva trovato un successore. Lanciò un'occhiata a Mareth
addormentata, e per un istante si domandò se lei avrebbe accettato: da
quando avevano lasciato Paranor, si era avvicinata a lui e possedeva un
genuino talento. Era dotata di una magia di potenza incredibile e ne
teneva in grande considerazione le possibilità. Ma niente garantiva che
sarebbe riuscita a padroneggiare la sua micidiale magia: se non ci fosse
riuscita, sarebbe stata inutile. I Druidi dovevano avere disciplina e
controllo, prima di tutto. Mareth, al momento, lottava ancora per
acquisirli. Riportò lo sguardo sulle Pianure di Raab, poi lasciò vagare
la mano lungo il proprio fianco, fino a posarla sulla spada. Quell'arma
era ancora un mistero, pensò sconsolato. Che cosa gli serviva per
scoprire la soluzione? Sarebbe andato al Perno dell'Ade a chiedere aiuto
ai Druidi, ma non aveva nessuna garanzia di ottenerlo. L'ultima volta si
erano addirittura rifiutati di comparirgli davanti. Perché avrebbero
dovuto cambiare idea adesso? La presenza della spada li avrebbe persuasi
a uscire dal mondo delle ombre? Avrebbero deciso di rispondere alla sua
evocazione perché anche loro un tempo erano stati esseri umani e
potevano capirne le necessità? Chiuse gli occhi e se li massaggiò
stancamente. Quando li riaprì, vide che un fuoco di guardia dei nemici
si muoveva verso di lui. Batté le palpebre, incredulo, sicuro d'averlo
immaginato. Ma il fuoco, un tremolante puntino luminoso nella vasta
oscurità delle pianure, continuò ad avanzare, ad avvicinarsi
serpeggiando. Pareva librato a mezz'aria. Bremen si alzò, suo malgrado,
e cercò di decidere cosa fare. Stranamente, non si sentiva minacciato,
solo incuriosito. Poi la luce si delineò e prese forma, e Bremen vide
che era portata da un bambino dal viso liscio e dai penetranti occhi
azzurro chiaro. Mentre si avvicinava, tenendo alta la luce, lo salutò
con un sorriso. Bremen batté di nuovo le palpebre. Non aveva mai visto
una luce come quella: non aveva fiamma, ma brillava in un contenitore di
vetro e di metallo, come alimentata da una stella in miniatura. "Salve,
Bremen" disse il bambino, a bassa voce. "Salve" rispose Bremen. "Sembri
stanco. Il viaggio ha preteso molto, da te. Ma hai fatto molto, perciò
forse il sacrificio è stato un prezzo equo." Negli occhi azzurri c'era
uno scintmio . "Sono il Re del Fiume Argento. Hai sentito parlare di
me?" Bremen annuì. Aveva sentito parlare di quella creatura dell'epoca
di Faeria, l'ultima della sua specie. Si diceva risiedesse nei dintorni
del Lago Arcobaleno e lungo il tratto di fiume da cui prendeva il nome.
Si diceva che esistesse da migliaia d'anni, che fosse uno dei primi
esseri creati dal Verbo. Si diceva che le sue visioni e la sua magia
fossero in egual misura antiche e lungimiranti. Compariva di tanto in
tanto ai viandanti in difficoltà, spesso in sembianze di bambino, a
volte di vecchio. "Sei seduto nei miei giardini" disse il bambino, con
un lento e ampio gesto. "Se guardi con attenzione, puoi vederli." Bremen
guardò, e all'improvviso il promontorio e le pianure sbiadirono e si
trovò seduto in giardini lussureggianti d'alberi in fiore e di
rampicanti, l'aria era fragrante di profumi, il fruscio dei rami simile
a un dolce canto contro il serico buio della notte. La visione svanì.
"Sono venuto per farti riposare e rassicurarti" disse il bambino.
"Stanotte, almeno, dormirai in pace. Non occorrerà far la guardia. Il
tuo viaggio ti ha portato molto lontano da Paranor, ed è tutt'altro che
terminato. Troverai sfide ad ogni piè sospinto, ma se camminerai con
prudenza e darai retta al tuo intuito, sopravvivrai per distruggere il
Signore degli Inganni." "Sai cosa devo fare?" domandò subito Bremen.
"Puoi dirmelo?" Il bambino sorrise. "Devi fare ciò che ritieni meglio.
Così è fatto il futuro. Non ci viene dato già stabilito. Si compone di
una serie di possibilità: noi dobbiamo scegliere quali ci piacciono di
più e poi sforzarci di realizzarle. Tu ora stai andando al Perno
dell'Ade. Porti la spada agli spiriti dei Druidi morti e scomparsi. Ti
pare una scelta sbagliata?" Tutt'altro: Bremen la riteneva giusta. "Però
ho qualche dubbio" confessò. "Fammi vedere la spada" chiese con
gentilezza il bambino. Bremen la tenne sollevata per fargliela
esaminare. Il bambino allungò la mano, come per prenderla, poi si
bloccò, quando quasi la sfiorava, passò le dita lungo la lama e ritrasse
la mano. "Saprai cosa dovrai fare quando sarai lì" disse. "Saprai cos'è
richiesto." Con sua sorpresa, Bremen capì al volo. "Al Perno dell'Ade."
"Lì, e poi ad Arborlon, dove tutto è cambiato e si forma un nuovo
inizio. Al momento buono capirai." "Non puoi dirmi niente dei miei
amici, di cos'è accaduto..." "I Ballindarroch sono stati uccisi e c'è un
nuovo re degli Elfi. Cercalo, per avere risposta alle tue domande." "E
Tay Trefenwyd? E la Pietra Nera?" Ma il bambino si era alzato, portando
con sé la bizzarra fonte luminosa. "Dormi, Bremen. Il mattino non
tarderà a spuntare." Il vecchio druido si sentì stanchissimo. Anche se
avrebbe voluto, non riuscì ad alzarsi per seguire il bambino. Voleva
fargli altre domande, ma non riusciva a pronunciare le parole. Si
sentiva come premuto da un peso enorme e insistente. Scivolò a terra,
avvolto nel mantello, con le palpebre pesanti, il respiro lento. Il
bambino mosse la mano nell'aria. "Che tu possa trovare nel sonno la
forza di continuare." Il bambino e la luce si allontanarono nel buio,
divennero sempre più piccoli. Bremen cercò di seguire il loro movimento,
ma non riusciva a stare sveglio. Il suo respiro divenne più profondo, i
suoi occhi si chiusero. Quando il bambino e la luce scomparvero, Bremen
dormiva. All'alba Kinson fece ritorno. Sbucò da una coltre di nebbia
mattutina che si librava fitta e umida sulle Pianure di Raab, perché
durante la notte l'aria si era rinfrescata. Dietro di lui, l'esercito
del Nord cominciava a scuotersi, una pigra belva che si preparava a
riprendere il cammino. Giunto accanto al vecchio druido e alla giovane
donna, Kinson si stiracchiò stancamente, vedendo che erano svegli e lo
aspettavano con l'aria di chi ha dormito sorprendentemente bene. Guardò
l'uno e l'altra, stupito per la rinnovata determinazione che lesse nei
loro occhi. Lasciò cadere a terra le armi e accettò la colazione fredda
e la birra che gli offrirono, sedendosi con sollievo sotto i rami
frondosi di un piccolo gruppo di querce. "I soldati del Nord marciano
contro gli Elfi" riferì senza tanti preamboli. "Dicono che i Nani sono
distrutti." "Ma tu non ne sei certo" obiettò con calma Bremen, seduto
con Mareth di fronte a lui. Kinson scosse la testa. "Hanno respinto i
Nani al di là delle Montagne del Corvo, sconfiggendoli a ogni scontro.
Dicono d'averli schiacciati in un luogo chiamato Stedden, ma a quanto
pare non hanno trovato fra i caduti né Raybur né Risca. E non sanno
neppure con esattezza quanti Nani hanno ucciso." Inarcò il sopracciglio.
"Non mi sembra una vittoria clamorosa." Bremen annuì, pensieroso. "Ma il
Signore degli Inganni è inquieto per l'inseguimento. Non si sente
minacciato dai Nani, ma teme gli Elfi. Così si sposta a occidente."
"Come hai appreso queste notizie?" domandò Mareth a Kinson, chiaramente
perplessa. "Come sei riuscito ad avvicinarti tanto? Di sicuro non ti sei
fatto scorgere." "Be', mi hanno visto e non mi hanno visto" sorrise
l'uomo della Frontiera. "Ero così vicino da toccarli, ma non mi hanno
guardato in faccia. Mi credevano uno di loro, capisci? Nella
semioscurità, avvolto nel mantello e incappucciato, un po' ingobbito,
puoi essere scambiato per uno di loro, perché non si aspettano che tu
sia qualcosa di diverso. E' un vecchio trucco che conviene imparare alla
perfezione, prima di metterlo in pratica." Le diede un'occhiata
d'apprezzamento. "Si direbbe che hai dormito bene in mia assenza." "Per
tutta la notte" ammise a malincuore Mareth. "Bremen mi ha lasciata
dormire. Non mi ha svegliata per la guardia." "Non ce n'era bisogno" si
affrettò a dire il vecchio druido, lasciando poi cadere l'argomento. "Ma
pensiamo a oggi. Siamo giunti a un altro bivio, purtroppo. Dobbiamo
separarci. Kinson, voglio che tu vada nell'Est a cercare Risca. Scopri
come stanno realmente le cose. Se Raybur e i Nani sono ancora in grado
di combattere, conducili a ponente in aiuto agli Elfi. Riferisci loro
che abbiamo un talismano che distruggerà il Signore degli Inganni, ma
che ci occorre il loro aiuto per mettere Brona con le spalle al muro."
Kinson rifletté un momento, perplesso. "Farò del mio meglio, Bremen. Ma
i Nani contavano sugli Elfi e a quanto pare gli Elfi non sono arrivati.
Mi domando quanto siano disposti i Nani ad accorrere in aiuto degli
Elfi." Bremen lo fissò con fermezza. "Tocca a te convincerli. E'
indispensabile, Kinson. Informali che i Ballindarroch sono stati
sterminati e che è stato scelto un nuovo re. Spiega che per questo gli
Elfi sono stati trattenuti. Ricorda loro che la minaccia riguarda tutti
noi, non una sola Razza." Lanciò un'occhiata a Mareth, seduta al suo
fianco, poi tornò a guardare l'uomo della Frontiera. "Devo andare al
Perno dell'Ade per parlare con gli spiriti dei morti a proposito della
spada. Da lì andrò a ponente fra gli Elfi per trovare chi la userà. Ci
incontreremo là." "E io dove vado?" domandò subito Mareth. Il vecchio
druido esitò. "Kinson può avere bisogno di te." "Io non ho bisogno di
nessuno" obiettò subito l'uomo della Frontiera. Incrociò lo sguardo di
Mareth e abbassò in fretta gli occhi. Mareth rivolse a Bremen
un'occhiata interrogativa. "Per te ho già fatto tutto ciò che potevo"
disse lui piano. Mareth parve capire ciò che voleva dirle. Sorrise
coraggiosamente e guardò Kinson. "Mi piacerebbe venire con te, Kinson.
Il tuo sarà il viaggio più lungo e forse sarà utile farlo in due. Non
hai paura di me, vero?" Kinson sbuffò. "Per niente. Ricorda solo ciò che
Bremen ha detto a proposito del bastone. Così forse riuscirai a non
darmi fuoco alla schiena." Si pentì di quelle parole prima di finire di
pronunciarle. "Non volevo dirlo" si scusò. Lei scosse la testa, come per
lasciar cadere la faccenda. "So cosa intendevi. Non hai niente di cui
scusarti. Siamo amici, Kinson. Gli amici si capiscono." Gli sorrise,
rassicurante, e soffermò lo sguardo su di lui; Kinson pensò in quel
momento che forse aveva ragione, forse erano davvero amici. Ma si scoprì
a domandarsi se lei non intendesse qualcosa di più.
26
Ormai solo, dopo che tutti coloro che erano partiti con lui da Paranor
avevano preso destinazioni diverse, Bremen si diresse a settentrione
verso il Perno dell'Ade. Scese nelle Pianure di Raab, procedendo con
calma nella foschia di metà mattino, mentre il sole saliva nel cielo
sereno. Lasciò il cavallo al passo, deviando a levante per non incappare
nell'esercito del Nord, attento a non imbattersi negli esploratori che
precedevano le truppe e negli sbandati che si lasciavano dietro. Udiva
in lontananza i rumori dell'esercito, un rombo di carri e macchine, un
cigolio di tirelle, un ronzio d'attività che sbucava dalla bruma,
incorporeo e senza una provenienza precisa. Si ammantò della magia dei
Druidi in modo da non essere visto neppure per caso, passò in rassegna i
diversi rumori per individuare quelli che potevano minacciarlo e tenne
attentamente d'occhio tutto ciò che si muoveva nella foschia. Il tempo
scivolò via e il sole cominciò a disperdere la foschia. I rumori
dell'esercito in partenza si affievolirono, spostandosi verso ponente,
lontano dal suo percorso, e Bremen allentò la vigilanza. Ora vedeva con
maggiore chiarezza le pianure, la terra riarsa e l'erba bruciata, le
polverose distese, dalle foreste dell'Anar alle montagne di Runne,
calpestate dall'esercito del Nord, cosparse di rifiuti e sfregiate.
Cavalcò fra gli scarti e i rifiuti dell'esercito, fra i detriti che ne
segnavano il passaggio, e meditò sulle brutture e la futilità della
guerra. Portava agganciata sulla schiena la spada di Urprox Screl,
fardello che toccava a lui, ora che Kinson era andato via. La sentiva
premere su di sé mentre cavalcava: un costante promemoria della sfida
che aveva di fronte. Si stupì della propria ostinazione nell'assumersi
una simile responsabilità. Tutto sarebbe stato più facile, se ne avesse
fatto a meno. Non aveva particolari ragioni per assumersi quel fardello.
Nessuno l'aveva obbligato. Nessuno era venuto a dirgli che doveva farlo.
La scelta era stata sua e quel mattino, cavalcando verso i Denti del
Drago e il confronto che lo aspettava, non poteva fare a meno di
domandarsi quale bisogno perverso l'avesse spinto a farlo. Non trovò
acqua nelle pianure e allora, anche se il mezzodì si avvicinava, andò
avanti senza fare soste. Scese di sella e per un tratto portò il cavallo
per la briglia, mettendosi il cappuccio per ripararsi dal caldo, perché
il sole era un'ardente sfera bianca che bruciava con impietosa
insistenza. Meditò su quanto fosse grave il pericolo che correvano le
Quattro Terre. Come quel terreno riarso dal sole, parevano davvero
impotenti. Troppo dipendeva da cose ignote: la magia della spada, colui
che l'avrebbe usata, le diverse indagini dei vari componenti il loro
piccolo gruppo, la concomitanza di tutto ciò nel luogo e nel tempo
giusti. Eppure, il fallimento era impensabile. Giunta la sera, Bremen si
accampò nelle pianure aperte, in una gola dove un rivolo d'acqua e un
po' di rada erba consentivano al cavallo di rifocillarsi. Mangiò una
piccola parte del pane che ancora aveva con sé e bevve qualche sorso di
birra. Guardò il cielo notturno offrire il suo spettacolo di stelle e
vide un quarto di luna in ascesa levarsi all'orizzonte meridionale. Si
sedette, tenendo sulle ginocchia la spada, e meditò di nuovo sul suo
uso. Passò le dita sull'Eilt Druin, come se in questo modo potesse
scoprire il segreto della sua magia. Saprai che cosa occorrerà, aveva
detto il Re del Fiume Argento. Le ore scivolarono via, mentre lui se ne
stava seduto a riflettere nella notte silenziosa e tranquilla.
L'esercito del Nord era adesso troppo lontano per udirne i rumori e
anche i suoi fuochi non erano visibili. Quella notte il Raab era tutto
per lui e gli dava l'impressione d'essere l'unica persona vivente in
tutto il mondo. Riprese il viaggio all'alba, con un'andatura più
sollecita. Le nuvole coprivano il sole e ne diminuivano il calore. La
polvere si alzava sotto gli zoccoli del cavallo in piccoli sbuffi che
andavano alla deriva e si disperdevano nella tenue brezza di ponente.
Più avanti il terreno cominciava a cambiare, a tornare verdeggiante
nella zona dove il Mermidon si staccava dalle Montagne di Runne. Nelle
pianure c'erano alberi, boschetti che custodivano sorgenti ed emissari
del fiume. Nel tardo pomeriggio Bremen aveva già attraversato un'ampia
secca del fiume e procedeva verso la muraglia dei Denti del Drago.
Avrebbe potuto fare lì una sosta e riposare, ma preferì proseguire. Il
tempo era un padrone severo e non lasciava spazio all'indulgenza verso
se stessi. Al calar della sera aveva raggiunto le alture che portavano
nella Valle d'Argilla. Smontò e impastoiò il cavallo nei pressi di una
sorgente. Guardò il sole sprofondare dietro le Montagne di Runne e cenò,
pensando a che cosa gli riservava l'indomani. Una lunga notte, per
cominciare. Successo o fallimento, in secondo luogo. L'incertezza era
sempre notevole. Per un poco lasciò vagare la mente e si scoprì a
riesaminare frammenti della propria vita, come se in quel modo potesse
trovare una certa rassicurazione sulle proprie capacità. Aveva ottenuto
alcuni piccoli successi contro il Signore degli Inganni e da essi poteva
trarre incoraggiamento. Ma sapeva che in quel gioco pericoloso un solo
passo falso poteva dimostrasi fatale e rovinare tutto ciò che era già
stato ottenuto. Gli pareva iniquo, ma sapeva che mai, nella storia del
mondo, l'equità aveva determinato qualcosa che contasse davvero. A
mezzanotte si alzò e s'inoltrò fra le montagne. Indossava la veste nera
della sua carica, col simbolo dell'Eilt Druin ricamato sul petto, e
aveva con sé la meravigliosa spada di Urprox Screl. Sorrise. La spada di
Urprox Screl. Avrebbe fatto meglio a chiamarla in un altro modo, perché
non apparteneva più al fabbro. Ma per il momento non poteva usare nessun
altro nome, né poteva dargliene uno, finché non ne avesse scoperto il
vero proprietario. Così mise da parte la questione del nome della spada
e respirò l'aria della notte, fresca e pulita in quelle alture, tanto
limpida da dargli l'impressione di vedere all'infinito. Attraversò le
strettoie e le gole che portavano alla Valle d'Argilla e raggiunse la
meta quando ancora mancavano alcune ore all'alba. Per un po' rimase in
piedi sul bordo della valle e guardò in basso il lago, il Perno
dell'Ade, immobile e piatto come uno specchio, che rifletteva il cielo
punteggiato di stelle luminose. Guardò lo specchio delle placide acque e
si trovò a domandarsi quali segreti nascondesse. Sarebbe riuscito a
svelarne una piccola parte? Avrebbe trovato un modo per scoprire solo
alcuni segreti, quelli che gli avrebbero dato una possibilità di
continuare con successo la lotta? Lì, nelle profondità del lago, le
risposte aspettavano, tesori accumulati e protetti dagli spiriti dei
morti, forse perché era tutto ciò che rimaneva loro della vita da cui si
erano separati, forse perché nella morte c'è ben poco di cui si possa
vantare il possesso. Si sedette tra i sassi e continuò a fissare il lago
e a meditarne i misteri. Come si diventava, quando si perdeva la vita e
si assumeva la forma di spirito? Che cosa si provava, a vivere nelle
acque del Perno dell'Ade? Si sentiva, nella morte, qualcosa di ciò che
si era provato in vita? Si conservavano i ricordi? Si avevano gli stessi
desideri, gli stessi bisogni? C'era uno scopo nell'esistenza, una volta
perduto il corpo fisico? Quante incognite, pensò. Ma era vecchio, e quei
segreti gli sarebbero stati rivelati fin troppo presto. Un'ora prima
dell'alba prese la spada e scese nella valle. Scelse con cura il
percorso sui lucidi frammenti di ossidiana, per non mettere il piede in
fallo, e cercò di non pensare a ciò che l'aspettava. Ritrovò la calma,
ritirandosi profondamente in se stesso mentre camminava, raccogliendo i
pensieri e dando forma alle proprie necessità. La notte era tranquilla e
silenziosa, ma già sentiva qualcosa agitarsi dentro la terra. Giunse
alla base del pendio, si diresse alla riva del Perno dell'Ade e si
fermò. Rimase fermo per qualche istante, sentendo un brivido
d'incertezza. Troppe cose dipendevano da ciò che sarebbe accaduto adesso
e lui sapeva troppo poco di ciò che avrebbe dovuto fare. Posò la spada
davanti a sé, al bordo dell'acqua, e si raddrizzò. Non poteva fare
nient'altro. Il tempo scivolava via. Iniziò gli incantesimi e i gesti
che avrebbero evocato gli spiriti dei morti. Eseguì il rituale con
ferrea determinazione, scacciando il più possibile dubbi e incertezze,
allontanando la paura. Sentì la terra rumoreggiare e il lago agitarsi in
risposta al suo richiamo. Il cielo si oscurò come se fossero comparse
nubi ad ammantarlo e le stelle scomparvero. L'acqua sibilò e ribollì, le
voci dei morti cominciarono ad alzarsi in bisbigli che presto si
mutarono in gemiti e grida. Bremen sentì la propria decisione
rafforzarsi come per schermarlo in qualche modo da ciò che i morti
avrebbero potuto fargli. Si rafforzò e s'irrigidì, tanto che gli unici
movimenti provenivano dal rapido volo dei suoi pensieri. Aveva terminato
l'evocazione: raccolse la spada e arretrò di qualche passo. Il lago
ribolliva furiosamente, lanciando spruzzi in ogni direzione, e le voci
erano diventate una cacofonia da far impazzire. Bremen rimase fermo al
suo posto e attese ciò che doveva accadere. In quella valle era tagliato
fuori dal mondo, isolato dai viventi, solo con i morti. Se qualcosa
fosse andato storto, nessuno sarebbe accorso in suo aiuto. Qualsiasi
cosa fosse accaduta quel giorno, avrebbe gravato solo sulle sue spalle.
Ed ecco il centro del lago esplodere come un vulcano in eruzione e una
colonna d'acqua, enorme e nera, alzarsi in aria. Bremen sgranò gli
occhi: non aveva mai visto niente di simile. La colonna si alzò verso il
cielo e l'acqua non ricadde, non si disperse. Tutt'intorno svolazzavano
le spettrali sagome degli spiriti dei morti. Comparvero in sciami,
emergendo non dal lago, ma dalla colonna, proiettati dalla massa d'acqua
ribollente. Nuotavano nell'aria come se fossero ancora in acqua e le
loro piccole forme creavano una fantasmagoria di colori contro il nero
della notte. Mentre turbinavano, emettevano grida, con voci acute e
pungenti, come se non avessero mai voluto altro che trovarsi in quel
preciso momento del tempo. Rimbombi simili a colpi di tosse si levarono
all'improvviso dalla parte centrale della colonna e Bremen arretrò suo
malgrado, perché sotto i suoi piedi il terreno si sollevava per la forza
di quel frastuono. Forse aveva oltrepassato i limiti, penso inorridito.
Aveva sbagliato qualcosa. Ma era troppo tardi per apportare cambiamenti,
anche se avesse saputo cosa fare, ed era troppo tardi per scappare. Fra
le sue mani, la piastra dell'Eilt Druin incastonata nella spada iniziò a
risplendere. Bremen trasalì come se si fosse scottato. Per tutte le
ombre' Allora la colonna d'acqua s'infranse, si spezzò al centro come
colpita dal fulmine. Dal suo interno scaturì una luce così vivida da
costringere Bremen a ripararsi gli occhi. Alzò le braccia per
proteggersi, tenendo davanti a sé la spada come per rintuzzare una
minaccia. La luce sfolgorò e nello stesso tempo cominciò a emergere da
essa una fila di forme scure. Si materializzarono a una a una, avvolte
nel mantello e incappucciate, nere come la notte, emettendo nuvolette di
calore. Bremen cadde in ginocchio, incapace di restare ancora in piedi
di fronte a ciò che accadeva, sempre cercando di coprirsi gli occhi e
nello stesso tempo di guardare. A una a una le figure ammantate si
avvicinarono e Bremen le riconobbe: erano gli spiriti dei Druidi
defunti, le ombre di coloro che l'avevano preceduto, più imponenti in
morte che non in vita, apparizioni prive di sostanza e tuttavia
terribilmente presenti. Il vecchio druido si ritrasse da loro suo
malgrado, tante ne erano giunte altre ancora sgorgavano, in una fila
all'apparenza infinita che si librava a mezz'aria davanti a lui,
accostandosi sopra le ribollenti acque del lago, inesorabili e
tenebrose. Ora Bremen udì le loro parole, udì che chiamavano lui. Le
loro voci superavano quelle delle figure più piccole che le
accompagnavano, ripetevano in continuazione il suo nome. Bremen, Bremen.
Davanti a tutti veniva Galaphile e la sua voce era la più forte. Bremen,
Bremen. Il vecchio druido desiderò con tutto se stesso di fuggire,
avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo fare. Sentì il proprio coraggio
svanire, la propria determinazione sciogliersi come neve al sole. Quelle
apparizioni venivano per lui, che già sentiva sul corpo il tocco delle
loro mani spettrali. La follia gli ronzava nella testa, minacciava di
sopraffarlo. E quelle vennero ancora avanti, sagome gigantesche che si
aprivano la strada nel buio, apparizioni prive di volto, fantasmi emersi
dal tempo e dalla storia. Bremen scoprì di non riuscire a frenare il
tremito, di non essere in grado di pensare lucidamente. Voleva gridare
di disperazione. Poi furono di fronte a lui, Galaphile per primo, e
Bremen chinò la testa nell'incavo del braccio, impotente. ... Presenta
la spada... Bremen ubbidì e protese davanti a sé la spada come avrebbe
proteso un talismano. Galaphile sfiorò con le dita l'Eilt Druin e
all'istante l'emblema avvampò di luce bianca. Galaphile si scostò e un
altro druido si fece avanti, toccò l'emblema e si allontanò. A uno a
uno, gli spiriti sfilarono e toccarono la spada, sfiorarono l'Eilt Druin
e si allontanarono. Ogni volta l'emblema avvampò di luce. Da dietro il
braccio con cui si schermava, Bremen guardò la cerimonia. Poteva
sembrare una benedizione, un'approvazione, ma il vecchio druido capì che
si trattava di qualcosa di più, di qualcosa di più oscuro e di più
importante. Il tocco dei morti trasferiva qualcosa nella spada. Bremen
lo sentiva. Sentiva che faceva presa. Era ciò per cui era venuto.
Impossibile sbagliarsi. Era ciò che cercava. Eppure nemmeno allora,
nemmeno nel momento in cui accadeva, riusciva a decifrarne il senso.
Così rimase in ginocchio sulla riva del Perno dell'Ade, negli spruzzi e
nel buio, sbigottito e confuso, ascoltando i suoni dei morti, testimone
oculare del loro passaggio, domandandosi che cosa avvenisse. Quando i
Druidi furono tutti passati, Bremen restò solo. Le voci degli spiriti
svanirono e nel silenzio udì l'ansito del proprio respiro affannoso. Il
sudore gli inzuppava il corpo, gli luccicava in viso. Aveva il braccio
dolorante, ma non trovava la forza di ritrarre la spada protesa. Attese,
sapendo che c'era dell'altro. ... Bremen... Il suo nome, detto da una
voce che riconosceva. Alzò con prudenza la testa. Le ombre dei Druidi
erano sparite. La colonna d'acqua era scomparsa. Rimanevano solo il lago
e il buio della notte e, proprio davanti a lui, lo spirito di Galaphile.
Bremen si alzò e strinse a sé la spada, come per attingervi forza. Aveva
lacrime sul viso e non sapeva da dove provenissero. Erano sue? Cercò di
parlare, ma non ci riuscì. Parlò invece l'ombra di Galaphile. ...
Ascolta bene. La spada ha ricevuto il potere. Ora portala a chi la
impugnerà. Cercalo a ponente. Lo riconoscerai. La spada ora appartiene a
lui... Bremen cercò parole che si rifiutavano di venire. Lo spettro
puntò il braccio. ... Domanda pure... Il vecchio druido sentì che la
mente gli si snebbiava e le sue parole suonarono aspre, piene di timore
reverenziale. "Cos'avete fatto?" ... Abbiamo dato la parte di noi stessi
che potevamo dare. La nostra vita è terminata. I nostri insegnamenti
sono andati perduti. La nostra magia si è dissolta nel declino del
tempo. Resta solo la nostra verità, tutto ciò che ci è appartenuto in
vita, negli insegnamenti, nella magia, risoluto e affilato e forte
nell'uccidere... La verità? Bremen fissò l'ombra, perplesso. Dov'era il
potere della spada? Quale forma di magia proveniva dalla verità? Tutti i
Druidi che erano passati davanti a lui, che avevano toccato la spada e
l'avevano fatta avvampare con tanta vivezza... per quello? Lo spettro di
Galaphile puntò di nuovo il braccio, in un gesto così autorevole che le
domande morirono nella gola di Bremen mentre gli veniva chiesta
attenzione. La figura scura davanti a lui spazzò via tutto, tranne la
propria presenza, e all'intorno il silenzio fu totale. ... Ascolta,
Bremen, ultimo di Paranor. Ti dirò ciò che dovresti sapere. Ascolta... E
Bremen, catturato anima e cuore dal potere delle parole dello spettro,
ascoltò. Quando tutto fu terminato e lo spirito di Galaphile scomparve,
quando le acque del Perno dell'Ade tornarono immobili e l'alba d'argento
e d'oro si fece avanti da oriente, il vecchio druido risalì la Valle
d'Argilla e si stese sul letto di pietre nere per dormire. Il sole sorse
e la luce del giorno divenne più intensa, ma il vecchio druido non si
svegliò. Dormì di un sonno profondo, pieno di sogni, e le voci dei morti
gli mormorarono parole che non poteva capire. Si svegliò al tramonto,
tormentato dai sogni fatti, dall'incapacità di decifrarli, dal timore
che gli nascondessero segreti che lui avrebbe dovuto svelare affinché le
Razze potessero sopravvivere. Rimase seduto nel caldo e nelle ombre del
crepuscolo sempre meno luminoso, trasse dalla sacca l'ultimo pezzo di
pane e ne mangiò metà, in silenzio, con lo sguardo perso verso le
montagne, verso l'alta e bizzarra catena dei Denti del Drago, dove le
nuvole si strofinavano contro i picchi frastagliati, nel loro viaggio a
levante fino alle pianure. Bevve qualche sorso di birra dall'otre ormai
semivuoto, e rifletté su ciò che aveva appreso. Rifletté sul segreto
della spada. Sulla natura della magia della spada. Poi si alzò e scese
le alture ai piedi del monte, fino al punto dove la notte precedente
aveva lasciato il cavallo. Scoprì che il cavallo era sparito. Qualcuno
l'aveva preso: le impronte del ladro erano chiare nel terriccio, solo
una serie, i passi di una persona che si era avvicinata e si era
allontanata col cavallo. Non diede quasi nessun peso al furto e
s'incamminò verso ponente, riluttante a ritardare ancora l'inizio del
viaggio. A piedi avrebbe impiegato almeno quattro giorni, di più se
avesse dovuto evitare l'esercito del Nord, cosa del resto molto
probabile. Ma non poteva farci niente. Forse strada facendo avrebbe
trovato un altro cavallo. Scese la notte e si levò una falce di luna
crescente che rischiarò il cielo; le nuvole veleggiavano in silenzioso
corteo, proiettando su di essa ombre passeggere. Bremen camminò con
andatura regolare, seguendo il nastro argenteo del Mermidon che
serpeggiava verso ponente, e si tenne all'ombra dei Denti del Drago,
dove il chiaro di luna non l'avrebbe esposto alla vista. Intanto
rifletteva sulle proprie possibilità e continuava a esaminarle da tutti
i punti di vista. Galaphile venne a lui, gli parlò e gli fece nuove
rivelazioni. Gli spiriti dei Druidi sfilarono un'altra volta, spettri
solenni e muti, e protesero la mano a toccare la spada, abbassarono le
dita sull'Eilt Druin, lo sfiorarono e si allontanarono. Trasferivano
nella spada le verità scoperte in vita. La impregnavano del potere che
simili verità potevano dare. Le conferivano potere. Bremen inspirò
profondamente l'aria della notte. Ora capiva davvero appieno il potere
del talismano? Pensava di sì, eppure gli pareva una ben piccola magia su
cui confidare contro un nemico così potente. Come convincere l'uomo cui
era destinata la spada che quel potere bastava a prevalere? Quanto, di
ciò che sapeva, avrebbe dovuto rivelare? Rivelando troppo poco, avrebbe
rischiato di destinare a sicura sconfitta colui che l'avrebbe impugnata
perché tenuto troppo all'oscuro. Rivelando troppo, avrebbe rischiato di
perderlo perché troppo impaurito. In quale direzione gli sarebbe
convenuto sbagliare? Avrebbe capito che si trattava dell'uomo giusto,
quando l'avesse incontrato? Si sentiva andare alla deriva
sull'incertezza. Troppe cose dipendevano da quell'arma, eppure era stato
lasciato a lui solo il peso di decidere in quale modo adoperarla. A lui
solo, perché quello era il fardello che si era assunto, il patto che
aveva stretto. La notte passò lentamente e Bremen giunse dove il fiume
si biforcava a meridione attraverso le Montagne di Runne. Il vento
soffiava da sudovest e portava odore di morte. Nel sentire quel lezzo
riempirgli le narici, Bremen si fermò. C'erano uccisioni a valle del
Mermidon, e in gran numero. Rifletté sul da farsi, poi guadò il fiume.
Più in basso c'era Varfleet, l'insediamento meridionale dove cinque anni
prima lui aveva reclutato Kinson. Il puzzo di morte proveniva da lì.
Giunse nella cittadina quando il mattino era ancora lontano e la notte
era un sudario silenzioso e buio. Mentre si avvicinava, il puzzo si
faceva più intenso e capì subito cos'era avvenuto. C'era del fumo, pigri
riccioli di nastro grigio nel chiaro di luna. Tizzoni ancora accesi
mandavano una luce rossastra. Tavole di legno sporgevano come lance dal
terreno. Varfleet era stata incendiata e rasa al suolo, i suoi abitanti
erano stati uccisi o costretti alla fuga. Uccisi a migliaia. Il vecchio
druido scosse la testa, impotente, mentre percorreva le vie silenziose e
deserte. Gli edifici erano stati abbattuti e saccheggiati. A ogni
angolo, persone e animali giacevano privi di vita, distesi in mucchi
grotteschi. Camminò fra le macerie, stupito da tanta ferocia. Scavalcò
il cadavere di un vecchio con gli occhi sbarrati e ormai ciechi. Un
ratto sgusciò da sotto il cadavere e si allontanò rapido. Arrivò al
centro della cittadina e si fermò. Non pareva che ci fosse stata una
vera e propria battaglia: in giro si vedevano poche armi. Molti avevano
l'aria d'essere stati sorpresi nel sonno. Quanti familiari e amici di
Kinson giacevano fra loro? Scosse tristemente la testa. L'attacco,
calcolò, risaliva a un paio di giorni addietro. L'esercito invasore era
giunto dall'Est ed era passato a nord del Lago Arcobaleno per scontrarsi
con gli Elfi. Varfleet aveva avuto la sventura di trovarsi sul suo
cammino. Tutti i villaggi delle Terre del Sud, fra lì e le Pianure di
Streleheim, avrebbero subito una sorte identica, pensò disperato. Sentì
crescere dentro di sé un grande vuoto. Le parole per descrivere come si
sentiva parevano davvero inadeguate. Si strinse nella veste scura, si
mise in spalla la spada e uscì dalla cittadina, cercando di non guardare
le vittime del massacro. Era quasi fuori, quando percepì un movimento.
Un altro non se ne sarebbe accorto, ma lui era un druido. Non vedeva con
gli occhi, ma con la mente. Qualcuno, ancora vivo, si teneva nascosto
fra le macerie. Deviò a sinistra, procedendo con cautela, già protetto
da una rete di magia. Non si sentiva minacciato, ma aveva il buon senso
di fare attenzione. Avanzò fra una serie di case in rovina fino a una
tettoia crollata. Lì, nel vano di un ingresso sbilenco, era acquattata
una figura. Bremen si fermò. Era un fanciullo di dodici anni al massimo,
con vesti lacere e macchiate, viso e mani sudici e sporchi di cenere. Il
fanciullo si ritirò nell'ombra, come per chiedere riparo alla terra
stessa. Reggeva davanti a sé un coltello, in posizione di difesa. Aveva
capelli lisci e scuri, tagliati all'altezza delle spalle, che ricadevano
flosci ai lati del viso smunto. "Esci pure, giovanotto" disse piano
Bremen. "Non hai niente da temere." Il fanciullo non si spostò di un
palmo. "Qui non c'è nessuno, a parte te e me. Gli autori di questa
strage se ne sono andati. Su, vieni fuori." Il fanciullo rimase dov'era.
