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DANIEL PLAINVIEW
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scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
There Will Be Blood
158 minuti
USA
2007
regia:
PAUL THOMAS ANDERSON
soggetto:
DANIEL LUPI,
UPTON SINCLAIR,
HUGH WHEELER
sceneggiatura:
PAUL THOMAS ANDERSON
produzione:
PAUL THOMAS ANDERSON,
SCOTT RUDIN,
JOANNE SELLAR
fotografia:
montaggio:
ROBERT ELSWIT
DYLAN TICHENOR
scenografia:
costumi:
musiche:
JIM ERICKSON
MARK BRIDGES
JONNY GREENWOOD
interpreti:
DANIEL DAY-LEWIS (DANIEL PLAINVIEW), PAUL DANO (PAUL/ELI
SUNDAY), CIARÁN HINDS (FLETCHER), COLLEEN FOY (MARY SUNDAY
ADULTA)
PAUL THOMAS ANDERSON
Nato il 1 Maggio 1970 a Studio City (California - USA).
Cresciuto in quella San Fernando Valley che in Magnolia viene castigata da una
torrenziale pioggia di rane, questo indisciplinato "enfant prodige" del cinema
hollywoodiano emerge, abbandonata la scuola di cinema, grazie al lungometraggio del
1996 Sydney, realizzato con i fondi del Sundance Institute Filmmaker's Workshop a partire
dal corto del 1993 Cigarettes & Coffee.
Soprattutto col suo secondo film, Boogie Nights, dimostra le alte ambizioni del suo
cinema corale e visionario che si ispira all'Altman delle storie collettive e al Martin Scorsese
dei sinuosi movimenti di macchina e dei lunghi piani sequenza accompagnati da
un'incalzante colonna sonora. Dopo Boogie Nights, storia di ascesa e declino di una
"famiglia allargata" all'interno dell'industria pornografica degli anni Settanta e Ottanta,
l'approccio tragico alla famiglia come fonte di dolore, colpa e violenza si ritrova in quello
che è considerato il suo capolavoro, Magnolia. Con questo viaggio altmaniano all'interno
di un complicato reticolo di esistenze in una afosa giornata della San Fernando Valley,
Anderson ritrae un'umanità variegata popolata da padri assenti e figli instabili,
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profondamente e ineluttabilmente segnati dalle cicatrici del passato.
La violenza che trova origine all'interno del nucleo familiare, torna anche in Ubriaco
d'amore (premio per la regia a Cannes 2002), commedia romantico-surreale in cui il
protagonista, questa volta un solo e bizzarro personaggio, unico maschio tra sette sorelle,
trova l'amore e la tranquillità dopo aver combattuto con il suo carattere arrogante ed i suoi
violenti e irrefrenabili attacchi d'ira. Dopo una lunga pausa, nel 2008 torna a dirigere una
storia ambiziosa con Daniel Day-Lewis nei panni de Il petroliere, spietato mercante di
oro nero del Texas che nei primi anni del Novecento mette in atto una scalata al potere
senza precedenti.
Oltre che nella regia cinematografica, P. T. Anderson si è anche cimentato nella creazione
di video musicali, collaborando soprattutto con Fiona Apple (tre video), ma anche con
Aimee Mann e Michael Penn. (tratto da MyMovies.it)
Filmografia:
IL PETROLIERE - 2007
BOOGIE NIGHTS - L'ALTRA HOLLYWOOD
- 1997
UBRIACO D'AMORE - 2002
SYDNEY - 1997
MAGNOLIA - 2000
Storia breve del petrolio in California
Sebbene poche persone ne siano consapevoli, la maggiore industria esportatrice nella
California, dopo ovviamente quella cinematografica, è per lungo tempo stata
rappresentata dal petrolio. Lo stato magari non sarà famoso come il Texas per questo
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Quando i colonizzatori spagnoli sono arrivati nel 1500, i nativi americani stavano già
raccogliendo il petrolio che emergeva dal terreno per dar vita a quello che veniva chiamato
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per le luci a gas che illuminavano la sua casa nei dintorni di Newhall.
Mentre la domanda di cherosene cresceva, allo stesso tempo aumentava anche la richiesta
di estrarre maggiori quantità di petrolio dal terreno. Nel 1865, arrivò il primo pozzo
petrolifero produttivo nella regione californiana della Central Valley, allora poco popolata e
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attrezzature di quel periodo era complesso, pericoloso e un azzardo enorme, perché si
poteva facilmente rimanere a mani vuote. Anche se si trovava il petrolio, le strutture
utilizzate per estrarlo erano imprevedibili, così se un pozzo petrolifero prendeva fuoco,
potevano accadere enormi disastri, come in effetti capitava. Il compito attirava degli
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avventurieri impetuosi e tenaci e uomini con una forte visione del futuro, così quelli che
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Molte città hanno visto uno scontro tra culture diverse, quando industriali, prostitute,
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numerosi saloon e pensioni. Il rancore portò al sabotaggio dei pozzi, compresi quelli
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a quello che ora è il Dodger Stadium di Los Angeles e nel giro di cinque anni aumentò il
numero dei suoi pozzi ad oltre 500, dando vita ad una delle maggiori ricchezze della
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zona di San Joaquin Valley. Nel 1910, venne trovato il maggior pozzo petrolifero della
storia dello stato: il Lakeview Gusher, che forniva la cifra incredibile di 125.000 barili al
giorno. Quello stesso anno, la produzione californiana arrivò a 77 milioni di barili di
petrolio. In quel momento, lo stato produceva il 70% del petrolio nel mondo.
Il grande boom petrolifero in California durò soltanto un decennio prima che il flusso
iniziasse ad interrompersi. La trivellazione nello stato continuò (e prosegue ancora
adesso), ma nel periodo della Depressione, buona parte dei maggiori pozzi e giacimenti di
petrolio erano stati prosciugati e vennero così abbandonati. Nel frattempo, la ricerca di
petrolio, più importante che mai in una società che cambiava rapidamente ed era fatta di
automobili ed industrie, si era trasferita oltreoceano, dando vita alla nascita del fenomeno
del petrolio multinazionale.
