programma di sala - Società del Quartetto di Milano

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programma di sala - Società del Quartetto di Milano
Domenica
25 maggio 2014
ore 20.30
21
Stagione
2013-2014
Sala Verdi del
Conservatorio
Krystian Zimerman
pianoforte
Beethoven
- Sonata n. 30 in mi maggiore op. 109
- Sonata n. 31 in la bemolle maggiore op. 110
- Sonata n. 32 in do minore op. 111
Di turno
Franca Cella
Lodovico Barassi
Consulente artistico
Paolo Arcà
Sponsor istituzionali
Stagione
2013-14
Con il contributo di
Con il patrocinio e il contributo di
Soggetto di rilevanza regionale
Sponsor Ciclo Beethoven
Progetto
“Verso il futuro,
dal nostro
passato”
Con il patrocinio di
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È vietato, senza il consenso dell’artista, fare fotografie e registrazioni,
audio o video, anche con il cellulare.
Iniziato il concerto, si può entrare in sala solo alla fine di ogni composizione.
Si raccomanda di:
• disattivare le suonerie dei telefoni e ogni altro apparecchio con dispositivi acustici;
• evitare colpi di tosse e fruscii del programma;
• non lasciare la sala fino al congedo dell’artista.
Il programma è pubblicato sul nostro sito web il venerdì precedente il concerto.
Ludwig van Beethoven
(Bonn 1870 - Vienna 1827)
Sonata n. 30 in mi maggiore op. 109 (ca. 18’)
I. Vivace, ma non troppo - Prestissimo II. Gesangvoll, mit innigster
Empfindung (Cantabile, con intimo sentimento). Tema con Variazioni I - VI
Sonata n. 31 in la bemolle maggiore op. 110 (ca. 19’)
I. Moderato cantabile molto espressivo II. Allegro molto
III. Adagio ma non troppo - Fuga. Allegro ma non troppo
Sonata n. 32 in do minore op. 111 (ca. 27’)
I. Maestoso - Allegro con brio ed appassionato
II. Arietta. Adagio molto semplice e cantabile
Anno di composizione: 1819-1820, 1821, 1821-1822
Anno di pubblicazione: Berlino, 1822 (separatamente)
Il 20 luglio 1817 Beethoven scriveva all’amica Nannette Streicher, in villeggiatura a Baden: «Se le capitasse di andare alle vecchie rovine, pensi a Beethoven
che si è soffermato spesso in quel luogo, o di vagare per gli appartati boschi di
abeti, pensi che lì Beethoven ha spesso poetato, o come s’usa dire composto». In
questa lettera, come in altre occasioni, Beethoven manifesta l’idea che la musica nasca dalla stessa radice della poesia. Un lavoro artistico, nella sua mente,
rappresentava un organismo poetico unico, nel senso illustrato dall’estetica di
Kant. Nessun musicista, prima di Beethoven, era riuscito a esprimere in maniera così piena la profondità di un tale pensiero. Nella musica di Mozart o Haydn,
a prescindere dal valore artistico, si percepisce sempre il riferimento a un genere, a qualcosa che trascende l’espressione individuale. Beethoven invece, nei
lavori maggiori, tende a formare ogni volta un mondo a se stante, separato dal
precedente, figlio di una singola idea poetica. Questo carattere soggettivo
diventa sempre più marcato nella produzione di Beethoven, fino a culminare
nelle possenti opere degli anni Venti. La loro unicità si manifesta in maniera
così assoluta, che ciascun lavoro richiede non solo uno stile individuale, ma
anche una forma espressiva di volta in volta reinventata. Le ultime tre Sonate
per pianoforte, scritte tra il 1820 e il 1822, non sfuggono a questa necessità.