Bremen guardò in lontananza, distratto dall'improvviso bagliore di una
stella cadente. Trasse un profondo sospiro. Non poteva attardarsi e in
ogni caso non poteva fare niente per il fanciullo. Stava perdendo tempo.
"Ora me ne vado" disse stancamente. "Dovresti fare come me. Qui sono
tutti morti. Va' in uno dei villaggi a meridione e chiedi aiuto. Buona
fortuna." Si girò e si allontanò. Quanti sarebbero rimasti senza casa,
distrutti nello spirito, prima della fine! Era un pensiero deprimente.
Scosse la testa. Percorse un centinaio di passi e all'improvviso si
fermò. Si girò e vide che il fanciullo era lì: la schiena contro una
parete, il coltello in pugno, lo teneva d'occhio. Bremen esitò. "Hai
fame?" Tolse dalla sacca l'ultimo pezzo di pane. Il fanciullo allungò la
testa e mostrò il viso. Gli occhi gli brillarono. Quegli occhi... Bremen
sentì un'improvvisa stretta alla gola. Conosceva quel fanciullo! Era
nella quarta visione di Galaphile! Lo tradivano gli occhi, intensi,
penetranti, che parevano strappare di dosso la pelle. Un semplice
fanciullo, un orfano sopravvissuto a quel massacro... eppure aveva in sé
qualcosa di profondo, d'affascinante... "Come ti chiami?" domandò piano
Bremen. L'altro non rispose. Rimase immobile. Bremen esitò, poi mosse un
passo. Subito il fanciullo si ritrasse nell'ombra. Il vecchio druido si
fermò, posò a terra il pezzo di pane, si girò e si allontanò. Dopo
cinquanta passi si fermò di nuovo. Il fanciullo lo seguiva, tenendolo
d'occhio, e intanto sbocconcellava il pezzo di pane. Bremen gli rivolse
varie domande, ma l'altro non rispose. Provò ad avvicinarsi, ma il
fanciullo arretrò in fretta; cercò di convincerlo ad accostarsi, ma non
gli diede retta. Alla fine il vecchio druido riprese il cammino. Non
sapeva cosa fare. Non voleva che lo seguisse, ma la visione di Galaphile
suggeriva l'esistenza di un collegamento di qualche sorta fra lui e il
fanciullo. Forse, con la pazienza, avrebbe scoperto di che cosa si
trattava. Al sorgere del sole deviò di nuovo verso nord e riattraversò
il Mermidon. Seguì la linea dei Denti del Drago fino al tramonto. Quando
si accampò, vide che il fanciullo era lì, al limitare della radura dove
aveva deciso di fermarsi: se ne stava nell'ombra degli alberi e lo
teneva d'occhio. Bremen non aveva cibo, ma lasciò a poca distanza da sé
una tazza di birra. Dormì fino a mezzanotte, poi si svegliò e riprese il
cammino. Il fanciullo aspettava, e quando Bremen riprese il viaggio lo
seguì. Continuarono così per tre giorni. Al termine del terzo giorno, il
fanciullo si avvicinò e divise col druido un parco pasto a base di
radici e bacche. Al mattino, svegliandosi, Bremen lo scoprì che dormiva
accanto a lui. Si alzarono insieme e procedettero verso ponente. Quella
sera, mentre arrivavano al limitare delle Pianure di Streleheim e si
preparavano ad attraversarle, il fanciullo si decise a parlare. Si
chiamava, disse al vecchio druido, Allanon.
Parte quarta
LA BATTAGLIA DELLA VALLE DI RHENN
27
Era tardo pomeriggio e c'era poca luce, grigia e brumosa, nello studio
del padiglione estivo dei Ballindarroch, dove in quel momento Jerle
Shannara esaminava le mappe aperte sul tavolo. Fuori continuava a
piovere. Il re degli Elfi aveva l'impressione che piovesse da settimane,
ma sapeva bene che quell'impressione era generata in gran parte dal suo
attuale umore: appena pensava alle condizioni del tempo, pareva proprio
che piovesse di nuovo. E quel giorno la pioggia era più intensa del
solito, spinta da un vento di ponente che frustava i rami degli alberi e
sparpagliava foglie come pezzi di carta. Alzò gli occhi dalle mappe che
aveva accuratamente esaminato e sospirò. Trovava una certa consolazione
nel fatto che, col maltempo, il Signore degli Inganni incontrasse
maggiori difficoltà di lui a muovere l'esercito. Dei due, quello del
Signore degli Inganni era il meno manovrabile: un grande, scomposto,
lento bestione gravato di salmerie e di macchine d'assedio. Nelle
migliori condizioni atmosferiche poteva percorrere forse venti miglia al
giorno. Tre giorni prima era entrato nelle Pianure di Streleheim e solo
adesso aveva completato l'attraversamento del Mermidon. Quindi avrebbe
impiegato almeno altri due giorni per arrivare nella Valle di Rhenn. Gli
Elfi erano già sul posto. Avvisati dagli esploratori, sapevano da più di
una settimana dell'arrivo dell'esercito del Nord e avevano avuto tutto
il tempo di prepararsi. Una volta individuato il nemico, era facile
immaginare da quale parte avrebbe attaccato Arborlon e gli Elfi. La
Valle di Rhenn era la via più praticabile e diretta per le Terre
dell'Ovest. Un grosso esercito avrebbe avuto difficoltà a procedere su
altri percorsi e poi si sarebbe trovato ad attaccare la città natia
degli Elfi da uno dei lati meglio protetti. A nord, a sud e a ovest
Arborlon aveva difese naturali: montagne, dirupi, il Fiume Rill Song.
Solo da est era vulnerabile. E l'unica posizione strategica per i suoi
difensori era la Valle di Rhenn. Se i passi di quella valle fossero
caduti in mano al nemico, la via per Arborlon sarebbe stata spalancata.
Le mappe, purtroppo, mostravano proprio questo. Jerle le aveva studiate
attentamente per più di un'ora e non aveva scoperto niente di nuovo. Gli
Elfi avrebbero dovuto difendere la Valle di Rhenn, altrimenti sarebbero
stati perduti. Non esisteva una seconda linea di difesa che valesse la
pena considerare. Questo fatto semplificava le decisioni. Restava solo
da decidere la tattica. Gli Elfi avrebbero dunque difeso la Valle di
Rhenn, ma come? Quanto avrebbero dovuto estendere le proprie linee per
rallentare l'attacco iniziale? Quali misure protettive dovevano prendere
contro un attacco ai fianchi lanciato da contingenti minori in grado di
penetrare nelle foreste? Quali formazioni dovevano impiegare contro un
esercito cinque volte superiore che avrebbe usato macchine d'assedio
costruite durante la marcia a occidente? Dalle mappe non ricavava certo
le risposte a queste domande, ma studiandole riusciva a stabilire meglio
che cosa occorresse. Guardò ancora una volta dalla finestra la pioggia.
Preia sarebbe tornata presto e avrebbero cenato insieme, per l'ultima
volta, prima di partire per la Valle di Rhenn. La maggior parte
dell'esercito era già accampata nella valle. Il Gran Consiglio aveva
proclamato lo stato d'emergenza e lui, da poco incoronato, aveva assunto
il potere. Adesso aveva potere assoluto e incontrastato. Era stato
incoronato due settimane prima, aveva preso in moglie Preia e adottato i
due orfani Ballindarroch. Sistemata la faccenda della successione al
trono, aveva rivolto l'attenzione al Gran Consiglio. Aveva nominato
primo ministro Vree Erreden e incluso Preia fra i consiglieri. C'era
stata qualche protesta, ma nessuna opposizione. Aveva chiesto il
permesso di mobilitare l'esercito e di marciare a levante in aiuto dei
Nani. C'erano state altre proteste e un accenno d'opposizione, ma prima
che prendesse corpo, si era saputo che l'esercito del Nord si avvicinava
e che gli Elfi non avrebbero avuto bisogno di marciare da nessuna parte.
Riflettendo ora su quei particolari, Jerle scosse la testa. Non sapeva
che fine avessero fatto i Nani. Nessuno lo sapeva. Aveva inviato alcuni
cavalieri per scoprire se l'esercito dei Nani era stato distrutto, come
correva voce, ma ancora non aveva avuto notizie precise. Poteva solo
concludere che i Nani non erano in grado di aiutare nessuno e che gli
Elfi dovevano cavarsela da soli. Scosse stancamente la testa. Gli Elfi
erano rimasti senza alleati, senza magia, senza Druidi, senza una vera
possibilità di vincere quella guerra, malgrado le visioni e le profezie
e tutte le speranze. Riprese a studiare le mappe, come se la soluzione
del problema si trovasse lì e gli fosse sfuggita. C'era stato un
periodo, non molto tempo prima, in cui non si sarebbe mai permesso di
fare una stima così onesta della situazione. Non avrebbe mai ammesso di
poter perdere una battaglia contro un nemico più forte. Era molto
cambiato, da allora. La perdita di Tay Trefenwyd e dei Ballindarroch, il
rischio di perdere anche Preia, la corona di re degli Elfi in
circostanze non proprio ideali, la scoperta di avere in se stesso pecche
di cui non si era reso conto, gli avevano dato una prospettiva diversa.
Non era un'esperienza debilitante, ma moderatrice. Immaginava che
accadesse a tutti, maturando. Era il rito di passaggio che si sopporta
quando ci si lascia alle spalle, una volta per tutte, la fanciullezza.
Si ritrovò a esaminare le cicatrici che aveva sul dorso delle mani.
Piccole mappe anch'esse, tracciavano l'evoluzione della sua vita.
Guerriero fin dalla nascita, ora re degli Elfi, aveva percorso in breve
tempo molta strada e le cicatrici fornivano, meglio delle parole, un
accurato rendiconto del prezzo di quel viaggio. Quante altre se ne
sarebbe procurato nella battaglia contro il Signore degli Inganni? Era
abbastanza forte per quel confronto? Abbastanza forte per sopravvivere?
Portava in battaglia non solo il proprio futuro, ma anche quello del suo
popolo. Quanto doveva essere forte, per questo? I battenti della porta
che dava sulla terrazza si spalancarono con forza, sbattuti contro la
parete dal vento, e le tende volteggiarono come impazzite. Nel veder
entrare nella stanza due figure in mantello nero, zuppe di pioggia e un
po' curve, Jerle Shannara allungò la mano verso la spada. Le mappe si
sparpagliarono per terra, i lumi tremolarono e si spensero. "Trattieni
la mano, re degli Elfi" ordinò il primo degli intrusi, mentre il
secondo, più piccolo, si girava a chiudere la porta, lasciando fuori il
vento e la pioggia. Nella stanza tornò il silenzio. Dagli intrusi
gocciolava acqua che si raccoglieva in pozze e sporcava il pavimento. Il
re si tenne sulla difensiva, la spada in parte sguainata, pronto a
scattare. "Chi siete?" domandò. Il più alto degli intrusi tirò indietro
il cappuccio e si mostrò nella luce incerta e grigia. Jerle Shannara
trasse un lungo sospiro. Era il druido Bremen. "Non contavo più su di
te" disse in un bisbiglio, lasciando trasparire l'emozione. "Nessuno ci
sperava, ormai." Il vecchio druido gli rivolse un sorriso amaro. "Ne
avevate motivo. C'è voluto molto tempo per raggiungerti, tanto quanto
quello necessario per scoprire che eri tu colui che cercavo." Da sotto
il mantello fradicio trasse un oggetto lungo e sottile, avvolto in
stoffa scura. "Ti ho portato una cosa." Jerle Shannara annuì. "Lo so."
Rimise nel fodero la sua spada. Un lampo di sorpresa si accese negli
occhi del druido. Guardò il suo compagno. "Allanon" disse. Il fanciullo
si tolse il cappuccio, mostrandosi. Occhi scuri e ardenti fissarono il
re degli Elfi, ma il viso liscio, dai tratti spigolosi, non rivelò
niente. "Togliti il mantello e aspetta fuori. Non far entrare nessuno,
finché non avremo terminato. Di' che si tratta di un ordine del re." Il
fanciullo annuì, si tolse il mantello, lo appese a un attaccapanni e
uscì. Bremen e Jerle Shannara rimasero soli nello studio, con le mappe
ancora sparpagliate per terra, e si guardarono negli occhi. "Ne è
passato di tempo, Jerle." Il re sospirò. "E' vero. Cinque anni? Di più,
forse?". "Quanto basta per non riconoscere i tratti del tuo viso. O
forse sei semplicemente invecchiato, come tutti." Nel crepuscolo che
s'insinuava nella stanza, il suo sorriso andava e veniva. "Dimmi cosa
sapevi del mio arrivo." Jerle si rilassò, mentre guardava il druido
togliersi il mantello e gettarlo stancamente da parte. "Mi hanno detto
che mi porti una spada forgiata con la magia. Una spada che devo usare
nella battaglia contro il Signore degli Inganni." Esitò. "E' vero? Hai
portato un'arma del genere?" Il vecchio druido annuì. "Sì." Depose con
cura sul tavolo l'oggetto avvolto in stoffa scura. "Ma non ero sicuro
che fosse destinata a te finché non ti ho visto sguainare la spada,
pronto a colpirmi. In quel momento ho capito che eri colui al quale la
spada è destinata. Alcune settimane fa, al Perno dell'Ade, mi è stata
mostrata una visione in cui impugnavi questa spada, ma non ti ho
riconosciuto. Tay Trefenwyd ti ha parlato di quella visione?" "Sì. Ma
neppure lui sapeva che la spada era destinata a me. E' stato il locat
Vree Erreden ad avvisarmi. Anche lui ha avuto una visione, mi ha visto
impugnare quella spada, una spada con un emblema incastonato nell'elsa,
l'emblema di una mano che protende una torcia accesa. Mi ha detto che
quello era il simbolo dei Druidi." "Un locat?" si stupì Bremen,
scuotendo la testa. "Pensavo che sarebbe stato Tay a..." "No. Tay
Trefenwyd è morto, ucciso alcune settimane fa nella Catena di Confine."
Parlò con voce rapida, dura, e le parole uscirono accavallate. "Ero con
lui. Eravamo andati a recuperare la Pietra Nera, come ci avevi detto.
Abbiamo trovato la Pietra, ma le creature del Signore degli Inganni
hanno trovato noi. Eravamo in cinque contro un centinaio. C'erano
Messaggeri del Teschio. Tay capì che eravamo condannati. La sua magia
era svanità, consumata nella lotta per impossessarsi della Pietra, così
lui..." Il re non trovò più parole. Sentiva le lacrime rigargli il viso,
aveva un nodo in gola. Non riuscì a proseguire. "Ha usato la Pietra Nera
ed essa l'ha ucciso" terminò per lui il vecchio druido, a voce così
bassa da essere appena percettibile. "Anche se l'avevo messo in guardia.
Anche se sapeva cosa sarebbe accaduto." Serrò con forza le mani, vecchie
e nodose. "Perché doveva. Perché non poteva farne a meno." Rimasero in
silenzio l'uno davanti all'altro, senza guardarsi. Poi Jerle si chinò a
raccogliere alcune mappe e le rimise sul tavolo, accanto all'involto di
tela. Il vecchio lo guardò per un momento, poi si chinò per aiutarlo.
Quando le mappe furono tutte al loro posto, il vecchio prese fra le sue
mani quelle del re. "Mi dispiace che sia morto, più di quanto non sappia
esprimere a parole. Era un buon amico per entrambi." "Mi ha salvato la
vita" disse piano Jerle, non sapendo cos'altro dire, e decidendo dopo un
attimo che quelle parole bastavano. Bremen annuì. "Ero preoccupato per
lui" mormorò, lasciando le mani del re e accostandosi a una sedia.
"Possiamo sederci, mentre parliamo? Ho camminato tutta la notte e tutto
il giorno, per raggiungerti. Il fanciullo mi ha accompagnato. E' un
superstite dell'attacco a Varfleet. Mentre avanza, l'esercito del Nord
devasta il paese e gli abitanti, distrugge qualsiasi cosa, uccide
chiunque. Il Signore degli Inganni comincia a perdere la pazienza."
Jerle Shannara si sedette di fronte a lui. Le mani del druido,
stringendo le sue, gli avevano dato l'impressione di toccare foglie
secche. Una sensazione di morte che non riusciva a togliersi di dosso.
"Che fine hanno fatto i Nani?" domandò, nel tentativo di sviare i propri
pensieri. "Non siamo riusciti ad avere loro notizie." "I Nani hanno
contrastato l'invasione dell'esercito del Nord finché hanno potuto. Le
voci su ciò che è accaduto in seguito sono diverse. Le ho sentite, ma ho
ragione di credere che siano errate. Ho inviato degli amici a scoprire
la verità e a portare in tuo aiuto i Nani, se saranno in grado di
farlo." Il re scosse la testa, con aria scoraggiata. "Perché dovrebbero
venire in nostro aiuto, quando noi non siamo accorsi da loro? Noi li
abbiamo abbandonati, Bremen." "Avevi un motivo." "Può darsi. Non ne sono
più tanto sicuro. Sei al corrente della morte di Courtann Ballindarroch?
E della distruzione della sua famiglia?" "Mi hanno informato." "Abbiamo
fatto il possibile, Tay e io. Ma il Gran Consiglio non voleva agire
senza la guida di un re. Non c'era niente da fare. Così abbiamo
rinunciato ai nostri sforzi per aiutare i Nani e ci siamo messi invece
alla ricerca della Pietra Nera." Esitò. "Ora mi domando se sia stata una
scelta saggia." Il druido si sporse verso di lui, con una luce intensa
negli occhi. "La Pietra Nera è in tuo possesso?" Il re annuì. "Nascosta
al sicuro, in attesa del tuo arrivo. Non voglio averci più niente a che
fare. Ho visto di che cosa è capace. Ho visto quant'è pericolosa. Da
questa storia traggo un solo conforto: sapere che la Pietra sarà usata
per distruggere il Signore degli Inganni e i suoi mostri." Bremen scosse
la testa. "No, Jerle. La Pietra Nera non è destinata a questo scopo." Le
parole furono secche e sorprendenti. Il re divenne rosso e protestò,
rauco per la collera: "vuoi dire che Tay è morto per niente? E' questo,
che dici?". "Non arrabbiarti con me. Non faccio io le regole di questo
gioco. Anch'io sono soggetto ai dettami del fato. La Pietra Nera non è
un'arma in grado di distruggere il Signore degli Inganni. Ti è difficile
crederlo, lo so, ma è la verità. La Pietra è un'arma potente, ma
stravolge chi la usa. Lo infetta con lo stesso potere che cerca di
distruggere. Il Signore degli Inganni e un male così penetrante che ogni
tentativo di rivolgere contro di lui la Pietra si risolverebbe nella
distruzione di chi la usa." "Allora perché abbiamo rischiato la vita per
recuperarla?" Livido in viso, il re non riusciva a nascondere la
collera. Il vecchio druido rispose in tono calmo, convincente. "Perché
non potevamo permettere che cadesse nelle mani di Brona. Perché in mano
sua la Pietra diventerebbe un'arma micidiale. E perché, re degli Elfi, è
necessaria per qualcosa di ancora più importante. Quando questa storia
si sarà conclusa e il Signore degli Inganni non esisterà più, la Pietra
consentirà ai Druidi di aiutare le Quattro Terre, anche dopo la mia
morte. Consentirà la sopravvivenza della loro magia e del loro sapere."
Il re fissò in silenzio il druido, senza capire. Un lieve bussare alla
porta li distrasse. Il re batté le palpebre e domandò con irritazione:
"Chi è?". La porta si aprì ed entrò Preia Starle. Parve indifferente
alle brusche maniere di Jerle. Lanciò un'occhiata a Bremen, poi guardò
di nuovo il re. "Vorrei portare il fanciullo nei quartieri delle Guardie
Reali per farlo rifocillare e riposare. E' sfinito. Non è necessario che
continui a stare di guardia. Ho provveduto a fare in modo che nessuno vi
disturbi, mentre parlate." Si rivolse a Bremen. "Benvenuto ad Arborlon."
Il vecchio si alzò e le rivolse un breve inchino. "Regina." Lei gli
sorrise. "Sempre e solo Preia, per te." Tornò seria. "Allora sai cos'è
accaduto?" "Che Jerle è re e che tu sei regina? E' stata la prima cosa
che ho appreso, appena giunto in città. Tutti ne parlano. Siete tutt'e
due benedetti, Preia. Sarete un sostegno l'uno per l'altra e per il
vostro popolo. Sono lieto della notizia." "Sei molto gentile" rispose
Preia, con occhi scintillanti. "Mi auguro che tu pure possa essere un
sostegno per noi in ciò che ci attende. Ora ti prego di scusarmi.
Porterò con me il fanciullo. Non stare in pensiero per lui. Abbiamo già
fatto amicizia." Se ne andò e chiuse la porta. Bremen guardò il re. "Sei
fortunato ad averla al fianco" disse a bassa voce. "Spero che te ne
renda conto." Jerle Shannara in quel momento pensava a un altro tempo,
non molto lontano, in cui si era trovato di fronte alla possibilità di
perderla. Ancora lo tormentava, il pensiero che le sue congetture su di
lei fossero state così errate. Tay e Preia, le due persone a lui più
vicine al mondo: lui aveva frainteso l'uno e l'altra, non era riuscito a
capirli come avrebbe dovuto, e aveva ricevuto una lezione che non
avrebbe mai dimenticato. Nella stanza tornò il silenzio, mentre il
crepuscolo riempiva di ombre gli angoli e la pioggia picchiettava piano
all'esterno. Il re si alzò e riaccese le lampade spente dalla raffica di
vento. L'oscurità diminuì. Il druido lo guardò, in silenzio, aspettando
che terminasse. Il re tornò a sedersi, ancora a disagio. Guardò Bremen e
corrugò la fronte. "Pensavo a quanto sia importante non dare mai nulla
per scontato. Avrei dovuto tenerlo a mente anche per quanto riguarda la
Pietra Nera. Ma la perdita di Tay era insopportabile, se non pensavo che
fosse morto per una buona causa. Presumevo erroneamente che la sua morte
avrebbe garantito la distruzione del Signore degli Inganni. E' difficile
accettare che sia morto per qualcosa d'altro." "E' difficile accettare
che sia morto e basta" replicò piano Bremen. "Ma la sua morte è legata
in ogni caso alla distruzione del Signore degli Inganni e non diventa
inutile solo perché la Pietra ha un uso diverso da quello che tu
credevi. Tay lo capirebbe, se fosse qui. In quanto re, devi fare come
lui." Jerle ebbe un sorriso amaro, pieno di sofferenza. "Sono ancora
inesperto. Questa storia d'essere re. Non è cosa che cercassi." "Me ne
compiaccio" replicò il druido, con una scrollata di spalle. "L'ambizione
non è una qualità che ti aiuterebbe, nel confronto col Signore degli
Inganni." "Cosa mi aiuterà, allora? Parlami della spada, Bremen."
L'impazienza ebbe la meglio sulla collera e sullo scoramento.
"L'esercito del Nord marcia contro di noi. Entro due giorni arriverà
nella Valle di Rhenn. O lo fermiamo lì, o siamo perduti Ma perché ci sia
una reale possibilità, devo avere un'arma a cui il Signore degli Inganni
non possa resistere. Dici di avermela portata. Parlami del suo segreto.
Dimmi cosa posso fare." Rimase in attesa, rosso in viso e ansioso,
fissando il druido. Bremen non si mosse, sostenne il suo sguardo, non
aprì bocca. Poi si alzò, si accostò al tavolo, prese il fagotto e lo
porse al re. "Ora è tua. Apri." Jerle Shannara ubbidì, slegò le
cordicelle, svolse con cura la tela. Alla fine ebbe in mano una spada
nel fodero. La spada era di lunghezza e formato insoliti, ma leggera e
perfettamente forgiata. L'elsa, all'altezza della guardia, aveva un
intarsio col disegno di una mano che protendeva una torcia ardente. Il
re sguainò la spada e si meravigliò della lucentezza della lama, priva
della minima macchia, e della sensazione che provò nell'impugnarla: come
se fosse nel posto giusto, come se fosse realmente destinata a lui. Per
qualche istante la studiò in silenzio. La fiamma della torcia si
allungava verso la punta e nella penombra il re poteva quasi immaginare
che guizzasse di luce propria. Protese davanti a sé la spada,
saggiandone il peso e il bilanciamento. Il metallo brillò alla luce
delle lampade, vivo ed esigente. Il re guardò Bremen e annuì lentamente.
"Una lama meravigliosa" mormorò. "In essa c'è più di quanto tu non
percepìsca, Jerle Shannara... e meno" replicò in fretta il vecchio
druido. "Perciò ascolta con attenzione ciò che ti dirò. Queste
informazioni sono esclusivamente per te. Solo Preia potrà venirle a
sapere, e solo se lo riterrai indispensabile. Troppo potrebbe dipendere
dal fatto di mantenere il segreto. Devi darmi la tua parola." Il re
esitò, lanciò un'occhiata alla spada, poi annuì. "Hai la mia parola." Il
druido gli si fece vicinissimo e parlò a bassa voce. "Accettando questa
spada, la rendi tua. Ma devi conoscere la sua storia e il suo scopo,
perché essa ti serva bene. Prima la sua storia." Esitò, scegliendo con
cura le parole. "La spada è stata forgiata dal miglior fabbro delle
Terre del Sud, secondo una formula che risale al mondo antico. E' stata
temprata con il calore e la magia e la lega di cui è fatta la rende
leggera e robusta. Non si spezzerà in battaglia, né colpita dal ferro né
dalla magia. Supererà ogni prova a cui sia sottoposta. E' impregnata
della magia dei Druidi. Contiene in sé il potere di tutti i Druidi che
sono esistiti, di tutti coloro che si radunarono a Paranor nel corso dei
secoli e poi passarono da questo mondo all'altro. Dopo la forgiatura,
l'ho portata al Perno dell'Ade e ho evocato gli spiriti. Sono comparsi
tutti, e a uno a uno sono passati davanti a me e hanno toccato la lama.
Durante la forgiatura, nell'elsa è stato incastonato l'Eilt Druin, il
medaglione della carica di Grande Druido, il simbolo del loro potere.
L'hai visto con i tuoi occhi: una mano che protende una torcia accesa.
Proprio questo simbolo gli spiriti dei morti sono venuti a sottoscrivere
e a impregnare dell'ultimo loro potere terreno, tutto ciò che poterono
portare con sé dopo questa vita. "Veniamo ora allo scopo della spada. E'
una lama ben costruita, un'arma di grande forza e resistenza, ma queste
qualità, da sole, non bastano a metterla in grado di distruggere il
Signore degli Inganni. Questa spada non è destinata a essere usata come
un'arma qualsiasi. Può essere adoperata come un'arma normale, certo. Ma
non è stata forgiata perché fosse affilata e resistente, bensì per dare
corpo al potere della magia che risiede nel suo interno. Questa magia,
re degli Elfi, sarà ciò che ti darà la vittoria, quando affronterai
Brona." Riprese fiato, come se il lungo discorso l'avesse sfinito. Nella
scarsa luce il suo viso segnato era stanco e pallido. "Il potere di
questa spada, Jerle Shannara, è la verità. Verità, pura e semplice.
Verità, totale e senza macchia. Verità, spogliata di tutti gli inganni,
di tutte le menzogne, di tutte le false apparenze, capace di smascherare
colui contro il quale la magia è diretta. E' un arma potentissima, alla
quale Brona non può resistere, perché lui è ammantato di inganni e
menzogne, false apparenze e occultamenti: questi sono le bardature del
suo potere. Sopravvive nascondendo la verità. Costringilo ad affrontare
la verità, e lui è finito. "Non compresi il segreto del potere della
spada, quando mi fu esposto al Perno dell'Ade. Come può, la verità,
avere la forza di distruggere una creatura mostruosa come il Signore
degli Inganni? Dov'è, in questo, la magia dei Druidi? Ma dopo qualche
tempo cominciai a capire. Le parole "Eilt Druin" significano "Dalla
Verità, il Potere". Era il credo dei Druidi all'inizio, la meta che
stabilirono per se stessi quando si radunarono a Paranor, il loro scopo
fra le Razze, dal Primo Consiglio in poi. Fornire alla Razza dell'Uomo
la verità. Verità che desse conoscenza e comprensione. Verità che
facilitasse il progresso. Verità che offrisse speranza. In questo modo i
Druidi avrebbero aiutato le Razze nella ricostruzione." Batté le
palpebre; i suoi occhi scuri erano remoti e stanchi. "Ciò che furono in
vita è ora incorporato nella spada che hai in mano; e tu devi trovare un
modo perché il loro retaggio soddisfi le tue necessità. Non sarà facile.
Non è così semplice come appare sulle prime. Porterai la spada in
battaglia contro il Signore degli Inganni. Metterai Brona con le spalle
al muro. Lo toccherai con la spada e la magia della lama lo distruggerà.
Tutto questo è promesso. Ma solo se sarai più forte di lui, nella tua
risolutezza, nel tuo spirito e nel tuo cuore." Il re degli Elfi scuoteva
la testa. "Come posso esserlo? Anche se accettassi ciò che mi hai detto,
e ancora non so se riuscirò ad accettarlo... è difficile da
assimilare... come potrò essere più forte di una creatura in grado di
distruggere perfino te?" Il vecchio druido prese la mano che stringeva
la spada e l'alzò in modo che la lama si trovasse fra loro due.
"Rivolgendo per prima cosa il potere della spada contro te stesso!"
Negli occhi del re degli Elfi comparve la paura. "Contro me stesso? La
magia dei Druidi?" "Ascoltami, Jerle" proseguì l'altro, con voce pacata,
stringendo la presa in modo che il braccio con la spada non ricadesse,
in modo che la spada fosse un filo d'argento che li legava, lucido e
scintillante. "Ciò che ti si chiede non è facile... te l'ho già detto.
Ma è fattibile. Devi rivolgere contro te stesso il potere della spada.
Devi lasciare che la magia ti riempia e ti riveli le verità della tua
stessa vita. Devi lasciare che esse vengano svelate, esposte per ciò che
sono, e affrontate. Alcune di esse saranno sgradevoli. Difficili da
affrontare. Noi reinventiamo di continuo noi stessi e la nostra vita,
per sopravvivere agli errori e ai fallimenti. Ed è proprio questo a
renderci vulnerabili a un essere come Brona. Ma se sopporterai l'esame
di te stesso che la spada esige, emergerai dall'esperienza più forte del
tuo avversario e lo distruggerai. Perché, re degli Elfi, lui non può
permettersi un simile esame della propria vita: al di là delle menzogne
e delle mezze verità e degli inganni, lui non è niente!" Seguì un lungo
silenzio, mentre i due si confrontavano, guardandosi negli occhi,
ciascuno misurando l'altro. "La verità" disse infine il re degli Elfi,
con voce a malapena udibile. "Che fragile arma!" "No!" obiettò subito
Bremen. "La Verità non è mai fragile. E' l'arma più potente di tutte."
"Davvero? Sono un guerriero, un combattente. Le armi sono tutto ciò che
conosco... armi di ferro maneggiate da uomini di muscoli. Tu dici che
niente di questo mi servirà, che dovrò abbandonare tutto. Tu dici che
devo diventare qualcosa che non sono mai stato." Scosse adagio la testa.
"Non so se sono in grado di farlo." Il vecchio druido lasciò la presa e
la spada ricadde fra loro. Le mani secche come pergamena si posarono
sulle robuste spalle del re, le strinsero. In quel corpo anziano c'era
una forza insospettata. In quegli occhi, una determinazione feroce.
"Devi ricordare chi sei" sussurrò il druido. "Devi ricordare come hai
fatto a essere così. Non hai mai lasciato cadere una sfida. Non hai mai
evitato una responsabilità. Non hai mai avuto paura. Sei sopravvissuto a
esperienze che avrebbero ucciso pressoché chiunque altro. Ecco chi e che
cosa sei." Aumentò la stretta. "Hai grande coraggio, Jerle. Hai un cuore
valoroso. Ma dai troppa importanza alla morte di Tay e non ne dai a
sufficienza alla tua stessa vita. No, non adirarti. Non è una critica a
Tay, né un tentativo di sminuire ciò che la sua perdita significa per
noi. E' un'osservazione sulla necessità che tu ricordi che sono sempre i
viventi a contare. Sempre. Da' alla tua vita il valore che merita, re
degli Elfi. Sii forte nei modi in cui devi essere forte. Non trascurare
le tue possibilità contro il Signore degli Inganni, solo perché ti è
poco familiare l'arma con cui ti è dato di combattere. E' poco familiare
anche a lui. Brona conosce le lame fatte dall'uomo. Penserà che la tua
sia solo una delle tante. Sorprendilo. Fagli assaggiare un metallo
d'altro genere." Jerle Shannara si scostò, scuotendo la testa, guardando
dubbioso la spada. "Ho abbastanza buon senso da non negare ciò che trovo
difficile accettare" disse, fermandosi davanti alla finestra e guardando
la pioggia. "Ma ora è diverso. Ora mi si chiede troppo." Strinse le
labbra in una linea dura. "Perché sono stato scelto io? Non riesco a
spiegarmelo. Molti altri sarebbero più adatti di me a un'arma di questo
genere.LO capisco il ferro e la forza bruta. Questo... questo ingegnoso
artificio è troppo oscuro per me. La verità come arma ha senso solo in
politica. Pare inutile su di un campo di battaglia." Si girò verso il
druido. "Affronterei senza esitare il Signore degli Inganni se potessi
impugnare questa spada come una semplice lama di metallo forgiata
dall'abilità di un mastro armaiolo. L'accetterei come arma, senza
riserve, se potessi usarla per quel che appare." Nei suoi occhi azzurri
traspariva l'angoscia. "Ma questa? Sono l'uomo sbagliato, per questa
spada." Il druido annuì lentamente, non tanto perché fosse d'accordo, ma
perché capiva l'obiezione. "Però sei tutto ciò che abbiamo, Jerle. Non
possiamo sapere perché sei stato scelto. Forse perché eri destinato a
diventare re degli Elfi. O per ragioni che trascendono la nostra
comprensione. I morti sanno cose che noi ignoriamo. Forse potrebbero
rivelarcele, ma hanno deciso di non farlo. Dobbiamo accettare questo
fatto e andare avanti. Tu sei colui che porterà questa spada, in
battaglia. Così sta scritto. Non c'è scelta. Devi fare del tuo meglio."
La sua voce si spense in un bisbiglio. Fuori, la pioggia continuava a
cadere con un soffocato, costante tamburellare e ammantava di un
tremolio argenteo il territorio boscoso. Era sceso il crepuscolo e il
giorno se n'era andato con il sole. Arborlon era silenziosa e bagnata al
riparo della foresta, una città che lentamente indossava le vesti da
notte. C'era silenzio nello studio, nel padiglione: poteva non esserci
altro essere vivente al mondo, a parte i due uomini che si
fronteggiavano nella fioca luce delle candele. "Perché nessuno tranne me
deve conoscere il segreto della spada?" domandò a bassa voce Jerle
Shannara. Il vecchio druido sorrise tristemente. "Potresti rispondere tu
stesso alla domanda, re degli Elfi. Nessuno deve conoscere il segreto
perché nessuno lo crederebbe. Se i tuoi dubbi sul potere della spada
sono così grandi, pensa quali dubbi avrebbe il tuo popolo. Perfino
Preia, forse. Il potere della spada è la verità. Chi può credere che una
cosa tanto semplice sia in grado di sconfiggere il potere del Signore
degli Inganni?" Già, chi? pensò il re. "L'hai detto tu stesso. Una spada
è un'arma da battaglia." Il sorriso di Bremen si mutò in un sospiro di
stanchezza. "Lascia che gli Elfi si accontentino di questo. Mostra loro
la spada che porti, l'arma che ti ho affidato, e di' solo che si
rivelerà molto utile. Il tuo popolo non chiede altro." Jerle Shannara
annuì in silenzio. No, pensò, non chiede altro. E' meglio che la fede
non venga complicata dalla ragione. Avrebbe voluto, in quel triste,
disperato momento di dubbio e di timore, di tacito consenso a un patto
che non poteva né accettare né ricusare, che anche per lui la fede fosse
qualcosa di così semplice.
