il giorno che Durò vent`Anni

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il giorno che Durò vent`Anni
Antonio Di Pierro
Il giorno che durò
vent’anni
28 ottobre 1922: la marcia su Roma
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Dello stesso autore
in edizione Mondadori
Il Sacco di Roma
L’ultimo giorno del Papa Re
Il giorno che durò vent’anni
di Antonio Di Pierro
Collezione Le Scie
ISBN 978-88-04-62242-0
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione ottobre 2012
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Comincia l’insurrezione
Ore 0-1
Il re Vittorio Emanuele III è tornato precipitosamente a Roma, il
presidente del Consiglio Facta è a letto a dormire, due ras fascisti, dopo
aver cenato in un ristorante del centro della capitale, annunciano che la
marcia su Roma comincia proprio adesso. A Perugia, quartier generale
dell’insurrezione, il prefetto cede i poteri alle camicie nere. Situazione
ancora incerta nelle città del Centro-Nord, si parla di morti e feriti. A
Milano, Benito Mussolini fa piazzare barricate davanti al suo giornale,
«Il Popolo d’Italia», poi va a teatro e infine ordina di portare messaggi
minacciosi ai direttori dei quotidiani milanesi.
Due uomini bussano ripetutamente coi pugni serrati, mostrando
impazienza giacché nessuno viene ad aprire, al portone dell’Hôtel
Londra chiuso a quest’ora. È una nottataccia. Il temporale ha appena concesso una tregua, ma il cielo plumbeo carico di nuvoloni minaccia altre tempeste preannunciate da forti raffiche di
vento e tuoni lontani. Altro che ottobrate romane. Il maltempo
imperversa da qualche giorno su quasi tutta l’Italia e sembra che
sull’Agro e sulla capitale voglia strafare. Il Tevere s’è ingrossato pericolosamente: le acque hanno raggiunto l’altezza di tredici
metri e, se le condizioni meteorologiche non dovessero migliorare, le abitazioni più vicine al fiume sarebbero in serio pericolo.
I due uomini sembrano incuranti di tutto, impegnati, come due
gemelli siamesi, con una mano a picchiare sul portone e con l’al-
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tra a tenere fermo il cappello sulla testa perché non voli via. Una
pigra coppia di guardie regie piantona l’albergo, segno evidente
che all’interno ci dev’essere qualche ospite importante da proteggere. I militari, per nulla scossi nel loro torpore dal trambusto provocato, sbirciano sospettosi i due uomini meditando forse se non sia il caso di intervenire quando, a toglierli d’impaccio,
compare il portiere di notte.
«Loro cosa vogliono?»
«Vogliamo vedere il presidente del Consiglio.»
«Ma, scusino, e loro chi sono?»
«Siamo due deputati.»
E tanto basta perché il portone s’apra ai nuovi venuti.
I due uomini che ora s’incamminano lungo un corridoio dell’albergo seguendo le indicazioni del portiere di notte sono Aldo Rossini, 34 anni, sottosegretario alle Pensioni di guerra, e Giuseppe
Beneduce, 45 anni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Quest’ultimo è il più agitato. Pochi minuti fa ha avuto la conferma ufficiale che l’insurrezione fascista, cioè la marcia su Roma,
è scattata proprio adesso, alle ore zero di oggi, sabato 28 ottobre
1922, ed è dunque già in pieno svolgimento. Glielo hanno annunciato due caporioni delle camicie nere.
Le cose sono andate nel seguente modo: Beneduce era uscito
dal palazzo del Viminale, sede della presidenza del Consiglio e
del ministero dell’Interno, in via Agostino Depretis, alle 23. Aveva appena parlato al telefono con il capo del governo Luigi Facta
e questi (reduce da un incontro con il re Vittorio Emanuele III) gli
aveva detto che la situazione era tranquilla, che lui se ne sarebbe andato a dormire e che a quel punto si poteva anche chiudere il servizio notturno al ministero.
Il sottosegretario aveva dunque deciso, per dare almeno una
nota positiva alla faticosissima giornata appena trascorsa, di andare a cena al Fagiano, un buon ristorante in piazza Colonna,
molto noto e frequentatissimo dagli uomini politici. Ma appena
entrato nel locale, Beneduce non aveva fatto nemmeno in tempo
a togliersi il cappotto che era stato chiamato a viva voce da un
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tavolo in fondo alla sala: «Peppino, Peppino». S’era voltato da
quella parte e aveva riconosciuto Cesare Maria De Vecchi e Dino
Grandi. Il loro tavolo mostrava i resti di una cena già consumata.