Nel 1820, durante il lavoro per la Missa Solemnis, Beethoven torna a scrivere
per pianoforte su proposta dell’editore berlinese Schlesinger, che pubblicò la
Sonata op. 109 nel novembre del 1821. In una lettera a Franz Brentano (12
novembre 1821) Beethoven spiegava che, mentre era impegnato con la Missa,
«per poter sopravvivere, ho dovuto eseguire svariati lavori per il pane (purtrop-
po devo chiamarli così)». La Sonata fu dedicata alla figlia di Franz e Antonie
Brentano, che secondo l’autorevole studioso Maynard Solomon era la misteriosa Amata Immortale. L’intreccio di rapporti che legavano Beethoven alla famiglia Brentano si manifesta nella lettera inviata alla giovane Maximiliane con la
Sonata: «Una dedica!!! Però non una di quelle di cui tanta gente fa uso e abuso
– È lo spirito che unisce gli esseri nobili e migliori di questa terra e il tempo non
lo potrà mai distruggere». Altri dettagli ci rivelano forse il significato profondo
del lavoro. Le struggenti “Variazioni” finali appartengono allo stesso mondo di
un Lied dello stesso periodo, anch’esso in mi maggiore, Abendlied - unter’m
gestirnten Himmel WoO 150 (Canzone della sera, sotto un cielo stellato). Il
tema delle variazioni, elaborato subito dopo il movimento iniziale, ha una chiara
affinità con la musica del Lied, che esprime il desiderio dell’anima di lasciare le
tempeste della vita terrena, “piccola e stretta”, per ricongiungersi alle stelle e
trovare “il bel premio alle mie pene”. Solo in una fase successiva Beethoven
cominciò la stesura del “Prestissimo” centrale in mi minore. La forma della
Sonata appare dunque generata da un’idea fortemente unitaria, sottolineata
dalla tinta armonica comune dei tre movimenti. Il senso di coerenza formale
diventa sempre più acuto nei lavori strumentali di Beethoven dell’ultimo periodo. Occorre un’analisi minuziosa per chiarire la struttura formale del “Vivace,
ma non troppo” iniziale, che sembra a prima vista una libera fantasia. Assieme
al “Prestissimo”, a cui è collegato senza soluzione di continuità, forma infatti
una sorta di blocco unico di carattere sonatistico, in contrapposizione al possente finale. Le variazioni riscrivono in realtà l’intera parte precedente, come una
sorta di ricapitolazione generale della Sonata in forma di variazione. Il tema,
indicato come “Andante molto cantabile ed espressivo”, deriva dal materiale del
primo movimento e ciascuna delle sei variazioni scaturisce da un elemento formale precedente. Il culmine del respiro estatico viene raggiunto nell’ultima
variazione, una sorta di gigantesca cadenza dell’intera Sonata, risolta nel ritorno finale del semplice tema cantabile in mi maggiore.
La Sonata in la bemolle maggiore op. 110, pubblicata senza dedica, si distingue
dalle altre per il tipo di problemi compositivi che affronta e per la maniera del
tutto originale di risolverli. L’inizio del primo movimento, “Moderato cantabile
molto espressivo”, sembra impostato su uno stile più tradizionale, con una
forma sonata disegnata in un blocco unico e il soggetto principale articolato in
tre elementi chiaramente riconoscibili. La musica fluisce scorrevole – “con amabilità”, recita l’indicazione espressiva – all’interno della medesima unità di
tempo, senza raggiungere mai la sonorità di fortissimo. Con Beethoven bisogna
sempre stare all’erta, quando tutto sembra tranquillo. Infatti questo quieto e
pacifico movimento si rivela una delle pagine più ambigue della sua produzione.
Nel corso della Sonata, infatti, ogni elemento si trasforma in qualcosa di diverso, lasciando intravedere una realtà diversa da quel che appariva all’inizio.
Soltanto con l’arrivo della ripresa, per esempio, diventa chiaro il fatto che il
tema principale non era il tema cantabile e spianato, bensì la frasetta di quattro
battute che sembrava l’introduzione. Non è la sola sorpresa. I rapidi arpeggi,
da suonare “leggiermente”, sembravano in apertura un elemento di transizione
verso la tonalità del secondo soggetto, mentre nella ripresa si saldano con il
tema principale e nella coda assumono addirittura un ruolo preminente.
Nemmeno quello che si scopre essere il tema principale risulta del tutto innocente. All’inizio infatti la linea melodica rimane sospesa su un trillo, come indecisa, paurosa forse di cadere nella banalità sentimentale. Nella ripresa, invece,
questa inibizione scompare del tutto e il tema va dritto alla sua conclusione. In
sostanza, risulta evidente nel corso del movimento che il vero tema della Sonata
sia la capacità di superare le proprie censure e il desiderio di esaltare lo spirito
della forma sonata. Ma se l’“Allegro molto” successivo, una sorta di ruvido
Scherzo, serve soprattutto a rafforzare il contrasto con il carattere espressivo
del movimento precedente, il movimento finale rappresenta una delle forme più
ingegnose e cariche di significati inventate da Beethoven. Il corpo della struttura è formato da una doppia successione di adagio e fuga, il tutto incorniciato
da un recitativo iniziale e da una robusta coda conclusiva. Le due fughe sono