28
A metà pomeriggio del giorno seguente Jerle Shannara si avvicinava alla
Valle di Rhenn e al confronto predisposto per lui dal destino. Poco dopo
il sorgere del sole si era messo in viaggio in compagnia di Preia, di
Bremen, di un piccolo gruppo di consiglieri e di comandanti
dell'esercito, portando con sé tre compagnie di Cacciatori, due a piedi
e una a cavallo. Quattro compagnie erano già sul posto, all'imboccatura
della valle, e altre due sarebbero giunte l'indomani. In città erano
rimasti gli altri componenti il Gran Consiglio, sotto la guida del primo
ministro Vree Erreden, tre compagnie di riserva, gli abitanti della
città e i profughi giunti dalle campagne per paura dell'invasione
incombente. Il re degli Elfi non parlò a nessuno della sua conversazione
col druido. Preferì non fare un pubblico annuncio riguardante la spada
affidatagli. Ne parlò soltanto a Preia, ma si limitò a dirle che si
trattava di un'arma alla quale il Signore degli Inganni non avrebbe
potuto resistere. Mentre lo diceva, si sentiva contrarre lo stomaco e
infiammare il viso, perché la sua stessa fede era fragile. Rosicchiava,
come un cane l'osso, il concetto di verità come arma di battaglia.
Continuava a ripetere tra sé la conversazione avuta col vecchio druido,
mentre cavalcava a levante, così immerso nei propri pensieri, così
distante dai compagni che varie volte, quando Preia, che gli cavalcava a
fianco, gli rivolse la parola, non rispose. Indossava l'armatura ed era
pronto alla battaglia. La spada, agganciata sulla schiena, gli pesava
pochissimo a paragone della cotta di maglia di ferro e delle piastre,
tanto da parere fatta di carta. Pensò spesso, durante il viaggio, alla
sensazione che la spada gli dava: il suo peso era effimero come l'uso al
quale era destinata. Non riusciva a vederlo come una possibilità, aveva
bisogno che gli mostrassero come funzionava. Doveva sperimentarne di
persona l'uso. Lui era fatto così. Ciò che vedeva e sentiva era reale.
Il resto erano solo parole o poco più. Non rivelò a Bremen i propri
dubbi. Quando il vecchio druido gli si avvicinava, manteneva sulle
labbra un sorriso. Si mostrò fiducioso. Per se stesso, ma anche per il
suo popolo. Il suo esercito avrebbe tratto da lui la fiducia. Se il re
era sicuro del fatto suo, anche i suoi soldati lo sarebbero stati. Aveva
sempre saputo che la vittoria in battaglia dipende anche da simili
piccolezze e si era sempre comportato di conseguenza. Quell'esercito,
come quel popolo, era ai suoi ordini... perché lui lo usasse, bene o
male. Gli eventi dei prossimi giorni avrebbero messo tutti alla prova,
in modi che non avevano mai sperimentato prima. Jerle intendeva fare la
sua parte. "Sono ore che non dici una parola" osservò a un certo punto
Preia, aspettando che lui guardasse dalla sua parte per essere sicura
che l'ascoltasse. "Davvero?" replicò lui. Fu quasi sorpreso di vederla
lì, tanto era concentrato sul suo dibattito interiore. Preia montava un
robusto pomellato grigio, di nome Ashes, ed era armata fino ai denti.
Naturalmente non c'era stata discussione sulla sua presenza. Avevano
affidato ad altri i figli da poco adottati. Come Jerle, Preia Starle era
nata per la battaglia. "Qualcosa ti preoccupa" dichiarò lei, guardandolo
negli occhi. "Perché non mi dici di cosa si tratta?" Già, perché? Suo
malgrado, Jerle sorrise. Lo conosceva troppo bene perché potesse
convincerla di essere in errore. Tuttavia non poteva confidarle i suoi
dubbi. perché era un problema che doveva risolvere da sé. Nessuno poteva
aiutarlo. Non in quel momento, almeno... non prima che lui trovasse da
solo un terreno solido su cui stare in piedi. "Non trovo le parole per
esprimerlo" disse infine. "Ci sto ancora lavorando. Porta pazienza."
"Forse ti sarebbe d'aiuto provare le parole su di me." Lui annuì,
guardando, al di là della bellezza del viso e dell'intelligenza
rispecchiata negli occhi chiari, il calore e l'interessamento che aveva
nel cuore. In quei giorni si sentiva diverso nei suoi confronti. La
distanza che aveva sempre mantenuto fra loro era svanità. Erano legati
in maniera così inestricabile da essere sicuro che qualsiasi cosa
accadesse all'uno, fosse anche la morte, sarebbe accaduta anche
all'altra. "Dammi un po' di tempo" le disse in tono gentile. "Allora
parleremo." Lei gli prese la mano e la tenne un momento fra le proprie.
"Ti amo" disse. Il pomeriggio li vide risalire la Valle di Rhenn e
ancora Jerle non aveva parlato dei dubbi che lo turbavano e ancora Preia
aspettava che gliene parlasse. Il giorno era luminoso e caldo, l'aria
dolce per l'odore dell'erba e delle foglie ancora bagnate, la foresta
all'intorno rigogliosa per le recenti piogge. Le nuvole si erano
finalmente spostate, ma il terreno rimaneva morbido e la pista piena di
solchi era fangosa dove gli Elfi l'avevano percorsa verso levante. Per
tutto il giorno erano giunti rapporti dal punto dove il grosso delle
truppe si era attestato a difesa, all'imboccatura della valle.
L'esercito del Nord continuava lentamente ad avanzare attraverso le
Pianure di Streleheim, da settentrione e da meridione, a diversa
velocità a seconda della grandezza e della mobilità, fanti e cavalieri e
salmerie. L'esercito del Signore degli Inganni era enorme e continuava a
crescere. Già riempiva le piane all'imboccatura della valle, fin dove
arrivava l'occhio. Gli Elfi erano inferiori in un rapporto di quattro a
uno, sproporzione che aumentava con l'arrivo di altri reparti nemici. I
rapporti erano trasmessi da messaggeri che parlavano con tono piatto,
calmo, volutamente privo di ogni emozione, ma Jerle Shannara era
addestrato a decifrare ciò che si nascondeva nelle piccole pause e nelle
sfumature d'inflessione: cominciava a serpeggiare la paura. Doveva fare
qualcosa, e in fretta, per impedire che la paura si diffondesse. La
situazione era realmente grave. Alcuni cavalieri erano stati mandati a
levante per chiedere aiuto ai Nani, ma pattuglie nemiche controllavano
le piste e sarebbero occorsi giorni prima che un cavaliere le aggirasse.
Nel frattempo gli Elfi potevano contare solo su se stessi. Nessuno
sarebbe giunto in loro aiuto. I Troll erano un popolo soggiogato, i loro
eserciti erano schiavi del Signore degli Inganni. Gli Gnomi erano
disorganizzati già in condizioni normali, e comunque non avevano alcuna
simpatia per gli Elfi. Gli Uomini si erano isolati nelle loro
città-stato e non possedevano una forza militare comune. Rimanevano solo
i Nani, se erano scampati. Ancora non si sapeva se Raybur e il suo
esercito erano sfuggiti agli invasori. Quindi c'era una buona ragione
per essere spaventati, pensò Jerle Shannara, mentre con i compagni
risaliva dalle foreste all'ampio ingresso occidentale della Valle di
Rhenn. C'era una buona ragione... ma in quel caso non bisognava lasciare
che la ragione avesse il sopravvento. Si domandò cosa poteva fare per
sconfiggere la paura. Bremen, che cavalcava con Allanon alcuni passi più
indietro, fra i consiglieri del re e i comandanti dell'esercito, si
poneva in quel momento la stessa domanda. Ma non era turbato per la
paura degli Elfi: era turbato per la paura del re. Vedeva infatti che
Jerle Shannara era spaventato, anche se non l'avrebbe mai confessato,
ammesso che si rendesse conto d'esserlo. La sua paura non era palese, ma
era presente: un cacciatore in agguato, subdolo e insidioso, acquattato
in fondo alla mente del re, in attesa del momento buono per venire allo
scoperto. Bremen l'aveva intuito il giorno precedente, quando aveva
rivelato a Jerle il potere della spada: la paura era lì, dietro gli
occhi del re, nel profondo della sua confusione e della sua incertezza,
là dove sarebbe cresciuta e ingigantita fino a diventare la sua rovina.
Malgrado gli sforzi del vecchio druido e la sua fede nel potere del
talismano, il re non ci credeva. Avrebbe voluto, ma non ci riusciva.
Avrebbe cercato un modo, certo, ma niente garantiva che l'avrebbe
trovato. Era una cosa che Bremen non aveva considerato nel corso degli
ultimi avvenimenti. Doveva considerarla adesso. Doveva sistemare la
faccenda. Cavalcò tutto il giorno tenendo d'occhio il re, notando il
silenzio di cui si era ammantato, studiando la linea decisa della sua
mascella e del collo, senza lasciarsi coinvolgere dai sorrisi e dalle
dimostrazioni di fiducia dirette agli altri. La guerra che si combatteva
nella mente di Jerle Shannara era lampante. Il re si sforzava di
accettare ciò che gli era stato detto, ma non ci riusciva. Però era
coraggioso e deciso, quindi avrebbe portato in battaglia quella spada e
avrebbe affrontato il Signore degli Inganni, come gli era stato detto
che doveva fare. Ma in quel momento sarebbe affiorata la sua mancanza di
fede, il dubbio l'avrebbe tradito e lui sarebbe morto. Era inevitabile e
terrificante. Bremen si disse che occorreva un'altra voce, più forte
della sua. Si scoprì a desiderare che Tay Trefenwyd fosse ancora vivo.
Tay era stato abbastanza intimo con Jerle e avrebbe trovato il modo di
farsi ascoltare, di convincerlo, di fugare apprensioni e dubbi. Avrebbe
affiancato il re contro il Signore degli Inganni, proprio come Bremen
intendeva fare, ma quel gesto avrebbe avuto maggiore significato,
compiuto da Tay. Forse avrebbe addirittura fatto la differenza. Ma Tay
era morto, perciò la voce e la forza necessarie dovevano provenire da
qualcun altro. Bisognava pensare anche ad Allanon. Di tanto in tanto il
vecchio druido lanciava un'occhiata al fanciullo. Era ancora reticente,
ma non si rifiutava più di parlare. Il merito era in parte di Preia
Starle. Il fanciullo era attratto da lei, ascoltava i suoi consigli e
aveva cominciato a confidarsi. La sua famiglia, aveva rivelato, era
rimasta uccisa nell'incursione dei soldati del Nord. Lui era sfuggito
alla morte perché, quando era iniziato l'attacco, si trovava da un'altra
parte e si era tenuto nascosto mentre i soldati sciamavano davanti a
lui. Aveva visto commettere atrocità enormi, ma preferiva non parlarne.
Bremen non aveva insistito. Gli bastava che fosse sopravvissuto. Ma
doveva considerare anche la visione di Galaphile, e questa era una
faccenda più difficile da accantonare. Cosa significava? Lui, Bremen, in
piedi col fanciullo al limitare del Perno dell'Ade in presenza
dell'ombra di Galaphile; le vivide, evanescenti forme degli spiriti dei
morti che turbinavano sopra le acque impetuose; l'aria scura e satura di
gemiti; gli strani occhi del giovane fissi su di lui, immobili. Cosa
fissavano? Il vecchio druido non sapeva decidersi. Inoltre, in primo
luogo, come mai era nella Valle d'Argilla, sulla riva del Perno
dell'Ade, a un'evocazione dei morti dove non era consentità la presenza
di esseri umani, dove solo lui Bremen, osava andare? La visione lo
tormentava. Stranamente, aveva paura per Allanon. Cercava di
proteggerlo. Si scopriva attirato da lui in un modo che non sapeva
spiegare bene. Forse era colpa della loro solitudine. Nessuno dei due
aveva famiglia, popolo, casa. Nessuno dei due apparteneva realmente a
qualche luogo. In entrambi c'era un innegabile distacco dal mondo, e si
trattava sia di uno stato mentale sia di una condizione di vita.
L'essere druido metteva Bremen in una posizione di distacco dal mondo
che non avrebbe potuto modificare neppure se avesse voluto. Ma il
fanciullo era nelle sue stesse condizioni, in parte per l'intuizione dei
pensieri altrui che chiaramente possedeva, un dono da pochi apprezzato,
e in parte per una percezione straordinaria che rasentava la
precognizione. Nei suoi strani occhi si rispecchiavano una mente acuta e
una grande intelligenza, ma in essi si celavano altri doni. Ti guardava
come se potesse leggerti nell'anima e il suo sguardo non era
ingannatore. La sua capacità di rivelare la vera natura degli altri
metteva paura. Bremen si domandò cosa doveva farne. Ma quello era un
giorno di dilemmi e di domande senza risposta, e il vecchio druido
sopportò in silenzio quel tormentoso fardello. La soluzione, si disse,
si sarebbe presentata fin troppo presto. Quando giunsero alla Valle di
Rhenn, Jerle Shannara lasciò gli altri e con Preia andò a ispezionare le
difese, anche per far sapere ai Cacciatori che era arrivato. Dovunque fu
accolto con calore e rispose con sorrisi e ampi gesti; disse agli uomini
che tutto andava bene e che avevano in serbo un paio di belle sorprese
per i soldati del Nord. Poi percorse la valle per dare un'occhiata
all'accampamento nemico. Questa volta prese con sé una guida, perché il
fondovalle era già disseminato di trappole, molte delle quali disposte
da poco, e non voleva finire per errore in una di esse. Preia lo
accompagnò: ormai la regina era per i soldati una presenza familiare
quanto il re. Rimasero in silenzio, mentre seguivano la guida su alture
erbose, giù per larghi pendii, attraverso tratti piani di terreno
bruciato, e su fino a un promontorio fra le rupi a strapiombo che
proteggevano il fianco destro, da dove si poteva osservare l'intera
vallata. Un piccolo contingente di esploratori e portaordini era lì
accampato e montava la guardia. Jerle salutò i soldati e andò sull'orlo
del dirupo. Davanti a lui si estendeva la formicolante massa
dell'esercito del Nord, una smisurata e pigra palude di uomini, animali,
carri e macchine da guerra, ammantata di polvere e di caldo. Dappertutto
c'era fermento: si selezionavano rifornimenti e armi, compagnie di
soldati manovravano per prendere posizione sul fronte dello
schieramento, si montavano macchine da assedio. L'esercito si era
attestato a circa un miglio dall'estremità orientale della valle, in un
punto da cui si poteva avvistare ogni attacco e dove c'era spazio per
allargarsi e accogliere rinforzi. Jerle percepì il disagio degli uomini
che l'accompagnavano. Avvertì nel silenzio di Preia una fredda
valutazione delle possibilità a loro favore. Quell'esercito giunto a
invadere la loro terra era una mostruosa e malefica potenza che non
sarebbe stato facile scacciare. Dopo la prima occhiata, studiò a lungo
l'esercito nemico. Prese nota di dov'erano sistemati i rifornimenti, le
attrezzature, le armi. Contò le macchine d'assedio e le catapulte.
Rintracciò i vessilli delle compagnie radunate per combatterlo e calcolò
grosso modo il numero di fanti e cavalieri, leggeri e pesanti. Osservò
l'arrivo di parecchi convogli di rifornimenti dalle Streleheim
settentrionali e meridionali. Esaminò con attenzione le diverse
possibilità. Poi rimontò in sella, tornò all'altra estremità della valle
convocò un consiglio di guerra. Si riunirono in una tenda posta a buona
distanza dal fronte degli Elfi, circondata da Guardie Reali per
garantire riservatezza. Erano presenti Preia e Bremen, Kier Joplin che
comandava la cavalleria, Rustin Apt e Cormorant Etrurian che comandavano
la fanteria, i capitani Prekkian e Trewithen, a capo rispettivamente
della Guardia Nera e della Guardia Reale, e il guercio Arn Banda,
comandante degli arcieri. Era il nucleo del suo stato maggiore, il
gruppo di uomini su cui faceva più affidamento. Era loro che doveva
convincere, se voleva avere una possibilità contro l'esercito
attaccante. "Ben trovati, amici miei" li salutò, stando in piedi davanti
a loro, calmo e rilassato, senza armatura. Occupavano scanni disposti in
un ampio cerchio, in modo che lui potesse avvicinarsi a chiunque,
all'occorrenza. "Sono stato all'altro capo della valle e ho visto
l'esercito nemico. Penso che la nostra linea d'azione sia chiara.
Dobbiamo attaccare." Ci fu un sussulto di sorpresa e costernazione,
ovviamente, Jerle se l'era aspettato. "Di notte!" gridò, per superare
l'improvviso clamore. "Subito!" Rustin Apt, anziano e robusto, tanto
massiccio da dare l'impressione che niente potesse smuoverlo una volta
in piedi, scattò dallo scanno. "Mio re, no! Attaccare? Di sicuro non
sarai così..." "Calma, Rustin" lo interruppe il re, con un gesto secco.
"Nella giusta situazione, sono e faccio qualsiasi cosa. Mi conosci bene.
Ora ascolta un momento. L'esercito del Nord se la prende comoda davanti
a noi, grasso e arrogante, ritenendosi troppo forte perché si scherzi
con lui, convinto che ce ne stiamo al sicuro dietro le nostre difese.
Però cresce di giorno in giorno, e i nostri Cacciatori lo vedono e si
perdono d'animo. Non possiamo restare a guardare senza intervenire
mentre diventa tanto grosso da inghiottirci in un solo boccone. Non
possiamo aspettare l'inevitabile attacco. Dobbiamo colpirli al cuore
adesso, secondo regole nostre, in un momento scelto da noi, quando noi
siamo pronti e loro no." "Parole belle e giuste" disse con calma Kier
Joplin. Era basso e tarchiato, e aveva mobili occhi scuri. "Ma quale
parte dell'esercito userai per lanciare questo attacco? Il buio ci
favorirà, ma i cavalieri saranno uditi da lontano e i fanti saranno
fatti a pezzi prima di potersi ritirare al sicuro." Seguì un borbottio
d'assenso. Jerle annuì. "Il tuo ragionamento segue il mio. Ma se il
nemico non potesse trovarci? Se diventassimo invisibili proprio quando
loro pensano d'averci in pugno? Se attaccassimo con una serie di colpi,
uno qui e uno là, lasciando loro solo ombre con cui prendersela?" Ora ci
fu silenzio. "Come faresti?" domandò infine Joplin. "Ve lo spiegherò. Ma
prima voglio che siate d'accordo col mio ragionamento. Sono convinto che
dobbiamo fare qualcosa, se vogliamo riattizzare la fiducia del nostro
esercito. L'ho vista declinare. Dico bene?" Di nuovo silenzio. "Dici
bene" ammise infine Joplin. "Kier, hai evidenziato il pericolo di un
attacco. Ora voglio che tu consideri i possibili vantaggi. Se riusciamo
a sbilanciarli, a disgregarli, a innervosirli, anche a causare delle
perdite, guadagniamo tempo e fiducia. Se ce ne stiamo qui ad aspettare,
non guadagniamo niente." "D'accordo" disse subito Cormorant Etrurian.
Era un uomo dal viso sottile, scarno, con buona esperienza delle guerre
di frontiera, ex aiutante di campo del vecchio Apt. "Però a questo punto
una disfatta sarebbe disastrosa. Rischierebbe perfino di provocare un
attacco anticipato contro di noi." "Potresti anche sbagliarti nel
sostenere che non si aspettano un attacco" obiettò il suo anziano
mentore con tono irascibile, alzandosi. "Non sappiamo cos'è accaduto ai
Nani. Affrontiamo un esercito già provato in battaglia, che potrebbe
conoscere più trucchi di noi." "Inoltre siamo in grande inferiorità
numerica" aggiunse Etrurian con una smorfia. "Mio re, è una tattica
troppo pericolosa, ecco tutto." A ogni commento Jerle annuiva, prendendo
tempo, aspettando, prima di parlare, che tutti avessero esposto le loro
obiezioni. Diede un'occhiata a Preia, che lo osservava attentamente, e
poi a Bremen, il cui viso impassibile non rivelava niente dei suoi
pensieri. Guardò in viso tutti i presenti, nel tentativo di stabilire su
quanti di loro potesse contare. Su Preia, naturalmente. Ma gli altri,
Bremen compreso, ancora non avevano deciso, oppure erano contrari.
Jerle, per quanto fosse il re, non voleva imporre il suo piano, ma era
ben deciso a farlo approvare. Come convincerli, allora? Le obiezioni
terminarono. Jerle Shannara si raddrizzò. "Qui siamo tutti amici"
iniziò. "Lavoriamo per raggiungere la stessa meta. So bene quanto sia
difficile il compito che ci attende. Siamo gli unici che si frappongono
tra il Signore degli Inganni e la devastazione delle Quattro Terre.
Forse siamo rimasti gli unici in grado di affrontarlo. La prudenza è
necessaria, ma è necessario anche osare. Non può esserci vittoria senza
rischio... di certo non qui, in questo posto e in questo momento, contro
un simile nemico. In ogni battaglia c'è il fattore rischio, il fattore
fortuna. Non possiamo ignorarlo. Ma possiamo ridurlo al minimo." Si
avvicinò a Rustin Apt e si inginocchiò davanti a lui. Negli occhi duri
dell'esperto capitano comparve una luce di stupore. "E se ti mostrassi
un modo di attaccare il nemico di notte, un modo che ha ottime
probabilità di successo, che mette a repentaglio solo pochi di noi, ma
può disunire il nemico quanto basta a farci guadagnare tempo e fiducia?"
L'anziano comandante parve incerto. "Puoi farlo?" brontolò. "Sarai dalla
mia parte, in questo caso?" insistette il re, senza rispondere alla
domanda. Lanciò un'occhiata a destra e a sinistra. "Sarete tutti dalla
mia parte?" Ci furono mormorii d'approvazione. Jerle guardò tutti negli
occhi, uno dopo l'altro, li costrinse a incrociare il suo sguardo, a
dare il proprio assenso. Annuì a tutti, li attirò a sé con gli occhi e
il sorriso, li legò con la loro tacita promessa, li rese parte del piano
che aveva concepito. "Allora ascoltate attentamente" mormorò. E illustrò
loro ciò che avrebbe fatto. L'attacco non ebbe luogo quella notte, ma la
seguente. I preparativi e la scelta degli uomini richiesero ancora un
giorno. Kier Joplin e i suoi cavalieri andarono a nord, Cormorant
Etrurian e i suoi Cacciatori a sud; partirono al sorgere del sole
tenendosi al riparo delle foreste e dei dirupi in modo da giungere alle
rispettive destinazioni senza farsi vedere. I due gruppi erano ridotti,
perché la sorpresa e la rapidità d'azione sarebbero state molto più
utili del numero. Ciascun gruppo aveva precise istruzioni su cosa fare e
su quando agire. Coordinare i vari elementi dell'assalto richiedeva un
tempismo preciso. Se i colpi non avvenivano nella giusta sequenza,
l'assalto sarebbe fallito. Jerle Shannara guidava il gruppo centrale,
composto di arcieri e Guardie Reali. A quel gruppo sarebbe toccato il
combattimento più duro, e Jerle non permise a nessuno di prendere il suo
posto. Bremen s'infuriò. Approvò il piano. Applaudì l'innovazione e
l'audacia del re. Ma ritenne follia che guidasse di persona l'attacco.
"Rifletti, re degli Elfi! Se muori, tutto è perduto e non contano gli
eventuali vantaggi!" Dopo l'uscita degli altri, aveva protestato con
Jerle e con Preia. Aveva agitato in tutte le direzioni i capelli e la
barba, con gesti rabbiosi. "Non puoi rischiare la tua vita in questa
impresa! Devi restare vivo per confrontarti con Brona!" Erano rimasti
accanto nella penombra, perché il giorno era giunto al crepuscolo. Fuori
della tenda erano già in corso i preparativi per l'attacco del giorno
seguente. Jerle Shannara aveva convinto i suoi comandanti: la forza dei
suoi argomenti e della sua logica aveva fatto cadere le opposizioni e
convinto gli incerti. Uno alla volta avevano capitolato, prima Joplin,
poi gli altri. Alla fine tutti erano entusiasti del piano quanto il re
stesso. "Bremen ha ragione" aveva convenuto Preia Starle. "Dagli retta."
"Bremen si sbaglia" aveva replicato Jerle, senza alzare la voce, con
calma, zittendoli con la forza stessa della propria convinzione. "Per
comandare, un re dev'essere d'esempio. Soprattutto qui, in questa
situazione, dove c'è troppo in gioco. Non posso chiedere a un altro ciò
che non farei io stesso. L'esercito mi guarda. Gli uomini sanno che sto
davanti e non dietro di loro. In questa circostanza non si aspettano da
me niente di meno, e non li deluderò." Si rifiutò di cedere. Non scese a
compromessi. Così guidò i suoi uomini, come aveva annunciato, malgrado i
timori del druido; e Preia, come sempre, era al suo fianco. Strisciarono
nel buio a mezzanotte, scivolarono fuori dalla valle e attraversarono le
pianure verso il campo nemico. Erano solo alcune centinaia, gli arcieri
in numero doppio delle Guardie Reali. Un piccolo gruppo di soldati
silenziosi come fantasmi precedette gli altri ed eliminò le sentinelle
che pattugliavano il perimetro dell'accampamento. Presto il grosso della
forza d'attacco fu a meno di cinquanta passi. Lì gli Elfi si
acquattarono, armi in pugno, in attesa. Quando partì, l'attacco fu
improvviso e inarrestabile. Iniziò a nord, da Kier Joplin. Il comandante
degli Elfi aveva fasciato con stoffa pesante gli zoccoli dei cavalli e
dopo il tramonto aveva fatto scendere dalla parte settentrionale delle
Streleheim duecento cavalieri. Quando gli Elfi furono a meno di duecento
passi dal perimetro settentrionale dell'accampamento, tolsero le
coperture di stoffa, attesero un'ora dopo mezzanotte, montarono in sella
e si lanciarono alla carica. Furono addosso ai soldati del Nord prima
che fosse dato l'allarme. Colpirono i fianchi della maggiore carovana di
rifornimenti, appena giunta e non ancora scaricata perché gli addetti
aspettavano la luce del giorno. Senza smettere di galoppare, gli Elfi
afferrarono tizzoni ardenti dai fuochi di guardia e appiccarono fuoco ai
carri. Poi deviarono verso il deposito delle macchine d'assedio e
appiccarono fuoco alle più vicine. Le fiamme si alzarono al cielo,
mentre i cavalieri attraversavano al galoppo l'accampamento e
scomparivano nella notte. Svanirono con tale rapidità che la
controffensiva era ancora in fase d'organizzazione quando iniziò il
secondo assalto. Provenne da sudovest, a opera di Cormorant Etrurian,
che attese di vedere le fiamme del primo assalto e solo allora attaccò.
Con cinquecento fanti già in posizione, si spinse a cuneo nel cuore dei
recinti dei cavalli del nemico, uccidendo gli artieri, liberando gli
animali e disperdendoli nella notte. Per qualche momento vi fu un feroce
corpo a corpo, poi gli Elfi deviarono a ponente e colpirono d'infilata
il perimetro dell'accampamento, mentre si ritiravano e si dileguavano
velocissimi nel buio delle pianure. Questa volta la reazione dei soldati
del Nord fu più rapida, ma confusa, perché l'attacco pareva giungere da
tutte le parti. Massicci Troll delle Montagne, solo in parte protetti
dalla corazza ma armati di grandi asce da guerra e di picche, spazzarono
via qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino e tentarono d'impegnare
gli assalitori. Ma a nord bruciavano macchine d'assedio e rifornimenti,
a sud si erano dispersi i cavalli e pareva che nessuno sapesse con
certezza dov'erano i nemici. Bremen, nascosto insieme con il gruppo di
Jerle Shannara, aveva usato la magia per rendere invisibili gli Elfi e
creare l'illusione di attacchi in punti dove non c'era nessuno di loro.
Il vecchio druido sarebbe riuscito a mantenere l'illusione solo per
breve tempo, sufficiente però a confondere anche i mortali Messaggeri
del Teschio. Intanto il gruppo di Jerle Shannara si era unito
all'attacco. Affiancati e protetti dalle Guardie Reali, gli arcieri si
disposero in file, di fronte al campo, tesero i lunghi archi da guerra e
scagliarono sul nemico nugoli di frecce. Urla di dolore si levarono dai
bersagli centrati. Raffiche su raffiche grandinarono sui soldati del
Nord che cercavano di reagire e impugnare le armi. Jerle mantenne in
azione i suoi uomini il più a lungo possibile, poi ordinò di sospendere
il tiro. Una compagnia di Gnomi uscì a passo di carica dal campo, con
selvaggia frenesia, nel tentativo di raggiungere gli arcieri, ma questi
si limitarono ad abbassare la mira e colpirono d'infilata gli autori di
quel disorganizzato contrattacco, fino a disperderli. Finalmente Jerle
cominciò a far sganciare i suoi uomini, ritirandoli una linea per volta,
in modo che ce ne fosse sempre una a coprire le altre. Gli Elfi agli
ordini di Cormorant Etrurian erano già passati di corsa nella notte,
vaghe ombre sulle pianure spazzate da nubi di fumo e di cenere degli
incendi. Comparvero i Troll delle Montagne, massicci e impacciati
giganti che emergevano dalla vivida luce dei fuochi, pronti a usare le
asce da guerra e le picche. Contro di loro le frecce non servivano. Gli
arcieri si ritirarono di corsa, oltrepassando la sottile linea di
Guardie Reali che ancora teneva il campo. Jerle fece ritirare in fretta
i suoi uomini: quella notte preferiva evitare uno scontro con i Troll
delle Montagne. Non ci sarebbe stato un inseguimento della cavalleria,
perché gli animali dei nemici erano stati catturati o dispersi. Bastava
solo evitare i Troll. Ma i Troll avanzarono più velocemente di quanto
Jerle avesse previsto. Ora la Guardia Reale era virtualmente sola nelle
pianure, perché arcieri e Cacciatori erano corsi al riparo nella Valle
di Rhenn e i cavalieri agli ordini di Kier Joplin erano tornati a
settentrione. Dall'accampamento giunsero frecce scagliate dagli Gnomi, i
cui arcieri si erano precipitati in prima linea. Alcune Guardie Reali
caddero. Bremen, che partecipava per proteggere il re, passò davanti a
tutti e scagliò Fuoco Magico contro i Troll in arrivo. Le praterie
presero fuoco e per un attimo il contrattacco si spezzò. Le Guardie
Reali ripresero la ritirata, circondando il re e il vecchio druido,
assalite da tutti i lati mentre correvano a rifugiarsi nella valle. Nubi
di fumo rotolavano sulle pianure, spinte dal vento levatosi
all'improvviso, trasportando calore e cenere. Preia Starle corse avanti
nel tentativo di trovare la strada nella foschia. Ma la confusione
provocata dal fumo e le grida degli inseguitori ebbero la meglio. Il
piccolo contingente di Guardie Reali si disperse: alcuni andarono con
Bremen da una parte, altri rimasero col re. Jerle li chiamò a raccolta,
udì il suo nome gridato in risposta, e all'improvviso ogni cosa svanì
nel fumo. Poi qualcosa di gigantesco si avventò contro le Guardie in
fuga col re, mandandole a ruzzolare nella notte, scagliando lontano i
più vicini come se fossero pupazzi impagliati. Una sagoma enorme si
materializzò, un orrendo mostro al servizio del Signore degli Inganni,
evocato dal mondo infero e sguinzagliato nella notte, tutto zanne,
artigli, scaglie. Con un latrato si lanciò contro Jerle Shannara, che
ebbe appena il tempo di sguainare la spada. La lama magica saettò verso
l'alto, con riflessi infocati nel buio quasi totale. Ora! pensò il re,
girandosi per colpire. Ora vedremo! Chiamò la magia della spada,
contando sul suo grande potere per difendersi, mentre la mostruosa
creatura attaccava. Ma non accadde niente. L'enorme essere mostruoso si
protese verso di lui e Jerle, disperato, lo colpì come avrebbe colpito
un normale avversario. Il fendente andò a segno e rallentò l'attacco, ma
non ci furono effetti magici. Jerle Shannara si sentì afferrare lo
stomaco dal morso della paura. Il mostro fu colpito ai fianchi da
Guardie Reali tornate nella mischia, ma schiacciò i più vicini, spinse
via gli altri e avanzò verso il re. In quel momento Jerle Shannara capì
di non poter usare la magia della spada e si accorse d'aver perduto la
speranza che potesse salvarlo. Aveva pensato, malgrado gli ammonimenti
di Bremen, che nell'arma ci fosse un tipo di magia in grado di colpire
un nemico... una palla di fuoco, un qualcosa con una innaturale capacità
di uccidere. Ma la spada rivelava la verità, aveva insistito il vecchio,
e ora pareva evidente che non poteva dare altro. Rischiò di restare
paralizzato dalla paura, ma poi, con un grido feroce, si lanciò contro
la mostruosa creatura. Impugnò a due mani la spada e si difese
nell'unico modo che gli restava. La lucente lama balenò dall'alto in
basso e inflisse alla creatura una profonda ferita dalla quale sgorgò
sangue scuro. Ma la creatura non si fermò: spinse da parte la spada e
scagliò a terra Jerle. Allora comparve Bremen, sbucato dal buio come uno
spettro vendicatore, mani protese, bagnato di Fuoco Magico. Il fuoco
scaturì dalla punta delle dita in un getto frenetico e colpì la
mostruosa creatura nell'attimo in cui afferrava il re, la avviluppò, la
consumò, la mutò in una torcia che si contorceva. Il mostro si rizzò
sulle gambe, urlò di rabbia, si girò e corse via nella notte, lasciando
dietro di sé una scia di fiamme. Bremen non aspettò di vedere quale fine
facesse. Si chinò sul re, mentre ricomparivano Elfi e Guardie Reali, e
lo aiutò a tirarsi in piedi. "La spada..." cominciò Jerle, con voce
rotta, scuotendo la testa disperato. Ma Bremen lo interruppe con
un'occhiata dura: "Ne parleremo più tardi, re degli Elfi, da soli quando
sarà il momento. Sei vivo, hai combattuto bene e l'attacco ha avuto
successo. E' sufficiente, per il lavoro di una notte. Ora vieni via,
presto, prima che altre creature ci trovino". Ripresero la fuga nella
notte, il re, il druido e il manipolo di Guardie Reali. Fumo e ceneri li
inseguirono e si diffusero ancora più lontano, mentre le fiamme dei
carri delle provviste e delle macchine d'assedio accendevano come fari
l'intero orizzonte. Preia Starle riemerse dal buio, senza fiato,
preoccupata, con occhi che rivelavano collera e timore. Infilò la spalla
sotto il braccio di Jerle e lo sostenne mentre camminavano. Il re non si
oppose. Incontrò lo sguardo di Preia e lo distolse. Aveva una smorfia
decisa. La paura che covava negli angoli bui della sua coscienza era
esplosa quella notte. Paura che in qualche modo la spada affidatagli non
fosse adatta a lui e non rispondesse nel momento del bisogno. La paura
era emersa a sfidarlo e lui non aveva raccolto la sfida. Se non fosse
stato per Bremen, sarebbe morto. Distrutto da una creatura di minore
magia, di minor potere rispetto al Signore degli Inganni. Il dubbio
incrinava la sua risolutezza. Tutto ciò che solo qualche ora prima aveva
creduto possibile, era perduto. La magia della spada non andava bene per
lui. La magia non rispondeva alla sua chiamata, aveva bisogno di qualcun
altro, di qualcuno più adatto. Lui non era l'uomo giusto. Non lo era.
Sentiva le parole echeggiare nel battito del proprio cuore, fredde e
sicure. Cercò di chiudere la mente e le orecchie a quel suono, ma scoprì
di non riuscirci. Disperato e impotente, continuò a correre.
29
Dopo la partenza di Bremen verso occidente per portare agli Elfi la
spada magica, Kinson Ravenlock e Mareth si diressero a levante, seguendo
il Fiume Argento, alla ricerca dei Nani. Quel primo giorno viaggiarono
nella regione collinosa che formava contrafforti lungo la riva
settentrionale del fiume e si avvicinarono sempre più alle foreste
dell'Anar. La nebbia rimase tenacemente incollata alle montagne, ma
cominciò a diradarsi mentre il sole saliva verso il mezzodì. Nel primo
pomeriggio Kinson Ravenlock e Mareth avevano raggiunto l'Anar e si erano
addentrati fra gli alberi. Lì il terreno era liscio e pianeggiante. I
raggi di sole foravano il baldacchino di foglie e chiazzavano il tappeto
di terriccio. Avevano cibo e acqua sufficienti solo per quel giorno;
quando si fermarono a pranzare, li divisero con cura, mettendo da parte
quanto bastava per la cena, nel caso non trovassero qualcosa di meglio.