I due ras fascisti davano segni di irrequietezza e d’impazienza.
«Siediti, ti dobbiamo dire cose della massima importanza» aveva
esordito De Vecchi. E Grandi: «Fai sapere al presidente del Consiglio che l’insurrezione è ormai inarrestabile e che egli porterà
la responsabilità degli avvenimenti drammatici che sconvolgeranno la nazione». E ora l’uno ora l’altro: «A mezzanotte in punto noi partiamo per Perugia». «Da Perugia avrà inizixo la marcia
su Roma.» «Ora siete avvertiti.» «Arrivederci, caro Beneduce.»
Il sottosegretario s’era riabbottonato il cappotto ed era uscito
stravolto dal ristorante quando, proprio in piazza Colonna, aveva
incontrato il suo collega di governo Aldo Rossini, al quale aveva
raccontato tutto con voce concitata per poi concludere: «Domani mattina, alle 11, andrò al Viminale per informare subito il presidente del Consiglio». E Rossini, di rimando: «Se non sarà già
ammanettato, preso in camicia da notte. Perché, evidentemente, i fascisti sono decisi ad andare fino in fondo». Così, i due avevano deciso di raggiungere immediatamente l’Hôtel Londra in
via Collina, nella zona dei ministeri di via Venti Settembre, per
mettere al corrente il presidente Facta delle gravissime novità.
Novità, poi, fino a un certo punto. Da mesi le voci di una insurrezione che i fascisti sarebbero pronti a far scattare da un
momento all’altro aleggiano come una cappa sul mondo politico, sulle istituzioni e sull’intero paese. Ma è da pochi giorni, per
l’esattezza da martedì scorso, 24 ottobre, che l’ipotesi del colpo
di Stato ha preso una consistenza nuova. Quel giorno, a Napoli,
dove migliaia di camicie nere erano confluite da tutta Italia per
un convegno nazionale al teatro San Carlo, che taluni hanno ritenuto una sorta di prova generale, il leader del partito Benito
Mussolini, 39 anni, durante una pausa del corteo lungo le strade
della città partenopea, alle 16.30 in piazza del Plebiscito, aveva
eccitato gli animi dei manifestanti con minacciose parole: «Io vi
dico con tutta la solennità che il momento impone: o ci daran-
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no il governo o lo prenderemo calando su Roma. Ormai si tratta
di giorni e forse di ore. È necessario, per l’azione che dovrà essere simultanea e che dovrà in ogni parte d’Italia prendere per
la gola la miserabile classe politica dominante, che voi riguadagnate sollecitamente le vostre sedi. E io vi dico e vi assicuro e vi
giuro che gli ordini, se sarà necessario, verranno».
Chiaro il messaggio? Macché. Quelle di Mussolini potrebbero essere state smargiassate. Frasi pesanti buttate sul tavolo della politica con l’evidente obiettivo di strappare un ministro o un sottosegretario in più nel nuovo governo che, tutti lo
danno ormai per scontato, sostituirà tra breve l’attuale gabinetto in coma profondo con l’inclusione di una pattuglia di fascisti. La pensa così il presidente del Consiglio Luigi Facta, 61
anni, inguaribile ottimista e per questo soprannominato «Nutro fiducia», che alle 19.30 di quattro giorni fa aveva mandato al re, che si trovava nella tenuta di San Rossore in Toscana,
il seguente telegramma: «Adunata fascista Napoli procedette
tranquillamente ... Squadre fasciste stanno ripartendo questa
ora ... Credo ormai tramontato progetto marcia su Roma. Tuttavia conservasi massima vigilanza. Telegraferò domattina ultime notizie. Devoti ossequi».
A contraddire le previsioni del capo del governo, nella serata
del medesimo martedì a Napoli, in una stanza del lussuoso Hôtel
Vesuvio in via Partenope (di fronte al Castel dell’Ovo, splendida
vista) c’era stata una riunione operativa presieduta da Mussolini con i massimi esponenti del Partito nazionale fascista. Ecco le
decisioni prese: alla mezzanotte fra giovedì 26 e venerdì 27 ottobre conferimento dei poteri assoluti a un quadrumvirato che
dovrà guidare l’insurrezione; alla mezzanotte tra venerdì 27 e
sabato 28 ottobre avvio della mobilitazione militare con l’obiettivo immediato di occupare prefetture, questure, stazioni ferroviarie, uffici postali e telegrafici, e di iniziare la marcia su Roma
divisi su tre colonne per entrare nella capitale nella mattinata del
28 e prendere possesso dei ministeri e degli altri centri del potere civile e militare.