La parola ai protagonisti
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cui si avverte una forte tradizione. Così, abbiamo svolto tantissime ricerche e io sono
tornato ad essere uno studente, una cosa veramente emozionante.
Lavorare con Daniel Day-Lewis è un privilegio che pochi registi hanno avuto. Io ho dovuto
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Senza voler esagerare, credo che un film viva e muoia a seconda delle sue comparse, la
popolazione locale nella pellicola ha proprio le caratteristiche del Texas occidentale che si
possiedono solo vivendo in questo luogo e loro sono stati veramente generosi con il loro
tempo e la loro umanità. Sono assolutamente orgoglioso del lavoro che hanno svolto. Puoi
avere un ottimo attore come Daniel Day-Lewis, ma se la persona che sta dietro di lui è
sbagliata e si rivela una distrazione, sei finito.
Non solo Paul Dano aveva familiarità con il modo di lavorare di Daniel Day lewis, ma era
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sicuro tra loro, perché le cose potevano andare fuori controllo, come talvolta è accaduto.
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delle persone che cambiavano spesso casa, davano il massimo in questo lavoro manuale
ed erano impegnate per 12 ore al giorno. Noi facevamo lo stesso, avevamo questa
illusione di stare veramente trivellando in cerca di petrolio.
Marfa (dove è stato girata gran parte del film) sembra proprio come era Bakersfield un
tempo, si trova anche sufficientemente vicina ai pozzi petroliferi del Texas occidentale da
permetterci di riempire la zona di vecchie attrezzature di trivellazione. Nella zona ci sono
delle persone veramente amichevoli e noi avevamo a disposizione il miglior set possibile, il
territorio del Texas occidentale.
Le recensioni
Gaetano Vallini - L'Osservatore romano, 21 febbraio 2008
Stavolta non c'è lieto fine. A vincere è il male sotto le spoglie di un petroliere avido, misantropo e
spregiudicato. Ma è una vittoria amarissima pagata a caro prezzo, che appare come una disfatta
totale dal punto di vista umano. Non c'è nulla di esaltante e di invidiabile nel personaggio di Daniel
Plainview, per il quale, al termine di un'esistenza vissuta nella ricerca spasmodica del guadagno,
non c'è possibilità di redenzione. Viene rifiutata persino l'ultima opportunità fornitagli dall'orfano,
ormai adulto, che aveva preso con sé in tenera età. Per questo il film Il petroliere - firmato dal
giovane, e già maturo regista statunitense Paul Thomas Anderson, apprezzato per Magnolia - si
presenta come una impietosa parabola del disfacimento morale di un uomo.
Non solo. Grazie al personaggio del falso predicatore, che diventa l'alter ego del protagonista,
siamo anche dinanzi a una denuncia del proselitismo pseudoreligioso compiuto dal cialtrone di
turno che s'approfitta della credulità e dell'ignoranza della povera gente. La lotta tra questi, che
parla a nome di un dio a suo uso e consumo, e il petroliere, il quale non ha altri scopi se non
l'arricchimento, solo apparentemente si presenta come una battaglia tra il bene e il male. I due
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sono troppo simili: il primo non è meno scaltro e cinico del secondo.
E se il nero è il colore che fà da sfondo alla narrazione --- nero come il petrolio strappato alle
viscere della terra, nero come la coscienza sporca di Daniel Plainview accecato dalla brama del
possesso - la scena si macchia spesso di rosso. Non a caso, del resto, il titolo originale della
pellicola è There will be blood (Ci sarà sangue). E il sangue degli operai che muoiono nei pozzi, ma
è anche il sangue di cui si macchiano le mani del protagonista, magistralmente interpretato da
Daniel Day Lewis, attore inglese che centellina le sue apparizioni offrendo sempre prove importanti
(Il mio piede sinistro gli valse l'Oscar come miglior attore). A fargli da sponda c'è un bravo Paul
Dano nei panni del sedicente predicatore Eli.
La vicenda si svolge a cavallo tra Ottocento e Novecento. Daniel Plainview è un cercatore
d'argento che trova casualmente il petrolio nell'Ovest degli Stati Uniti. Da tale scoperta comincia la
sua lenta, ma inesorabile, dannazione. Le sue ricchezze aumentano grazie anche all'abilità nello
sfruttare la presenza di un bambino, orfano di un suo operaio vittima di un incidente, che cresce
come un figlio e usa per presentarsi più credibile agli sprovveduti proprietari di terreni impregnati
di petrolio; appezzamenti ricchissimi che intende sottrarre loro a prezzi quasi sempre irrisori. Sulla
sua strada trova il giovane Eli che si presta ad aiutarlo purché finanzi la sua chiesa, in un contrasto
aspro e drammatico sino alla fine.
Per Plainview le cose vanno bene fino a quando un incidente in un pozzo rende sordo il figlio.
L'accaduto lo incattivisce, togliendogli ogni freno inibitorio. La sua accecante avidità finisce per
avere il sopravvento schiacciando tutto e tutti, rendendolo persino assassino.
L'ossessione per la ricerca di nuovi pozzi scalza il piacere entusiasmante della scoperta; la brama di
potere e di denaro gli fa dimenticare il rispetto per i suoi uomini e inconsciamente per se stesso.
«Io vedo il peggio nelle persone. La mia barriera di odio si è innalzata», dice di sé. Ma la ricchezza
non giova alla vecchiaia: è condannato a vivere in una desolante solitudine nell'immensa, lussuosa
magione, teatro degli ultimi drammi della sua mostruosa vita. Tanto mostruosa da far dire a colui
che si considerava suo figlio: «Ringrazio Dio di non avere niente di te in me».
Tratto dal romanzo di Upton Sinclair Oil! del 1927, Il petroliere - fresco vincitore del premio per la
miglior regia al festival di Berlino, al quale si presentava forte del Golden Globe assegnato a Daniel
Day Lewis come migliore attore protagonista e di otto candidature all'Oscar - è un film che si
richiama al filone epico del cinema americano, quello che raccontava la frontiera dura e selvaggia,
in cui dettava legge il più forte e arrogante. Lo fa in maniera cruda, a tratti spettacolare, con
qualche pausa narrativa di troppo pagata alla bravura del protagonista. Ciononostante - tra ruvidi
paesaggi, sperdute fattorie, pozzi e trivelle - il regista regala sprazzi di grande cinema,
permettendosi persino il lusso di un inizio con quindici minuti privi di dialoghi.