L'Anar risplendeva del verde degli alberi e dell'azzurro del fiume, dei
raggi di sole dal cielo in gran parte sereno, del cinguettio degli
uccelli e del chiacchiericcio degli animali che saettavano nel
sottobosco. Ma la pista era calpestata e disseminata dei rifiuti
dell'esercito del Nord; non c'era traccia di vita umana. Di tanto in
tanto un debole odore di legno bruciato e di ceneri ormai fredde
aleggiava nel vento e in quelle occasioni calava un momentaneo silenzio,
improvviso e assoluto, tanto da costringere i due viandanti a guardarsi
intorno con circospezione. Oltrepassarono piccole fattorie, alcune
ancora in buono stato, altre distrutte dal fuoco, tutte deserte. Non
comparvero Nani. Non incontrarono nessuno. "Dovevamo aspettarcelo"
osservò Mareth a un certo punto, quando Kinson fece un commento su
quella desolazione. "Il Signore degli Inganni si è appena ritirato
dall'Est. Di sicuro i Nani se ne stanno ancora nascosti." Pareva una
conclusione logica, tuttavia l'attraversamento di una regione così
inverosimilmente deserta preoccupava Kinson. Il fatto che non ci fosse
neppure un venditore ambulante lo turbava. Suggeriva che lì non ci fosse
più motivo di andare, come se vivere in quelle foreste non avesse più
senso. L'idea che un intero popolo svanisse come se non fosse mai
esistito gli diede da pensare. Non aveva pietra di paragone per uno
sradicamento di quelle proporzioni. E se i Nani fossero stati distrutti
fino all'ultimo? Se avessero semplicemente cessato di esistere? Le
Quattro Terre non si sarebbero mai riprese da una simile perdita. Non
sarebbero state mai più le stesse. Mentre procedevano in silenzio,
rimuginando ciascuno per proprio conto, l'uomo della Frontiera e
l'apprendista druido non si scambiarono molte parole. Mareth camminava a
testa alta, guardando avanti, e pareva fissare qualcosa al di là del
loro campo visivo. Kinson si ritrovò a domandarsi se stesse esaminando
la possibilità del proprio retaggio alla luce di quanto aveva appreso da
Bremen. Scoprire di non essere figlia del druido, dopo averlo a lungo
pensato, era un duro colpo che avrebbe sconvolto chiunque. Il fatto di
essere forse la figlia di una delle tenebrose creature al servizio del
Signore degli Inganni era un colpo ancora peggiore. Kinson non sapeva
come avrebbe reagito lui, a una simile rivelazione. Ma non pensava che
l'avrebbe accettata facilmente. Secondo Bremen questo non avrebbe
influito sulla vera natura di Mareth. Ma non si trattava solo di logica.
Mareth era razionale e intelligente, tuttavia le vicissitudini della sua
fanciullezza e le complessità della sua vita da adulta l'avevano resa
vulnerabile, avevano minato le poche convinzioni a cui era riuscita ad
aggrapparsi. Di tanto in tanto pensava di parlargliene. Pensava di dirle
che lei era la persona che aveva sempre creduto di essere, che lui
vedeva la bontà del suo animo, aveva assistito di persona alla forza di
questa bontà, e lei non sarebbe mai stata tradita da un retaggio così
tenue come quello del sangue. Ma non sapeva escogitare un modo di
formulare le parole senza farle apparire accondiscendenti. Gli pareva
che lei fosse contenta d'averlo al fianco; e malgrado si fosse lasciato
andare a sgarbati commenti, quando Bremen aveva suggerito che lei lo
accompagnasse, in cuor suo era felice che lei avesse accettato di buon
grado la sua compagnia. Cominciava a sentirsi a proprio agio con lei,
con la storia che condividevano, con le loro chiacchierate, con il modo
in cui ciascuno sapeva cosa l'altro pensava in quel momento, con
l'intimità che sentiva per lei in decine di piccoli modi che non gli
riusciva facile definire. Intimità che derivava da semplici cose come il
suono della voce di lei, il modo in cui lo guardava, il senso d'amicizia
che trascendeva la semplice partecipazione allo stesso viaggio. Era
sufficiente, decise alla fine, che lui fosse presente, se lei avesse
sentito il bisogno di parlare. Mareth sapeva che l'identità di suo padre
e le sue origini per lui non facevano differenza. Sapeva che a lui non
importava niente di tutto ciò. Al tramonto, mentre la luce si
affievoliva, l'aria si raffreddava e il lezzo di morte aleggiava acre e
pungente sulle ombre, giunsero a Culhaven. La capitale dei Nani era
stata rasa al suolo e la regione circostante devastata. Rimaneva solo
terra bruciata, macerie, travi carbonizzate, ossa sparse. Molti cadaveri
erano rimasti dov'erano caduti. Ormai non era possibile distinguere
l'uno dall'altro, ma le dimensioni ridotte delle ossa rivelavano che
alcuni erano cadaveri di bambini. L'uomo della Frontiera e l'apprendista
druido sbucarono dagli alberi nella radura dove fino a poco tempo prima
sorgeva la città, si fermarono a osservare tristemente la distruzione e
si aggirarono sul luogo del massacro. L'attacco risaliva a qualche
settimana prima, i fuochi si erano estinti da tempo, il terreno già
cominciava a rigenerarsi dopo la distruzione e germogli verdeggianti
sbucavano da sotto le ceneri. Ma Culhaven non conteneva segni di vita e
sulle sue macerie annerite dagli incendi il silenzio gravava come una
cortina d'indifferenza. Al centro della città trovarono un'ampia fossa
in cui erano stati gettati e bruciati centinaia di Nani. "Perché non
sono fuggiti?" domandò Mareth sottovoce. "Perché sono rimasti? Di sicuro
sapevano. Di sicuro erano stati avvertiti." Kinson rimase in silenzio.
Mareth conosceva quanto lui la risposta. La speranza a volte è
ingannevole. Guardò lontano, al di là della distesa di macerie.
Dov'erano i Nani superstiti? Ecco la domanda alla quale bisognava
trovare risposta. Continuarono a procedere tra le rovine, allungando il
passo perché da vedere non c'era niente che non avessero già visto in
abbondanza. La luce si affievoliva e volevano trovarsi ben lontano da lì
quando si sarebbero accampati per la notte. Fra quelle rovine non
avrebbero trovato cibo né acqua. Non avrebbero trovato riparo. Non
avevano motivo di trattenersi. Continuarono il cammino, costeggiando il
fiume fino al limitare degli alberi, dove serpeggiava pigramente fuori
della foresta, verso est. Forse la situazione sarebbe stata migliore più
avanti, si augurò Kinson. Forse più avanti avrebbero incontrato segni di
vita. Qualcosa corse veloce tra le macerie, facendo trasalire l'uomo
della Frontiera. Ratti. Kinson non ne aveva ancora visti, ma ritenne
naturale la loro presenza. E quella di altri animali che si cibano di
rifiuti, immaginò. Si sentì percorrere da un brivido, provocato da un
ricordo della sua fanciullezza: si era addormentato nella caverna che
stava esplorando e si era svegliato scoprendo dei ratti che gli
zampettavano addosso. La morte gli era parsa stranamente vicina, in quei
brevi attimi di terrore. "Kinson!" sibilò all'improvviso Mareth,
fermandosi di colpo. Una figura avvolta nel mantello, immobile, era
comparsa davanti a loro. Pareva un uomo... i particolari visibili erano
sufficienti a determinare almeno questo. Da dove fosse giunto, era un
mistero. Era semplicemente comparso, come evocato dall'aria stessa, ma
di sicuro si era tenuto nascosto da qualche parte e li aveva aspettati.
Si trovava a breve distanza dalla riva del fiume che stavano
costeggiando, messo in ombra dalla sera e dai resti di un muro di
pietra. Non era minaccioso, si limitava a stare lì, in attesa che si
avvicinassero. Kinson e Mareth si scambiarono un'occhiata. Il viso
dell'uomo era nascosto dal cappuccio, le braccia e le gambe erano
coperte dalle pieghe del mantello. Non potevano stabilire chi fosse, né
fare congetture sulla sua identità. "Salve" provò a dire piano Mareth.
Teneva davanti a sé, come uno scudo, il bastone ricevuto da Bremen. Non
ci fu risposta, né movimento. "Chi sei?" insistette Mareth. "Mareth"
disse lo sconosciuto, con voce lenta e bassa. Kinson s'irrigidì. Quella
voce gli dava la stessa impressione delle zampette dei ratti e gli
suggeriva la presenza della morte. Si sentì di nuovo in quella grotta,
ancora bambino. La voce gli irritava i nervi come metallo strusciato
sulla pietra. "Mi conosci?" domandò Mareth, sorpresa. Non pareva turbata
da quella voce. "Sì" rispose. "Ti conosciamo tutti, quelli di noi che
sono la tua famiglia. Ti abbiamo atteso, Mareth. Ti abbiamo atteso per
tanto tempo." "Di cosa parli?" replicò in fretta Mareth e Kinson notò
l'incrinatura nella sua voce. "Chi sei?" "Forse sono colui che cerchi.
Forse sono proprio quella persona. Penseresti male di me, se lo fossi?
Ti arrabbieresti, se ti dicessi che sono..." "No!" esclamò Mareth, in
tono acuto. "... tuo padre?" Il cappuccio scivolò indietro e mostrò il
viso dello sconosciuto. Era un viso duro, forte, che rivelava più d'una
somiglianza con quello di Bremen, pur essendo più giovane. Ma per Mareth
la somiglianza era inconfondibile. L'uomo lasciò che la giovane donna lo
guardasse per un momento, che lo esaminasse bene. Pareva ignaro della
presenza di Kinson. Sorrise debolmente. "In me vedi te stessa, vero,
bambina? Vedi come ci assomigliamo? Ti è così difficile accettarlo? Mi
trovi così ripugnante?" "C'è qualcosa che non quadra" mormorò Kinson,
per metterla in guardia. Ma lei parve non udirlo. Fissava l'uomo che
diceva d'essere suo padre, lo straniero dal mantello scuro comparso
inaspettatamente davanti a loro. Come? Come aveva saputo dove cercarli?
"Sei uno di loro!" replicò freddamente. "Uno dei servi del Signore degli
Inganni!" L'uomo rimase impassibile. "Servo chi voglio, proprio come te.
Ma tu ti sei messa al servizio dei Druidi per il desiderio di trovarmi,
giusto? Te lo leggo negli occhi, bambina. Non hai veri legami con i
Druidi. Chi sono, loro, per te?LO sono il tuo sangue e la tua carne, il
tuo legame con me è evidente. Oh, capisco i tuoi dubbi. Non sono un
druido. Sono impegnato in un'altra causa, una da te avversata. Per tutta
la vita hai sentito dire che sono il male. Ma quanto sono malvagio,
secondo te? Le storie sono tutte vere? O sono forse alterate da coloro
che le raccontano per raggiungere i propri scopi? A quanto puoi credere,
di ciò che sai?" Mareth scosse lentamente la testa. "A una buona parte,
penso." Lo straniero sorrise. "Forse allora non sono tuo padre." Kinson
vide che Mareth esitava. "Sei davvero mio padre?" "Non so. Non so se
voglio esserlo. Se lo fossi, non mi piacerebbe che mi odiassi. Mi
piacerebbe che mi capissi e mi sopportassi. Mi piacerebbe che tu
ascoltassi tutto ciò che ti racconterei della mia vita e delle sue
conseguenze su di te. Mi piacerebbe avere l'opportunità di spiegarti
perché la causa che servo non è né malvagia né rovinosa, ma basata su
verità che renderebbero liberi tutti noi." Fece una pausa. "Ricorda che
tua madre mi amava. Possibile che il suo amore fosse così traviato?
Possibile che la sua fiducia in me fosse così mal riposta?" Kinson
avvertì un impercettibile mutamento... una corrente d'aria, una traccia
di fumo, un'increspatura nella corrente del fiume... una cosa che non
vedeva, ma che percepìva. Si sentì rizzare i capelli. Chi era quello
straniero? Da dove era giunto? Se era il padre di Mareth, come li aveva
trovati? Come faceva a conoscerla? "Mareth!" l'ammonì di nuovo. "E se i
Druidi si fossero sbagliati in tutto ciò che hanno fatto?" domandò
all'improvviso lo straniero. "E se tutto ciò in cui hai sempre creduto
si basasse su menzogne e su mezze verità e travisamenti che risalgono
all'inizio del tempo?" "Impossibile!" replicò subito Mareth. "E se
coloro di cui ti fidavi t'avessero tradita?" insistette lo straniero.
"Mareth, no!" sibilò Kinson con furia. Ma subito gli occhi dello
straniero si fissarono su di lui e all'improvviso Kinson Ravenlock non
riuscì più a muoversi né a parlare. Rimase impietrito sul posto, come
tramutato in statua. Lo straniero riportò lo sguardo su Mareth.
"Guardami, bambina. Guardami attentamente." Inorridito Kinson vide che
Mareth guardava lo straniero. La giovane donna aveva un'espressione
vacua, remota, come se vedesse una cosa del tutto diversa da quella che
aveva davanti a sé. "Sei una di noi" proseguì in tono gentile lo
straniero, con voce dolce, per blandirla. "Fai parte di noi. Hai il
nostro potere. Hai le nostre passioni. Hai tutto ciò che è nostro,
tranne una cosa. Ti manca la nostra causa. Devi abbracciarla, Mareth.
Devi convincerti che siamo nel giusto in ciò che cerchiamo. Forza e
lunga vita mediante l'uso della magia. Hai sentito quest'ultima rifluire
in te. Ti sei domandata come renderla tua. Te lo mostrerò io.
T'insegnerò io. Non devi sfuggire a ciò che fa parte di te. Non devi
avere paura. Il segreto consiste nel dare retta a ciò che la magia ti
chiede, nel non tentare di reprimerla, nel non rifuggire dai suoi
bisogni. Mi capisci?" Mareth annuì vagamente. Kinson vide un
impercettibile cambiamento nel viso dello straniero: era un po' meno
umano di prima, assomigliava un po' meno a Bremen e a Mareth. Stava
diventando qualcosa d'altro. Lentamente, con grande dolore, l'uomo della
Frontiera lottò contro le invisibili catene che gli serravano i muscoli.
Con cautela mosse la mano lungo la coscia, dove teneva il fodero con il
lungo coltello. "Padre?" esclamò all'improvviso Mareth. "Padre, perché
mi hai lasciata?" Nella sera sempre più buia ci fu un lungo silenzio.
Kinson chiuse le dita sull'impugnatura del coltello. I muscoli urlavano
di dolore, la sua mente era confusa. Questa era una trappola dello
stesso tipo di quella che il Signore degli Inganni aveva preparato per
loro a Paranor! Lo straniero aveva atteso proprio loro o chiunque fosse
passato da quelle parti? Sapeva che sarebbe giunta proprio Mareth? O si
era augurato che giungesse Bremen? Serrò le dita sul coltello. Lo
straniero estrasse dalle pieghe del mantello la mano e l'alzò per
chiamare a sé la giovane donna. La mano era nodosa e le dita avevano
unghie simili ad artigli. Mareth non parve notarlo. Mosse un piccolo
passo avanti. "Sì, bambina, vieni a me" la incitò lo straniero, con
occhi ora rossi come sangue, con zanne che sporgevano da un sorriso
simile a un ghigno di serpente. "Lascia che ti spieghi ogni cosa. Prendi
le mie mani, le mani di tuo padre, e ti dirò ciò che sei destinata a
sapere. Allora capirai. Vedrai che dico cose giuste. Conoscerai la
verità." Mareth avanzò di un altro passo. Abbassò un poco la mano che
reggeva il bastone del druido. In quell'istante Kinson si liberò della
magia che lo aveva irretito, ne gettò via le pastoie e sguainò il
coltello. Con un unico, fluido movimento lanciò il coltello contro lo
straniero. Mareth strillò di paura... se per sé o per il padre o per lui
stesso, Kinson non avrebbe saputo dire. Ma in un batter d'occhio lo
straniero si trasformò, e da creatura simile all'uomo divenne una
creatura del tutto inumana. Mosse il braccio e scagliò una cortina di
malefico fuoco verdastro che incenerì a mezz'aria il coltello. Davanti a
loro, in una nebbiolina di fumo e di tremula luce, c'era adesso un
Messaggero del Teschio. Una seconda esplosione di fuoco scaturì dalle
dita adunche della creatura, ma Kinson si era già mosso, si era lanciato
su Mareth e l'aveva portata al riparo in una sacca di macerie coperte di
cenere. Subito fu di nuovo in piedi, senza aspettare di vedere se Mareth
si fosse ripresa, e girò intorno ai resti di un muro, verso il
Messaggero del Teschio. Doveva essere velocissimo, se voleva rimanere
vivo. La creatura avanzava goffamente verso di loro, il fuoco che
sprizzava dalla punta delle dita, gli occhi rossi che ardevano
nell'ombra del cappuccio. Kinson saettò in uno spazio aperto e fu
sfiorato dal fuoco mentre si gettava a terra e rotolava dietro lo
scheletro di un alberello. Il Messaggero del Teschio si girò verso di
lui, mormorando parole insidiose e odiose, parole piene di tenebrose
promesse. Kinson sguainò la spada. Aveva perduto l'arco, che forse
sarebbe stato un'arma migliore... anche se in realtà non possedeva
un'arma che potesse fare la differenza. Movimenti furtivi e stratagemmi
l'avevano protetto in passato, ma non poteva servirsene in questa
circostanza. "Mareth!" gridò, disperato, poi si lanciò all'attacco del
Messaggero. Il cacciatore alato cambiò posizione per contrattaccare, le
mani alzate, gli artigli che mandavano scintille. Kinson sapeva già di
essere troppo lontano per venire a contatto con la mostruosa creatura
prima di essere colpito dal fuoco. Schivò a sinistra, cercò un riparo.
Non ne trovò. Il Messaggero del Teschio si erse davanti a lui, tenebroso
e minaccioso. Kinson cercò di coprirsi la testa. Allora Mareth mandò un
grido acuto: "Padre!". Il Messaggero del Teschio si girò, ma già il
Fuoco Magico scaturiva dalla punta del bastone di Mareth. Il fuoco colpì
il cacciatore alato e lo scagliò contro un muro. Kinson cadde in
ginocchio, e cercò di ripararsi gli occhi. I tratti del viso di Mareth
erano duri nella luce omicida e i suoi occhi parevano di pietra.
Continuò a lanciare il Fuoco Magico contro il Messaggero: un torrente
che ne bruciò le difese, la pelle indurita, il cuore. La creatura urlò
di odio e di sofferenza, allargò le braccia come per levarsi in volo. Ma
il Fuoco Magico la consumò riducendola in cenere. Mareth gettò via con
rabbia il bastone e il Fuoco Magico si estinse. "Ecco, padre!" sibilò ai
resti. "Ti ho dato le mie mani da stringere. Ora parlami delle verità e
delle menzogne. Avanti, Padre, parlami!" Il suo piccolo viso era
inondato di lacrime. La notte si chiuse di nuovo su Kinson e Mareth,
tornò il silenzio. Kinson si mise lentamente in piedi, si accostò a
Mareth, l'attirò a sé. "Non credo che abbia molto da dire
sull'argomento, vero?" Mareth scosse in silenzio la testa contro il suo
petto. "Che sciocca sono stata. Non riuscivo a reagire. Non riuscivo a
smettere di ascoltarlo. Quasi gli credevo! Tutte quelle menzogne! Ma era
così suadente! Come sapeva di mio padre? Come sapeva quali parole
usare?" Kinson le accarezzò i capelli. "Non lo so. Le creature tenebrose
a volte conoscono i nostri segreti. Scoprono le nostre paure e i nostri
dubbi e li usano contro di noi. Me lo disse Bremen una volta." Abbassò
il mento contro i capelli di lei. "Penso che quell'essere aspettasse
l'arrivo di uno di noi... tu, io, Bremen, Tay, Risca... uno qualsiasi di
coloro che minacciano il suo signore. Era una trappola simile a quella
collocata a Paranor dal Signore degli Inganni, progettata per catturare
chiunque vi cadesse. Però stavolta Brona si è servito di un Messaggero
del Teschio, quindi ha molta paura di ciò che potremmo fare." "Per poco
non ho ucciso te e me" mormorò Mareth. "Avevi ragione su di me." "No, mi
sbagliavo" replicò subito Kinson. "Fossi stato da solo, senza di te, a
quest'ora sarei morto. Mi hai salvato la vita. E l'hai fatto usando la
tua magia. Guarda il terreno sotto i tuoi piedi, Mareth. Poi guardati."
Mareth guardò. Il terreno era annerito e bruciato, ma lei era intatta.
"Non capisci?" disse piano Kinson. "Il bastone ha incanalato l'eccesso
della tua magia, proprio come diceva Bremen. Ha portato via la parte che
ti avrebbe minacciata e ha tenuto solo quella necessaria. Alla fine hai
acquisito il controllo della tua magia." Mareth lo fissò, calma, ma
aveva negli occhi una tristezza palpabile. "Ormai non ha importanza,
Kinson. Non voglio il controllo della magia. Non voglio averci niente a
che fare. Ne sono nauseata. Sono nauseata di me stessa... di chi sono,
di dove provengo, dei miei genitori, di tutto ciò che mi riguarda." "No"
replicò piano lui, guardandola negli occhi. "Sì, invece. Volevo credere
a quella creatura, altrimenti non mi sarei lasciata incantare. Se tu non
avessi spezzato la sua presa su di me, saremmo morti tutt'e due. Per te
ero inutile. Sono talmente presa in questa ricerca della verità su me
stessa da mettere in pericolo chiunque mi stia intorno." Serrò le
labbra. "Mio padre, si è definito! Un Messaggero del Teschio. Menzogne
stavolta, ma forse non la prossima. Forse è vero. Forse mio padre è un
Messaggero del Teschio. Non voglio saperlo. Non voglio avere più niente
a che fare con la magia e i Druidi e i cacciatori alati e i talismani."
Aveva ripreso a piangere, parlava con un tremito nella voce. "Ho chiuso,
con tutto questo. Fatti accompagnare da qualcun altro.LO me ne vado."
Kinson lasciò vagare lo sguardo nel buio. "Non puoi piantare tutto,
Mareth" replicò alla fine. "No, non dire niente, ascoltami. Non puoi
perché sei una persona troppo buona per fare una cosa simile. Devi
continuare. Sei necessaria per aiutare coloro che non possono aiutarsi
da soli. Non è una responsabilità che tu abbia cercato, me ne rendo
conto. Ma è il fardello che ti tocca portare, assegnato a te perché sei
una dei pochi che possano portarlo. Tu, Bremen, Risca, Tay Trefenwyd...
gli ultimi Druidi. Solo voi quattro, perché non ce ne sono altri e forse
mai più ce ne saranno." "Non m'importa" mormorò Mareth, testarda. "Non
me ne importa niente." "Sì, invece" insistette Kinson. "Importa a tutti
voi. Se non ve ne importasse niente, la lotta contro il Signore degli
Inganni sarebbe terminata da un sacco di tempo e saremmo tutti morti."
Nel silenzio che seguì restarono a guardarsi come statue rimaste in
piedi fra le macerie della città. Mareth si mosse contro di lui, alzò il
viso verso il suo, lo baciò sulla bocca. Con le braccia gli circondò la
vita e lo strinse a sé. Il bacio durò a lungo e fu qualcosa di più di
una semplice manifestazione di amicizia e gratitudine. Kinson Ravenlock
si sentì pervadere da una sensazione di calore mai provata. Ricambiò il
bacio e abbracciò Mareth. Dopo, Mareth si tenne ancora un poco stretta a
lui, con la testa abbassata contro il suo petto. Kinson sentiva il
battito del cuore di lei, il suo respiro. Mareth indietreggiò e lo
guardò senza parlare, con occhi colmi di meraviglia. Si chinò a
raccogliere il bastone e riprese il cammino verso i boschi, seguendo a
levante il Fiume Argento. Kinson rimase fermo a guardarla finché non fu
che un'ombra, cercando di raccapezzarsi. Poi rinunciò e si affrettò a
raggiungerla. Camminarono per due giorni senza incontrare nessuno. Tutti
i villaggi, le fattorie, le case di campagna e le stazioni commerciali
in cui s'imbatterono erano incendiati e deserti. Videro segni del
passaggio dell'esercito del Nord e della fuga dei Nani, ma non trovarono
anima viva. Nel cielo volavano uccelli, nel sottobosco saettavano
piccoli animali, nei roveti ronzavano insetti, nelle acque del Fiume
Argento guizzavano pesci, ma da nessuna parte c'erano esseri umani.
Kinson e Mareth controllarono con scrupolo che non ci fossero altri
Messaggeri del Teschio o qualcuno delle migliaia di esseri infernali al
servizio del Signore degli Inganni, ma non ne videro. Trovarono acqua e
cibo, quest'ultimo mai in abbondanza e sempre allo stato selvatico. Le
giornate passavano lente e calde: solo di tanto in tanto uno sporadico
acquazzone rinfrescava l'afa soffocante dell'Anar. Le notti erano chiare
e profonde, stellate e luminose per il chiaro di luna. Il mondo era
tranquillo, quieto, deserto. Pareva che tutti, amici e nemici, fossero
svaniti nel firmamento. Mareth non parlò più delle proprie origini né
della decisione di abbandonare la sua ricerca. Non accennò al proprio
odio per la magia né alla paura per chi la possedeva. Procedette per lo
più in silenzio; se aveva qualcosa da dire, riguardava la regione che
attraversavano e le creature che l'abitavano. Pareva essersi lasciata
alle spalle gli eventi di Culhaven. Pareva anche decisa a restare con
Kinson, per quanto non avesse espresso quella decisione. Spesso gli
sorrideva. A volte si sedeva accanto a lui, prima di addormentarsi. E
lui si scoprì a desiderare più d'una volta che lo baciasse di nuovo.
"Non provo più rabbia" gli disse a un certo punto, guardando davanti a
sé ed evitando con cura i suoi occhi. Stavano camminando fianco a fianco
in un campo di fiori selvatici gialli. "Ho provato rabbia per troppo
tempo" riprese dopo un attimo. "Verso mia madre, mio padre, Bremen, i
Druidi, tutti. La collera mi dava forza, ma ora si limita a
prosciugarmi. Ora mi sento solo stanca." "Capisco" rispose lui. "Sono in
giro per il mondo da più di dieci anni... da quando riesco a
ricordare... sempre alla ricerca di qualcosa. Ora vorrei solo fermarmi e
guardarmi intorno per un poco. Vorrei avere una casa da qualche parte.
Credi che sia un desiderio sciocco?" Lei gli sorrise, ma non rispose.
Sul finire del terzo giorno da quando avevano lasciato Culhaven,
arrivarono alle Montagne del Corvo. Quando il sole cominciò a
sprofondare dietro l'orizzonte, si trovavano già alla base della catena
montuosa e iniziavano a salire le alture pedemontane. Il cielo era un
meraviglioso arcobaleno arancione, cremisi, violetto; i colori si
riversavano su ogni cosa, chiazzavano il terreno, si protendevano negli
angoli in ombra. Kinson e Mareth si erano fermati ad ammirare lo
spettacolo alle loro spalle quando un nano comparve sul sentiero davanti
a loro. "Chi siete?" domandò, brusco. Era solo e non aveva armi a parte
un pesante randello, ma Kinson capì subito che c'erano altri Nani nelle
vicinanze. Disse i loro nomi. "Stiamo cercando Risca" soggiunse. "Ci
manda druido Bremen." Il nano non replicò, ma si girò e con un gesto li
invitò a seguirlo. Camminarono per alcune ore lungo il sentiero che si
arrampicava fino ai pendii più bassi delle montagne. La luce del giorno
era svanità e la luna e le stelle, appena spuntate, illuminavano il
cammino. L'aria si rinfrescò e il fiato cominciò a condensarsi in
nuvolette davanti a loro. Mentre procedevano, Kinson cercò segni di
altri Nani, ma vide sempre e solo quello che li precedeva. Alla fine
entrarono in una valle dove ardevano decine di fuochi di guardia. Un
numero di Nani dieci volte superiore a quello dei falò se ne stava
raggruppato intorno alle fiamme. Alzarono la testa nel vedere i due
stranieri e alcuni scattarono in piedi. Avevano sguardi duri,
sospettosi, e si scambiarono qualche parola in tono volutamente basso.
Avevano poche cose, ma tutti portavano armi agganciate alla cintura e
sulla schiena. Kinson si domandò all'improvviso se lui e Mareth non
fossero in pericolo. Si avvicinò a lei, con rapide occhiate a destra e a
manca. Quel posto non gli sembrava sicuro. Pareva cupo e minaccioso. Si
domandò se per caso quei Nani non fossero disertori. Si domandò se il
loro esercito esistesse ancora. Poi comparve all'improvviso Risca, e
attese che si avvicinassero: aveva lo stesso aspetto di quando l'avevano
lasciato nei pressi del Perno dell'Ade, a parte una nuova serie di
piccole ferite che gli segnavano il viso e le mani. E quando un sorriso
gli comparve sul viso segnato dalla vita all'aria aperta e le mani si
protesero in un gesto di benvenuto, Kinson Ravenlock capì che tutto era
a posto.
30
Dieci giorni dopo l'incursione notturna di Jerle Shannara, l'armata del
Signore degli Inganni attaccò. Gli Elfi non furono colti di sorpresa.
Per tutta la notte c'era stata un'insolita attività nell'accampamento
nemico. Erano stati accesi grandi fuochi di guardia, tanto che tutta la
prateria pareva in fiamme. Le macchine d'assedio sfuggite all'incursione
venivano fatte avanzare, robusti giganti stagliati contro il buio della
notte: le torri tozze e squadrate ondeggiavano e cigolavano, i lunghi
bracci ripiegati delle catapulte e dei trabocchi lanciavano ombre simili
a quelle di grossi rami spezzati. Molto prima del sorgere del sole i
vari reparti dell'esercito cominciarono a radunarsi e perfino
dall'estremità del passo gli Elfi udirono i rumori di gente che
indossava la corazza e le armi. Il pesante tonfo di stivali segnalò la
formazione di unità di battaglia. I cavalli furono sellati e i cavalieri
presero posizione ai fianchi per proteggere gli arcieri e i fanti.
Impossibile fraintendere lo scopo di tutte quelle attività, e Jerle
Shannara si sbrigò a prendere provvedimenti. Aveva sfruttato bene il
tempo guadagnato grazie all'incursione. I soldati del Nord avevano
impiegato, per riprendersi, più tempo di quanto lui si fosse augurato. I
danni inflitti alle macchine d'assedio e ai carri delle provviste erano
stati ingenti e avevano richiesto la costruzione di nuove macchine, la
riparazione delle vecchie, l'arrivo dal settentrione di altre provviste.
Alcuni dei cavalli messi in fuga erano stati ripresi, ma era stato
necessario sostituirne un gran numero. L'esercito del Nord s'ingrossò
all'arrivo di rinforzi, ma gli Elfi erano incoraggiati dalla facilità
con cui avevano danneggiato forze tanto superiori. Era tornata la
speranza e il re fu pronto ad approfittarne. Per prima cosa cambiò
posizione al grosso dell'esercito e dall'estremità occidentale della
valle lo spostò verso quella opposta, dalla stretta gola all'ampia
apertura sul fondovalle. Il suo ragionamento era semplice: se da una
parte era più facile difendere la stretta gola, dall'altra preferiva
impegnare il nemico più all'interno e costringerlo a conquistare il
terreno palmo a palmo. Naturalmente c'era il pericolo di assottigliare
troppo le fila. Ma per ovviare a questo rischio, ordinò ai genieri di
costruire una serie di trappole micidiali nell'ampio valico aperto sulle
pianure dal quale i nemici erano obbligati a passare. Tenne consiglio di
guerra per discutere la strategia, elaborando una complessa ma ampia
serie di manovre di riserva che secondo lui avrebbero compensato la
potenza dell'attacco nemico. L'esercito più numeroso avrebbe vinto, se
avesse potuto mettere in campo la sua superiorità. Il trucco era
semplice: evitare che ciò accadesse. Così, quando spuntò l'alba di quel
decimo giorno e l'esercito del Nord comparve, gli Elfi erano pronti a
riceverlo. Quattro compagnie di fanti e arcieri erano schierate
attraverso l'ampia imboccatura orientale della valle, le armi in pugno.
La cavalleria, al comando di Kier Joplin, si era già disposta a
ventaglio ai lati della fanteria, lungo i bordi delle foreste che
schermavano i dirupi e le montagne. Sulle alture avevano preso posizione
tre compagnie di Cacciatori, protette da trincee e barricate, con archi,
fionde e lance. Ma l'esercito nemico incuteva davvero paura. Superava le
diecimila unità e occupava le pianure fin dove arrivava l'occhio. I
giganteschi Troll delle Montagne si trovavano al centro e le grandi
picche sollevate parevano una foresta di legno e di ferro. Troll più
piccoli e Gnomi li affiancavano e li precedevano. La cavalleria pesante,
con le lance alla staffa in posizione d'attesa, era schierata più
indietro. Una doppia serie di torri d'assedio affiancava lo
schieramento, mentre catapulte e trabocchi erano sparsi fra i soldati.
Nel bagliore del sole appena sorto, l'esercito del Nord pareva
abbastanza potente da frantumare qualsiasi ostacolo incontrasse. Mentre
il sole si staccava dall'orizzonte e il nuovo giorno iniziava, ci fu un
silenzio carico d'aspettativa. I due eserciti si fronteggiavano ai due
estremi della prateria, in un luccichio di corazze e di armi mentre gli
stendardi garrivano nella brezza e il cielo era una bizzarra mistura
d'azzurro sempre più vivo e di grigio sempre più sbiadito. Le nuvole
veleggiavano in vaste e dense masse che minacciavano pioggia. Nell'aria
aleggiava l'acre puzzo di terra bruciata, residuo dei fuochi di guardia
spenti da poco. I cavalli raspavano nervosi il terreno e si agitavano
fra le tirelle. Gli uomini sospiravano e cercavano di non pensare alla
casa, alla famiglia, a tempi migliori. Quando l'esercito del Nord iniziò
l'avanzata verso la valle, il terreno tremò. I tamburi rullavano con
ritmo regolare e segnavano il tempo ai fanti in marcia. Le ruote delle
catapulte e delle torri d'assedio rombavano. Stivali e zoccoli pestavano
con tanta forza che le vibrazioni del terreno si sentivano fin dove
erano schierati gli Elfi. La polvere cominciò a sollevarsi dalle piane
riarse e il vento la mosse in nubi irregolari; l'esercito parve
aumentare di grandezza, come se fosse alimentato dal polverone che
sollevava. Il silenzio s'infranse e la luce mutò. Nell'aria intorbidita
dalla polvere e nella tonante avanzata dell'esercito, la Morte alzò la
testa con impaziente anticipazione e si guardò in giro. Jerle Shannara,
in sella al cavallo da guerra, un baio con una macchia bianca sul muso
chiamato Risk, guardò in silenzio il nemico avanzare. Non gli piacque
l'effetto che l'avanzata provocava nei suoi uomini. Il puro e semplice
numero dei nemici era scoraggiante, il fragore della loro avanzata
assordante e temibile. Il re sentiva il terrore che l'avvicinarsi del
nemico generava nei suoi soldati. L'impazienza per l'atteso evento
cominciò a innervosirlo, a corrodere la sua stessa determinazione. Alla
fine non riuscì più a sopportarlo. D'impulso spronò il cavallo verso la
prima linea lasciando di stucco Preia, Bremen e la sua guardia
personale. Lanciato alla carica, visibile da tutti, arrestò il cavallo e
lo mise al passo, andò avanti e indietro lungo le prime file, arringando
i Cacciatori che lo guardavano con sorpresa e piacere. "Calma, adesso"
disse con sicurezza, sorridendo, rispondendo con un cenno ai saluti e
guardando negli occhi ciascun soldato. "Il semplice numero non vuol dire
molto. Questa è la nostra terra, la nostra casa, la nostra nazione per
diritto di nascita. Non possiamo farci scacciare da un invasore
senz'anima. Non possiamo essere sconfitti, se crediamo in noi stessi.
Siate forti. Ricordate le sorprese che abbiamo in serbo per loro.