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I quadrumviri designati sono Italo Balbo (26 anni, spietato organizzatore nel Ferrarese di assalti ai danni di organizzazioni e
uomini della sinistra), Cesare Maria De Vecchi (38 anni, capo dei
fascisti torinesi e anche lui organizzatore di «spedizioni» contro
i «rossi»), Emilio De Bono (56 anni, generale dell’esercito in posizione ausiliaria speciale), Michele Bianchi (39 anni, segretario
del partito): il loro quartier generale è a Perugia, in un albergo
di prim’ordine, il Grand Hôtel Brufani.
Dunque, la marcia su Roma è una realtà? O la minacciata insurrezione è solo un bluff di Mussolini? Il povero Facta cerca
di darsi una risposta ma è difficile riordinare le idee, ancora intontito per il sonno bruscamente interrotto, davanti a Beneduce e Rossini comparsi all’improvviso come spettri e che lo incalzano con frasi inquietanti: «La rivoluzione è incominciata»,
«Tra poche ore le squadre armate fasciste saranno qui», «La nazione sarà sconvolta da gravi avvenimenti hanno giurato Grandi e De Vecchi».
«Aspettate, aspettate, fatemi almeno scendere dal letto» mormora il capo del governo mentre scosta le lenzuola stando attento
a non far cadere i pantaloni, la giacca e il gilè che egli stesso aveva allungati sulla coperta, prima di mettersi a dormire, evidentemente per attenuare il freddo di questa nottata da lupi. Poi infila
i piedi nelle pantofole, allunga un braccio per prendere la vestaglia, s’aggiusta gli enormi baffi bianchi, in silenzio, con movimenti lenti, come a voler dar tempo alle idee di rimettersi in ordine,
di riannodare e dare un senso logico agli ultimi avvenimenti: almeno da quando, pochi mesi fa, egli era inaspettatamente balzato ai vertici del potere con la nomina a presidente del Consiglio.
Era accaduto che, in una seduta del 2 febbraio scorso, il governo guidato da Ivanoe Bonomi, leader del Partito socialista
riformista, aveva deciso a maggioranza di rassegnare le dimissioni per i contrasti interni sorti in seguito al crack della Banca
di Sconto e alle diverse valutazioni sull’eventuale piano di salvataggio. In particolare, la crisi era esplosa dopo la mozione di
sfiducia di una parte dei democratici che pretendeva un inter-
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vento dello Stato, cioè a carico di tutti i cittadini, per evitare il
fallimento dell’istituto di credito.
Il governo era caduto in un momento particolarmente difficile
per il paese. Ormai da quattro anni, ininterrottamente, cioè dalla
fine della guerra avvenuta il 4 novembre 1918 con la disfatta del
blocco tedesco-austroungarico, l’Italia è sembrata avvitarsi su se
stessa giorno dopo giorno in un processo autolesionistico che la
sta portando sempre più in basso. Gli unici punti fermi sembrano
essere lo sfacelo del settore produttivo, il disfacimento del tessuto sociale, l’impennata del costo della vita, la crescente sfiducia
nelle istituzioni e nel futuro che attraversa trasversalmente l’intera società. E, soprattutto, l’aumento travolgente della violenza praticata dai fascisti contro gli avversari politici cui nessuno
sembra essere in grado di porre un argine.
Perfino la vittoria, al termine del lungo e pesante conflitto (680
mila morti, un milione di feriti e oltre mezzo milione di invalidi), invece di contribuire a rinsaldare l’orgoglio nazionale è stata una delle cause di ulteriori lacerazioni. Al tavolo della pace
l’Italia si era presentata fermamente intenzionata a ottenere tutte le concessioni territoriali pattuite prima del conflitto, in particolare quelle del litorale adriatico, e vi aveva aggiunto la città di
Fiume. Gli alleati, e più di tutti gli Stati Uniti, ritenevano invece che la dissoluzione dell’impero austroungarico e la comparsa
su quelle ceneri di nuove nazioni rendessero superati gli accordi del 1915 e la nuova mappa europea andasse perciò ridiscussa. Le trattative erano state quindi seguite dall’opinione pubblica in un clima di sfiducia, persuasa da una parte che i partner
stranieri volessero ingiustamente penalizzare l’Italia e dall’altra
che la classe politica liberale fosse troppo debole, senza nerbo,
incapace di far valere quelli che apparivano come sacrosanti diritti per i quali era stato versato tanto sangue.