In ultima analisi, Anderson racconta la storia del male che si insinua inesorabilmente in un uomo,
distruggendolo interiormente. Nell'ascesa del cinico protagonista - metafora delle brutture del
capitalismo americano delle origini - si coglie il dramma di una vita incapace di trovare un senso e
che non sa riscattarsi. A volte il cinema riesce a far simpatizzare anche con personaggi poco
limpidi. Qui però non c'è, e non può esserci, empatia con Plainview, malvagio perdente per il quale
si nutre solo repulsione.
Natalino Bruzzone - Il Secolo XIX, 15 febbraio 2008
Quando il cinema di Hollywood incontra la storia della nazione e le radici dell'uomo americano,
l'unica frontiera possibile è quella dell'epica segnata dall'ossessione e dalla follia. La corsa verso
l'oro trasforma il sogno in incubo assassino e in un'illusione beffarda come in "Il tesoro della Sierra
Madre", l'ansia rapace e compulsiva del potere detta la biografia di una dissipazione morale,
mentale ed esistenziale come in "Quarto potere" ed "Aviator", l'assenza di limiti allestisce la
rappresentazione feroce in uno dei tanti palcoscenici della sfida tra il Bene e il Male. E lo scontro è
radicale e totalizzante come quando Bibbia e Capitale si fronteggiano per affermare la prevalenza
di un'unica illusione fondamentalista che così non saprà mai riconoscere come l'una e l'altra siano,
in realtà, il riflesso della stessa immagine allo specchio dell'avidità rapace. La carne e lo spirito,
l'accumulazione di una ricchezza e l'estremizzazione religiosa si confondono lungo lo spettro di una
ballata selvaggia, dura e metaforica come il paesaggio western di "I cancelli del cielo" e
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irrefrenabile come la sete di una caccia eretica in "Moby Dick".
"Il petroliere" di Paul Thomas Anderson diventa, allargandosi su queste coordinate, un esempio di
come il grande romanzo dell'America appartenga alla letteratura della macchina da presa che ha in
David W. Griffith, John Ford, John Huston e Orson Welles i suoi numi tutelari e i cui volti
andrebbero impressi e scavati in un ideale monte Rushmore dello schermo. Anderson guarda a
loro (ma anche alle imprese rutilanti di Michael Cimino e agli stigma caratteriali di Martin Scorsese)
per costruire la megalomania di Daniel Plainview il cercatore d'argento che trova il petrolio e cede
alle sue lusinghe: inganna, scava, uccide, si piega al compromesso con il suo oppositore, il
predicatore Eli Sunday, abbandona alla sordità il figlio adottivo, si misura da Caino con un
supposto fratellastro e non può che andare incontro a quel versetto laico, "ci sarà del sangue"
("There Will Be Blood" ), del titolo originale, sotto l'impulso della pazzia e della solitudine da
eremita della bramosia.
Da una caduta nelle viscere della terra, con venti minuti di soggiogante spettacolo senza parole, ad
un finale di violenza inaudita: "Il Petroliere" ha la forza di una tragedia elisabettiana, la poetica
sporca di bitume di un abissale cinismo, il pathos di un'avventura costruita tutto dentro al suo
protagonista che implode nell'interpretazione formidabile di Daniel Day-Lewis. Lo stato di grazia
dell'attore corrisponde perfettamente all'ispirazione miracolistica dell'autore: i gesti, le espressioni,
le occhiate e la postura di Lewis restano, in un testo privo di qualsiasi presenza femminile, sempre
in primo piano, assecondati, suggeriti, avvallati dai movimenti della cinecamera che, tra carrellate
e panoramiche in "scope", assestano alla visione una deriva narrativa lunga trent'anni (dal 1898 al
1927) trapunta di elissi e da una ferrea logica da combattimento pugilistico: da una parte Plainview
e dall'altra Eli si scambiano colpi proibiti travolgendo, famiglia compresa, ogni ostacolo al proprio
desiderio sfrenato di affermazione assolutistica.
Nel fango e nella polvere, davanti al mare o ad un incendio notturno, "Il Petroliere" è il ritratto di
un uomo e di un Paese che Paul Thomas Anderson firma nelle sequenze di un'opera emozionante,
densa di una energia e di un'intensità rare e delirate. È il racconto di una manipolazione a scopo di
potere dove il brullo del landscape corrisponde all'aridità dell'anima in una moderna simbologia
dell'individuo archetipo che si fa da sé vendendosi alla diabolicità del possesso. "Il Petroliere"
(candidato a otto Oscar, tra cui quello per il miglior film) alza una bolla di mito e di leggenda
nell'architettura di una fisicità e di una mente alienate: la fotografia di Robert Elswitt cattura nella
luminosità arcaica e nel cromatismo depurato il demone di un pioniere che come il capitano Achab
si abbandona alla smania di onnipotenza dichiarando apertamente la sua estraneità alla società nel
suo odio e disprezzo per la gente. I fulgori recitativi di Daniel Day Lewis accrescono la potenza del
film, lo seducono di una fascinazione satura di un pragmatismo primordiale ed ostinato in cui ogni
tentazione eroica si smarrisce e viene cancellata dall'egoismo antisentimentale.
"Il Petroliere" non concede tregua ai propri infervorati spettri, li azzoppa, li immerge in una
sinfonia di pece in cui la musica della colonna sonora tambureggia sulla partitura ossessiva della
trivella. Sgorga grandissimo cinema dai pozzi del "Petroliere": è il getto inconfondibile del
capolavoro.
Gian Luigi Rondi - Il Tempo, 16 febbraio 2008
Il petrolio in California. Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Una sorta di epopea già
illustrata in un romanzo di Upton Sinclair e qui raccontata attraverso le gesta spesso violentissime
di tale Daniel Plainview diventato in poco tempo da povero ricchissimo scoprendo terreni
petroliferi, acquistandoli anche con raggiri e poi trivellandoli con un gruppo di fedelissimi da lui
però sempre trattati con durezza. Altrettanto duro con tutti quanti lo avvicinano, persino con un
figlio adottivo, un bambinello impaurito - da cui non esisterà a separarsi quando un incidente sui
lavori lo farà diventare totalmente sordo.