strettamente connesse ai tempi lenti precedenti e rappresentano il loro totale
rovesciamento espressivo. Questo carattere speculare si manifesta in tutti i
parametri. L’“Adagio” è in minore, la “Fuga” in maggiore; il tempo passa da
12/16 a 6/8; la melodia dell’“Adagio” scende serpeggiando nel ritmo, mentre il
tema della “Fuga” sale poggiando i piedi sull’accento di ogni battuta. Insomma,
non c’è aspetto dell’“Adagio” che non sia ribaltato nella “Fuga”. La loro contrapposizione si accentua ancor di più la seconda volta, quando il tema dell’“Arioso
dolente” ritorna in sol minore. È lo stesso Beethoven a suggerire il senso del
loro rapporto. L’“Arioso” infatti qui non è solo “dolente” (klagend), ma va “perdendo le forze” (ermattet), mentre la successiva “Fuga” in sol maggiore riprende “L’istesso tempo” della sua prima apparizione, ma “poi a poi di nuovo vivente”. La “Fuga” dunque, la forma più pura e astratta della tradizione, si pone
come l’estremo argine del Klangender Gesang, del canto doloroso, per impedire
il tracimare dell’espressione individuale. Tuttavia il contrasto tra la dimensione
oggettiva e quella soggettiva sfocia in una conclusione del tutto inaspettata. Il
tema della “Fuga”, recuperata la tonalità naturale di la bemolle maggiore, raggiunge l’apoteosi finale in una forma perfettamente omofonica, cosa del tutto
contraria alla tradizione, che invece prevede l’impiego di tutti i mezzi contrappuntistici a disposizione. Come se non bastasse, la “non-più-fuga” si fonde con
le semicrome degli arpeggi del primo movimento. Solo nella pagina finale diventa chiaro, dunque, il senso dell’intero percorso della Sonata. Beethoven ha
dilatato la forma sonata fino ad abbracciare l’intero lavoro. Il tradizionale contrasto tematico, quasi assente nei singoli movimenti, viene trasfigurato in una
contrapposizione di caratteri tra le diverse parti della Sonata. L’ultimo movimento, con l’“Arioso” e con la “Fuga”, riassume poeticamente questo contrasto
nell’opposta espressione di un unico sentimento, che trova una conciliazione
nella coda conclusiva, un atto di fede nella capacità del linguaggio musicale di
superare l’isolamento del singolo individuo.
Non era ancora tutto quello che Beethoven aveva da dire sulla Sonata. La parola fine arriva con la Sonata in do minore op. 111, terminata all’inizio del 1822 e
dedicata all’Arciduca Rodolfo. Thomas Mann, nel Doktor Faustus, commentava
così l’insolita forma della Sonata, in soli due movimenti: «Tutto era fatto: nel
secondo tempo, in questo tempo enorme la sonata aveva raggiunto la fine, la
fine senza ritorno. E se diceva “la sonata” non alludeva soltanto a questa, alla
sonata in do minore, ma intendeva alla sonata in genere come forma artistica
tradizionale: qui terminava la sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione,
toccato la mèta oltre la quale non era possibile andare, qui annullava se stessa
e prendeva commiato».
In questo lavoro epocale balza all’occhio un elemento che era già stato messo in
evidenza nelle due Sonate precedenti, il trillo. L’uso così intenso e marcato delle
fioriture in questa trilogia conclusiva rappresenta un fatto che trascende il
carattere decorativo. Il trillo è la forma di abbellimento più spettacolare e virtuosistico a disposizione della musica per ornare una linea melodica. In tutte e
tre le Sonate Beethoven ricorre all’uso del trillo in misura insolita, ma soprattutto, specie nell’ultima, in maniera del tutto svincolata dall’espressione cantabile. Nell’ultimo movimento dell’op. 109 il trillo sottolineava il carattere di
cadenza per così dire generale della VI e ultima variazione, mentre nella
Sonata op. 110 esso acquistava un significato principalmente poetico. Nel cuore
dell’“Arietta”, secondo e ultimo movimento della Sonata op. 111, al culmine di
un movimento volto a trasfigurare un motivo innocente e spoglio attraverso
ogni sorta di diminuzione artificiale, un triplo trillo enfatizza fino al parossismo
la cadenza prima del ritorno del tema. La sua reminiscenza avviene nella tonalità di do minore e in maniera drammatica, come se il frammento melodico
rimanesse sospeso su un abisso, aggrappato all’esile filo del registro più acuto
del pianoforte. Il trillo rappresenta l’allegoria dell’artificio retorico, l’emblema
dell’arte come falsa coscienza. Il tema dell’“Arietta”, nella sua innocente e quasi
banale espressione naturale (Adagio molto semplice e cantabile), deve liberarsi
con dolore e sofferenza dalle catene dell’arte per raggiungere, nella variazione
finale, la sfera sublime del cielo stellato di cui parlava lo Abendlied. «Il ben noto
motivo che prende commiato – scrive ancora Mann – ed è esso stesso tutto un
commiato e diventa una voce e un cenno di addio, questo re-sol sol subisce una
lieve modificazione, prende un piccolo ampliamento melodico. Dopo un do iniziale accoglie, prima del re, un do diesis [...]; e questo do diesis aggiunto è l’atto
più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa
dare. È come una carezza dolorosamente amorosa sui capelli, su una guancia,
un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo».