Ricordate cosa bisogna fare. Saranno loro i primi a darsi alla fuga, ve
lo prometto. Restate calmi. Non perdete la testa." Continuò così, avanti
e indietro lungo lo schieramento, fermandosi per rivolgere qualche
domanda di poco conto a qualcuno che conosceva, mostrando a tutti
d'essere fiducioso, di sapere quanto coraggio avessero. Tenne le spalle
girate all'esercito nemico. Di proposito si comportò come se non
esistesse. Quelli per noi non sono niente, lasciava intendere; sono già
sconfitti. Quando il nemico fu a duecento passi, con un rumore così
assordante da non lasciare spazio ad altri suoni, alzò la mano in un
saluto ai suoi Cacciatori, girò il cavallo e tornò al suo posto fra i
ranghi. Poi, quando i nemici furono a centocinquanta passi, diede il
segnale di appiccare fuoco alle praterie. Gli arcieri avanzarono di
corsa a prendere posizione in una lunga linea, piegarono il ginocchio a
terra e accesero le frecce incendiarie. Alzarono e inclinarono verso il
cielo archi alti come un uomo, tesero la corda e la rilasciarono. Le
frecce volarono tra i soldati dell'esercito invasore e caddero nell'erba
che durante la notte gli Elfi avevano inzuppato d'olio. Da tutte le
parti scaturirono lingue di fiamma che si alzarono nell'aria fitta di
polvere e divamparono fra le schiere compatte. Le fila nemiche
rallentarono e si scompaginarono, mentre nell'aria si alzavano le grida
atterrite di soldati e animali. Ma l'esercito non si ritirò, non si
diede alla fuga. Caricò, invece, e le prime file si sottrassero così
alle fiamme micidiali. Gli arcieri degli Gnomi scagliarono
freneticamente salve di frecce, ma non possedevano i lunghi archi degli
Elfi e i tiri risultarono corti. I soldati si lanciarono alla carica,
con spade e lance, ululando con furia, ansiosi di venire a contatto con
gli autori di quella sorpresa. Un buon migliaio, per la maggior parte
Gnomi e piccoli Troll, poco disciplinati e impulsivi, si precipitò a
testa bassa nella trappola. Jerle Shannara mantenne in posizione i suoi
soldati, mentre gli arcieri si erano di nuovo ritirati fra i Cacciatori.
Quando il nemico fu abbastanza vicino, alzò la spada e diede il segnale
ai guastatori inframmezzati ai fanti. Questi tirarono grosse funi
ingrassate nascoste nell'erba, e decine di barriere munite di punte
acuminate si levarono a contrastare l'assalto. Gli attaccanti, troppo
vicini per rallentare e incalzati da quelli che li seguivano, finirono
contro le micidiali punte. Alcuni cercarono di recidere le funi, ma le
lame scivolavano sulle corde coperte di grasso. Le grida d'attacco si
mutarono in urla di dolore e di paura, mentre i soldati delle prime file
morivano fra atroci sofferenze, impalati sulle barriere o calpestati dai
compagni alla carica. A quel punto gli arcieri elfi scagliarono una
seconda salva di frecce. I soldati del Nord, rallentati dalle barriere
che sbarravano loro la strada, erano facili bersagli. Impossibilitàti a
proteggersi, senza alcun posto dove nascondersi, caddero a decine. A
causa delle fiamme alle loro spalle non avevano via di fuga. Il resto
dell'esercito del Nord si era suddiviso nel tentativo di evitare
quell'inferno e di correre in aiuto dei compagni intrappolati dalle
fiamme. Ma i due gruppi avevano difficoltà ad avanzare, ostacolati dalle
macchine d'assedio e dagli animali che le trainavano. Per di più, la
cavalleria elfa li assalì su entrambi i fianchi con giavellotti e corte
spade. Una delle torri prese fuoco e gli occupanti tentarono di spegnere
le fiamme versando freneticamente secchi d'acqua presa dai serbatoi
posti all'interno del guscio ligneo. Le catapulte scagliarono la loro
micidiale grandinata di pietre e pezzi di metallo, ma la mira non era
accurata a causa del fumo e della polvere. Allora Jerle Shannara ordinò
di rilasciare le funi che avevano alzato le barriere e queste ricaddero.
Gli Elfi marciarono all'attacco, lancieri e fanti disposti su linee
scaglionate, a ranghi serrati in modo che lo scudo dell'uomo sulla
destra proteggesse il compagno di sinistra. Puntarono con decisione
sulla prima linea nemica, già devastata. Sgomenti, i soldati presi in
trappola fra gli Elfi e le fiamme gettarono le armi e tentarono la fuga.
Ma la fuga era impossibile. I soldati del Nord furono circondati e
rapidamente fatti a pezzi. Ma il fuoco, consumata l'erba, cominciò a
estinguersi e una compagnia di Troll delle Montagne, il nucleo
dell'esercito nemico, avanzò a picche abbassate. Mantennero la
formazione e il passo, senza rallentare anche se calpestavano morti e
moribondi, fossero amici o nemici. Chiunque capitò sulla loro strada fu
ucciso. Jerle li vide sopraggiungere e ordinò la ritirata. Riportò nella
posizione originaria le sue prime file e lì le attestò. Alla sua destra
c'era Cormorant Etrurian, alla sua sinistra Rustin Apt. Arn Banda
sistemò gli arcieri fra le due compagnie, a drappelli scaglionati tra i
fanti, e ordinò di mirare ai Troll. Ma questi portavano la corazza e le
frecce causavano danni trascurabili, perciò Jerle ordinò agli arcieri di
ritirarsi. I Troll attraversarono il tratto d'erba bruciata ed emersero
dal fumo: erano i migliori combattenti delle Quattro Terre, massicci di
spalle e di fianchi, muscolosi, protetti dall'armatura, implacabili.
Jerle Shannara fece ancora un segnale e una nuova serie di barriere
chiodate si alzò a sbarrare loro la strada. Ma i Troll delle Montagne
erano più disciplinati e meno impressionabili degli Gnomi e dei Troll
più piccoli: subito si disposero in modo da togliere di mezzo le
barriere chiodate. Alle loro spalle, fuori dalla foschia, sciamò il
resto dell'esercito del Nord, all'apparenza sterminato, accompagnato da
torri d'assedio e catapulte. La cavalleria lo fiancheggiava e teneva a
bada il reparto di Kier Joplin. Jerle Shannara fece arretrare di altri
cento passi i suoi uomini, all'interno dell'ampia imboccatura orientale
della Valle di Rhenn. Fila dopo fila, gli Elfi arretrarono, con ordine e
disciplina, ma si trattò pur sempre d'una ritirata. Alcuni,
nell'esercito nemico, lanciarono grida d'entusiasmo, credendo che gli
Elfi fossero in preda al panico. Di sicuro, pensavano, adesso avrebbero
rotto le righe e si sarebbero dati alla fuga. Nessuno notò le file di
bandierine fra le quali gli Elfi in ritirata si spostavano con prudenza,
rimuovendo di nascosto, dopo essere passati quei segnali. Nessuno notò
nemmeno che la ritirata avveniva troppo in buon ordine. Dietro i Troll,
il fumo e le fiamme lanciarono gli ultimi guizzi e morirono, mentre il
vento svaniva con l'avanzare del mattino. I cavalieri di Kier Joplin
tornarono nella valle, precedendo il nemico che avanzava per non
rimanere tagliati fuori. Superarono al galoppo i fanti e si girarono per
rimettersi in formazione. Ora tutto l'esercito dell'Ovest era schierato
in attesa attraverso l'imboccatura della valle. Non mostrava segni di
panico né traccia d'incertezza. Era stata predisposta una seconda
trappola e in quel momento il nemico vi entrava senza il minimo
sospetto. Fu così che, quando le prime file di Troll delle Montagne
arrivarono all'ingresso della valle, il terreno iniziò a cedere.
Appesantiti dall'armatura, i Troll precipitarono senza scampo nelle
fosse che gli Elfi avevano scavato e mimetizzato alcuni giorni prima, le
stesse che avevano accuratamente evitato durante la ritirata. I ranghi
dei Troll si frazionarono per evitare le fosse visibili, ma le trappole
erano scaglionate a intervalli irregolari per un tratto di cinquanta
passi e il terreno continuò a sprofondare, da qualsiasi parte si
muovessero. La confusione rallentò l'avanzata e l'attacco cominciò a
vacillare. Gli Elfi contrattaccarono subito. Il re diede un segnale agli
uomini nascosti tra i dirupi sulle pendici della valle: barili d'olio
rotolarono lungo rampe mimetizzate e finirono sull'erboso tratto piano,
fracassandosi sulle pietre sporgenti e versando nelle fosse il
contenuto. Ancora una volta le frecce incendiarie solcarono il cielo e
in un attimo l'intera parte orientale della valle fu inghiottita dalle
fiamme. I Troll delle Montagne caduti nelle fosse morirono bruciati. Il
resto dell'esercito nemico continuò l'avanzata, ma la compattezza dei
ranghi dei Troll ormai era infranta. Peggio ancora, i Troll venivano
travolti dagli inconsapevoli compagni che li seguivano. La confusione
cominciò a diffondersi tra i soldati del Nord. Le fiamme si propagavano,
frecce grandinavano da tutte le parti e ora gli Elfi venivano
all'attacco, spingendo davanti a sé grossi arieti muniti di punte
acuminate. Gli arieti aprirono varchi nelle file già decimate e
dispersero i Troll. I Cacciatori avanzarono e a colpi di spada si
lanciarono sui superstiti. I nemici intrappolati tra le fiamme e gli
Elfi tennero duro e lottarono con coraggio, ma finirono anche loro per
morire. Spinti dalla disperazione, i restanti soldati del Nord si
lanciarono all'attacco tra i dirupi sulle pendici del passo, nel
tentativo di stabilire una testa di ponte. Ma anche stavolta gli Elfi
erano in attesa. Grossi massi rotolarono dall'alto e travolsero coloro
che si arrampicavano mentre le frecce li decimavano. Dalla loro
posizione più elevata, gli Elfi respinsero l'assalto quasi senza sforzo.
Giù, nell'inferno del passo, il fronte d'attacco dell'esercito del Nord
si aggirava qua e là, smarrito, impotente. L'attacco rimase in bilico e
poi crollò. Soffocati dal fumo e dalla polvere, ustionati dall'erba in
fiamme, feriti, i soldati del Signore degli Inganni cominciarono a
ritirarsi di nuovo nelle Pianure di Streleheim. Agendo d'impulso, Jerle
Shannara sguainò la spada affidatagli da Bremen, la spada la cui magia
non poteva padroneggiare e in cui ancora non credeva, e la levò in aria.
Tutt'intorno a lui gli Elfi alzarono al cielo le armi e lanciarono grida
di vittoria. Quasi subito il re riconobbe l'ironia del proprio gesto. Si
affrettò ad abbassare la spada, nelle sue mani amuleto d'uno sciocco,
talismano d'un sempliciotto. Fece girare con rabbia il cavallo: la sua
euforia era svanità, aveva lasciato posto alla vergogna. "Adesso è la
Spada di Shannara, re degli Elfi" gli aveva detto Bremen quando, dopo
l'incursione di mezzanotte, Jerle gli aveva rivelato di non essere
riuscito a sfruttare la magia del talismano. "Non è più una spada dei
Druidi, né mia." Ricordò ora quelle parole, mentre andava avanti e
indietro lungo le fila del suo esercito, rincuorando i soldati in
previsione del prossimo attacco che con ogni probabilità sarebbe giunto
poco prima del tramonto. Aveva rimesso la Spada - incerta, enigmatica
presenza - nel fodero allacciato alla cintura. Da un lato Bremen era
stato molto rapido a darle il nome, ma dall'altro era stato assai lento
a garantirgli che avrebbe potuto controllarne la magia. Anche adesso,
con tutto ciò che aveva già appreso, Jerle non sentiva la Spada
veramente sua. "Hai la possibilità di controllarne la magia, re degli
Elfi" aveva mormorato il vecchio, quella notte. "Ma la forza per
controllarla nasce dalla fede e la fede deve necessariamente giungere
dal tuo intimo." Quella notte di dieci giorni prima si erano appartati
nel buio, fino a un'ora prima dell'alba, le facce sporche di fuliggine e
di polvere e striate di sudore. Quella notte Jerle era andato vicino
alla morte. Il mostro al servizio del Signore degli Inganni l'aveva
quasi ucciso; Bremen era giunto in tempo per salvarlo, ma il re
ricordava ancora vividamente e dolorosamente quanto fosse stata prossima
la morte. Preia era nelle vicinanze, ma Jerle aveva preferito parlare
col druido da solo e confessargli in privato il proprio fallimento, per
esorcizzare i demoni che gli infuriavano dentro. Dove aveva sbagliato,
quella notte, nel fare appello al potere del talismano? Come poteva
essere sicuro di non ripetere l'errore? Soli nel buio, tanto vicini da
udire solo il battito del cuore e il caldo respiro, avevano affrontato
la questione. "Quella spada è un talismano previsto per un solo scopo,
Jerle Shannara!" aveva detto, quasi con rabbia, il vecchio druido, in
tono duro e spazientito. "Ha un solo uso e basta! Non puoi fare appello
alla sua magia per difenderti da qualsiasi creatura ti minacci! La sua
lama potrebbe forse salvarti la vita, la sua magia, no!" A quel
rimprovero il re si era irrigidito. "Ma tu hai detto..." "So benissimo
cos'ho detto!" l'aveva interrotto Bremen, in tono duro e pungente,
spazzando via l'obiezione e zittendolo. "Non prestavi orecchio alle mie
parole, re degli Elfi! Hai ascoltato ciò che volevi udire e nient'altro!
Non negarlo! Ho visto, ti ho osservato! Stavolta stai più attento! Mi
sono spiegato?" Jerle Shannara era riuscito ad assentire, a labbra
serrate, furibondo, tenendo a freno la lingua solo perché sapeva che, se
avesse fallito nell'impresa che gli veniva richiesta, sarebbe stato
perduto. "La magia risponderà al tuo appello quando la userai contro il
Signore degli Inganni! Ma solo contro il Signore degli Inganni e solo se
la tua fede avrà sufficiente forza!" Con aria di rimprovero aveva scosso
la testa canuta. "La verità viene dalla fede, ricordalo. La verità viene
dal riconoscimento che essa è universale, tutto include, non fa
eccezioni. Se non puoi accettare questo fatto nella tua stessa vita, non
puoi imporlo nella vita degli altri. Devi assimilarlo, prima di poterlo
usare! Devi farlo diventare la tua corazza!" "Ma la magia sarebbe
servita proprio a questo, contro quell'essere!" aveva insistito il re,
poco propenso ad ammettere il proprio errore di giudizio. "Perché non ha
risposto?" "Perché non c'è alcun inganno in un simile mostro!" aveva
replicato a denti stretti il druido. "Quello non combatte con menzogne e
mezze verità. Non si corazza di falsità. Non inganna se stesso per
indursi a credersi qualcosa che non è! Questo, re degli Elfi, è
territorio esclusivo del Signore degli Inganni! Ed è per questo che la
magia della Spada di Shannara può essere usata solo contro di lui!" Così
avevano discusso, dibattendo con foga la questione, fin quasi all'alba,
quando alla fine si erano riposati. In seguito il re aveva avuto il
tempo di riflettere su ciò che gli era stato detto, per conciliare
quelle parole con le sue aspettative. A poco a poco era giunto ad
ammettere che ciò che Bremen credeva doveva essere vero. La magia della
Spada era limitata a un unico uso e, per quanto lui lo rimpiangesse, non
c'era niente da fare. Era destinata unicamente a Brona e a nessun altro.
Lui doveva assimilare questa verità e trovare il modo di rendere propria
quella magia, per quanto estranea e sconcertante. Alla fine era andato
da Preia, come sapeva che prima o poi avrebbe fatto, perché così si
comportava sempre, quando qualcosa lo turbava. I consiglieri erano
intorno a lui per dargli indicazioni a ogni piè sospinto e alcuni di
loro, in particolare Vree Erreden, meritavano di essere ascoltati. Ma
nessuno lo conosceva come Preia, e a dire il vero nessuno di loro poteva
essere ritenuto altrettanto onesto. Così si era fatto forza e le aveva
raccontato la verità, per quanto gli risultasse difficile ammettere di
avere fallito e di temere un possibile, nuovo fallimento. Era avvenuto
sul tardi, quello stesso giorno, con le parole di Bremen ancora fresche
in mente e il ricordo della notte appena trascorsa ancora vivido. La
Valle di Rhenn era silenziosa sotto un cielo rannuvolato e gli Elfi
stavano in guardia per la possibile risposta del nemico all'incursione
della notte precedente. Il pomeriggio era grigio e interminabile, il
calore dell'estate impregnava la terra riarsa delle Streleheim e l'aria
era umida e soffocante per l'approssimarsi di un temporale. "Troverai il
modo di controllare quella magia" aveva detto subito Preia, non appena
lui aveva terminato di parlare. Aveva voce ferma e insistente, sguardo
deciso. "Ne sono convinta, Jerle. Ti conosco. Non ti sei mai arreso di
fronte a una sfida e non ti arrenderai neppure di fronte a questa." "A
volte" aveva risposto lui a bassa voce "penso che sarebbe meglio se Tay
fosse qui al mio posto. Lui sarebbe forse un re migliore di me. Di certo
sarebbe più adatto a usare questa spada e la sua magia." Preia aveva
scosso subito la testa. "Non dire mai più una cosa del genere. Mai più."
I suoi occhi chiari erano vivaci e penetranti. "Eri destinato a vivere e
a diventare re degli Elfi. Il fato l'ha stabilito molto tempo fa. Tay
era un caro amico e significava molto per tutt'e due, ma non era
destinato a questo. Ascoltami, Jerle. La magia della Spada funzionerà
per te. La verità non è estranea. Abbiamo iniziato la nostra vita come
marito e moglie rivelandoci verità che un mese prima non avremmo mai
ammesso. Ci siamo aperti l'una all'altro. Era difficile e doloroso, ma
ora sai che si può fare. Lo sai." "Sì" aveva ammesso piano Jerle. "Ma la
magia mi pare ancora..." si era interrotto. "Poco familiare" aveva
terminato per lui Preia. "Ma può diventare tua. Hai accettato che la
magia è parte della storia degli Elfi. La magia di Tay era reale. Hai
scoperto di persona che poteva fare miracoli. Hai visto Tay dare la vita
al suo servizio. Con essa ogni cosa è possibile. E la verità è una di
queste cose, Jerle. E' un'arma terribile. Può rafforzare o distruggere.
Bremen non è uno sciocco. Se dice che la verità è l'arma di cui hai
bisogno, allora così dev'essere." Ma l'idea lo infastidiva ancora, gli
ricordava i suoi dubbi, lo faceva tentennare. La verità pareva un'arma
così insignificante! Quale verità poteva essere tanto potente da
distruggere un essere in grado di evocare mostri dal mondo infero? Quale
verità era sufficiente a controbattere una magia capace di mantenere in
vita una creatura per mille anni? Pareva assurdo pensare che la verità
da sola bastasse a tutto. Era necessario il fuoco. Il ferro, affilato e
avvelenato in punta. Una forza in grado di spaccare le pietre. Niente di
meno sarebbe bastato, continuava a pensare Jerle... anche mentre cercava
di assimilare la magia offertagli da Bremen. Niente di meno. Ora,
cavalcando sul campo di battaglia, con la Spada di Shannara appesa al
fianco, fra i Cacciatori euforici per la vittoria, si stupì ancora una
volta per l'enormità dell'impresa che gli era stata affidata. Presto o
tardi avrebbe dovuto affrontare il Signore degli Inganni. Ma non sarebbe
accaduto finché lui stesso non avesse provocato il confronto; e ciò non
sarebbe accaduto finché l'esercito del Nord non fosse stato minacciato.
Come poteva sperare di far accadere una cosa simile? Gli Elfi avevano
respinto un attacco, ma niente diceva che sarebbero stati in grado di
respingerne un altro e un altro e un altro ancora, mentre l'esercito del
Nord avanzava implacabile. E se in qualche modo gli Elfi fossero
riusciti a resistere, come avrebbe potuto, lui, volgere a loro favore le
sorti della battaglia in modo tale da passare all'offensiva? I nemici
erano talmente numerosi, continuava a ripetersi. Tante vite da
sacrificare e nessun pensiero da rivolgere a quello spreco. Non era così
per lui... e non era così per gli Elfi che combattevano per lui. Quella
era una guerra di logoramento, proprio il tipo di guerra che non poteva
sperare di vincere. Eppure in qualche modo doveva vincerla. Perché non
gli restava altro. Era l'unica possibilità concessagli. Doveva vincere,
altrimenti gli Elfi sarebbero stati distrutti. Un'ora prima del
tramonto, l'esercito del Nord tornò all'attacco: comparve dalle praterie
bruciate, polverose e fumanti, simile a un'armata di spettri. I fanti
marciavano dietro massicci scudi di legno ancora verde perché non
potesse prendere fuoco. La cavalleria procedeva ai lati per fronteggiare
attacchi dai dirupi settentrionali e meridionali. Emersero lentamente
dalla foschia, perché ormai l'incendio si era spento, anche se l'aria ne
conservava il sentore acre e pungente. Girarono alla larga dalle fosse
annerite con i loro cadaveri raggrinziti, ma appena entrati nella valle
cominciarono a sondare il terreno in cerca di nuove trappole. Forti di
cinquemila uomini, se ne stavano ammassati dietro gli scudi, armati fino
ai denti. I tamburi rullavano con cadenza costante e i soldati cantavano
battendo forte i piedi e le lame di ferro, per segnare il tempo. Avevano
con sé le torri d'assedio e le catapulte, che piazzarono all'ingresso
della valle. Come una smisurata massa scura, si stagliavano contro la
notte incipiente fino a dare l'impressione che bastassero a travolgere
il mondo intero. Jerle Shannara aveva ritirato il suo esercito ben
dentro la valle schierandolo all'incirca a mezza via. Aveva scelto un
punto dove la valle cominciava a salire verso lo stretto passo
occidentale, in modo che i Cacciatori si trovassero in posizione
soprelevata. Ora però fu costretto a cambiare strategia, perché nella
valle il vento era girato e soffiava contro i difensori: in quel punto
il fuoco avrebbe solo aiutato gli attaccanti. Non aveva neppure ordinato
di scavare fosse, in quella parte della valle, perché non c'era spazio
sufficiente per manovrare e inoltre ormai il nemico sarebbe stato in
guardia. Invece aveva fatto costruire decine di barriere munite di
traversine appuntite alle estremità e legate a croce a un asse centrale,
tanto da sembrare girandole cilindriche. Ciascuna era lunga sei braccia
e abbastanza leggera da essere sistemata in modo che le punte rivolte in
basso fossero conficcate nel terreno. Queste barriere erano state
scaglionate in uno stretto nastro per tutta la larghezza della Valle di
Rhenn, proprio davanti alle prime linee. Quando l'esercito del Signore
degli Inganni si riversò nella valle e iniziò l'avanzata, per prima cosa
incontrò quel labirinto di barriere irte di punte. Non appena le prime
file vi giunsero, Jerle ordinò agli arcieri, disposti in gruppi di tre
dietro ripari lungo i pendii, di lanciare salve di frecce. I nemici,
rallentati dalle barriere che non potevano spostare, non avevano scampo.
Presi in mezzo a un tiro incrociato, furono uccisi a decine mentre
cercavano di strisciare sopra, sotto o intorno ai pali appuntiti. La
cavalleria cercò di eseguire una decisa carica contro gli Elfi appostati
sulle alture, ma il pendio era troppo ripido per i cavalli e i cavalieri
del Nord furono ricacciati nella valle. Si levarono i gemiti dei feriti
a morte e l'attacco si esaurì. I soldati del Nord si tenevano al riparo
dietro i larghi scudi, ma con quelli non potevano superare le barriere.
Cercarono di distruggerle a colpi d'ascia, ma chi si lanciò a demolire
quelle girandole irte di punte durò solo pochi istanti. Inoltre, per
oltrepassare una sola barriera occorreva abbatterla in una decina di
punti. La luce si attenuò, scese il crepuscolo che rese ogni cosa buia e
incerta. I soldati del Nord appiccarono il fuoco alle barriere e
riuscirono a incendiarne alcune, ma anche gli Elfi avevano usato legno
ancora verde. L'erba prese fuoco, ma gli Elfi avevano scavato trincee
nel tratto fra loro e le barriere, per cui il fuoco si esaurì senza
arrivare alle loro linee Gli Elfi attesero che l'oscurità mascherasse
ogni cosa, poi contrattaccarono dai pendii. Gli attaccanti, bloccati a
fondovalle, erano bersagli sicuri anche nel buio sempre più fitto. Una
compagnia dopo l'altra, scesero dalle alture, costringendo il nemico a
girarsi prima da una parte e poi dall'altra per difendersi. Seguì un
feroce combattimento corpo a corpo e la valle divenne un mattatoio. Ma
il nemico ancora non si ritirava. I soldati del Nord morivano a
centinaia, ma ce n'erano sempre altri in attesa d'entrare nella mischia,
una massiccia forza che spingeva implacabile verso il centro della
valle. Lentamente, inesorabilmente il nemico conquistava terreno. Al
centro della valle le barriere tenevano lontani gli attaccanti, ma sui
pendii gli Elfi agli ordini di Cormorant Etrurian a poco a poco venivano
cacciati dalle posizioni difensive e costretti a ritirarsi. Un passo
dopo l'altro, i soldati del Nord avanzavano e s'impadronivano delle
alture, liberandosi dalla morsa in cui Jerle Shannara li aveva stretti.
Al re giunse voce di quanto avveniva. Il cielo era coperto e cominciava
a cadere la pioggia che rendeva il terreno scivoloso e infido. I rumori
della battaglia echeggiavano contro i pendii della valle creando un
vortice di confusione. L'oscurità riduceva al minimo la visibilità.
Jerle Shannara impiegò solo qualche istante a prendere una decisione.
Mandò subito dei portaordini a far ritirare gli uomini di Etrurian al
riparo delle barriere preparate come ridotta più in alto sui pendii, in
parallelo con le sue stesse linee. Lì avrebbero dovuto resistere e
tenere la posizione. Altri portaordini richiamarono Arn Banda e gli
arcieri. Poi radunò due compagnie agli ordini di Rustin Apt e le dispose
in formazione d'attacco. Quando i soldati di Etrurian e gli arcieri si
furono ritirati al sicuro, ordinò ai picchieri di avanzare diritti verso
il cuore dei nemici. Impegnò i soldati del Nord proprio mentre si
aprivano un varco nel fianco destro e li intrappolò contro le barriere.
Fece accendere torce per segnalare la posizione del nemico agli arcieri
tornati in trincea e ordinò di colpirli d'infilata dal pendio. Sotto la
grandinata di frecce, i soldati del Nord si raccolsero intorno a un
massiccio gruppo di Troll delle Montagne e contrattaccarono.
Oltrepassate le barriere, si lanciarono contro i Cacciatori. Gigantesche
sagome alate comparvero in mezzo al fumo: i Messaggeri del Teschio si
alzavano in volo per fornire sostegno. La linea difensiva cominciò a
cedere. Il brizzolato Rustin Apt cadde e fu portato via. Trewithen e le
Guardie Reali accorsero a rinforzare il punto debole della linea
difensiva, ma i nemici erano troppo numerosi e tutto il fronte degli
Elfi cominciò a cedere. Disperato, Jerle spronò il suo destriero e si
lanciò nella mischia. Circondato da Guardie Reali, si aprì la strada nel
fronte nemico, chiamando a sé i Cacciatori. Soldati nemici si lanciarono
su di lui da tutti i lati. Cercarono di strapparlo di sella, di farlo
cadere da cavallo, di rallentarlo in qualche modo. Dietro di lui,
l'esercito degli Elfi, battuto e logorato, si riscosse e riprese
coraggio. Grida di battaglia scaturirono dalla gola di feriti e
moribondi, e gli Elfi si avventarono ancora una volta contro i nemici.
Jerle combatté come se da solo potesse ricacciare il nemico nelle Terre
del Nord; la sua spada rifletteva la luce delle torce e risuonava contro
le armi e le corazze del nemico. Giganteschi Troll gli si pararono
davanti, mostruose creature prive di volto, armate di asce da guerra. Ma
il re si aprì la strada in mezzo a loro come se fossero di stracci,
inarrestabile, all'apparenza invincibile. Distanziò perfino la propria
guardia personale e i suoi soldati si lanciarono sui nemici nel
tentativo di raggiungerlo. Un fulmine colpì un affioramento roccioso sul
pendio più vicino al punto dove la battaglia infuriava: zolle infocate e
schegge di roccia schizzarono in aria e si riversarono sul fondovalle.
Per un istante il tempo parve fermarsi. Mentre i soldati del Nord
esitavano, mutati per un attimo in statue, Jerle si rizzò sulle staffe e
alzò al cielo la Spada di Shannara, in un gesto di sfida a tutto e a
tutti. Grida di battaglia si levarono dai suoi uomini, che caricarono i
nemici con tale ferocia da sopraffarli. I più lontani e ancora in grado
di fuggire, si ritirarono dietro le barriere distrutte, nauseati dal
combattimento. Per un momento mantennero la posizione nella foresta di
frastagliate ossa di legno e di terra bruciata. Poi, cupi e sfiniti,
ripiegarono verso il passo orientale della Valle di Rhenn. Ammassati
contro le barriere, bagnati di pioggia, impolverati, sudati e
insanguinati, Jerle Shannara e gli Elfi rimasero a guardare. Per quel
giorno, la vittoria era loro.
31
L'alba spuntò nel cielo fosco e grigio per la forte pioggia della notte.
Nella pallida luce, il fondovalle bruciato e pieno di solchi era
annerito e fumante. Disposti in ordine di combattimento, armi in pugno,
occhi che scrutavano con ansia nella scarsa luce, gli Elfi aspettavano
l'attacco che sapevano sarebbe giunto. Ma nessun rumore proveniva dalla
fitta nebbia che ammantava l'accampamento dell'esercito del Signore
degli Inganni, in prossimità del passo orientale, e nulla si muoveva sul
terreno bruciato e deserto davanti a loro. La luce si ravvivò col
sorgere del sole, ma la nebbia non si diradò e ancora non ci fu segno
d'attacco. Era impensabile che il grande esercito si fosse ritirato. Per
tutta la notte si era grattato e tormentato come un animale ferito, con
gemiti di dolore e d'angoscia che si levavano dalla nebbia e dalla
pioggia, superando il rombo sempre più debole dei tuoni della tempesta
che si allontanava. Per tutta quella notte l'esercito aveva badato a
riprendersi e a riorganizzarsi. Occupava l'intero passo orientale,
fondovalle e alture. Aveva portato avanti macchine d'assedio, provviste,
salmerie, sistemando il tutto nei confini dell'accampamento che occupava
l'ampia imboccatura del passo. Il suo avanzare era forse lento e
impacciato, ma quell'esercito era pur sempre una malefica potenza
inesorabile e inarrestabile. "Sono là fuori" borbottò Arn Banda, alla
sinistra di Bremen, con una smorfia di preoccupazione sul viso. Jerle
Shannara annuì. "Ma cosa combinano?" Era la domanda giusta. Bremen si
strinse nella veste scura per ripararsi dal freddo dell'alba. Non
potevano vedere l'estremità della valle, non riuscivano a penetrare
l'oscurità, eppure sentivano la presenza del nemico. La notte era stata
piena di rumori e di tensione, mentre i soldati del Nord si preparavano
di nuovo per la battaglia, e solo nell'ultima ora era calato un
minaccioso silenzio. Il vecchio druido sospettava che quel giorno
l'attacco avrebbe avuto una forma nuova. Il giorno precedente il Signore
degli Inganni era stato respinto con gravi perdite e non avrebbe
ripetuto l'esperienza. Perfino il suo potere aveva dei limiti e presto o
tardi, se non ci fossero stati successi, la sua presa su coloro che
combattevano per lui si sarebbe indebolita. Occorreva respingere gli
Elfi, o sconfiggerli presto, altrimenti gli uomini del Nord avrebbero
cominciato a mettere in dubbio l'invincibilità del loro Signore. Se quel
castello di carte avesse cominciato a vacillare, non ci sarebbe stato
modo d'impedirne il crollo. Bremen si accorse di un movimento furtivo
alla sua destra. Si trattava di Allanon. L'osservò di nascosto. Il
fanciullo fissava davanti a sé, teso, lo sguardo perso nel vuoto. Però
scorgeva qualcosa... questo almeno era chiaro, a giudicare dalla sua
espressione. Guardava, attraverso la nebbia e l'oscurità, qualcosa di
più lontano: i suoi occhi inquietanti scorgevano ciò che a loro restava
nascosto. Il vecchio druido seguì la direzione del suo sguardo. La
nebbia turbinava, un mutevole manto steso su tutta l'estremità orientale
della valle. "Cosa vedi?" domandò sottovoce. Ma il fanciullo si limitò a
scuotere la testa. percepìva qualcosa, ma non riusciva ancora a
identificarlo. Continuò a fissare la foschia, concentrato al massimo.
Era bravo a concentrarsi, aveva scoperto Bremen. A dire il vero, più che
bravo. La sua intensità faceva paura. Non era una capacità appresa
crescendo, né sviluppata come conseguenza del trauma subito durante la
distruzione di Varfleet. Era un dono innato... come gli occhi
inquietanti e la mente acuta. Il fanciullo era duro e determinato come
roccia, e possedeva un'intelligenza e una sete di sapere illimitate.
Solo una settimana prima, dopo l'incursione notturna nell'accampamento
nemico, si era presentato a Bremen e gli aveva chiesto d'insegnargli la
magia dei Druidi. Così, con grande semplicità. Insegnami come usarla,
aveva detto... come se chiunque potesse apprenderla, come se si potesse
insegnare facilmente. "Occorrono anni per conoscere a fondo anche la
minima parte" aveva replicato Bremen, troppo stupito per respingere
subito la richiesta. "Lasciami tentare" aveva insistito il fanciullo.
"Come mai t'è venuta questa voglia?" Il druido era genuinamente
perplesso. "Cerchi vendetta? Pensi che la magia te la farebbe ottenere?
Perché non impieghi il tempo imparando a usare le armi convenzionali? O
imparando a cavalcare? O studiando l'arte della guerra?" "No" aveva
replicato subito Allanon, rapido e deciso. "Non voglio niente di tutto
questo. La vendetta non m'interessa. Voglio essere come te." Eccola lì,
la ragione, esposta in una sola breve frase. Voleva diventare un druido.
Era attirato da Bremen, e Bremen era attirato da lui, perché erano più
affini di quanto il vecchio avesse sospettato. La quarta visione di
Galaphile era un'altra breve occhiata sul futuro, un ammonimento sui
legami che univano il fanciullo al druido, la promessa di un destino
comune. Ora Bremen lo sapeva. Allanon gli era stato mandato da un
destino che ancora non capiva. Lì, forse, c'era il successore che per
tanto tempo aveva cercato. Era strano che l'avesse trovato in quel modo,
ma non del tutto inatteso. Non c'erano leggi per la scelta dei Druidi, e
Bremen aveva tanto buon senso da non cominciare a farne adesso. Così
aveva insegnato ad Allanon alcuni piccoli trucchi, cosucce che
richiedevano soprattutto concentrazione e allenamento. Aveva pensato di
tenerlo occupato più o meno per una settimana. Ma ad Allanon era bastato
un solo giorno, poi era venuto a chiedere dell'altro. E così ogni giorno
Bremen gli aveva dato alcune nuove briciole della dottrina druidica con
cui lavorare, lasciandogli decidere da solo il modo di apprenderle,
l'uso da farne. Impegnato nei preparativi per contrastare l'attacco
degli uomini del Nord, non aveva avuto il tempo di chiedersi cosa il
fanciullo era riuscito a fare. Tuttavia, guardandolo ora, esaminandolo
alla debole luce dell'alba mentre scrutava l'estremità della valle, fu
colpito ancora una volta dalla sua determinazione, chiaramente profonda
e immutabile. "Eccoli!" gridò Allanon all'improvviso, spalancando gli
occhi per la sorpresa. "Sono sopra di noi!" Bremen ne fu così scosso che
per un momento rimase senza parole. Alcune teste si alzarono in risposta
al grido del fanciullo, ma nessuno si mosse. Allora Bremen con un ampio
gesto spazzò il cielo e inondò di luce magica le tenebre, creando un
ampio arcobaleno e rivelando le sagome scure che roteavano in alto.
Messaggeri del Teschio si ritrassero di scatto, allargando le ali mentre
sparivano di nuovo nella foschia. In un istante Jerle fu vicino al
druido. "Cosa stanno facendo?" domandò. Bremen rimase a fissare il cielo
vuoto e la luce magica che si affievoliva. Tornò l'oscurità, compatta e
dilagante. A un tratto il druido capì che qualcosa, nella luce, non
andava: aveva un aspetto del tutto sbagliato. "Fanno un sopralluogo"
mormorò. Poi si rivolse rapido ad Allanon e disse: "Guarda di nuovo in
fondo alla valle. Con prudenza, stavolta. Non cercare qualcosa in
particolare. Guarda nella foschia e nel buio. Osserva gli spostamenti
della nebbia". Il fanciullo ubbidì, con una smorfia per lo sforzo. Fissò
il vuoto con sguardo duro e intenso. Smise di respirare e rimase
immobile. Poi spalancò la bocca e ansimò per la sorpresa. "Bravo, bravo"
disse Bremen mettendogli un braccio sulle spalle. "Ora li vedo anch'io.
Ma i tuoi occhi sono più acuti dei miei." Si girò verso il re. "Siamo
assaliti dalle creature tenebrose al servizio del Signore degli Inganni,
quelle che lui ha evocato dal mondo degli inferi. Oggi ha deciso di
servirsi di loro, anziché dei soldati. Vengono verso di noi dalla parte
opposta della valle. I Messaggeri del Teschio esplorano la via per loro.