Tra i suoi scontri per accaparrarsi i terreni adatti ai suoi scopi, uno aspro fino a concludersi nel
sangue con un avido e ipocrita predicatore di una setta pronto, ad ogni svolta, ad abusare delle
sue funzioni per far soldi. Con altri episodi di contorno, non ultimo quello con un misterioso
personaggio che, essendosi fatto passare per suo fratellastro, pagherà alla fine con la vita il suo
inganno dato che l'altro, in ogni circostanza, non fa mai sconti a nessuno.
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Ecco, forse, se il film ha un merito -ma non ne ha molti- è il disegno irruente, spietato;. quasi
furioso di questo personaggio al centro che punta sempre diritto al suo scopo indifferente ai mezzi
cui ricorre, dalle frodi, appunto; agli omicidi. La regia di Paul Thomas Anderson lo ha costruito
spesso con tratti forti più incline all'azione che non alla psicologia ma, va riconosciuto, con risultati
plausibili. Non dissimili, in un altro clima, da quelli ottenuti nella prima parte quando, con piglio
documentaristico, ricostruisce le prime avventure dei cercatori di petrolio, le loro ansie, i loro
affanni, i drammi da cui spesso erano accompagnate.
Nella seconda parte, invece, quando le vicende del protagonista si aggrovigliano attorno a fatti
secondari, i ritmi, pur inizialmente abbastanza sostenuti, si sfilacciano, accettano pause, bruschi
mutamenti di atmosfere e anche il ritratto del personaggio centrale non tarda a risentirne: tra
contraddizioni anche di gusto, sbalzi psicologici, difficoltà ad arrivare a vere conclusioni. Cerca di
farvi fronte l'interpretazione di Daniel Day-Lewis che però, priva di quella sensibilità e .di quei
carismi di cui aveva dato prova in film europei come "Camera con vista", "Il mio piede sinistro" e
"Nel nome del padre", si risolve spesso in esteriorità infuriate, senza sfumature. Aggravate da un
commento musicale (del chitarrista Jonny Greenwood) aggressivo, lacerato, urlato fino al fastidio.
Francesco Bolzoni - Avvenire, 17 febbraio 2008
«Dove mettere il demonio?», chiese Pier Paolo Pasolini con una delle sue inattese provocazioni a
un convegno ad Assisi. Lui lo tenne a bada a lungo. Poi lo lasciò libero nel suo film più tormentato:
Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il diavolo, da allora, ha fatto alcune apparizioni (secondarie) al
cinema. Eccolo, adesso, che ritorna sotto mentite spoglie nel film Il petroliere, che pare raccontare
solamente di un cercatore d'argento che diventa in California un boss petrolifero alla fine dell'800.
Ritorna in un film crudele, spietato, candidato a otto premi Oscar, diretto dal bravissimo regista di
Magnolia Paul Thomas Anderson e interpretato da un superbo Daniel Day-Lewis e dal suo
convincente antagonista, Paul Dano, un film che rappresenta una lotta indomabile tra le forze del
male. Capro espiatorio il ragazzo H.W., figlio di Daniel Plainview.Il film di Anderson, il più incisivo
di questa stagione, è aperto a varie direzioni, a molteplici interpretazioni. Esamina, sì, i costi pagati
dall'iniziale capitalismo. Con realismo crudele, alla Erich von Stroheim di Greed, evoca un minatore,
Daniel (Daniel Day-Lewis), che quasi per caso scopre un giacimento di petrolio ed è tanto abile e
astuto da procurarsi i finanziamenti per sfruttarlo. Con un viso molto ottocentesco (fisionomia da
volpe, il naso diritto, i folti baffi, una bocca che non sorride mai) Daniel ha il dono di convincere il
suo prossimo. Promette ai componenti di una piccola e povera comunità di procurarle il benessere
in cambio delle cessione di terreni aridi, buoni solo per il pascolo delle capre. Ma nella zona
trasuda il petrolio. Un mare di oro nero. Il regista nei capitoli iniziali sta a ridosso del protagonista.
Poi lo colloca all'interno di paesaggi selvatici, tra gli operai che arrivano e si mettono al lavoro, le
macchine trivellatrici e la torre per l'estrazione, la ferrovia e i concorrenti che vorrebbero
impadronirsi del giacimento petrolifero. Ma Daniel non cede anche quando la fortuna pare voltargli
le spalle: il pozzo esplode (sequenza di molta forza espressiva), H.W. rimane sordo. Questa
disgrazia risveglia in Daniel - la cui assenza di scrupoli non era stata fin qui nascosta - le forze del
male che lo conducono a decisioni infami: abbandona il figlio, uccide l'uomo che si era finto suo
fratello, accetta di convertirsi a una setta religiosa pur di far passare su un terreno non suo dei tubi
che conducano il petrolio al mare. Gli si oppone il predicatore protestante, Ely Sandy (Paul Dano)
che lui aveva umiliato e che, adesso, lo umilia costringendolo a un battesimo che Daniel disprezza.
È una lotta terribile all'interno di un cono d'ombra dove ardono le forze del male che finiscono per
annientare i due avversari. Chi ha vinto è il demonio evocato con lucidità impressionante in un film
di grande potenza che rappresenta, sulla traccia del romanzo Petrolio! di Upton Sinclair, l'origine
del capitalismo ma anche, si è visto, altro.