Oreste Bossini
Krystian Zimerman
Krystian Zimerman, nato in Polonia nel 1956, ha fatto i primi passi sotto la
supervisione del padre. A sette anni ha cominciato a lavorare con il celebre
didatta Andrzej Jasinski al Conservatorio di Katowice dove si è diplomato.
La vittoria del “Grand Prix” al Concorso Chopin del 1975 gli ha aperto le porte
di una brillante carriera internazionale che lo vede protagonista sui palcoscenici di tutto il mondo. Premiato dall’Accademia Chigiana di Siena quale
miglior giovane musicista dell’anno (1985) e dalla Fondazione LeonieSonning a Copenhagen, nel 2005 ha ricevuto dal Ministro della cultura
Renaud Donnedieu de Vabres la Legione d’Onore francese. L’Università di
Latowice gli ha conferito il Dottorato Honoris Causa e, recentemente, il
Presidente della Polonia gli ha consegnato la “Croce al merito con stella”, la
più alta onorificenza riservata a personaggi non legati al corpo militare.
Molo importanti sono stati gli incontri con grandi artisti, sia nel campo della
musica da camera (Gidon Kremer, Kyung-Wha Chung, Yehudi Menuhin) che
direttori d’orchestra (Bernstein, Karajan, Abbado, Ozawa, Muti, Maazel,
Previn, Boulez, Mehta, Haitink, Skrowaczewski, Rattle). Ha avuto anche l’opportunità di conoscere i maestri della generazione precedente: Claudio Arrau,
Arturo Benedetti Michelangeli, Arthur Rubinstein, Sviatoslav Richter, che
hanno influenzato grandemente la sua formazione musicale.
Si è posto il limite di 50 concerti all’anno e ha un’aderenza totale alla sua professione: organizza personalmente la gestione della sua carriera, studia l’acustica delle sale da concerto, le ultimissime tecnologie di registrazione e della
costruzione degli strumenti. È inoltre appassionato di psicologia e computer.
Nel 2013, in occasione del 100° anniversario della nascita di Lutoslavski, ha
suonato il Concerto per pianoforte, a lui dedicato, con le più importanti orchestre internazionali, fra cui la Philharmonia Orchestra di Londra. Nella stagione in corso ha eseguito le ultime tre Sonate di Beethoven alla Suntory Hall
di Tokyo esattamente all’età e nel giorno della morte di Beethoven.
Ha sviluppato un analogo approccio nei confronti della registrazione discografica. In 30 anni di collaborazione con Deutsche Grammophon, ha inciso
numerosi dischi che hanno meritato importanti premi. Nel 1999 ha registrato
i Concerti di Chopin con un’orchestra costituita appositamente per questo
progetto, la Polish Festival Orchestra, con la quale ha fatto una lunga tournée
in Europa e America per commemorare il 150° anniversario della morte di
Chopin. La più recente incisione è dedicata alla musica da camera della compositrice polacca Grazyna Bacewicz, in occasione del 100° anniversario della
nascita. Tra le esecuzioni storiche ricordiamo quella con i Wiener
Philharmoniker il 10 febbraio 1985, la sua interpretazione del Concerto di
Schumann sotto la direzione di Herbert von Karajan, e i Concerti n. 3, 4 e 5 di
Beethoven nel 1989 con Leonard Bernstein.
Ha debuttato in recital a Milano per la nostra Società nel 1977, ed è tornato
ospite nel 1985, 1990, 1996, 1999, 2001 e 2004.
Concerto straordinario:
Mercoledì 4 giugno 2014, ore 20.30
Basilica di S. Maria della Passione
Yale Schola Cantorum e Yale Baroque Ensemble
Simon Carrington direttore
In collaborazione con la Cappella Musicale
Dagli Stati Uniti ci viene offerto un concerto straordinario del giovane ma ormai
celebre coro Yale Schola Cantorum, fondato nel 2003 da Simon Carrington, uno
dei creatori del mitico ensemble The King’s Singers, di cui ha fatto parte per 25
anni. Il coro è nato nel seno della Yale School of Music, nel Connecticut, una delle
dodici facoltà della Yale University, che vanta nella sua storia più che secolare
docenti come Paul Hindemith, Krzysztof Penderecki e John Adams. Carrington
dirige il coro e lo Yale Baroque Ensemble, un gruppo di strumentisti laureati alla
Yale School, in un programma di musica sacra di particolare fascino e spettacolarità, la Missa Ave Maria di Palestrina e il Dixit Dominus RV 807 di Vivaldi, nell’unica
tappa milanese del tour estivo che tocca varie città italiane.
Società del Quartetto di Milano - via Durini 24
20122 Milano - tel. 02.795.393
www.quartettomilano.it - [email protected]