In questo clima avvelenato erano potute maturare la rischiosa
avventura di Fiume (occupata per quindici mesi da un gruppo
di militari italiani ribelli e da volontari guidati dallo scrittore Gabriele D’Annunzio), l’avanzata tumultuosa del nazionalismo, il
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profondo rancore per le conclusioni del trattato di pace, giudicato più per le concessioni territoriali negate (Fiume e la Dalmazia) che per quelle ottenute (il Trentino e l’Alto Adige, la Venezia
Giulia, Trieste, l’Istria e la città di Zara). Così da far recriminare che quella dell’Italia, alla fine, era stata una vittoria declassata, di serie B, o per dirla con le parole dello stesso D’Annunzio
una «vittoria mutilata».
Il primo anno del dopoguerra, il 1919, era stato ricco di novità
nel panorama politico nazionale. A gennaio, la nascita del partito dei cattolici, il Partito popolare italiano, fondato per iniziativa
di don Luigi Sturzo. A marzo la creazione dei Fasci di combattimento per opera di Benito Mussolini. A giugno le dimissioni
del primo ministro Orlando e la nascita del governo Nitti. A novembre l’abolizione da parte del Vaticano del «non expedit», cioè
l’abolizione del divieto ai cattolici – che durava da circa mezzo
secolo – di partecipare alla vita politica nazionale. Nello stesso
mese di novembre le elezioni politiche, le prime dalla fine del
conflitto, i cui risultati erano stati un vero e proprio terremoto.
Il Partito socialista triplicava i voti rispetto alla precedente tornata elettorale del 1913, balzava al 32 per cento e con 156 seggi
conquistati diventava il primo partito italiano; i popolari, al loro
esordio politico, ottenevano un buon risultato con il 20 per cento dei suffragi e 100 seggi. La frastagliata galassia dei liberaldemocratici perdeva per la prima volta la maggioranza assoluta
e crollava, sommando i suoi diversi e spesso litigiosi raggruppamenti, da 300 a circa 200 seggi. Totale l’insuccesso dei fascisti che non riuscivano a portare alla Camera nemmeno un loro
rappresentante.
Mentre il deciso spostamento a sinistra della Camera dei deputati non aveva alcuna conseguenza nelle composizioni governative poiché il Psi (che si autodefinisce Partito socialista «ufficiale», per distinguersi dal Partito socialista riformista fondato
da Bonomi e Bissolati nel 1912) si rifiutava di collaborare con i
«partiti borghesi», lo spostamento a sinistra del corpo elettorale
si misurava nell’accresciuta conflittualità delle trattative sinda-
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cali, nell’aumento vertiginoso del numero degli scioperi e delle manifestazioni di protesta organizzate per i motivi più disparati e a volte futili.
Ma neanche l’eccezionale e diffusa mobilitazione dei lavoratori aveva portato risultati concreti. E dunque, dopo due anni di
lotte tanto aspre da aver fatto guadagnare a quel periodo l’appellativo di «biennio rosso», raggiunto il culmine della tensione
nell’agosto-settembre 1920 con l’occupazione delle fabbriche,
la classe lavoratrice si era vista costretta a chiudere quella lunga stagione con la sensazione di una umiliante sconfitta. Tanto
più umiliante in quanto la rivoluzione e la conquista del potere
(«come in Russia», si diceva) erano sembrate vicine, così almeno
avevano fatto credere gran parte dei dirigenti socialisti e sindacali. Il timore che quella rivoluzione solo minacciata – ma non preparata né organizzata – potesse effettivamente travolgere l’Italia
aveva invece contagiato la borghesia, gli industriali, gli agrari
e il diffuso ceto medio fatto di bottegai, professionisti e piccoli
artigiani. Questa variegata classe sociale cominciava a meditare una controffensiva per neutralizzare e sconfiggere i «rossi», i
«sovversivi», visti come una minaccia ai loro interessi: e i fascisti sono sembrati i naturali predestinati a raccogliere tale sfida.
Se si vuole cercare una data che segni l’inizio dello squadrismo, questa è il 21 novembre 1920 (nel giugno precedente Nitti
era stato sostituito da Giolitti alla guida del governo). Quel giorno, a Bologna, mentre i socialisti si preparavano a festeggiare la
conquista del comune alle elezioni amministrative, i fascisti assaltarono palazzo d’Accursio sede del municipio: ne seguirono
scontri che provocarono dieci morti e una cinquantina di feriti.