Silvia Bizio - L’
Espr
esso,21Febbr
ai
o2008
C'è già chi dice che 'Il Petroliere' (in originale 'There Will Be Blood'), il film di Paul Thomas
Anderson tratto da 'Oil!' di Upton Sinclair, verrà paragonato a 'Quarto Potere'. E che Daniel DayLewis guadagnerà una nomination all'Oscar per il personaggio di Daniel Plainview, il minatore
texano che diventa un tycoon del petrolio nella California dei primi '900: un uomo tutto votato al
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successo, che liquida senza tanti complimenti ogni ostacolo, brutale eppure umano, un'autentica
canaglia capace però di ispirare simpatia. Del resto l'attore inglese è un habitué della notte degli
Oscar: lo ha vinto nel 1989 per 'Il mio piede sinistro', è stato candidato per il terrorista irlandese in
'Nel nome del padre' e per il ruolo del feroce Bill 'the butcher' in 'Gangs of New York' di Martin
Scorsese, nel 2002. Il 'Petroliere', girato in Texas nell'aprile del 2006, esce negli Usa il 26 dicembre
e in Italia a febbraio 2008. Accanto al veterano Day-Lewis, si fa notare un astro nascente del
cinema americano, Paul Dano, 23 anni, che lo scorso anno fece sensazione nel ruolo del giovane
afasico, maniaco del pensiero di Nietzsche, fratello della piccola protagonista di 'Little Miss
Sunshine'. Qui Dano interpreta un giovane prete, Eli Sunday, che nella piccola comunità
californiana sconvolta dalla scoperta del petrolio si scontra con l'atteggiamento mercenario di
Plainview. Il loro è un conflitto di dimensioni epiche: uno scontro tra la ricchezza e la fede. I due
personaggi ricordano quelli di Burt Lancaster in 'Elmer Gantry' e Robert Mitchum in 'La morte corre
sul fiume', due falsi predicatori: "Il mio Eli Sunday è pieno di contraddizioni e ambiguità", spiega
Dano: "In realtà la foga evengelica da giovane pastore che cerca di suggestionare i parrocchiani lo
rende non meno velleitario e arrivista di Plainview".
Day-Lewis e Dano si considerano 'fratelli d'arte' e grandi amici, a dispetto della loro differenza
anagrafica e culturale: Dano, nato in Connecticut, proviene da una famiglia di operai, Day-Lewis
nato a Londra, è di estrazione agiata e di alta accademia - il padre, Cecil Day-Lewis, è un 'poeta
laureato'. Li accomuna il fatto di aver iniziato entrambi a recitare giovanissimi in teatro, e il fatto
che due anni fa lavorarono insieme nel dramma familiare 'La ballata di Jack e Rose', il film scritto e
diretto da Rebecca Miller, la figlia del drammaturgo Arthur Miller con la quale Day-Lewis è sposato
dal '96 e da cui ha avuto due figli. Spesso citato come il Robert De Niro inglese, Day-Lewis,
diventato famoso negli anni '80 con 'My Beautiful Laundrette' e 'L'insostenibile leggerezza
dell'essere', considera De Niro uno dei suoi idoli, e 'Taxi Driver' come uno dei suoi film preferiti.
Impossibile non chiedergli quanto si sia riconosciuto nel suo personaggio di Plainview, la cui
scalata al successo va di pari passo alla crudeltà: "Mi considero spietato solo quando si tratta di
difendere la mia privacy", dice l'attore, incontrato all'hotel Four Seasons di Beverly Hills: "Il
successo gioca strani scherzi: ti costringe a essere più attento, quasi vigilante. Come Plainview,
anch'io ho l'indole dell'eremita, tendo a isolarmi. Quando non lavoro conduco una vita quanto mai
tranquilla. E quando lavoro mi immergo nella vita del personaggio e non penso a nient'altro".
Chiunque lavori con lui testimonia come sia straordinario vedere Day-Lewis sul set. Racconta
Dano: "Si trasforma nel ruolo, analizza la storia e la sua psicologia nei minimi dettagli, ti costringe,
come sua controparte, a dare il massimo. Insegna con la forza dell'esempio".
Il ruolo, ammette Day-Lewis, ha richiesto una grande preparazione anche storica: "Ho studiato il
periodo, come la corsa all'oro del Klondike, cercando di capire le dinamiche del lavoro nelle miniere
d'oro e d'argento del Far West a fine '800 e di immaginare lo stato d'animo dei minatori che
scavavano come dannati senza avere la certezza del premio per i loro sforzi". E continua l'attore.
"Erano uomini folli che rinunciavano a vite anche comode per inseguire l'avventura e il sogno di
ricchezza. Erano agenti, impiegati e insegnanti che lasciavano le loro mogli e famiglie per fuggire
nel West alla ricerca di facili guadagni, senza sapere niente di come trovare il petrolio o l'oro. 'La
febbre', la chiamavano, e molti uomini persero la vita, o finirono in miseria, continuando tuttavia a
credere nella promessa del West. Non sapevo niente sulle miniere americane di allora. Nel collegio
che frequentavo nel Kent non ci insegnavano queste storie".
La cultura americana era stata una grande attrazione per l'attore fin da ragazzo: "Da giovane
tenevo segreta la mia passione per i film americani, quasi fosse una vergogna ammetterla. Ho
sempre desiderato misurarmi in mondi diversi, anche quelli lontani da casa mia. Ho avuto il
privilegio di crescere in una famiglia di intellettuali, ma andando a scuola sono diventato una
specie di bullo di strada. Una dicotomia che mi si addice, che mi ha definito come attore. Colto, ma
anche sporco, raffinato, ma anche cattivo. La società europea guardava con cinico disdegno
all'entusiasmo naïf del Nuovo Mondo, e forse lo fa anche adesso. A me invece affascina".
Risale alla gioventù una delle sue grandi passioni, quella per le motociclette: "Avevo vent'anni
quando un mio amico che faceva corse di motocross mi ha iniziato al mondo delle moto: prima di
allora ero un ciclista, e ho pensato: se mi piacciono due ruote con i pedali, perché non provarne
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due con un motore", esclama ridendo: "Da allora la moto è diventata un grande piacere, sia per
turismo che in gara. L'anno scorso ho partecipato alla Laguna Seca. E sono un grande fan di
Valentino Rossi, come tutti del resto". Il giro di boa dei 50 anni non sembra preoccuparlo molto:
"Non credo che la vita sia meno interessante man mano che invecchiamo. Ogni giorno scopro
nuove cose, ogni giorno la mia vita è arricchita dai miei figli in modi che non potrei nemmeno
cominciare a descrivere e che comunque ho tutte le intenzioni di tenere solo per me".