Il Signore degli Inganni usa la magia per nascondere la loro avanzata,
cambia la luce e infittisce la nebbia. Non abbiamo molto tempo. Schiera
i tuoi comandanti e ordina a tutti i soldati di essere saldi. Farò del
mio meglio per controbattere questa magia." Jerle Shannara diede
l'ordine e i comandanti raggiunsero i loro reparti, Cormorant Etrurian
sul fianco sinistro e Rustin Apt, ferito ma in grado di muoversi, sul
destro; la cavalleria di Kier Joplin era già in posizione, schierata
dietro i fanti, pronta ad accorrere. Arn Banda risalì di corsa il pendio
meridionale per dare l'allarme agli arcieri lì appostati. Prekkian e la
Guardia Nera e Trewithen e la maggior parte della Guardia Reale rimasero
di riserva. "Vieni con me" disse Bremen al re. Si diressero all'estrema
destra della prima linea, il re e il druido, Allanon e Preia Starle.
Passarono rapidi fra gli stupiti Cacciatori fino alla prima linea.
"Ordina ai più vicini di alzare le armi e di tenerle ferme" disse il
druido. "Non devono avere paura." Il re diede l'ordine senza domandare
spiegazioni, fidandosi del druido. Lance, spade e picche si alzarono in
risposta. Bremen socchiuse gli occhi, unì davanti a sé le mani ed evocò
il Fuoco Magico. Quando questo si fu trasformato in una vivida palla
azzurrina nelle mani a coppa, Bremen lanciò frammenti infocati che
rimbalzarono da punta di ferro a punta di ferro, finché tutte le armi
non furono toccate. Gli attoniti soldati trasalirono all'arrivo del
fuoco, ma il re ordinò di stare immobili e ubbidirono. Quando tutte le
armi di un reparto furono trattate a quel modo, Bremen e gli altri
passarono al reparto seguente e il druido ripeté il procedimento,
camminando tra le file di soldati innervositi per impregnare della sua
magia le armi, mentre il re rassicurava i suoi Elfi e intanto li
ammoniva a tenersi pronti, perché l'attacco sarebbe giunto presto.
Quando giunse, la magia druidica era a posto e il nucleo dell'esercito
elfo protetto. Sagome scure saettarono dal buio, si lanciarono contro le
file di Elfi ululando e stridendo come belve impazzite: esseri muniti di
zanne e artigli affilati, irti di setole scure e di ruvide scaglie.
Erano creature di altri mondi, di tenebra e di follia, la cui unica
legge era quella della sopravvivenza. Combatterono con ferocia e con
vigorosa energia. Alcune avanzavano su due gambe, altre su quattro
zampe, tutte parevano generate da incubi immondi e fantasie contorte.
Gli Elfi furono respinti, cedettero terreno soprattutto per il terrore
di quelle belve che cercavano di dilaniarli. Alcuni morirono al primo
impatto, perché l'orrore li raggelò al punto da paralizzarli e impedì
loro di difendersi. Altri morirono combattendo, abbattuti prima di poter
vibrare un colpo efficace. Ma altri ancora si fecero coraggio e
scoprirono con stupore che le loro armi impregnate di magia potevano
trapassare il corpo e gli arti di quei mostruosi assalitori, far
sgorgare sangue e provocare urla di dolore. L'esercito vacillò, scosso
dall'attacco iniziale, poi si riprese e oppose resistenza. Ma i mostri
penetrarono nel fianco destro, nella scia di una creatura così enorme da
torreggiare perfino sui propri compagni più alti. Era corazzata di pelle
coriacea e di piastre metalliche applicate sulle parti vitali, e i suoi
massicci artigli smembravano chi si trovava sul suo cammino. Rustin Apt
guidò il contrattacco, ma fu spazzato via. Accortosi del pericolo,
Bremen si precipitò a intercettare la mostruosa creatura. In assenza del
druido, Jerle Shannara resse il centro e l'urto della folla di mostri.
Gridando incoraggiamenti ai suoi uomini e lasciando perdere la promessa
di riguardarsi sguainò la spada e si gettò nella mischia, con Preia al
fianco, mentre la sua guardia personale cercava di proteggerli entrambi.
Davanti alla prima linea erano acquattati enormi lupi che facevano finte
e si ritiravano in attesa di un varco fra le picche e le spade che li
tenevano a bada. Mentre Jerle Shannara arrivava, un'ombra scura calò
dalla nebbia e frantumò la prima fila di Cacciatori. Un Messaggero del
Teschio si rialzò in volo, gli artigli rossi di sangue. Subito i lupi si
lanciarono contro i resti della prima fila, azzannando e sbranando. Ma i
difensori colpirono con foga e la magia dei Druidi penetrò nella pelle
coriacea degli attaccanti. I più avanzati morirono sotto una grandine di
colpi, gli altri si ritirarono ringhiando e mostrando le zanne in segno
di sfida. Sul fianco destro Bremen raggiunse la folla di mostri che si
era aperta un varco. Vedendolo, si lanciarono tutti insieme su di lui.
Erano esseri a due gambe, col petto massiccio e con arti muscolosi in
grado di fare a pezzi un uomo, con la testa incassata fra ampie spalle
coperte da pieghe di pelle così fitte che solo gli occhi ferini erano
visibili. Si precipitarono contro il vecchio, con ululati di gioia, ma
Bremen lanciò il Fuoco Magico respingendoli. Tutt'intorno i Cacciatori
si raccolsero per difendere il druido, avventandosi sui fianchi degli
assalitori. I mostri si girarono e risposero ai colpi, ma le lame dei
Cacciatori e il Fuoco Magico mieterono molte vittime. Allora la
gigantesca creatura che per prima aveva spezzato la fila di Elfi si erse
con aria di sfida davanti a Bremen, occhi ardenti, corpo luccicante di
sangue. "Vecchio!" sibilò. E si lanciò su di lui. Dalle mani di Bremen
esplose il Fuoco Magico, ma la creatura era tanto vicina che passò in
mezzo alla micidiale fiamma e afferrò i polsi del vecchio. Bremen si
coprì le braccia di un velo di Fuoco Magico, nel tentativo di liberarsi,
perché la sua forza non era al livello di quella dell'avversario, ma
quello rimase tenacemente avvinghiato a lui. Le mani munite di artigli
si serrarono e le robuste braccia spinsero indietro il druido. A poco a
poco Bremen perse terreno. Intorno a lui, i mostri si lanciarono
all'attacco con fiducia rinnovata. Le fine era vicina. Ed ecco dal buio
comparire Allanon, saltare sulla schiena indifesa della mostruosa
creatura e afferrargli con le mani gli occhi giallastri. Ululando di
rabbia, il fanciullo trovò in sé una riserva d'energia e la unì a quella
piccola parte di magia che sapeva padroneggiare. Incontrollato,
ingovernabile, sfrenato come vento di tempesta, dalle mani di Allanon il
fuoco esplose in ogni direzione. Eruppe con tale forza da scaraventare a
terra il fanciullo stesso, che giacque intontito. Ma esplose sul muso
della mostruosa creatura, che subito lasciò andare Bremen, alzò le
braccia in un impeto di rabbia e di dolore e arretrò barcollando. Bremen
si rimise in piedi, senza badare alla debolezza che lo invadeva e alle
ferite, e scagliò di nuovo il Fuoco Magico, che questa volta penetrò
nella gola del mostro e gli scese fino al cuore, incenerendolo. Nel
frattempo Jerle Shannara si era spostato sul fianco sinistro
dell'esercito. Cormorant Etrurian giaceva scomposto sul terreno,
circondato dai suoi uomini che lottavano per proteggerlo. Il re si
lanciò nella mischia e guidò un rapido, decisivo contrattacco contro le
ingobbite creature che saltavano lungo il fronte degli Elfi vibrando
pesanti bipenni e micidiali coltellacci seghettati. Banda aveva
dirottato lungo il pendio il tiro dei suoi arcieri e i lunghi archi
colpivano d'infilata la nebbia e le creature in essa nascoste. Gli Elfi
recuperarono Etrurian e lo portarono via; Kier Joplin lanciò avanti i
cavalieri per chiudere il varco. Il re lasciò il comando a Joplin e
tornò di corsa al centro dello schieramento, dove lo scontro era di
nuovo violentissimo. Due volte ricevette un colpo che lo fece vacillare,
ma si scrollò, sprezzante del dolore, e continuò a combattere. Accanto a
lui Preia, rapida e agile, vibrava colpi e parava fendenti con la corta
spada, proteggendo il fianco sinistro del re. Le Guardie Reali
combattevano attorno a loro e alcune morirono per difenderli. I mostri
avevano infranto le linee in molti punti e gli Elfi subivano attacchi
che parevano provenire da tutte le direzioni. Finalmente Bremen
ricompattò il fianco sinistro quanto bastava a respingere gli attaccanti
che vi erano penetrati. Duramente colpiti, i superstiti si diedero alla
fuga e le loro sagome deformi svanirono nella nebbia, come se non
fossero mai esistite. L'esercito si lanciò allora contro quelli che
ancora combattevano al centro e anch'essi cedettero. A poco a poco, con
tenacia, gli Elfi ripresero l'offensiva, avanzarono, e le creature del
mondo degli inferi si ritirarono e scomparvero. Sul campo di battaglia
grigio e brumoso l'esercito dell'Ovest, silenzioso per lo sfinimento,
rimase a fissare il vuoto lasciato dai nemici in fuga. Gli uomini del
Nord attaccarono di nuovo nel tardo pomeriggio con l'esercito regolare.
La nebbia si era dissipata, il cielo si era schiarito e la luce era
vivida e pura. La nuova posizione difensiva degli Elfi era più
all'interno, nella valle, vicino al passo occidentale, protetta sia dal
terreno più elevato sia da mura di pietra costruite da poco e irte di
punte acuminate. Da lì osservarono il nemico percorrere la Valle di
Rhenn semidistrutta. Erano pochi, laceri e insanguinati, prossimi allo
sfinimento, ma non atterriti. Erano sopravvissuti a troppe disavventure
per avere ancora paura. Mantennero con calma la posizione, in ranghi
compatti, perché la valle si restringeva bruscamente nel punto dove
aspettavano. Lì i pendii erano tanto erti che bastava un piccolo
contingente di arcieri e di Cacciatori per difendere le alture. Il
grosso dell'esercito era schierato sul fondovalle, da un pendio
all'altro. Cormorant Etrurian, spalla e testa fasciate, una smorfia
sinistra sul viso smagrito, era di nuovo in piedi. Con un ancora più
debilitato Rustin Apt, comandava i reparti che avrebbero affrontato il
nucleo centrale dei nemici. Banda era sul pendio settentrionale, con il
grosso degli arcieri. Kier Joplin e la cavalleria si erano ritirati
all'imboccatura del passo, perché non avevano spazio per manovrare. La
Guardia Reale e la Guardia Nera erano ancora di riserva. Appena dietro
le linee degli Elfi, in cima a un'altura da cui si dominava la
battaglia, c'erano Bremen e Allanon. Il re e Preia Starle, in sella a
Risk e ad Ashes, erano al centro della linea difensiva degli Elfi,
circondati da Guardie Reali. Per tutta la larghezza delle pianure e
lungo il corridoio della valle si udivano rimbombare tamburi, zoccoli,
stivali. All'attacco avanzavano i fanti, tanto numerosi da coprire
l'intero fondovalle. Dietro di loro venivano le macchine da guerra:
torri d'assedio e catapulte, trainate da cavalli e squadre di uomini
sudati. La cavalleria formava la retroguardia: file di uomini a cavallo,
armati di lance e picche, con pennoni che garrivano al vento. Robusti
Troll delle Montagne portavano il Signore degli Inganni e i suoi
accoliti in portantine velate di seta nera e decorate con ossa
sbiancate. E' la fine, si rese conto all'improvviso Bremen: il pensiero
gli venne spontaneo, mentre guardava il nemico avanzare. Quel pensiero
lo schiacciava, come una certezza inesorabile, una terrificante verità.
Guardò i soldati riempire l'annerita conca di Rhenn, e nella sua mente
divennero un'onda di marea che avrebbe sommerso e annegato gli Elfi.
Dopo due soli giorni di battaglia, il risultato era inevitabile. Se i
Nani si fossero uniti agli Elfi, o se qualche città delle Terre del Sud
avesse approntato un esercito, forse sarebbe stato diverso. Ma gli Elfi
erano soli, senza nessuno che li aiutasse. Si erano già ridotti di un
terzo e non importava che avessero inflitto al nemico perdite dieci
volte superiori. Il nemico aveva molte vite da sacrificare, e avrebbe
vinto grazie alla pura e semplice forza del numero. Bremen batté le
palpebre, stanco, e si sfregò il mento. Non riusciva a sopportare il
pensiero che tutto finisse così. Jerle Shannara non avrebbe avuto
l'opportunità di mettere alla prova la sua spada contro il Signore degli
Inganni. Non avrebbe avuto neppure l'occasione di affrontarlo. Sarebbe
morto lì, in quella valle, con tutti i suoi uomini. Bremen conosceva
bene il re, sapeva che avrebbe sacrificato la vita, anziché salvarsi. E
se Jerle fosse morto, non ci sarebbe stata speranza per nessuno di loro.
Allanon cambiò posizione, a disagio. Anche lui pensò Bremen, intuisce
che il disastro è imminente. Allanon era coraggioso, l'aveva dimostrato
proprio quel mattino salvandogli la vita. Aveva usato la magia senza
preoccuparsi della propria incolumità, con un solo pensiero: salvargli
la vita. Bremen scosse la testa. Il fanciullo era rimasto stordito e
sconvolto, ma non era meno deciso prima. Avrebbe dato tutto se stesso,
proprio come il re. Bremen lo capiva: il fanciullo già sceglieva il
posto dove tentare l'ultima resistenza. Giunto a duecento passi,
l'esercito del Nord si fermò con gran fragore. Le squadre addette al
trasporto delle macchine belliche s'impegnarono con frenetica attività a
mettere in posizione le catapulte e le torri. Bremen si sentì serrare la
gola il Signore degli Inganni non avrebbe lanciato un attacco diretto
Perché sprecare vite umane, se non era necessario? Avrebbe invece usato
le catapulte e gli arcieri nascosti dentro le torri per colpire
d'infilata le difese dei nemici, per assottigliare il loro numero, per
logorarli finché non sarebbero stati troppo pochi per opporre anche solo
una minima resistenza. Le macchine da guerra si allargarono per tutta
l'ampiezza del fondovalle, fianco a fianco; i cucchiai delle catapulte
erano già carichi di pietre e pezzi di ferro, le campate delle torri
d'assedio mostravano arcieri a ogni feritoia. Tra le fila degli Elfi
nessuno si mosse. Non c'era dove andare, dove nascondersi, non esisteva
una migliore posizione difensiva dove ritirarsi. Perduta la valle, anche
le Terre dell'Ovest sarebbero state perdute. I tamburi continuavano a
rullare, e la loro costante cadenza accompagnava il rombo delle ruote
delle macchine belliche e si riverberava nel petto di Bremen. Il vecchio
druido guardò il cielo che si scuriva, ma calcolò che mancasse un'ora
buona al tramonto: il buio sarebbe sceso troppo tardi per essere
d'aiuto. "Dobbiamo fermare quelle macchine" mormorò, convinto di parlare
tra sé. Allanon lo guardò in silenzio e attese. Non distolse mai lo
sguardo. Bremen lo fissò negli occhi. "Come?" domandò piano il
fanciullo. E all'improvviso Bremen seppe qual era la soluzione. La lesse
negli occhi del fanciullo, nelle sue parole, nell'ispirazione che si
fece strada in lui stesso. Gli giunse in un momento di terrificante
lucidità, nato dalla sua stessa disperazione e dallo svanire della
speranza. "C'è un modo" disse in fretta, con ansia. Nel suo viso le
rughe divennero più marcate. "Ma mi occorre il tuo aiuto. Da solo non ho
la forza necessaria." Esitò. "Sarà pericoloso, per te." Allanon annuì.
"Non ho paura." "Rischi di morire. Forse moriremo tutt'e due." "Dimmi
cosa bisogna fare." Bremen si girò verso le macchine da guerra schierate
e spostò davanti a sé il fanciullo. "Allora ascoltami attentamente. Devi
darti tutto a me, Allanon. Non ribellarti a ciò che sentirai. Diventerai
un tramite per me, per la mia magia, la magia che possiedo ma che non ho
la forza di usare. La userò attraverso te. Prenderò da te la forza." Il
fanciullo non lo guardò. "Lascerai che la tua magia si alimenti di me?"
domandò sottovoce, quasi con reverenza. "Sì" rispose Bremen. Si chinò su
di lui. "Ti difenderò con tutte le protezioni di cui dispongo. Se
morirai, morirò con te. E' tutto ciò che posso offrirti." "Mi basta"
replicò il fanciullo, distogliendo lo sguardo. "Fa' ciò che va fatto,
Bremen. Ma subito, finché c'è ancora tempo." L'esercito del Nord era
ammassato davanti a loro, preceduto dalle enormi macchine belliche, irto
di armi. La polvere si alzava dal terreno bruciato della valle e
riempiva l'aria di una nebbiolina granulosa che pareva nascondere
completamente il resto del mondo, come se avesse smesso d'esistere. La
luce si rifletteva su lame e punte metalliche, gli stendardi garrivano
in un tripudio di colori, le grida degli assalitori esprimevano
l'aspettativa della vittoria. Insieme, immobili sull'altura, il druido e
il fanciullo guardavano la scena. Nessuno li vide, o, se li vide, non vi
badò. Nemmeno gli Elfi li notarono, occupati a osservare l'esercito
schierato davanti a loro. Bremen trasse un profondo respiro e pose le
mani sulle esili spalle di Allanon. "Intreccia le dita e puntale contro
le torri e le catapulte" disse. Si sentì stringere la gola. "Sii forte,
Allanon." Il fanciullo congiunse le mani e intrecciò le dita, sollevò le
braccia e le puntò verso l'esercito nemico. Bremen era dietro di lui,
immobile, gli occhi chiusi. Dentro di sé evocò il Fuoco Magico, che
scintillò e avvampò. Doveva fare attenzione nell'usarlo, rammentò a se
stesso. L'equilibrio fra ciò che occorreva e ciò che poteva permettersi
era delicato: doveva stare attento a non comprometterlo. Un errore, in
un senso o nell'altro, avrebbe significato la fine per lui e per il
bambino. Sul campo di battaglia si provvedeva a tirare indietro il
braccio delle catapulte e gli arcieri nelle torri preparavano gli archi.
Bremen riaprì gli occhi, ora bianchi come neve. Più in basso, quasi
colpito da una premonizione, Jerle Shannara si girò di colpo e lo vide.
Il Fuoco Magico si riversò lungo le braccia di Bremen e nel corpo di
Allanon, saettò dalle mani del fanciullo chiuse a pugno, passando sulla
testa degli Elfi in attesa, sulla prateria piena di solchi e di chiazze
bruciate, fin nel mezzo delle macchine belliche nemiche, duecento passi
più lontano. Colpì prima le torri, avviluppandole da cima a fondo e
mutandole all'istante in torce. Da lì saettò sulle catapulte, riducendo
in cenere gli addetti, spezzando le funi, rovinando le parti metalliche.
Si mosse come una creatura vivente, scegliendo prima un bersaglio poi un
altro, azzurro e così sfolgorante che i soldati di entrambi gli eserciti
furono costretti a schermarsi gli occhi per proteggerli. Corse su e giù
per la prima linea dell'esercito nemico inghiottendo tutto e tutti. Nel
giro di qualche istante, le fiamme si levarono nell'aria per centinaia
di braccia e balzarono verso il cielo in lingue mostruose, mentre nubi
di fumo andavano gonfiandosi. Dal malefico esercito del Nord si levarono
grida e urla di terrore, mentre il fuoco straziava i soldati. Tra i
ranghi degli Elfi ci fu solo attonito silenzio. Bremen sentì la magia
affievolirsi, il Fuoco Magico estinguersi, ma nel giovane Allanon c'era
ancora energia. Pareva anzi che Allanon, le esili braccia protese, le
mani levate, s'irrobustisse. Bremen sentiva il suo corpo snello vibrare
per la forza della determinazione. Il fuoco scaturiva ancora dalle sue
mani, saettava oltre le macchine da guerra e colpiva l'attonito esercito
nemico aprendovi un micidiale sentiero di fuoco. Basta così, pensò
Bremen, intuendo un pericoloso spostamento nell'equilibrio delle cose.
Ma non poteva spezzare il legame fra loro due, non poteva rallentare il
torrente della magia de} fanciullo. Adesso era più forte di lui e lo
prosciugava. I soldati del Nord indietreggiarono, non per ritirarsi
semplicemente, ma per darsi alla fuga, del tutto demoralizzati. Perfino
i Troll delle Montagne arretrarono, sottraendosi rapidi alla
conflagrazione che consumava i loro commilitoni per cercare rifugio sui
pendii della valle e più in là, nel passo di ponente. Perfino per loro,
la battaglia quel giorno era terminata. Alla fine le forze vennero meno
ad Allanon e il Fuoco Magico che gli saettava dalle mani si smorzò. Il
fanciullo si accasciò ansimando contro Bremen, che a stento si reggeva
in piedi. Il druido lo afferrò e lo tenne stretto, aspettando che il
polso di entrambi tornasse regolare e il battito del cuore rallentasse.
Simili a due spaventapasseri, rimasero aggrappati l'uno all'altro,
mormorandosi parole di conforto, guardando le furiose fiamme che
consumavano le macchine da guerra e illuminavano di riflessi color
sangue le schiene dei soldati in rotta. Il sole calò sotto l'orizzonte e
la notte scivolò cauta fuori del proprio nascondiglio per ammantare i
caduti. Mentre l'oscurità si diffondeva su tutte le Quattro Terre e
l'incendio nella Valle di Rhenn cominciava a estinguersi, Jerle Shannara
si avvicinò a Bremen. Il vecchio cenava in compagnia di Allanon. Adesso
c'era silenzio: l'esercito del Nord si era ritirato nel passo
dell'altopiano orientale e gli Elfi, dalla parte opposta, tenevano la
posizione sbarrando la strettoia occidentale. Tutti stavano cenando e i
Cacciatori montavano a turno la guardia contro eventuali attacchi di
sorpresa. In fondo all'accampamento ardevano fuochi e il profumo del
cibo aleggiava nell'aria della sera. Mentre il re si avvicinava Bremen
si alzò, vedendo nei suoi occhi una luce che non riconobbe. Il re salutò
il druido e il fanciullo, poi chiese al primo di fare due passi con lui.
Allanon riprese a mangiare e il re e il druido si allontanarono nel
buio. Quando si furono allontanati quanto bastava perché nessuno udisse,
il re si rivolse al vecchio druido. "Mi serve il tuo aiuto" cominciò a
bassa voce. "Con le tue arti magiche devi marcare gli Elfi in un modo
che consenta loro di riconoscersi in uno scontro nel buio, di non
colpire per errore i compagni. Puoi fare una cosa del genere?" Bremen
rifletté qualche istante, poi annuì. "Cosa intendi fare?" Il re era
esausto, ma aveva negli occhi una gelida determinazione e sul viso una
smorfia dura. "Voglio attaccare... adesso, stanotte, prima che si
riorganizzino." Il vecchio druido lo fissò ammutolito. Il re serrò le
labbra. "Stamattina i miei Esploratori mi hanno informato di una manovra
d'aggiramento. Il nemico ha mandato due eserciti, meno numerosi di
quello che abbiamo di fronte ma comunque consistenti, a nord e a sud del
Rhenn per prenderei alle spalle. Considerata la loro attuale posizione,
si sono messi in movimento almeno una settimana fa. Procedono con
lentezza, ma si fanno sempre più vicini. Ancora qualche giorno e ci
taglieranno fuori da Arborlon. Se questo accadrà, saremo finiti." Lasciò
vagare lo sguardo nel buio, come per cercare le parole. "Sono troppo
numerosi, Bremen. Lo sapevamo dal principio. Il nostro unico vantaggio è
la posizione. Se ce lo tolgono, non ci resta nulla." Tornò a guardare il
vecchio. "Ho mandato Prekkian e la Guardia Nera ad avvertire Vree
Erreden e il Consiglio di prepararsi a difendere la città. Ma la nostra
sola speranza è che io faccia ciò che mi hai detto tu, che affronti il
Signore degli Inganni e lo distrugga. Per riuscirci, devo prima
disperdere l'esercito del Nord. Non avrò mai occasione migliore di
questa. I nemici sono disorganizzati e stanchi, demoralizzati per la
distruzione delle macchine da guerra, spaventati dalla magia dei Druidi.
E' il momento di colpirli." Prima di rispondere, Bremen rifletté a
lungo. Alla fine annuì lentamente. "Forse hai ragione." "Se attacchiamo
adesso, li troviamo impreparati. Se colpiamo con forza, forse riusciamo
ad aprirci un varco fino al nascondiglio del Signore degli Inganni. La
confusione di un attacco notturno ci aiuterà, ma solo se saremo in grado
di distinguere gli amici dai nemici." Il druido sospirò. "Se segno gli
Elfi, anche i nemici li riconosceranno." "A questo non possiamo ovviare"
ammise il re, con voce ferma. "Ma passerà un certo tempo prima che
quelli capiscano il significato dei contrassegni. A quel punto, avremo
già vinto o perso la battaglia." Bremen annuì in silenzio. Era un piano
ardito, che avrebbe potuto condannare gli Elfi e risolversi nella loro
completa distruzione. Ma la necessità di una simile tattica era evidente
e il druido vedeva in quel re l'unico in grado d'impiegarla con
successo. Infatti gli Elfi avrebbero seguito Jerle Shannara dovunque e
la fiducia in lui li avrebbe sostenuti. "Però ho paura" mormorò a un
tratto il re, avvicinandosi al druido "di non riuscire a evocare il
potere della Spada, quando sarà necessario." Esitò, con lo sguardo
fisso. "Se la Spada non mi risponderà, cosa farò?" Il druido prese fra
le sue le mani del re e le strinse forte. "La magia non ti verrà meno,
Jerle Shannara" replicò piano. "Hai un cuore troppo forte, troppo
determinato, sei proprio il re di cui il tuo popolo ha bisogno. La magia
comparirà quando la evocherai, perché questo è il tuo destino." Sorrise
debolmente. "Devi crederci." Il re sospirò. "verrài con me?" domandò.
"Certo" annuì il vecchio. A nord del Rhenn, dove le nuvole coprivano di
ombre le praterie aperte e le pianure si estendevano all'orizzonte,
deserte e silenziose, Kinson Ravenlock si allontanò senza far rumore dal
vocio e dalla confusione dell'accampamento nemico e percorse a ritroso
la via per la quale era giunto. Impiegò quasi un'ora, tenendosi al
riparo in burroni e in letti asciutti di torrenti, evitando gli spazi
aperti delle terre basse. Procedeva rapido, ansioso di raggiungere
quelli in attesa, pensando che forse non erano giunti troppo tardi, dopo
tutto. Più di dieci giorni erano trascorsi da quando lui e Mareth erano
partiti dalle Terre dell'Est con i resti dell'esercito dei Nani. I Nani,
che ammontavano ancora a circa quattromila, avevano tenuto una buona
andatura. Tuttavia avevano scelto un percorso insolito. Avevano puntato
a settentrione, alle Pianure di Raab, e da lì al Passo di Jannisson per
entrare nelle Streleheim, dove avevano deviato, tenendosi nascosti
nell'antica foresta che custodiva le rovine di Paranor. La decisione di
seguire quel percorso era stata dibattuta a lungo e con forza da Raybur
e dagli Anziani, non meno della decisione precedente, quella per
stabilire se i Nani dovessero o meno intervenire. Kinson era stato
convincente nel presentare le argomentazioni di Bremen e Risca si era
schierato con decisione al suo fianco. Una volta convinto Raybur, la
faccenda si era risolta. Il dibattito per scegliere quel percorso era
stato meno acceso, ma altrettanto agitato. Risca era convinto che
avrebbero avuto una migliore opportunità di avvicinarsi non visti se
fossero scesi da settentrione attraverso il territorio nemico, perché
ormai l'armata del Nord si era spostata all'Ovest per assediare gli Elfi
nella Valle di Rhenn, quindi i loro esploratori avrebbero tenuto
d'occhio l'eventuale arrivo di aiuti dall'Est o dal Sud. Alla fine le
sue argomentazioni avevano avuto il sopravvento. Il grosso dell'esercito
dei Nani Si era attestato a nord, a mezza giornata dalle propaggini dei
Denti del Drago. Risca, Kinson, Mareth e duecento altri erano andati
avanti per valutare la situazione. Al tramonto, Kinson era partito da
solo per dare un'occhiata da vicino. Adesso, appena tre ore dopo la
partenza, l'uomo della Frontiera emerse dalle ombre della notte e si
riunì ai compagni. "C'è stato un attacco nelle prime ore del giorno"
comunicò senza fiato. Aveva fatto di corsa la maggior parte della
strada, ansioso di comunicare le notizie. "L'attacco è fallito. I resti
bruciati delle macchine da guerra del nemico sono disseminati nella
Valle di Rhenn. Ma altre vengono costruite. Il nemico è accampato
all'imboccatura orientale della valle. Si tratta di un grosso esercito,
ma pare disorganizzato. Tutti vagano qua e là e non c'è segno delle
creature tenebrose. Nemmeno i Messaggeri del Teschio stanotte sono in
volo." "Sei arrivato fino agli Elfi?" domandò subito Risca. "Hai visto
Bremen o Tay?" L'uomo della Frontiera bevve una lunga sorsata dall'otre
di birra che Mareth gli porgeva e si pulì le labbra. "No. La valle è
bloccata. Avrei potuto attraversarla, ma ho deciso di non correre il
rischio. Ho preferito tornare subito qui." Lui e Risca si guardarono,
poi guardarono le pianure. "Laggiù c'è un mucchio di morti" disse piano
l'uomo della Frontiera. "Troppi, anche se solo un decimo di essi fossero
Elfi." Risca annuì. "Avviserò Raybur di far avanzare l'esercito alle
prime luci. Sceglierà lui da quale parte attaccare." Il suo viso
schietto era teso, e aveva uno scintmio negli occhi. "Nel frattempo
dovremo aspettare qui il suo arrivo." L'uomo della Frontiera e la
giovane donna si scambiarono un'occhiata e scossero la testa. "Io non
aspetto" dichiarò Kinson Ravenlock. "E io neppure" disse Mareth. Il nano
soppesò l'ascia da guerra. "Ne ero sicuro. A quanto pare Raybur dovrà
raggiungerci, eh? Andiamo."
32
Tre ore dopo il tramonto, all'appressarsi della mezzanotte, Jerle
Shannara guidò gli Elfi alla battaglia conclusiva. Lasciò indietro i
malati, i feriti e un piccolo contingente per difenderli e fare da
retroguardia; prese con sé solo chi era in buone condizioni. Cacciatori,
Guardie Reali, arcieri e altri fanti superavano di poco le duemila
unità. I cavalleggeri erano circa quattrocento. Li radunò nella pianura
all'imboccatura della valle, nei pressi del punto dove ancora fumavano i
rottami delle macchine da guerra, e spiegò il suo piano. Mentre lui
parlava, Bremen passava fra i ranghi di Elfi reggendo un vasetto
luminescente. Era una luminosità bluastra, fosforescente, che risaltava
soprattutto nel buio, e non pareva né una crema né un liquido, ma
semplice aria luminosa. Consisteva in gran parte di magia druidica, ma
anche di altre sostanze, che nessuno però avrebbe saputo identificare.
Mentre si accostava a ogni soldato, Bremen parlava con voce bassa e
rassicurante; intingeva nella sostanza luminosa un logoro stecco e a
ognuno tracciava un segno sulle spalle, quanto bastava a lasciare sulla
veste una traccia della misteriosa sostanza. Quando si avviarono nel
buio, diretti al cuore del Rhenn, ognuno aveva coperto con un pezzo di
stoffa il segno luminoso per non rivelare al nemico la propria presenza.
Scelti membri delle Guardie Reali precedettero il grosso dell'esercito,
disposti a ventaglio; alcuni s'inerpicarono sulle pendici e da lì
avanzarono per occupare le alture che guardavano il passo orientale.
Lasciato alle Guardie il tempo necessario, Jerle Shannara guidò
l'avanzata del grosso dell'esercito. Prese il comando del centro assieme
a Preia Starle e Bremen, mise sul fianco sinistro Cormorant Etrurian e
sul destro Rustin Apt. Schierati lungo tutto il fronte, proprio dietro
la prima fila di Cacciatori, c'erano gli arcieri di Arn Banda. Dietro di
loro, altri Cacciatori e molto più indietro, tenuta di riserva per
quando i fanti sarebbero stati tutti impegnati, la cavalleria agli
ordini di Kier Joplin. La strategia del re era semplice. Gli Elfi
dovevano avanzare il più possibile, senza farsi scorgere, e poi colpire
sbucando dal buio, sfruttando la sorpresa e la confusione per sopraffare
il perimetro, con l'augurio che lo slancio li portasse nel cuore
dell'accampamento nemico, rifugio del Signore degli Inganni. Allora
Jerle Shannara avrebbe messo con le spalle al muro il druido ribelle e
l'avrebbe ucciso. Tutto qui. In quel piano le cose che potevano andare
storte erano davvero tante e non valeva la pena d'esaminarle tutte.
L'intera strategia era basata sulla tempestività e sulla sorpresa.
Decisione e coraggio avrebbero determinato il risultato. Quella notte,
protetti dalla magia druidica e corazzati da una fede incrollabile, gli
Elfi si diedero anima e corpo al loro re e al destino. Dubbi e paure
svanirono con il primo passo, con la constatazione che l'attacco era in
atto e non c'era possibilità di tornare indietro, con un travolgente
impeto d'aspettativa che soppiantò ogni altro stato d'animo. Percorsero
a buona andatura la strettoia della valle, senza il minimo rumore, come
solo gli Elfi possono fare, evitando qualsiasi ostacolo grazie
all'acutezza della vista, le orecchie tese per cogliere segnali di
pericolo. Non c'era luce a guidarli, il cielo si era di nuovo
rannuvolato e l'aria era pervasa ancora dal fumo dell'incendio del
pomeriggio. Più avanti, i fuochi delle sentinelle nemiche fornivano una
serie di fari isolati, puntolini giallastri che tremolavano nel buio.
Mentre guidava il suo esercito, con la Spada di Shannara agganciata di
traverso sulla schiena, Jerle non rivolse il minimo pensiero a un
eventuale fallimento. Pensò solo a ciò che lo attendeva, scacciando ogni
distrazione e mettendo da parte per altri momenti ogni considerazione
che non riguardasse l'impresa di quella notte. Aveva a fianco Preia da
una parte, Bremen dall'altra: grazie alla loro presenza si sentiva
invincibile. Non immortale: sapeva benissimo che poteva anche morire. Ma
in quel momento disperato aveva la sensazione che il fallimento fosse
impensabile. Era circondato da gente che gli dava forza, anche se
dipendeva da lui. Una mistura bizzarra, ma ben nota ai sovrani. Gli Elfi
avrebbero dato la vita per lui, ma lui doveva esser pronto a dare la
propria per loro. Solo mantenendo fede a questo patto ognuno di loro
poteva augurarsi di sopravvivere, di perseverare, di ottenere la
vittoria. Il re spostò lo sguardo verso le ombre sulle alture, alla
ricerca di sentinelle che potessero dare l'allarme. Non ne scorse: a
quanto pareva, le Guardie Reali le avevano eliminate senza farsi
scoprire. Alle sue spalle, nella conca della vallata, udiva un debole
tintinnio di tirelle e un cigolio di finimenti di cuoio: la cavalleria
li seguiva. Davanti, i fuochi di guardia divennero più visibili, ed
entro il perimetro da essi segnato si scorgeva l'accampamento
dell'esercito del Nord. La sua dimensione pareva smisurata, un esteso
labirinto di tende e salmerie e uomini, una confusione di vita, quasi
una piccola città. I nemici erano ancora molto numerosi, pensò il re.