Da quel momento l’attacco organizzato e sistematico dei fascisti
agli uomini e alle organizzazioni della sinistra è sembrato non trovare più ostacoli. Il Partito socialista, obiettivo principale dell’attacco squadrista, è apparso incerto e diviso sia dal punto di vista «militare» che da quello politico. Al congresso del partito, nel gennaio
1921 a Livorno, invece di serrare i ranghi contro il comune nemico
ha maturato una dolorosa scissione: la componente comunista si è
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staccata e ha fondato il Partito comunista d’Italia (Pcd’I). Intanto
la situazione politica nazionale continuava a essere caratterizzata
dall’ingovernabilità e Giolitti ad aprile, a meno di un anno e mezzo
dalle precedenti elezioni, aveva sciolto la Camera per mandare gli
italiani di nuovo alle urne. Stavolta i fascisti, che si erano presentati nei Blocchi nazionali, liste di coalizione con i liberali promosse
dallo stesso Giolitti, conquistavano 35 seggi. I socialisti perdevano
consensi scendendo da 156 a 123 deputati (15 sono andati ai comunisti), i popolari salivano da 100 a 108. Insomma, i rapporti di forza tra i partiti non hanno subìto sostanziali mutamenti e la novità più rilevante è stata l’ingresso – per la prima volta – dei fascisti
in Parlamento. Tanto la situazione era rimasta ancora di stallo che
Giolitti, giocata inutilmente la carta delle elezioni, a fine giugno si
era dimesso ed era stato sostituito da Bonomi.
Ma anche Bonomi era durato poco per essere rimpiazzato al
termine di una lunghissima crisi, nel febbraio scorso, da Luigi
Facta. Figura di secondo piano nel panorama politico italiano,
uomo di fiducia di Giolitti, Facta era stato scelto proprio per le sue
modeste qualità, per guidare un governo di transizione nell’attesa e nella speranza che l’anziano leader liberale (ieri ha compiuto 80 anni) riuscisse a rientrare sulla scena e a comporre un
esecutivo forte e di lunga durata. Su di lui, il giudizio più duro
rimane quello dello storico Gaetano Salvemini: «Sembrava impossibile riuscire a trovare un presidente del Consiglio più incapace di Bonomi. Invece si è trovato Facta: un uomo politico di
quart’ordine col cervello di una gallina».
In una situazione così sfilacciata le violenze fasciste sono cresciute a dismisura, con un raggio d’azione sempre più ampio. A
luglio l’aggressione al deputato popolare Luigi Miglioli aveva
provocato l’uscita dalla maggioranza del Ppi e le dimissioni di
Facta. I tentativi di rimettere in piedi una coalizione credibile non
aveva portato ad alcun risultato e così la scelta era caduta nuovamente su Facta, con il paradosso che gli stessi partiti che lo avevano sfiduciato a luglio gli hanno dato la fiducia per un governo bis, rimaneggiato con alcuni nomi nuovi, ai primi di agosto.
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La gestazione del secondo ministero Facta si era svolta in un
momento di scontro violentissimo nel paese. Per protestare contro le violenze squadristiche e premere per la formazione di un
governo antifascista, socialisti e sindacati avevano proclamato
per il primo agosto uno sciopero generale detto «legalitario». Ma
il risultato dell’agitazione era stato deludente, diciamo pure un
fallimento. In primo luogo per la scarsa partecipazione all’astensione dal lavoro. Inoltre, per la massiccia, diffusa e durissima
reazione dei fascisti, che da una parte avevano impedito il blocco dei servizi pubblici sostituendosi a tranvieri, ferrovieri e postini e dall’altra avevano lanciato un ulteriore attacco a ciò che
rimaneva ancora in vita delle Case del popolo, delle sedi sindacali, delle sezioni dei partiti, dei municipi «rossi».
Intanto il Facta bis, nonostante la presenza di sinceri democratici come Giovanni Amendola alle Colonie, Paolino Taddei
all’Interno, Giulio Alessio alla Giustizia (definiti da Mussolini
«tre anime nere della reazione fascista»), ha continuato a essere
caratterizzato dall’immobilismo. Perfino una iniziativa gravissima come la costituzione della Milizia fascista (cioè un vero e
proprio esercito privato agli ordini di un partito, il cui regolamento è stato pubblicato sul «Popolo d’Italia» del 3 ottobre scorso) non ha provocato alcuna conseguenza. Una arrendevolezza dello Stato così plateale da stupire lo stesso Mussolini, che
quel giorno ha commentato con i suoi collaboratori: «Se in Italia ci fosse un governo degno di questo nome, oggi stesso dovrebbe mandare qui i suoi agenti e carabinieri, scioglierci e occupare le nostre sedi».