Alberto Crespi - L'Unità, 9 febbraio 2008
Petrolio e religione: l'accostamento vi dice qualcosa? Leggere Il petroliere come una grande
metafora dell'America di Bush (padre e figlio) è legittimo, anche se Paul Thomas Anderson
(regista) e Daniel Day Lewis (attore) cercano di glissare, di non forzare eccessivamente la
metafora. Del resto il parallelo fra la saga dei Bush e la saga di Daniel Plainview, petroliere nella
California del primo '900, è solo una delle tante chiavi di lettura con le quali avvicinarsi a un film
potente, fluviale, denso di riferimenti storici e ricco di grande cinema. Tratto dal romanzo di Upton
Sinclair Petrolio! (il punto esclamativo c'è anche in inglese, non è un tentativo di distinguersi
dall'omonimo romanzo di Pasolini), è la storia, o una storia, della nascita del capitalismo
americano. Non la prima, certo: Sam Peckinpah aveva realizzato un film molto simile - meno
ambizioso, ma più feroce - con La ballata di Cable Hogue, Orson Welles aveva raccontato il
magnate,per antonomasia in Quarto potere, Martin Scorsese ha ricreato la folle vita di Howard
Hughes in Aviator e non mancano certo le somiglianze con un'altra saga petrolifera, Il gigante (se
non altro perché Anderson ha girato nella cittadina texana di Marfa, che già ospitò il vecchio film
con James Dean e che qui fa le veci di Bakersfield, California).
Il petroliere è un film al tempo stesso epico e minimale. Il primo quarto d'ora - magistrale! sembra un cortometraggio muto di Griffith, altro regista che sul capitalismo e sulla nascita delle
nazioni aveva idee ben precise. Siamo nel 1898 e Plainview, ancora solo e povero, scava una
miniera nel deserto e cadendo nel pozzo si rompe la gamba che lo lascerà claudicante per tutta la
vita. Poi viene raggiunto da alcuni compagni pezzenti quanto lui: mentre estraggono (a mano!) i
primi secchi di petrolio, con loro c'è anche un neonato, un figlio di nessuno che poi Plainview
adotterà e porterà con sé, per «commuovere i clienti», in tutte le sue trattative d'affari. Ben presto
l'uomo fa fortuna, e lo ritroviamo nel 1911 intento a trivellare una zona californiana segnalatagli da
uno strano ragazzo di nome Paul Sunday. Per convincere i coloni a cedere i loro terreni, però,
tocca fare i conti con Eli Sunday, gemello di Paul, aspirante predicatore in perenne crisi mistica.
La scena in cui il «peccatore» Plainview si fa battezzare, a suon di ceffoni e autodafé, per avere le
concessioni necessarie a costruire un oleodotto è la sintesi di tutto il film ed è un potentissimo
ritratto dell'America moderna, dove petrolieri e predicatori si sono spartiti - con eguale cinismo - il
compito di controllare il paese, rimbambire le masse e dividersi il bottino. Come dicevamo, sia
Anderson che Lewis svicolano di fronte a domande troppo politiche: «Sono partito dal libro di
Sinclair - dice il regista- che è bellissimo e lunghissimo, e ho dovuto sfrondarlo parecchio in fase di
scrittura. I paralleli, le allegorie... mentre scrivevo li vedevo tutti, e cercavo di scacciarli. Eppure,
anche mentre giravamo, il binomio petrolio/religione invadeva ogni telegiornale, e per quanto noi
cercassimo di rimuoverlo era sempre lì. Non posso quindi rifiutarlo, ma spero che il film parli anche
d'altro. Del capitalismo, della ricchezza, di ciò che il potere provoca dentro gli esseri umani... anche
del cinema, perché un film è un po' come una miniera, che sia oro argento o petrolio, comincia
scavare e non sai mai cosa troverai». Lewis aggiunge: «Va benissimo che un film provochi un'eco
che rimanda all'attualità e alla politica, ma credetemi, tutto nasce in modo molto piú intimo e
personale, dalla voglia di creare un personaggio, di raccontare una storia».
E la storia è sempre quella - molto cinematografica- di un uomo solo schiacciato dalla propria
ricchezza. In questo il cinema è spesso inferiore alla realtà, perché i grandi capitalisti non sono mai
soli: sono uomini di apparato e di relazioni, anche quando sembrano matti come Hughes, e il
rischio è sempre quello di restituirne una visione fin troppo romantica. Proprio per questo il
personaggio più inquietante del Petroliere finisce per essere non Plainview, che Lewis rende con
gigioneria a volte eccessiva, ma il giovane predicatore Eli Sunday, interpretato - come il gemello
Paul, che si vede in una sola scena - da un prodigioso 23enne che si chiama Paul Dano e che è il
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sosia di un ventenne assai famoso, il calciatore del Barcellona Leo Messi. Lui. sì ci fa capire, con le
sue virtù da imbonitore, il legame fra il capitale, la religione e i desideri profondi, forse inconsci,
delle masse: per capire l'essenza del capitalismo americano guardate lui, il ragazzino. Che non sia
candidato all'Oscar, è quasi uno scandalo. Il film per altro ha 8 nominations (incluse film, regia e
attore protagonista) e Lewis, richiesto di un pronostico, non ha fatto prigionieri: «Speriamo di
vincerli tutti». Quando si dice parlar chiaro.
Roberto Nepoti - La Repubblica, 15 febbraio 2008
La storia di un uomo dal cuore nero come il petrolio: Daniel Plainview, un cercatore d'argento che,
all'inizio del 900, trova l'oro nero in California poi ne diventa il magnate, triturando qualsiasi cosa si
opponga alla sua irresistibile ascesa. Da molte parti si alzano inni al capolavoro. Il petroliere è
superfavorito agli Oscar, con otto nomination tra cui miglior film, migliore regia, migliore
interpretazione maschile. Ciò non significa, tuttavia, che si tratti di uno spettacolo "facile", fatto per
accalappiare il consenso di tutti. Perché quella di Paul Thomas Anderson è un'opera al nero, in
ogni senso: disperatamente nichilista, cupa e grottesca; soprattutto nel finale, che lascia perfino
un po' storditi.