L'attacco degli Elfi doveva essere deciso e veloce. Portò i suoi uomini
a una cinquantina di passi dall'accampamento e ordinò l'alt; tutti si
acquattarono al limitare dei cerchi di luce dei fuochi. Le sentinelle,
in piedi, scrutavano il buio, alcune lanciavano con indifferenza
occhiate a ciò che avveniva nell'accampamento. Non mostravano la minima
preoccupazione per ciò che poteva nascondersi nel buio: era chiaro che
non s'aspettavano un attacco. Jerle Shannara sentì in petto una vampata
di soddisfazione. A quanto pareva, aveva visto giusto. Pensò a un tratto
a quanto aveva dovuto sopportare per giungere a quel punto e si scoprì a
desiderare che Tay Trefenwyd fosse lì con lui. Insieme, avrebbero
sconfitto qualsiasi opposizione. Senza Tay, pensò, per lui non sarebbe
stata mai più la stessa vita. Mai più. Con un gesto segnalò agli Elfi di
tenersi pronti. Allora Banda fece alzare i suoi arcieri, con la freccia
già incoccata alla corda dei lunghi archi da guerra. Il re alzò la spada
e le frecce volarono nell'aria in una mortale grandinata. Mentre
ricadevano e colpivano i bersagli ancora ignari del pericolo, gli Elfi
si lanciarono all'attacco. Furono rapidi e micidiali nell'avanzata. Nel
giro di qualche istante avevano attraversato il terreno scoperto ed
erano penetrati nell'accampamento. Le sentinelle giacevano tutte morte,
trafitte da una freccia o da una lancia. I soldati del Nord che se ne
stavano accoccolati intorno ai fuochi balzarono in piedi non appena gli
Elfi sciamarono su di loro, impugnarono le armi e lanciarono l'allarme.
Ma gli Elfi furono tra loro così rapidamente che per la maggior parte i
nemici morirono senza potersi difendere. Jerle Shannara era in testa, e
si apriva la strada fra le linee più esterne quasi senza fatica,
affiancato dalle Guardie Reali. Preia era con lui. Bremen rimase
indietro, troppo vecchio e lento per tenere il passo, gridando al re di
andare avanti, di non aspettarlo. Sulle alture, i nemici erano impegnati
in un corpo a corpo con le Guardie Reali che li avevano sorpresi nel
sonno. Nel buio pieno di fumo solo gli Elfi potevano riconoscere i
compagni, grazie al segno luminescente sulla spalla. L'intero
accampamento era in subbuglio. All'improvviso il re si trovò nel mezzo
di un reparto di Troll delle Montagne appena svegliati, gigantesche
creature che balzavano dai giacigli, in risposta all'allarme, senza la
protezione delle armature, ma con le armi in pugno. Jerle Shannara si
lanciò verso il cuore dell'accampamento, cercando di non farsi
rallentare, ma diversi Troll gli si pararono davanti e fu costretto a
fermarsi e a combattere. Venne in contatto col più vicino, vibrò in un
arco lucente la Spada di Shannara e il Troll cadde. Altri si sforzarono
di arrivare a lui, avendolo riconosciuto, e intanto lanciavano gutturali
richiami ai compagni. Ma le Guardie Reali pararono il contrattacco e da
ogni parte sciamarono sui Troll, facendone strage. Dal buio alle proprie
spalle, il re udì il corno di Kier Joplin suonare la carica: con rombo
di tuono, la cavalleria elfa si unì alla battaglia. Un'esplosione fece
vibrare l'accampamento e una colonna di fuoco s'innalzò al cielo. Nel
suo bagliore il re scorse Bremen, fermo al centro di un fuggifuggi di
Gnomi e Troll minori, lacera sagoma con le braccia allargate davanti a
sé, il giovane Allanon al fianco. Più avanti divennero visibili le tende
con i drappi decorati da teschi del Signore degli Inganni e dei suoi
servitori. Jerle Shannara si sentì pervadere dall'esaltazione e
raddoppiò gli sforzi per aprirsi un varco fra i nemici. Ma dalla notte
emerse una creatura mostruosa e il re fu costretto a fronteggiarla.
Aveva l'aspetto di un lupo, ma con una testa vagamente umana, e fauci
munite di file di denti acuminati. Assalì gli Elfi che cercavano di
colpirlo e li disperse. Si avventò contro Preia Starle, ma lei schivò
l'affondo e gli lasciò la spada conficcata nel collo. La mostruosa
creatura continuò l'assalto, ferita ma non rallentata, le fauci pronte
ad azzannare. Jerle Shannara fu sbattuto a terra, incapace di evitare
l'assalto, e lottò invano per togliersi da sotto le sue zampe, mentre i
Cacciatori menavano disperati fendenti contro il mostro. Poi, quando
questo si rizzò sulle zampe posteriori per azzannarlo, con la Spada di
Shannara il re gli trapassò il petto e il cuore e il mostro crollò privo
di vita. Il re si affrettò a rialzarsi. "Le tende!" gridò a ogni elfo a
portata di voce; con Preia al fianco, continuò la carica. Al di là
dell'imboccatura del Rhenn, sul perimetro settentrionale
dell'accampamento, Kinson, Mareth, Risca e i Nani si stavano dirigendo
verso le alture orientali nel tentativo di trovare un varco fra le linee
nemiche. Quando iniziò l'attacco degli Elfi si fermarono, non sapendo
bene che cosa accadesse. Grida e urla provenivano dall'accampamento e
ben presto ci fu il caos. Subito i Nani, esperti di battaglie, formarono
un cuneo di difesa puntato verso l'accampamento assalito e osservarono i
nemici più vicini alzarsi in fretta e furia, afferrare le armi e
guardarsi intorno. "Cosa succede?" bisbigliò Mareth all'orecchio di
Kinson Ravenlock. A quel punto udirono risuonare, al di sopra del
clamore, il grido di battaglia degli Elfi, ben presto ripetuto. "Gli
Elfi attaccano!" esclamò Risca, meravigliato. Dalle alture, nugoli di
frecce si riversarono sull'accampamento, mietendo vittime fra i soldati
lì radunati. Dall'ingresso della valle, sul lato frontale del perimetro,
proveniva il clangore di armi. I Nani rimasero impietriti, mentre la
battaglia si accendeva, ascoltando i rumori che crescevano e si
avvicinavano. Gli Elfi erano penetrati nelle difese nemiche e puntavano
al cuore dell'accampamento. "Cosa facciamo?" domandò Kinson, a nessuno
in particolare, scrutando nel buio dove gruppi di nemici comparivano e
scomparivano nella foschia del fumo dei fuochi di guardia. Proprio
davanti a loro, un Messaggero del Teschio si levò in aria come uno
spettro, ad ali distese e artigli contratti. Allontanandosi dai Nani, il
predatore alato si diresse a est, sopra le pianure. Un attimo dopo fu
seguito da un altro. "Scappano!" esclamò Mareth, incredula. Poi, proprio
al centro dell'accampamento, una colonna di fiamma esplose verso il
cielo, alzandosi nell'oscurità come una lancia di fuoco scagliata contro
le nuvole da una mano invisibile. Rimase sospesa per parecchi istanti
contro il buio della notte, poi svanì in fumo. Risca soppesò la grande
ascia da guerra e guardò gli altri. "Ho visto abbastanza" disse. "Gli
Elfi hanno bisogno di noi. Non facciamoli aspettare." Il gruppo si
mosse, guidato da Risca ai cui fianchi erano Kinson e Mareth. I Nani si
disposero a ventaglio in formazione d'attacco. Risca li guidò un po' a
levante delle alture, facendo attenzione agli arcieri lì nascosti,
preoccupato che li scambiassero per nemici. Deviarono a sinistra,
puntando alla parte posteriore dell'accampamento, dove gli Gnomi già
s'affannavano a montare in sella. Quando si trovarono proprio sotto le
file di picchetti, Risca lanciò il grido di guerra dei Nani e guidò
all'attacco i suoi Cacciatori. Quasi subito i Nani furono impegnati in
combattimento. Fosse frutto del caso o della rapida reazione dei
difensori, in un attimo si trovarono circondati da un'intera compagnia
di Troll delle Montagne, corazzati da capo a piedi e armati di picche.
Nel primo minuto di battaglia caddero più di venti Nani, incapaci di
resistere ai Troll assai più robusti di loro. Risca radunò i più vicini
a lui, evocò il Fuoco Magico e con esso si aprì un varco, costringendo i
nemici a indietreggiare. Seguì il contrattacco, vibrato da un branco di
giganteschi lupi che Brona aveva chiamato dalle Querce Nere. Di nuovo i
Nani furono respinti e questa volta il centro del loro schieramento
cedette. Nella confusione, Kinson e Mareth rimasero separati da Risca.
Il druido andò a sinistra, verso la parte posteriore dell'accampamento,
mentre l'uomo della Frontiera e la giovane donna andarono a destra,
seguendo un gruppo di Nani che volevano unirsi agli Elfi già impegnati
al centro del campo. Risca, nella furia dello scontro, non si accorse
subito della loro assenza. La veemenza della difesa, lì sul retro
dell'accampamento, quando l'attacco principale degli Elfi proveniva
dalla parte opposta, lo convinse che il Signore degli Inganni era a
breve distanza. Avendo già visto due Messaggeri del Teschio darsi alla
fuga, sospettò che l'attacco fosse più travolgente di quanto gli Elfi
non immaginassero e che Brona si preparasse a fuggire. Poteva contare,
per la propria difesa, su Troll delle Montagne e su creature infernali,
perciò sarebbe fuggito di nascosto, assieme ai cacciatori alati, per
ritirarsi a settentrione. Molti soldati del Nord già si dileguavano
nella notte, abbandonando l'accampamento come serpi scacciate dalla
tana. Gnomi e Troll minori cominciavano a fuggire lasciando altri a
combattere al posto loro. La cavalleria si sparpagliava in tutte le
direzioni, priva di comandante e in preda al panico. La spina dorsale
dell'esercito del Nord era stata spezzata e non occorreva molta fantasia
per dedurre che i comandanti - per i quali il tempo non contava niente intendessero rifugiarsi di nuovo nella loro roccaforte al di là delle
montagne della Lama di Coltello, per riorganizzarsi e pianificare una
nuova invasione. Ma Risca aveva fatto troppe brutte esperienze, per
consentire che ciò accadesse. Era deciso a fermarli lì. Con una decina
di Nani al seguito, si aprì la strada verso la ventina di Gnomi a
cavallo ancora controllati da un Messaggero del Teschio. Infuriando fra
di loro, orrido spettro con occhi ardenti e mantello svolazzante, il
Messaggero cercava di rimettere in fila gli atterriti Gnomi, con il
chiaro intento di portarli con sé come reparto fiancheggiatore. Più in
là, dove la notte era più buia e l'accampamento meno illuminato, c'era
movimento fra le tende di seta nera. I cavalli nitrivano, mentre a
frustrate venivano costretti a disporsi in convoglio, e grossi carri
dipinti di scuro rotolavano nel buio e nel fumo, diretti alle pianure.
Risca, ascia in pugno e Fuoco Magico ardente in petto, si mosse per
intercettarli. Jerle Shannara continuò ad avanzare con ferocia
implacabile. Era sempre in prima fila, ora ben dentro l'accampamento
nemico, e si avvicinava allo scuro, frusciante baldacchino della tenda
del Signore degli Inganni. Era entrato in una zona buia, un luogo dove
la luce non penetrava. I fuochi di guardia, lungo il perimetro
dell'accampamento, gettavano ombre irreali in quelle tenebre, ma c'era
ben poco da vedere. Coloro che avevano tentato di fermarlo divennero
rapidamente indistinguibili: alcuni erano Troll e Gnomi, altri erano
esseri del tutto diversi. Jerle si spinse in mezzo a loro, senza badare
alla loro natura, senz'altra preoccupazione che quella di farsi strada.
Preia era al suo fianco, dura e feroce come lui. Le Guardie Reali li
seguivano, cercando vanamente di raggiungerli. Tutt'intorno il campo era
un caos di rumori e di movimento. Più avanti, da qualche parte nel buio,
nelle vicinanze delle tende annerite, c'erano rumori di vetture e di
carri in movimento, cigolii di tirelle, schiocchi di fruste, nitriti di
cavalli in risposta alle pretese dei conducenti. Preia cadde a terra,
sbilanciata da una sagoma scura balzata dal buio su quattro zampe. Fauci
si spalancarono e denti luccicarono, mentre il corpo irsuto piombava
sulla regina. Jerle si girò a difenderla, ma nello stesso istante fu
colto alla sprovvista da un'altra di quelle sagome e mandato a gambe
levate. Altre ne comparvero, lupi che sbucavano dalle tenebre e
caricavano, azzannando gli Elfi che tentavano d'entrare in quel terreno
proibito. Erano così numerosi che per un momento parvero inarrestabili.
Preia era sparita in un groviglio di corpi. Jerle combatteva sulla
schiena e sulle ginocchia, vibrando la Spada contro qualsiasi cosa
venisse alla sua portata, sforzandosi di rimettersi in piedi. "Shannara!
Shannara!" Al grido che chiamava a raccolta, Cacciatori e Guardie Reali
accorsero. Poi esplose il Fuoco Magico, bruciando a metà del balzo i
lupi più vicini, e Bremen entrò nella mischia, con le vesti a brandelli,
con occhi ardenti come quelli delle creature che cercava di uccidere. I
lupi si ritrassero, atterriti, zanne snudate. Un'altra belva svanì nella
livida fiamma e i lupi rimasti si sparpagliarono, ululando di furia e di
terrore. Jerle Shannara si tirò in piedi, si girò alla ricerca di Preia.
Ma lei era già al suo fianco, col viso rigato di sudore e stravolto
dalla sofferenza, un braccio tutto insanguinato nel punto in cui,
malgrado la protezione di cuoio, la morbida carne era stata lacerata
fino all'osso. In quel momento si legava la ferita, ma era cerea in
viso, straziata. "Va' avanti!" gridò a Jerle. "Non aspettare! Sto
arrivando!" Jerle esitò solo un istante, poi riprese la rapida avanzata,
seguito da un gruppetto di Guardie Reali. I lupi erano le ultime
creature poste a custodia del Signore degli Inganni, perciò la via era
sgombra. Più avanti il terreno era una pozza nera, ma Jerle Shannara non
rallentò. Una sola cosa gli importava: trovare il comandante nemico e
metterlo con le spalle al muro. Attraversò di corsa il tratto non
illuminato, senza badare a ciò in cui avrebbe potuto incappare, senza
preoccuparsi di cosa lo aspettasse, tutto preso dalla determinazione di
porre termine a quella battaglia, a qualsiasi costo. Da un punto alle
sue spalle provenne la voce di Bremen che gridava un avvertimento e lo
chiamava inutilmente: il vecchio druido, sfinito dalla battaglia,
prosciugato dalla magia, non ce la faceva a seguirlo. Jerle raggiunse la
tenda del Signore degli Inganni in fuga, vibro un fendente, tranciò la
stoffa scura, scagliò nella notte la collana di teschi e ossa appesa a
un palo di sostegno. La parete della tenda si lacerò e un vento secco e
gelido sfiorò la faccia del re che si lanciava nell'apertura. L'interno
era così buio che non vide niente, e per proteggersi vibrò la Spada di
Shannara in un ampio arco, tranciando tutto ciò che era alla sua
portata. Ma la lama fischiò a vuoto nell'aria. Jerle si lanciò nel buio
verso la parete opposta e tranciò la stoffa, aprendola alla notte. Fumo
e rumore si precipitarono nello squarcio e il gelo lasciò il posto al
caldo dell'estate e alla sensazione di sudore sulla pelle. Jerle girò
rapido su se stesso e si acquattò in posizione di difesa. Ma la tenda
era vuota. Nello stesso momento Risca e i suoi Nani assalirono i resti
degli Gnomi a cavallo. Il Messaggero del Teschio che li teneva a bada
arretrò sotto l'assalto del Fuoco Magico di Risca e gli atterriti Gnomi
saettarono via nella notte. Per un istante nessuno si oppose ai Nani.
Poi risuonò il clangore di ruote rivestite di ferro e dall'accampamento
provenne una carovana di cavalieri dal mantello nero e di carri chiusi.
Risca si lanciò all'inseguimento e scagliò il Fuoco Magico contro i
cavalli di testa, facendoli scartare e inalberare e fermando i carri.
Quasi subito una torma di belve sciamò da dietro i traballanti mezzi di
trasporto e i cavalli imbizzarriti e si lanciò alla carica: una maligna
e rabbiosa collezione di mostri infernali. L'attacco fu feroce e
costrinse Risca e i Nani a ritirarsi. Zanne e artigli lacerarono le
carni, braccia nerborute martellarono i soldati dell'Est. I Nani
lottarono con torva determinazione, raggruppati intorno al loro capo.
Risca scagliò contro gli attaccanti ondate su ondate di Fuoco Magico,
lottando semplicemente per non perdere terreno. Ormai i cavalieri in
mantello scuro giravano i carri e prendevano un'altra direzione,
frustando i cavalli con urla di rabbia. Risca lottò per raggiungerli,
per costringere di nuovo la carovana a fermarsi. Ma gli esseri infernali
erano da tutte le parti e lui non riusciva a sfruttare bene il Fuoco
Magico. La grande diversità numerica cominciava a farsi sentire. A uno a
uno i compagni di Risca cadevano e morivano. Poi, all'improvviso, gli
assalitori furono sparpagliati da ondate di soldati presi dal panico,
che si riversavano dal campo di battaglia passando davanti ai Nani e
svanendo nelle pianure buie. L'intero esercito nemico pareva in rotta,
come se ogni soldato avesse deciso nello stesso istante d'averne
abbastanza. Gnomi e Troll sciamarono dall'infuocato campo di battaglia e
fuggirono nella notte. La marea era compatta e inarrestabile, e per un
momento Risca e i Nani scomparvero in mezzo ad essa. Quando diminuì,
Risca si guardò intorno. Era solo sul lato orientale dell'accampamento
distrutto. I Nani che avevano combattuto al suo fianco erano morti
tutti. I mostri del mondo infero erano scomparsi, fuggiti assieme ai
soldati. Nell'accampamento lo scontro continuava senza requie, con gli
Elfi che premevano contro chi era rimasto, entrambe le parti impegnate
in una lotta furiosa e disperata. A settentrione, dove le Streleheim si
estendevano sotto il cielo plumbeo, la carovana del Signore degli
Inganni si allontanava. Una foschia rossastra velò la vista del druido e
un senso d'impotenza lo pervase. Si girò da ogni parte in cerca di un
cavallo, ma nelle vicinanze non ne vide. I soldati in fuga gli giravano
alla larga, scorgendo il tremolio di Fuoco Magico sulla punta delle dita
della sua mano destra e il luccichio dell'ascia da guerra nella
sinistra. Risca aveva il viso insanguinato e negli occhi una gelida
furia. In lontananza, la carovana svanì nella notte.
33
All'alba l'esercito delle Terre del Nord era stato sbaragliato e gli
Elfi cavalcavano all'inseguimento del Signore degli Inganni. La
battaglia era infuriata per gran parte della notte, da un unico scontro
si era mutata in decine di scontri più piccoli e violenti. Una parte dei
guerrieri del Nord era fuggita ai primi assalti, ma molti erano rimasti.
I reparti più uniti e meglio disciplinati non avevano ceduto fino alla
fine. Il combattimento era stato sanguinoso e disperato, senza
quartiere. Al termine, l'esercito del Nord era disperso in ogni
direzione. Il numero di caduti su entrambi i fronti era sbalorditivo.
Gli Elfi avevano perduto la metà di coloro che quella notte erano scesi
in campo insieme con Jerle Shannara. Rustin Apt era morto
all'imboccatura del passo e la sua unità era stata decimata. Arn Banda
era morto sulle alture. Cormorant Etrurian aveva riportato una ferita
tanto grave che avrebbe perduto un braccio. Solo Kier Joplin della
cavalleria degli Elfi e Trewithen della Guardia Reale erano rimasti
incolumi, ma fra tutti e due potevano disporre solo di ottocento soldati
ancora in grado di combattere. Era una giornata fredda e asciutta,
chiaro segno della fine dell'estate e dell'inizio dell'autunno. Il sole
si levò, smorto e velato di foschia, contro i frastagliati picchi dei
Denti del Drago, proprio a oriente del punto dove cavalcava il reparto
di Jerle Shannara. Sulle praterie indugiavano banchi di nebbia, la brina
copriva il terreno, argentea e bagnata nella luce crescente, nell'aria
si condensava l'alito di soldati e cavalli. Falchi roteavano nel cielo,
risalivano e planavano nel vento, muti spettatori della caccia in atto
sotto di loro. Jerle Shannara non aveva esitato a inseguire Brona,
convinto di non poter fare diversamente. Ormai non provava trepidazione
né incertezza, non si curava della fatica e della fame, non voleva
abbandonare la lotta. Sanguinava per le ferite riportate negli scontri,
ma non sentiva dolore. Teneva agganciata sulla schiena la Spada di
Shannara e non si chiedeva più se la magia avrebbe risposto al suo
richiamo. Il momento delle decisioni era passato e rimaneva solo il
fardello della responsabilità che gli avevano accollato. Dubbi e timori
si agitavano sempre in fondo alla sua mente, ma il costante trascorrere
del tempo li ricacciava sempre più lontano dalla sua consapevolezza.
Sentiva soltanto il rombo del proprio sangue, il battito del cuore, la
forza della determinazione. Preia Starle andò con lui, pur ferita al
punto da avere bisogno d'aiuto per montare in sella. Aveva un braccio
fasciato e appeso al collo; non perdeva più molto sangue, ma aveva il
viso cereo e tirato, respirava a fatica. Tuttavia quando Jerle le aveva
chiesto di fermarsi si era rifiutata. Era abbastanza forte da cavalcare,
aveva detto con insistenza, e l'avrebbe accompagnato. Voleva vedere la
fine di quella storia nel modo in cui ne aveva visto l'inizio, cioè al
suo fianco. Andarono con Jerle anche Bremen e il giovane Allanon, anche
se ora il vecchio druido era indebolito come Preia, perché l'uso
continuato della magia l'aveva prosciugato al punto che sarebbe stato di
ben poco aiuto. Non l'aveva detto, ma la cosa risultava evidente a
chiunque avesse occhi e buon senso. Però aveva promesso che sarebbe
stato a fianco del re, al momento di usare la Spada, e non avrebbe mai
mancato alla promessa. Anche Mareth, Kinson Ravenlock e Risca, più
riposati e in forze, li accompagnarono. Per loro la battaglia doveva
ancora venire: consapevoli dello sfinimento degli altri, si erano
ripromessi di proteggerli come meglio potevano. Dietro di loro venivano
Kier Joplin con la cavalleria e Trewithen con la Guardia Reale, insieme
con un piccolo contingente di Nani scesi in compagnia di Risca. In tutto
non arrivavano a novecento. Non si preoccupavano di considerare troppo
attentamente se sarebbero bastati a tenere a bada il Signore degli
Inganni. Nessuno sapeva quanti si fossero dati alla fuga con il druido
ribelle, né quanti da allora si fossero uniti a lui. Di sicuro ci
sarebbero stati Messaggeri del Teschio e creature infernali e lupi delle
Querce Nere e Troll delle Montagne e altri delle Terre del Nord e
dell'Est. Se avessero incontrato anche solo una piccola parte
dell'esercito che aveva assediato la Valle di Rhenn, gli Elfi sarebbero
stati nei guai. Tuttavia, da qualche parte più a nord, al limitare degli
altipiani, Raybur avanzava con quattromila Nani. Se gli Elfi fossero
riusciti a spingere da quella parte il Signore degli Inganni, avrebbero
avuto una possibilità. Il sole si levò più alto in un cielo che era un
bizzarro miscuglio di grigio e d'argento e la sua luce scacciò le ombre
notturne e il freddo. Ma la nebbia si rifiutò di dissolversi, rimase
tenacemente abbarbicata alle piane, addensata intorno alle ampie
depressioni e alle forre poco profonde che le intersecavano. Formava
pozze fra i tratti di terreno più elevati e dava alle praterie un
aspetto vagamente paludoso. Niente si muoveva in lontananza, l'orizzonte
era vuoto e immobile. In alto i falchi erano scomparsi. Il gruppo di
Jerle Shannara cavalcava in silenzio, a labbra serrate, mantenendo
un'andatura costante e regolare e tenendo d'occhio il territorio
all'intorno. Verso la metà del pomeriggio raggiunsero finalmente il
Signore degli Inganni. Fin da mezzodì avevano avuto ragione di credere
d'avere progressivamente ridotto lo svantaggio, perché avevano iniziato
a trovare carri abbandonati, danneggiati durante la fuga. Un'ora prima
avevano intercettato la pista della preda, una confusione di solchi e
impronte, di animali e di uomini, che rendeva difficile persino agli
Esploratori stabilire quante persone viaggiassero col Signore degli
Inganni. Preia, contro il parere del re, era smontata da cavallo per
studiarle; poi, con la sua voce bassa e tranquilla, aveva riferito che
il numero dei nemici non arrivava a mille. Ora, mentre sostavano in cima
a un'altura, alcune centinaia di passi a meridione del punto dove i
resti dell'esercito del Nord erano stati costretti a fermarsi, gli Elfi
poterono vedere che la stima della regina era esatta. I carri neri erano
fermi all'ombra di una serie di alture che salivano come terrazze verso
i Denti del Drago. Le creature del Signore degli Inganni erano addossate
ai carri: Troll delle Montagne e altri esseri di forma umana; creature
del mondo degli inferi ammantate e incappucciate; lupi grigi che se ne
stavano acquattati o andavano avanti e indietro al limitare della
nebbia; Messaggeri del Teschio, alcuni dei quali si libravano come scuri
uccellacci sopra l'assembramento. Più in là, schierati in ordine di
battaglia sulle alture, i Nani di Raybur bloccavano ogni via verso
settentrione. Al Signore degli Inganni era stata impedita la fuga.
Tuttavia la nebbia era ingannatrice, le sue immagini vaghe creavano
illusioni. Parecchie delle creature ammassate sul terreno piano, avvolte
da brandelli di grigiore turbinante, erano morte. Giacevano in posizioni
innaturali, schiantate contro le rocce e impalate su armi. Braccia e
gambe si protendevano verso il cielo come stecchi rotti. Scure sagome
tremolavano nella foschia: erano i resti anneriti e bruciati degli
esseri del mondo degli inferi. Quel giorno si era già svolta una
battaglia. Il druido ribelle e i suoi sostenitori erano incappati negli
abitanti delle Terre dell'Est e avevano tentato di aprirsi la strada fra
le loro linee. Ma il tentativo era fallito. I Nani li avevano respinti.
Allora il Signore degli Inganni aveva radunato i resti del proprio
esercito e si era ritirato nell'attuale posizione. I Nani erano pronti a
un altro assalto. Ambedue le parti aspettavano. Jerle Shannara rimase
perplesso. Cosa aspettavano? Non impiegò molto a trovare la risposta.
Aspettano me, pensò. Aspettano la Spada di Shannara. Capì allora che lì
sarebbe avvenuta la conclusione, in quell'isolata regione delle
Streleheim, su quel terreno già insanguinato. Avrebbe affrontato in
combattimento il Signore degli Inganni e uno dei due sarebbe morto. Così
era stato deciso da un remoto, perverso destino, molto tempo prima.
Jerle Shannara guardò gli altri sorpreso di sentirsi così calmo. "Brona
è in trappola. Non può fuggire. I Nani gli hanno impedito la fuga nel
cuore delle Terre del Nord. Ora deve affrontarci." Risca soppesò l'ascia
da guerra. "Non facciamolo aspettare." "Un momento." Era Bremen, vecchio
e sfinito al punto da essere irriconoscibile nella luce sempre più fioca
del pomeriggio, un consunto spettro umano senza più nulla a cui
sostenersi se non la sua logorante determinazione. "Aspetta noi, è vero.
Vuole che arriviamo. Questo dovrebbe darci un po' di respiro." Il Nano
era duro e deciso. "Non ha scelta, può solo aspettare. Cosa ti
preoccupa, Bremen?" "Rifletti, Risca. Vuole scontrarsi con noi perché,
se vince, può ancora fuggire." Con lo sguardo li passò in rassegna. "Se
ci distrugge tutti, gli ultimi Druidi rimasti e il re degli Elfi per
soprammercato, elimina i massimi pericoli che lo minacciano e forse
riesce a evitare la propria morte. Allora può nascondersi e riprendersi.
Può aspettare l'occasione per fare ritorno." "A me non sfuggirà"
borbottò Risca, torvo. "Non sottovalutarlo, Risca" ammonì il vecchio.
"Non sottovalutare il potere della magia di cui dispone." Seguì un lungo
silenzio. Risca ricordò quanto vicino fosse stato a morire, l'ultima
volta che aveva tentato d'incrociare il ferro col Signore degli Inganni.
Fissò il vecchio druido, poi spostò lo sguardo sulla pianura velata di
foschia. "Cosa suggerisci? Di restare con le mani in mano?" "Di essere
prudenti." "A che serve la prudenza?" replicò Risca, spazientito.
"Sprechiamo solo tempo! Per quanto ancora dobbiamo stare qui?" "Brona
aspetta me" disse a un tratto Jerle Shannara. "Sa che vengo per lui."
Gli altri lo guardarono. "Si scontrerà con me, ora, perché ritiene che
per lui sia la strada più facile. Non ha paura di me. E' convinto di
potermi distruggere." "Non lo affronterai da solo" si affrettò a
replicare Preia Starle. "Saremo tutti con te." "Dal primo all'ultimo!"
sbottò Risca, sfidando chiunque a contraddirlo. "Ma è pericoloso" ammonì
di nuovo Bremen. "Tutti noi raggruppati. Siamo stanchi, esausti. Non
siamo forti abbastanza." Mareth si fece avanti, l'espressione decisa.
"Lo siamo a sufficienza, Bremen." Strinse con forza il bastone avuto da
lui. "Non puoi aspettarti che ci limitiamo a guardare." "Abbiamo fatto
molta strada per vedere la fine di questa storia" intervenne Kinson
Ravenlock. "Questa battaglia è anche nostra." Fissarono il vecchio,
tutti, aspettando che parlasse. Lui li guardò senza vederli, con occhi
remoti, perduti. Pareva considerare qualcosa che non avrebbero potuto
capire, qualcosa di molto distante da quel luogo e da quel momento, al
di là del pericolo immediato. "Bremen" chiamò piano il re, e aspettò che
il vecchio lo guardasse. "Io sono pronto. Non dubitare di me." Il druido
lo scrutò a lungo, poi annuì, stanco e rassegnato. "Faremo come vuoi tu,
re degli Elfi." Risca ordinò di issare su lance le bandierine di
segnalazione, per far sapere a Raybur le loro intenzioni. Subito arrivò
la risposta: i Nani si sarebbero mossi all'ordine degli Elfi. La strada
verso nord sarebbe stata bloccata contro qualsiasi tentativo di fuga.
Toccava a Jerle Shannara e agli Elfi chiudere la trappola. Il re chiamò
Trewithen e una decina di Guardie Reali perché lo accompagnassero. Risca
chiamò sei dei suoi Nani. Mentre si radunavano, Jerle Shannara tirò da
parte Preia Starle. "Voglio che tu mi aspetti qui" le disse. Lei scosse
la testa. "Non posso, e tu lo sai." "Sei ferita. Non hai la forza e la
rapidità su cui puoi contare in condizioni normali. Come ti aspetti di
compensarle?" "Non chiedermi di stare in disparte." "La tua presenza mi
distrarrebbe, starei in pensiero per te!" Era rosso in viso, adirato.
Ridusse la voce a un mormorio. "Ti amo, Preia." "Chiederesti a Tay di
stare in disparte, se fosse qui?" replicò lei, piano. Gli diede un
istante per riflettere, scrutandolo. Poi gli rivolse un pallido, fragile
sorriso. "Anch'io ti amo. Perciò non aspettarti da me meno di quanto non
mi aspetti io stessa." Nello stesso momento Kinson Ravenlock si
rivolgeva a Mareth. "Sarai pronta quando inizierà la battaglia?" le
domandò sottovoce. Lei lo guardò sorpresa. "Certo! Perché me lo
domandi?" "Dovrai usare la magia. Non sarà facile. Hai rivelato
chiaramente il disgusto che provi per essa." "E' vero" convenne Mareth,
accostandosi a lui e sfiorandogli la spalla. "Ma farò il mio dovere,
Kinson." Bremen si spostò in modo da fronteggiare il gruppo. "Vi
proteggerò con magia sufficiente a deviare il primo colpo, ma non posso
garantire altro. La mia forza è al limite. Risca e Mareth dovranno
sostenere tutti noi. Ciascuno badi all'altro, ma soprattutto badate al
re. Bisogna dargli un'opportunità di usare la Spada contro Brona. Tutto
dipende da questo." "Avrà la sua occasione" promise Risca, fermo proprio
di fronte al vecchio. "A Tay Trefenwyd dobbiamo almeno questo." Allora
si avviarono, Jerle Shannara in testa con Preia Starle al fianco, alla
loro destra Risca e alla sinistra Bremen. Allanon, Kinson Ravenlock e
Mareth li seguivano a qualche passo di distanza. Guardie Reali e
Cacciatori si allargarono ai lati. Più indietro veniva il resto
dell'esercito. Dalle alture, i Nani guardavano la scena. Ormai la luce
svaniva all'approssimarsi del tramonto, le ombre si allungavano e il
freddo della sera imminente strisciava nell'aria. Davanti a loro, nelle
pianure, le creature nella nebbia si mossero, pronte all'assalto. I lupi
grigi colpirono per primi, precipitandosi all'attacco in gruppi scuri,
azzannando e dilaniando Elfi e Nani delle prime file, per poi ritirarsi
rapidamente. Risca scagliò cortine di Fuoco Magico per respingere i più
vicini e subito fu assalito da altri. Gigantesche creature degli inferi
avanzarono pesantemente, spazzando via il fuoco e scostando le lame.
Troll delle Montagne si unirono alla battaglia, in formazioni serrate,
con le grandi picche abbassate a formare una fila di scintillanti punte
metalliche. Il fumo del Fuoco Magico si mischiò con la nebbia e una
foschia grigia avvolse l'intero campo di battaglia. Jerle Shannara
continuò ad avanzare, incolume. Nessuno gli si avvicinò: tutti i suoi
possibili assalitori lo scansavano. Il Signore degli Inganni ti aspetta,
gli mormorò una voce in fondo alla mente. Il Signore degli Inganni ti
vuole tutto per sé. I Troll delle Montagne impegnarono Kinson Ravenlock,
lo ricacciarono indietro, e l'uomo della Frontiera scomparve in una
confusione di robuste braccia e di gambe massicce. Il bastone di Mareth
mandò scintille di livida fiamma, ma la giovane non poteva usare il
fuoco, perché rischiava di colpire anche Kinson. Elfi Cacciatori si
precipitarono in aiuto e colpirono i Troll, poi altre creature si
unirono allo scontro e tutti furono inghiottiti nella mischia. Un
Messaggero del Teschio comparve per affrontare Jerle Shannara, ma si
spostò di lato e sfidò invece Bremen. "Vecchio!" sibilò, con torva
anticipazione. Allanon si pose davanti a Bremen per proteggerlo, sapendo
che il druido era sfinito e che la sua magia era quasi scomparsa. Ma
intervenne Risca e col fuoco colpì il Messaggero scagliandolo lontano in
un mucchio fumante. Il Nano si aprì la strada fin sul fronte
dell'attacco, gli abiti a brandelli per lo scontro con i lupi grigi, il
viso rigato di sangue. "Avanti!" ruggì, alzando l'ascia in segno di
sfida. Kinson si rialzò, ferito e intontito, roteando la spada contro i
Troll delle Montagne che tentavano di sopraffarlo. Guardie Reali e
Cacciatori dei Nani si misero spalla a spalla con l'uomo della Frontiera
e respinsero i nemici del Nord. Più avanti, gli scuri e serici teloni
dei carri s'incresparono nel turbinio della nebbia, simili a sudari di
morte. Jerle Shannara continuò ad avanzare. Adesso era solo, a parte
Preia. Bremen e Allanon erano rimasti indietro, Risca era sparito nella
mischia. Cacciatori degli Elfi e Guardie Reali saettavano nella nebbia,
ma il re occupava uno spazio dove nessuno pareva osasse entrare. La
foschia aveva aperto davanti a lui un corridoio, e Jerle vedeva una
sagoma scura avvolta nel mantello, ferma in fondo alla evanescente
galleria. Nell'ombra del cappuccio, due occhi rossi ardevano di rabbia e
di sfida. La sagoma era il Signore degli Inganni. Un braccio coperto
dalla veste si alzò e chiamò il re. Vieni a me, re degli Elfi. Vieni a
me. Più indietro, Bremen si affannava per raggiungere il re. Allanon lo
aiutava, gli forniva la spalla robusta a cui sorreggersi. Il vecchio
aveva evocato di nuovo il Fuoco Magico, attingendo alla forza del
fanciullo, ma era assai indebolito. Guardò il Signore degli Inganni
materializzarsi dalla nebbia, lo vide chiamare col gesto Jerle Shannara,
si sentì stringere la gola. Era in grado, il re, di sostenere quel
confronto o gli sarebbe venuta meno la determinazione? Il druido non lo
sapeva... non poteva saperlo. Il re capiva pochissimo dell'esigente
magia della Spada e forse, di fronte al suo potere, avrebbe vacillato.