Ispirato alla prima parte del romanzo "Oil!" di Upton Sinclair e alla biografia di Edward L. Doheny,
inizialmente sembra rimandare ai biopic cinematografici sui plutocrati americani: dal gigantesco
"Quarto potere" di Orson Welles al meno riuscito "Aviator" di Martin Scorsese. Se Plainview è un
misantropo egotista come quelli, però, Anderson focalizza su altri temi: gli aspetti più ripugnanti
della "nascita di una nazione", innanzitutto; quindi il conflitto tra potere del denaro e potere
religioso; infine il tema della paternità mancata. L'articolazione è complessa. Il primo argomento
sottende tutta la narrazione e mai, sullo schermo, s'era vista figura di "padre fondatore"
dell'impero americano più torva e tenebrosa; se non, forse, quando Scorsese ha rappresentato la
New York degli albori come l'inferno dei barbari (c'era anche Daniel Day-Lewis, si ricorderà, già
con i baffoni del petroliere).
L'opposizione tra potere economico e potere della religione (e relative collusioni) è proiettata
rispettivamente nel protagonista e nel personaggio di Eli Sunday, il giovane integralista cristiano
che umilierà Plainview, costretto a inginocchiarsi davanti a lui come dinanzi a un papa medievale,
prima di esserne distrutto. Eli c'entra anche col tema della paternità: è il rampollo "traditore" di
Daniel, uomo senza donne e senza figli; come lo sarà, in altro modo, il suo figlio adottivo H. W.,
rimasto sordo durante l'esplosione di un pozzo, scena spettacolare da inscrivere nei memoriali del
grande cinema.
Il progetto è ambizioso, perfino grandioso; e tuttavia Il petroliere resta un semi-capolavoro, un
monumento a metà, che ha il coraggio e la forza di demolire l'epos retorico della "grande nazione",
ma poi rimane come impaniato nel grottesco, nello sberleffo amaro, nel ritratto di un antieroe nero
dalla psicopatia conclamata. Un certo squilibrio si avverte anche nel registro del linguaggio filmico.
Anderson è cineasta capace di raccontare in modo classico, ma lasciando spazio a "smarcature",
segni di stile che ne rivelano la personalità non comune (da osservare, una per tutte, il movimento
di macchina che penetra nella casa colonica poi ne esce, spaziando sui campi).
Confermata, forse più che mai, questa volta. E tuttavia le immagini sono come sdoppiate in due
serie diverse, eterogenee: da una parte, le inquadrature maestose alla Terrence Malick; dall'altra
quelle "strette", perfino un po' asfittiche, sul volto del protagonista.
Valerio Caprara - Il Mattino, 16 febbraio 2008
Epico. Smisurato. Viscerale. Visionario. E soprattutto raro: «Il petroliere» di Paul Thomas Anderson
(«Magnolia») non assomiglia a un film contemporaneo, è un'odissea nera che si muove in una
dimensione simile a quella dei capidopera da cineteca firmati Griffith, Huston, Welles o Stroheim.
La trama, curiosamente rispetto a una durata di 2 ore e 38', può riassumersi in poche righe: Daniel
Plainview nel selvaggio West di fine Ottocento cerca l'argento, ma trova il petrolio. Lotterà contro
tutto e tutti - contadini, burocrati e padroni - pur di ottenere dominio e ricchezza illimitati, ma finirà
miliardario pazzo e sanguinario autorecluso nel suo inaccessibile potere. Ricavata la parabola dal
possente quanto ruvido romanzo datato 1927 di Upton Sinclair (capofila con Jack London del
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movimento di scrittori arrabbiati, socialisti e naturalisti cosiddetto del muckrake, il rastrello da
fango), il regista s'affida allo show monumentale di Daniel Day-Lewis. Il quale, sia pure inglese al
100 per cento, assurge con questa prova al rango di Grande Attore Americano: non ci sono parole
per descrivere la sua incarnazione parossistica - basti pensare ai sublimi e pressoché muti venti
minuti iniziali - ma nello stesso tempo si capisce come la logica e la tenuta del film ne risultino
penalizzate (specie nella seconda parte). La spietata misantropia e la febbrile rapacità di Plainview,
infatti, vampirizzano i caratteri collaterali (ad esclusione di quello del fanatico predicatore
interpretato da Paul Dano) e prevaricano l'ambiziosa complessità di tematiche e metafore: la
nascita del capitalismo letteralmente scavata con le unghie, il sangue vivo degli operai che sgorga
assieme al nero vischioso del petrolio, le trivellazioni viste come «stupri» operati dall'individualismo
proprietario, la voglia di vincere innescata dall'odio per il prossimo, lo sgretolarsi del nucleo di
valori fondativi che rende odiosamato il sogno americano. L'aspetto migliore di un film, candidato a
otto Oscar, così notevole e imperfetto, sta nella sua esasperata materialità o addirittura fisicità,
incrementata da un Cinemascope e una colonna sonora di evidenza trascinante: il prometeo
jankee ci racconta certo il traumatico passaggio del paese da agricolo a industriale, ma sullo
schermo è soprattutto un corpo indemoniato, un mefistofele in jeans e cappellaccio, un fiume in
piena che travolge infine anche se stesso.
Roberto Silvestri - Il Manifesto, 9 febbraio 2008
Ci sarà sangue. There will be blood. Un capolavoro visionario e grondante rye whisky apre il
concorso. Filone «cinema capitalistico indemoniato», il sogno americano che diventa un incubo,
come in Il Gigante o Chinatown, più le epopee disperate di John Huston, i melò strazianti di
Douglas Sirk, le fette di storia farcita servite da Griffith, Ford o Milius, e Spencer Tracy, grondante
di liquame nero che anticipò lo psicomostro infetto di Alien e quell'identico mostro di bravura di
Daniel Day Lewis, che di questa epopea sull'individualismo celibe, Paramount più Miramax, è
dittatore assoluto. Impersona, certo, una divinità del liberalismo, il magnate del petrolio
californiano Edward L. Doheny (1856-1935), ma non solo.