C'era grande forza, in Jerle Shannara, ma anche incertezza. Quale delle
due avrebbe prevalso? Mareth aveva raggiunto Kinson e lo tirava fuori
dalla mischia, usando intanto il Fuoco Magico per respingere i Troll
delle Montagne. Spazzava il terreno davanti a sé e i guerrieri del Nord
si ritraevano di fronte alla sua furia. Kinson barcollò, mentre lei
cercava di reggerlo contro il proprio fianco: perdeva sangue da profonde
ferite al fianco e alle gambe, aveva un braccio penzoloni. "Va' avanti!"
le disse. "Proteggi il re!" Lo scontro era feroce. Urla feroci si
alzavano nella luce morente, si mischiavano al clangore delle armi, alle
esclamazioni degli uomini in lotta, ai gemiti dei moribondi. Macchie
scure di sangue si allargavano sul terreno cosparso di cadaveri in pose
innaturali. Un carro si rovesciò, e creature che parevano fatte di filo
di metallo si riversarono dal pianale rotto, sibilando come serpi
stuzzicate nel nido. Si lanciarono contro Bremen e Allanon e in un lampo
si strinsero attorno a loro. Erano piene di bitorzoli e prive di tratti
umani, il muso smussato e irregolare, come sagomato da una nascita
mostruosa. Si aprirono la strada fra le Guardie Reali che tentavano di
bloccarle e si lanciarono temerariamente all'attacco. Allanon cercò di
evocare il Fuoco Magico, ma non ebbe successo. Bremen, in ginocchio, a
testa bassa, era concentrato su Jerle Shannara e seguiva con l'occhio
della mente il re che avanzava nella nebbia. Per i due sarebbe stata la
fine, se non fosse intervenuto Kinson Ravenlock. Seguendo a fatica
Mareth, indebolito dalle ferite, si accorse dell'attacco che convergeva
sul vecchio e sul bambino. Reagì d'istinto: attinse alla fragile riserva
di energie che gli restava e si lanciò a difenderli. Li raggiunse
proprio mentre l'orda di filiformi creature superava l'opposizione della
Guardia Reale. Mosse in un ampio arco la grande spada e abbatté tre di
quelle creature. Poi caricò contro le rimanenti, scagliandole indietro,
martellandole di colpi. Denti e artigli lo lacerarono e sentì aprirsi
nuove ferite. Quelle creature erano troppe per lui: allora gridò a
Bremen e al fanciullo di scappare. L'attimo dopo fu sopraffatto e
gettato a terra. Comparendo in una vampata di Fuoco Magico, col bastone
che mandava lampi furiosi, Mareth lo salvò un'altra volta. Le creature
infernali si girarono ad affrontarla, ma il fuoco le ricacciò indietro
come se fossero state vecchie e deboli. Contrattaccarono, mentre altri
esseri si lanciavano contro Mareth e cercavano di farsi strada
attraverso il suo scudo di fiamma. Kinson tentò di mettersi in piedi, ma
fu ricacciato nella mischia. Comparvero gruppi di Guardie Reali, di
Nani, di Troll delle Montagne e di creature mostruose: per un momento
parve che tutti i soldati dei due eserciti convergessero su quel punto
del campo di battaglia. Più avanti, nascosto da una muraglia di nebbia,
Jerle Shannara avanzava contro il Signore degli Inganni. A ogni passo
del re degli Elfi, Brona si era ingrandito e ora pareva enorme. La sua
sagoma tenebrosa bloccava la luce in fondo alla galleria e i suoi occhi
ardevano di disprezzo. Intorno a lui, nella nebbia, comparivano e
scomparivano le creature che lo difendevano. Jerle sentì vacillare la
propria fiducia. Vide qualcosa scaturire dalla nebbia e strappargli dal
fianco Preia. Si girò di scatto per soccorrerla, ma Preia era già
scomparsa, inghiottita dal buio. Jerle mandò un grido di paura e di
rabbia, poi udì la voce di Preia mormorargli all'orecchio, pressante, e
si sentì afferrare il braccio; capì allora che lei non l'aveva mai
lasciato: ciò che aveva visto era solo un'illusione. Risuonò la risata
del Signore degli Inganni, maligna e sorniona. Vieni a me, re degli
Elfi! Vieni a me! Preia inciampò e cadde. Jerle si chinò per
sorreggerla, senza distogliere lo sguardo dalla tenebrosa figura più
avanti, ma Preia lo respinse. "Lasciami" disse. "No!" replicò subito
lui, rifiutandosi di ascoltarla. "Ti sono solo d'impaccio, Jerle. Ti
rallento e basta." "Non ti lascio!" Preia allungò la mano verso il viso
di Jerle, e lui sentì il sangue sulle mani di lei, tiepido e scivoloso.
"Non mi reggo in piedi. Perdo troppo sangue per continuare. Devo
fermarmi, Jerle. Devo aspettare qui il tuo ritorno. Ti prego. Lasciami."
Lo guardò con fermezza, dritto negli occhi, il viso cereo alterato dalla
sofferenza. Lentamente Jerle si raddrizzò e si staccò da lei,
sforzandosi di trattenere le lacrime. "Tornerò a prenderti" promise. La
lasciò distesa sul fianco, sollevata sul gomito, la corta spada nella
mano libera. Mosse solo qualche passo, poi si girò a controllare che
stesse bene. Lei gli fece cenno di proseguire. Quando Jerle si girò a
guardare una seconda volta, Preia era scomparsa. Kinson Ravenlock era
riuscito a rimettersi in piedi e cercava di usare la spada contro la
folla di nemici che minacciava di travolgere Mareth, quando ricevette un
colpo così terribile che cadde a terra ansimando. Mareth si girò verso
di lui e in quel momento fu assalita da un lupo gigantesco. Il lupo le
fu addosso prima che potesse usare il Fuoco Magico e la colpì con forza
tale da farle perdere la presa sul bastone. Mareth cadde e il lupo
spalancò le fauci. Kinson udì il suo grido e cercò disperatamente di
accorrere in suo aiuto, ma le gambe non gli risposero. Rimase lì a
sputare sangue, col respiro affannoso, sentendosi scivolare
nell'incoscienza. Poi il Fuoco Magico esplose da Mareth e divampò in
tutte le direzioni. Il lupo rimase incenerito. Chi si trovava nel raggio
di dieci passi fu consumato. D'istinto Kinson si coprì la testa, ma il
fuoco gli strinò il viso e le mani, gli risucchiò l'aria che cercava di
respirare. L'uomo della Frontiera gridò disperato e per lui ogni cosa
svanì in un'esplosione di fiamme. Nella galleria di nebbia che conduceva
al Signore degli Inganni, Preia Starle vide un Messaggero del Teschio
emergere dal buio e avanzare verso di lei. Jerle non era più visibile.
Preia avrebbe potuto chiamarlo, ma non volle. Con grande sforzo si alzò
sulle ginocchia, ma non riuscì ad andare oltre. Si sentì straziare dalla
frustrazione. Eppure aveva scelto lei di venire. Guardò il mostro
avvicinarsi e tenne davanti a sé la spada per difendersi. Avrebbe avuto
una sola opportunità di colpire... e forse il colpo non sarebbe comunque
bastato. Respirò a fondo, rimpiangendo di non avere la forza per
reggersi in piedi. Il Messaggero del Teschio sibilò contro di lei e
mosse le grandi ali coriacee, battendole piano contro la schiena
gibbosa. "Piccolo elfo" bisbigliò di piacere, i rossi occhi luccicanti.
Si protese ad afferrarla e lei alzò la spada per colpire. Jerle Shannara
aveva ridotto a meno di dieci metri la distanza che lo separava dal
Signore degli Inganni. Vide la sagoma scura avvolta nel mantello
cambiare sotto i suoi occhi come se facesse parte della nebbia che
turbinava intorno a loro. Nell'ombra del cappuccio gli occhi ardevano di
feroce determinazione. Non si vedeva niente di ciò che era rimasto di
Brona. Il Signore degli Inganni si librava al di sopra del terreno, come
privo di peso... un guscio vuoto. La sua voce, strana e irresistibile,
continuava a chiamare il re degli Elfi. vieni a me. vieni a me. Jerle
Shannara avanzò. Sollevò la Spada, il talismano che aveva portato per
quel confronto, la magia che non sapeva come usare, e avanzò per dare
battaglia. Un lampo scaturì dalla lama, danzò sulla levigata superficie,
scomparve nel corpo del re degli Elfi. Jerle vacillò, mentre la luce
penetrava in lui, pulsante d'energia. Fu avviluppato da una sensazione
di calore che gli si diffuse dal petto agli arti. Sentì il calore
tornare nella Spada portando con sé una parte di lui stesso e unendola a
essa, in modo che lui fu tutt'uno con la lama. La fusione avvenne così
rapidamente da concludersi prima che Jerle potesse pensare di fermarla.
Guardò stupito la Spada, ora estensione di se stesso, e poi la scura
sagoma che aveva davanti, e poi il mondo di nebbia e di ombre che
lentamente iniziava a ritirarsi. Allora sprofondò in se stesso,
risucchiato da una forza a cui non poteva resistere. Divenne minuscolo,
mentre il mondo circostante s'ingigantiva, e presto si ridusse a un
insignificante corpuscolo in un vasto universo brulicante di vita. Si
vide com'era, quasi privo di sostanza, poco più di un granello di
polvere. Era trasportato dal vento per tutto il mondo che era e che
sarebbe stato, rivelato nella sua interezza in un vasto arazzo che si
estendeva più in là di quanto lui avrebbe mai pensato di vedere o di
percorrere. Quella era la sua essenza, capì. Quello era il suo valore
nel più vasto disegno delle cose. Poi il mondo che sorvolava parve
cambiare pelle e quanto prima era vivido e perfetto divenne scuro e
difettoso. Tutti gli orrori e i tradimenti di tutte le creature
dall'inizio del tempo sfolgorarono in minuscoli frammenti di
rivelazione. Jerle si ritraeva dal dolore e dallo sgomento che sentiva
per ognuno, ma non aveva modo di sfuggire. Quella era la verità delle
cose: la verità che, come aveva appreso, la Spada gli avrebbe rivelato.
Rabbrividì per la sua vastità, per la profondità e l'ampiezza delle sue
permutazioni. Restò inorridito e vergognoso, spogliato delle proprie
illusioni, costretto a vedere il mondo e le sue genti per ciò che erano.
Capì in quell'istante che poteva fallire nel suo proposito. Ma le
immagini si ritrassero, il mondo si ottenebrò, e per un momento lui fu
di nuovo immerso nella nebbia, impietrito di fronte alla torreggiante
sagoma del Signore degli Inganni, mentre la Spada di Shannara brillava
di luce bianca. Aiutami, pregò Jerle, senza rivolgersi a nessuno, perché
era solo. La luce lo riempì di nuovo e di nuovo il mondo di nebbia e
ombre svanì. Di nuovo Jerle Shannara sprofondò in se stesso e stavolta
si trovò a faccia a faccia con la verità della sua stessa vita. Con
inesorabile determinazione la verità si dispiegò davanti a lui, immagine
dopo immagine, un vasto mosaico di esperienze e di eventi. Ma le
immagini non erano quelle delle cose che lui avrebbe voluto vedere;
erano quelle di ciò che avrebbe volentieri dimenticato, sepolto nel
proprio passato. Non c'era niente, in quelle immagini, di cui fosse
orgoglioso, niente che si fosse augurato di rivedere. Menzogne, mezze
verità e inganni si levarono come fantasmi. Lì c'era il vero Jerle
Shannara, la creatura difettosa e imperfetta, debole e insicura,
insensibile e piena di falso orgoglio. Vide il peggio di ciò che aveva
fatto nella vita. Vide le delusioni che aveva inflitto, gli aiuti
negati, le sofferenze causate. Quante volte non era riuscito a fare ciò
che andava fatto! Quante volte era stato ingiusto! Cercò di guardare da
un'altra parte. Cercò di fermare lo scorrere delle immagini. Sarebbe
fuggito da ciò che gli veniva mostrato, se avesse potuto impedire alla
magia della Spada di manifestarsi. Quelle erano verità che non era in
grado di affrontare, di un'asprezza tale da mettere a repentaglio la sua
stessa sanità mentale. Forse emise un grido di disperazione... non
avrebbe saputo dirlo. Si rese conto in quel momento del terribile potere
della verità e capì perché Bremen fosse così preoccupato per lui. Non
aveva la forza per sopportare quell'esperienza, non aveva la risolutezza
necessaria. La Spada di Shannara non era per lui. Era stato un errore,
tenerla. Tuttavia non cedette interamente di fronte a ciò che gli veniva
mostrato, nemmeno quando le immagini riguardarono Tay Trefenwyd e Preia
Starle rivelando la profondità della loro amicizia. Si costrinse a
guardare, ad accettare la verità, a scusarsi per la propria gelosia.
Così facendo, sentì aumentare la propria forza. Si scoprì a pensare che
forse quella era davvero un'arma da usare contro il Signore degli
Inganni, creatura che aveva basato sull'illusione tutta la propria vita.
Quale prezzo avrebbe dovuto pagare, Brona, quando avesse scoperto di
essere fatto delle paure degli uomini, un miraggio che poteva svanire
con un semplice cambiamento della luce? Forse era tanto deforme che in
lui non rimaneva niente della sua natura umana, della sua carne e del
suo sangue, delle sue capacità emotive e razionali. Forse per lui la
verità era un anatema. Le immagini si affievolirono e la luce morì.
Jerle Shannara vide l'aria davanti a sé schiarirsi e la scura sagoma del
Signore degli Inganni materializzarsi ancora una volta. Quanto tempo
aveva impiegato la magia per rivelarglisi? Da quanto tempo era lì
impietrito? Ora la sagoma coperta dal mantello avanzò, diminuendo
implacabilmente la distanza che li separava. La voce del Signore degli
Inganni sibilò. Ondate di nausea colpirono in rapida successione il re
degli Elfi, martellarono la fermezza dei suoi propositi, oltrepassarono
la barriera della sua forza fisica per prosciugargli dal cuore il
coraggio. Vieni a me. Vieni a me. Jerle Shannara si vide come una
nullità, inerme davanti al mostro che doveva affrontare. Il potere del
Signore degli Inganni era enorme e terrificante, tanto che nessun uomo
avrebbe potuto prevalere su di esso. Un potere così immutabile che
nessuna magia avrebbe potuto sconfiggere. La voce bisbigliava con
insistenza. Deponi la spada. Vieni a me. Non sei nessuno. Vieni a me. Ma
il re degli Elfi si era già visto ridotto alla propria essenza, aveva
visto la parte peggiore di se stesso, e mentre il Signore degli Inganni
gli si avvicinava, nemmeno la terribile disperazione da cui era
straziato bastò a sviarlo. Ora non aveva paura della verità. Alzò
davanti a sé la Spada, un lucido filo d'argento nel buio, e gridò:
"Shannara! Shannara!". Calò la Spada, schiantando le difese del Signore
degli Inganni, distruggendo la sua magia, penetrando nella figura
avvolta dal mantello. Il Signore degli Inganni rabbrividì, cercò
disperatamente di parare il colpo. Ma ora la luce della Spada pulsava
nelle tenebre avviluppate dentro quel mantello e la verità che rivelava
le squarciava. Il Signore degli Inganni indietreggiò di un passo, poi di
un altro. Jerle lo incalzò, contrastato dalla furia e dall'odio che
emanavano dall'avversario, ma implacabile nella sua determinazione. Il
Signore degli Inganni sarebbe morto quel giorno. Le braccia nascoste
dalla veste si protesero verso di lui e una mano scheletrica puntò il
dito, con fredda risolutezza. Come puoi giudicarmi? L'hai lasciata
morire! L'hai abbandonata per questo scontro! L'hai uccisa! Jerle
Shannara sobbalzò e vide le crude immagini di Preia Starle, inerme,
distesa sul terreno, sanguinante e ferita, mentre un Messaggero del
Teschio protendeva verso di lei gli artigli snudati. Moribonda per colpa
mia, pensò Jerle, inorridito. Perché l'ho abbandonata. La voce del
Signore degli Inganni incalzò. E il tuo amico, re degli Elfi. Alla Fauce
Magna. E' morto per te! Hai lasciato che morisse per te! Jerle Shannara
urlò d'angoscia e di rabbia. Mulinando la Spada come avrebbe usato
un'arma normale, vibrò un fendente contro il Signore degli Inganni,
facendo appello a tutte le sue forze. La Spada tagliò dall'alto in basso
le vesti scure, ma la luce che emanava dalla lama tremolò, come colpita.
Il Signore degli Inganni si accartocciò, la sua voce piena di odio si
ridusse a un bisbiglio di disperazione, le vesti scure caddero in un
mucchio. Dietro di lui rimase una presenza vaga che fuggì all'istante
nella nebbia. Il re degli Elfi s'irrigidì nel silenzio e fissò l'aria
davanti a sé, poi le vesti vuote, con occhi pieni d'incertezza e di
domande senza risposta. Mareth era in piedi, da sola, in un tratto di
terreno bruciato e annerito dalla sua magia. Alla fine il Fuoco Magico
si era consumato e lei riusciva di nuovo a tenere a freno il suo potere.
Cadaveri giacevano da ogni parte e un silenzio irreale era sospeso come
un drappo funebre sul campo di battaglia. Scrutò la foschia e vide che
iniziava a diradarsi. Si udiva un lungo, basso gemito di angoscia, una
cacofonia di voci disperate. Dalla nebbia si levarono spettri privi di
sostanza, scure immagini messe in risalto dall'ultima luce del giorno,
informi e vaganti. Erano gli spiriti dei morti? Si levarono nel rosso
del tramonto e scomparvero come se non fossero mai esistiti. I corpi dei
Messaggeri del Teschio si mutarono in cenere, le creature infernali
svanirono e i lupi fuggirono ululando nelle pianure deserte. E' finita,
pensò Mareth, sbalordita e incredula. La nebbia ribollì, diventò più
luminosa, svanì. Il campo di battaglia apparve in piena vista, un
mattatoio disseminato di morti e feriti, insanguinati e ustionati e
massacrati. Al centro c'era il re degli Elfi, con la spada abbassata e
gli occhi fissi nel vuoto. Mareth raccolse il bastone perduto nella
lotta. Allora vide Risca, disteso in mezzo a un grappolo di cadaveri di
nemici. Aveva ricevuto tante ferite da avere gli abiti inzuppati del suo
stesso sangue. C'era un'espressione di stupore negli occhi sbarrati:
pareva sorpreso che il destino così spesso sfidato l'avesse infine
reclamato. Quando era caduto? Non se n'era accorta. Guardò altrove.
Kinson Ravenlock giaceva qualche passo dietro di lei: il suo petto si
alzava e si abbassava debolmente. Poco più in là erano accovacciati
Bremen e il fanciullo. Mareth incrociò lo sguardo del druido e per un
istante rimasero a fissarsi. Pensò per quanto tempo e con quanta fatica
l'aveva cercato, quanto avesse sacrificato per divenire lei stessa un
druido e quale prezzo aveva dovuto pagare. Lei e Bremen. Erano il
passato e il presente, il druido al crepuscolo e il druido in divenire.
Tay Trefenwyd era morto. Risca giaceva lì, morto anche lui. Bremen era
vecchio. Presto lei sarebbe stata l'ultima del loro ordine, l'ultima dei
Druidi. Distolse lo sguardo da Bremen e raccolse il bastone. Lo strinse
come se fosse appesantito dalla responsabilità di ciò che lei era e il
suo sguardo vagò con disperazione sopra il campo di battaglia. Aveva le
lacrime agli occhi. Finisca pure qui, si disse. Gettò lontano il bastone
e si chinò a prendere fra le braccia Kinson.
34
Quel giorno, Jerle Shannara salvò la vita della sua regina: infatti,
sconfiggendo il Signore degli Inganni, sconfisse anche i Messaggeri del
Teschio, compreso quello che minacciava Preia. Non potendo più attingere
al potere del Signore degli Inganni, l'assalitore di Preia svanì,
semplicemente. Preia si riprese dalle ferite e tornò con Jerle nelle
Terre dell'Ovest. Insieme regnarono sul popolo degli Elfi per molti
anni. Non combatterono altre battaglie perché non se ne presentò più la
necessità. Invece dedicarono le proprie energie a imparare come si
governa un mondo sempre più complicato ed esigente. Grazie ai consigli
di Vree Erreden, riuscirono a padroneggiare l'arte di governare. Ebbero
tre figlie e quando, molti anni dopo, Jerle Shannara morì, gli successe
il maggiore dei Ballindarroch che avevano adottato. La discendenza di
Shannara si moltiplicò e durò per più di duecento anni. La Spada di
Shannara fu portata dal re fino alla morte. Il suo successore la portò
per un certo periodo, poi dispose che fosse inserita in un blocco di
pietra, portata a Paranor e conservata nella Fortezza dei Druidi. Kinson
Ravenlock sopravvisse alle ferite e si riprese dopo settimane di
convalescenza nell'avamposto di Tyrsis, appena fondato. Mareth rimase al
suo fianco e si prese cura di lui; quando Kinson si fu ristabilito,
andarono insieme a ponente, lungo il Mermidon, e si fermarono in
un'isola boscosa all'ombra dei Denti del Drago, dove stabilirono la loro
casa. Vissero insieme e dopo un certo tempo si sposarono. Coltivarono la
terra, poi aprirono una stazione commerciale inaugurando così una via
mercantile lungo il fiume. Altri lasciarono le Terre di Frontiera per
unirsi a loro e ben presto si trovarono al centro di una fiorente
comunità. Col passare degli anni l'insediamento sarebbe divenuto la
città di Kern. Mareth non usò più la magia per la causa dei Druidi.
Dedicò invece il proprio talento alla cura delle malattie e fu molto
ricercata in tutte le Quattro Terre. Dopo il matrimonio prese il nome di
Kinson e il suo venne dimenticato. Kinson si preoccupò a lungo per lei,
pensando che la sua magia si sarebbe di nuovo scatenata, che avrebbe
sopraffatto il suo proposito, ma questo non avvenne. Kinson e Mareth
ebbero numerosi figli e, molto tempo dopo la loro morte, un loro
discendente avrebbe avuto una parte di rilievo in un'altra battaglia
contro il Signore degli Inganni. Raybur sopravvisse e tornò a casa
insieme con i Nani per iniziare l'impegnativa impresa di ricostruire
Culhaven e le altre città distrutte dall'esercito del Nord. Portò con sé
la salma di Risca e la seppellì nei rifatti Giardini di Vita, in alto su
un promontorio da dove si ammirava il Fiume Argento scorrere per miglia
nelle foreste dell'Anar. L'esercito del Nord fu praticamente annientato,
quel giorno nelle Streleheim. I Troll e gli Gnomi che avevano fatto in
tempo a fuggire dalla Valle di Rhenn tornarono in patria. Il potere del
Signore degli Inganni era infranto e le Razze a nord e a est iniziarono
la dolorosa ricostruzione della loro vita distrutta. Le nazioni dei
Troll e degli Gnomi, tribali per natura, si tennero separate dalle altre
Razze e per un certo periodo ebbero con esse scarsi contatti. Trascorse
più d'un centinaio d'anni prima che fra vincitori e vinti si stabilisse
di nuovo una forma di uguaglianza e i commerci riprendessero su una base
di parità. Bremen scomparve subito dopo la battaglia finale. Nessuno lo
vide andar via. Nessuno sapeva dov'era andato. Salutò Mareth e, per suo
tramite, Kinson, ancora privo di conoscenza. Disse alla giovane che non
si sarebbero più rivisti. In seguito corse voce che fosse tornato a
Paranor per trascorrervi gli ultimi anni di vita. Kinson pensò qualche
volta di mettersi alla sua ricerca per scoprire la verità, ma ogni volta
lasciò perdere. Jerle Shannara lo vide ancora una volta, meno di un mese
dopo la battaglia della Valle di Rhenn, a tarda notte e solo per pochi
minuti, quando il vecchio andò ad Arborlon per portar via in gran
segreto la Pietra Nera. Parlarono sottovoce del talismano, come se le
parole risultassero insopportabili e la semplice menzione della magia
nera atterrisse la loro anima. Dopo quella volta, più nessuno vide
Bremen. Anche Allanon scomparve. A poco a poco il mondo tornò com'era
prima e il ricordo del Signore degli Inganni svanì. Trascorsero tre
anni. In un giorno di fine estate, tiepido e luminoso, un vecchio e un
giovane risalirono le prime alture dei Denti del Drago diretti alla
Valle d'Argilla. Bremen era raggrinzito e curvo per gli anni, aveva
perduto l'agilità di movimenti e l'acutezza di vista. Allanon aveva
quindici anni, si era fatto più alto e robusto, aveva spalle ampie,
braccia e gambe lunghe e snelle e forti. Già si avvicinava all'età
virile, cominciava a mostrare in viso l'ombra scura della barba e la
voce gli era diventata bassa e profonda. Ormai era quasi pari a Bremen,
nell'uso della magia druidica. Ma nell'ultimo viaggio insieme era il
vecchio a fare strada e il giovane lo seguiva. Per tre anni Allanon si
era addestrato alla scuola di Bremen. Il vecchio aveva accettato che
alla propria morte gli succedesse e fosse l'ultimo dei Druidi. Tay e
Risca erano morti, Mareth aveva scelto un'altra strada. Allanon era
giovane, ma ansioso d'imparare e fin dal principio era stato chiaro che
possedeva la determinazione e la forza necessarie per diventare ciò che
doveva. In quei tre anni Bremen lavorò con lui ogni giorno,
insegnandogli tutto ciò che sapeva della magia dei Druidi e dei segreti
del loro potere, dandogli la possibilità di fare esperimenti e scoperte.
Allanon era deciso in questo come in tutte le altre cose, quasi fin
troppo risoluto, smanioso di riuscire. Era intelligente e intuitivo,
inoltre la sua precognizione non diminuiva con la crescita. Di frequente
vedeva ciò che a Bremen restava nascosto e con la sua acutezza mentale
afferrava possibilità di cui perfino il vecchio druido non si era
accorto. Si trattenne con Bremen a Paranor, lontano dal mondo, a
studiare gli Annali dei Druidi e a sperimentare le lezioni riportate
dagli antichi volumi. Bremen usò la magia per nascondere a tutti la loro
presenza nella Fortezza abbandonata. Nessuno venne a disturbarli.
Nessuno cercò d'intromettersi. Bremen rifletté spesso sul Signore degli
Inganni e sugli eventi che avevano portato alla sua sconfitta. Ne parlò
col giovane, informandolo di tutto ciò che era successo: la distruzione
dei Druidi, la ricerca della Pietra Nera, la fabbricazione della Spada
di Shannara, la battaglia per il Rhenn. Espose oralmente i particolari
ad Allanon e poi li trascrisse negli Annali dei Druidi. Nel suo intimo
si preoccupava del futuro. Cominciava a perdere le forze, si
approssimava al termine della vita. Non avrebbe visto il completamento
del proprio lavoro: sarebbe toccato ad Allanon e a coloro che gli
sarebbero succeduti Ma pareva davvero insufficiente! Non gli bastava
augurarsi che il giovane e i suoi successori tirassero avanti senza di
lui. La responsabilità era sua e sua era la mano indispensabile per il
completamento dell'opera. Così quattro giorni prima aveva chiamato a sé
il giovane e gli aveva detto che le lezioni erano terminate. Avrebbero
lasciato Paranor e sarebbero andati al Perno dell'Ade per un'ultima
visita agli spiriti dei morti. Prepararono le provviste e all'alba
lasciarono la Fortezza. Prima di partire, Bremen evocò la magia che
proteggeva le mura di Paranor e sigillava la rocca. Dalle profondità del
Pozzo dei Druidi si levò l'antica magia che lì viveva, e sgorgò in un
turbine di malevola luce verdastra. Prima che il giovane e il vecchio si
allontanassero al sicuro, Paranor già luccicava dell'umida lucentezza di
un miraggio, si liquefaceva lentamente nella luce del sole, scompariva
nell'aria. Da quel momento sarebbe ricomparsa a intervalli regolari, a
volte nella luminosità del mezzogiorno, a volte nel cuore della notte,
ma non sarebbe mai durata. Il giovane rimase in silenzio, mentre
giravano le spalle a Paranor e s'inoltravano fra gli alberi, ma il
vecchio gli lesse negli occhi che aveva capito cosa accadeva. Al
tramonto si avvicinarono all'ingresso della Valle d'Argilla e si
accamparono all'ombra dei Denti del Drago. Cenarono in silenzio, mentre
il buio s'infittiva e le stelle si accendevano, luminose. Verso
mezzanotte si alzarono, andarono al limitare della valle e guardarono in
basso la nera conca di ossidiana. Il Perno dell'Ade luccicava al
chiarore delle stelle, placido e indisturbato. Nessun rumore giungeva
dalla valle. Niente si muoveva sul suo terreno irregolare. "Stanotte ti
lascerò" disse infine il vecchio druido. Il giovane annuì, ma restò in
silenzio. "Sarò qui, quando avrai di nuovo bisogno di me." Esitò. "Per
qualche tempo non accadrà, penso. Ma quando accadrà, sarà questo il
posto dove tu verrài." Il giovane lo guardò, incerto. Notando la
confusione nei suoi occhi, Bremen sospirò. "Devo dirti ora una cosa che
non ho mai detto a nessuno, neppure allo stesso Jerle Shannara. Siedi
qui accanto a me e ascolta." Si sedettero sul tappeto di roccia
frantumata, solitarie figure messe in rilievo dal lucore delle stelle.
Il vecchio rimase in silenzio per qualche momento, con aria preoccupata,
cercando le parole giuste. "Jerle Shannara ha fallito il tentativo di
distruggere il Signore degli Inganni" disse infine. "Quando ha esitato
nell'usare la Spada, quando si è lasciato distrarre dal dubbio e dalla
recriminazione, ha consentito a Brona di sfuggirgli. So del suo
fallimento perché, pur indebolito per avere usato la magia, con l'occhio
della mente ho seguito il re e ho assistito allo scontro. L'ho visto
esitare all'ultimo momento, poi ho visto il suo tentativo di usare il
talismano come un'arma normale, dimenticandosi dei miei ammonimenti a
fidarsi soltanto della magia. Ho visto ombre tenebrose levarsi dalla
nebbia, mentre gli abiti del Signore degli Inganni cadevano in un
mucchietto sotto il colpo finale della Spada, e ho capito subito cosa
significava. La magia aveva privato della loro sostanza il Signore degli
Inganni e i suoi Messaggeri, li aveva costretti a diventare di nuovo
spiriti tenebrosi e a fuggire nell'etere... li ha sconfitti e cacciati,
ma non distrutti." Scosse la testa. "Non c'è motivo di rivelarlo al re.
Non servirebbe a niente. Jerle Shannara è un campione coraggioso e pieno
di risorse. Ha superato i propri dubbi e la propria paura per usare la
magia dei Druidi contro il più formidabile nemico nella storia delle
Quattro Terre. L'ha fatto pur trovandosi nelle peggiori condizioni e
nelle più dolorose circostanze; in tutti i modi, tranne uno, ha avuto
successo nel realizzare ciò che da lui ci si aspettava. E' sufficiente
che abbia sconfitto il Signore degli Inganni e l'abbia scacciato dalle
Quattro Terre. E' sufficiente che la magia della Spada di Shannara abbia
diminuito il potere del druido ribelle al punto che trascorreranno
secoli prima che possa riprendere forma. Nello schema delle cose c'è
tempo sufficiente per prepararsi al momento in cui ciò avverrà. Jerle
Shannara ha fatto del suo meglio, e penso che tu debba lasciare le cose
come stanno." I suoi occhi invecchiati si posarono su Allanon. "Ma tu
devi essere al corrente del suo fallimento, perché sei colui che deve
stare attento alle conseguenze. Brona è ancora vivo e un giorno tornerà.
Io non ci sarò per affrontarlo. Dovrai farlo tu al posto mio... se non
tu, un altro come te, uno che tu sceglierai come io ho scelto te." Seguì
un lungo silenzio, mentre si fissavano nella morbida oscurità che tutto
avvolgeva. Bremen scosse la testa, con aria d'impotenza. "Se ci fosse un
altro modo, lo sceglierei." Si sentiva a disagio, parlandone, come se
cercasse una scusa per cambiare idea pur sapendo che non l'avrebbe
cambiata. "Mi piacerebbe restare ancora con te, Allanon. Ma sono vecchio
e mi accorgo di diventare ogni giorno più debole. Mi sono mantenuto
integro finché ho potuto, ma il Sonno Magico non basta più. Devo
assumere un'altra forma, per esserti utile. Capisci cos'ho detto?" Il
giovane lo fissò. "Capisco" rispose. Esitò e cambiò espressione.
"Sentirò la tua mancanza, padre." Il vecchio annuì. Ora il giovane lo
chiamava così. Padre. Il giovane l'aveva adottato come padre e pareva
giusto che l'avesse fatto. "Anch'io sentirò la tua mancanza" rispose
piano. Continuarono a parlare di ciò che sarebbe accaduto, del passato e
del futuro e dell'inestricabile legame che univa l'uno all'altro.
Condivisero i ricordi del loro periodo insieme, ripeterono i giuramenti
fatti, elencarono le lezioni che avrebbero avuto importanza negli anni a
venire. Poi, mentre la notte si consumava e l'alba si avvicinava,
entrarono insieme nella Valle d'Argilla. Col rinfrescarsi dell'aria si
era formata una nebbiolina che ora copriva come un sudario la vallata,
ammantandola di un'oscurità scintillante, schermando l'argentea luce
delle stelle. I loro stivali facevano scricchiolare i sassi e i loro
cuori battevano per l'eccitazione. Sentivano il calore emanato dai loro
corpi, mentre faticavano per discendere il pendio della vallata e poi ne
percorrevano il fondo, diretti al lago. Il Perno dell'Ade luccicava come
ghiaccio nero, liscio e immobile. Neppure la più piccola increspatura
segnava la superficie simile a specchio. Quando furono a tre passi dal
bordo scuro, Bremen estrasse dalla veste la Pietra Nera e la diede al
giovane. "Tienila al sicuro per quando tornerai alla Fortezza" lo
ammoni. "Non dimenticare ciò che ti ho detto sul suo potere. Sii
prudente." "Te lo prometto" gli assicurò Allanon. E' così giovane, pensò
a un tratto il vecchio druido; gli chiedo di assumersi un compito enorme
e lui è così giovane. Suo malgrado fissò Allanon, come per scoprire
qualcosa che gli era sfuggito, qualche particolare del suo carattere che
potesse rassicurarlo. Poi gli girò le spalle. Aveva fatto il possibile
per prepararlo. Doveva bastare. Andò da solo al bordo del lago e fissò
le acque scure. Chiuse gli occhi, chiamò a raccolta le proprie energie
per ciò che andava fatto e usò la magia dei Druidi per evocare gli
spiriti dei morti. Gli spiriti giunsero in fretta, come se prevedessero
la sua chiamata, come se l'avessero attesa. I loro gemiti si levarono
nel silenzio, la terra tremò e l'acqua ribollì come in una caldaia posta
sul fuoco. Il vapore sibilò e voci bisbigliarono e gemettero nelle buie
profondità. A poco a poco gli spiriti spuntarono dalla nebbiolina e
dagli spruzzi dal mulinello di tenebra, dal clamore di gemiti dolorosi.
A uno a uno comparvero, prima le minuscole e argentee sagome degli
spiriti minori, poi quella più grossa e scura di Galaphile. Allora
Bremen si girò e guardò il punto dove Allanon aspettava. Vide in
quell'istante i particolari della quarta visione di Galaphile, quella
che per tanto tempo non aveva capito: se stesso fermo davanti alle acque
del Perno dell'Ade; l'ombra di Galaphile che s'appressava tra la nebbia
e il turbinio degli spiriti perduti; e Allanon che assisteva alla scena,
con occhi colmi di tristezza. L'ombra avanzò con decisione: una presenza
implacabile, più nera della notte in cui si muoveva. Camminò sopra le
acque come su solido terreno, avanzò verso il punto dove Bremen
aspettava. Il vecchio, irrigidito e consumato nel corpo, protese la mano
per salutare lo spirito. "Sono pronto" disse piano. L'ombra lo prese fra
le braccia e lo portò con sé sulle acque del Perno dell'Ade e poi giù,
nelle profondità del lago. Allanon rimase solo sulla riva a guardare in
silenzio. Non si mosse, mentre l'acqua tornava immobile. Rimase lì,
anche quando il buio cominciò a svanire e il sole fece capolino dalle
creste dei Denti del Drago. Sotto le vesti scure stringeva con forza la
Pietra Nera. Il suo sguardo era duro e deciso. Quando il sole salì
scacciando dalla valle le ultime ombre, girò le spalle al lago e si
allontanò.
Fine testo.