Nel 1927, alla vigilia della Depressione, lo scrittore rivoluzionario e muckraking Upton Sinclair
(muckraking è il giornalismo che scopre dove è davvero e come funziona l'immondizia, la
controinformazione che svela gli intollerabili problemi sociali e sfida l'impunità dei potenti,
insomma, l'antenato del manifesto) pubblicò il romanzo Oil! (Petrolio).
Uno studio militante e al microscopio su oltre trent'anni di storia americana attraverso la vita
solitaria e il combattimento di un gold digger senza scrupoli riciclato in cacciatore d'oro liquido,
annessi e connessi: la patologia ossessiva della trivellazione, l'individualismo fanatico che si scontra
con il comunitarismo «religioso» altrettanto fondamentalista e gretto, il criminale fabbricante e
collezionista di pozzi zampillanti e l'avidità spietata e illimitata che è il fiore all'occhiello del libero
mercato e dei suoi antisociali paladini.
Si parla già, tra le righe, di Bush jr. e dei tele-evangelisti associati, ma siamo invece catapultati
indietro, tra la fine dell'Ottocento e il grande crack, cioè dalla «Progressive era» di Theodore
Roosevelt a quella seconda, obbligatoria, stagione di intervento pubblico sull'economia che fu il
New Deal di Franklin Delano Roosevelt.
L'astro nascente del cinema americano più che hollywoodiano, il narratore più affascinante del
momento, Paul Thomas Anderson (Boogie Nights, Magnolia), per la prima volta alle prese con un
romanzo da reinventare sullo schermo, e fuori dalla foresta conosciuta di Los Angeles, tra i deserti
petroliferi dei Citizen Kane di San Louis Obispo, ne ha voluto fare un Novecento californiano (anche
se il set è a Marfa, Texas, decolorata rispetto al paesaggio che sfruttò James Dean in Giant) e non
solo per l'argomento e la durata, 2 ore e 38', o per la superba qualità artistica delle immagini visive
(di Robert Elswit, saccheggiatore gentiluomo dei grandi fotografi d'epoca) e sonore, che
combattono tra di loro come hate e love dentro il Mitchum di Il terrore corre sul fiume, grazie alle
rapsodie elettroniche, meravigliosamente invadenti e pertinenti, di Jonny «Radiohead» Greenwood
(più Brahms e Alto Parvo).
Credo che per la prima volta nativi e californios, wobblies e operai triturati dallo sviluppo, Zorro e
Chavez, abbiano trovato in un film qualche motivo per sentirsi, da revenant, spettri un pochino
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vendicati. Che carogne quelli che fecero la conquista del West.
«Odio la maggior parte dell'umanità e voglio fare più soldi possibile, per farne a meno». Questo il
motto di Daniel Plainview, l'eroe maligno del film, l'uomo solitario e vincente, senza amici fratelli
parenti donne camerieri e figli (tranne uno, insignificante e sordo). Un motto che lui applicherà
contro congreghe ipocrite e imbroglioni, padroni delle ferrovie e burocrati della Standard Oil, pur di
ottenere, non senza umiliarsi se necessario, la vittoria, quella Pipeline fino all'oceano Pacifico, che
lo farà miliardario pazzo, con due avveniristiche pedane di bowling nel salotto. Plainview è
fotografato come un tipico corpo improprio e avulso, né passato né futuro, traumatizzato dal
passaggio tra società agricola e società industriale, che ne utilizza la bioaudacia per concepire
disegni davvero mefistofelici.
Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera, 9 febbraio 2008
Preceduto da otto nomination, tra cui quelle per il miglior film, la miglior regia e il miglior attore
protagonista, arriva a Berlino There Will Be Blood, distribuito in Italia la settimana prossima con il
titolo Il petroliere. È la storia del minatore Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis) che cerca l' argento
e invece trova l' oro nero e a cavallo del ' 900 diventa un ricchissimo petroliere, anche se la
ricchezza arriverà a scapito degli ideali di progresso che l' avevano animato all' inizio della sua
avventura e soprattutto a scapito dell' affetto per un orfano (Dillon Freasier) che ha sempre
considerato come un figlio. Il regista Paul Thomas Anderson (quello di Boogie Nights, di Magnolia
e del più recente, e più deludente, Ubriaco d' amore) ha sfrondato il romanzo Petrolio! di Upton
Sinclair di tutta la parte politica sullo scandalo Harding e dell' umanitarismo socialista a favore dei
lavoratori per concentrarsi sulla figura di Plainview (nel romanzo di chiamava J. Arnold Ross ed era
ispirata al magnate Edward Doheny). In questo modo lo spirito epico di un periodo di svolta per la
civiltà americana, con l' innovazione modernizzatrice che passa attraverso il trivellamento (lo
sventramento?) dei territori della frontiera, viene riassunto nello scavo dentro le ossessioni di un
uomo che piano piano sostituisce l' entusiasmo con l' avidità e il rispetto con l' egoismo. Girato in
Cinemascope e in scenari di ruvida bellezza, il film finisce così per concentrarsi sulla faccia di
Daniel Day-Lewis, davvero ammirevole nel lavoro mimetico che gli permette di esprimere con la
forza dello sguardo, l' incurvatura del corpo, la mobilità delle mani quello che stava trasformando
lo spirito e l' animo di tutta una nazione. Anderson sembra non volersi staccare mai dal suo attore,
lo pedina con lunghe carrellate laterali, lo inquadra in primissimo piano come per incorniciare
quello che accade sullo sfondo (l' epico incendio del pozzo di petrolio) e a volte sembra perdere di
vista il flusso del racconto. O, meglio, finisce per sottolineare soprattutto uno dei protagonisti in
scena, affascinato dall' attore che lo interpreta e insieme ossessionato dalla determinazione del
personaggio che incarna. I meriti e i difetti del film sono tutti qui, nella prova forse troppo grande
di Daniel Day-Lewis e nello sforzo che fa il regista per non perderne nemmeno un grammo (il film
dura 158 minuti), a scapito dei personaggi - il «figlio», il predicatore invasato, il falso fratello,
l'assistente - e dei temi - gli affetti, la superstizione, l' avidità - che pure sono presenti nel film.
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