E proprio da quel giorno, imbaldanzito dall’inerzia del governo e dalla scarsa, quasi nulla resistenza della sinistra (ai primi
di ottobre, al diciannovesimo congresso del Psi «ufficiale», una
nuova divisione ha lacerato il partito con l’espulsione della corrente riformista – Filippo Turati, Giacomo Matteotti, Claudio Treves –, che ha fondato un’altra forza politica, il Partito socialista
unitario), Mussolini ha dato una decisa accelerazione ai piani insurrezionali fino alle decisioni operative prese il 24 ottobre a Na-
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poli con la nomina del quadrumvirato e la decisione di cominciare oggi stesso la marcia su Roma.
Ma che ci faceva il quadrumviro De Vecchi pochi minuti fa
al Fagiano? Non si sarebbe già dovuto trovare a Perugia per dirigere le operazioni del colpo di Stato? Per scoprirlo dobbiamo
fare un piccolo passo indietro e tornare a Napoli, martedì scorso.
Va detto subito che De Vecchi è contrario all’insurrezione.
Egli ritiene che il partito non sia ancora militarmente così forte da poter sperare di vincere la sfida contro i poteri dello Stato
(esercito, guardie regie, polizia, carabinieri) se questi decidessero di reagire. Pensa perciò che la marcia su Roma debba servire solo come minaccia alle istituzioni per spingere il re a favorire una crisi che porti a un nuovo governo con la partecipazione
dei fascisti. E così, dopo aver accettato martedì sera di partecipare come quadrumviro al piano insurrezionale, già il giorno successivo, quando era ancora a Napoli, aveva cominciato a brigare
per cercare una soluzione politica. Il primo a cui aveva raccontato il progetto della marcia, mercoledì mattina, era stato il deputato fascista Costanzo Ciano. Ottenuta la sua collaborazione,
insieme erano andati dall’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, in
quei giorni a Napoli, per chiedergli di mettersi in contatto con il
re e avvertirlo di quanto i fascisti stavano preparando. Tornando
all’albergo, De Vecchi aveva incontrato Dino Grandi, aveva raccontato anche a lui che cosa stava bollendo in pentola e l’aveva
convinto a mettersi dalla sua parte. Prima di partire da Napoli,
infine, il quadrumviro era riuscito a inviare un messaggio a Torino, al duca d’Aosta, informandolo della preparazione del colpo di Stato e pregandolo di avvertire il re.
Giunto a Roma giovedì 26, De Vecchi (accompagnato da Ciano)
era andato a casa di Antonio Salandra, uomo di destra ed ex presidente del Consiglio, che abita in un bel villino in via Girolamo
Fracastoro, a ridosso della via Nomentana tra Porta Pia e villa
Torlonia. I due avevano messo al corrente l’esponente politico
dell’insurrezione fascista. E gli avevano chiesto di avvertire subito il re che, se il governo non si fosse dimesso immediatamen-
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te, sabato sarebbe cominciata la marcia su Roma. Salandra, non
avendo modo di stabilire un contatto diretto con Vittorio Emanuele III, aveva riferito tutto a un ministro simpatizzante dei
fascisti, Vincenzo Riccio, chiedendogli di prendere un appuntamento con Facta al più presto. Alle 15.30 il capo dell’esecutivo riceveva Salandra e Riccio e, nella serata, i ministri deliberavano di mettere i loro portafogli a disposizione del presidente.
Ieri, venerdì 27, De Vecchi e Grandi (Ciano era intanto partito
per Milano) avevano fatto ripetute visite a casa Salandra – ma
anche a quella dell’ex presidente Orlando – per spingere verso la crisi di governo. E, dopo una giornata di tentativi andati a
vuoto, poco prima della mezzanotte, ecco l’incontro dei due fascisti con Beneduce al Fagiano prima della partenza per Perugia, da dove dovranno dirigere la marcia su Roma (De Vecchi a
Napoli aveva nominato Grandi suo «capo di stato maggiore»,
non è ben chiaro a quale scopo pratico se non come pretesto per
portarselo dietro al quartier generale umbro in caso di fallimento della soluzione «politica»).
L’ottimismo di Facta, nel frattempo, aveva cominciato pian
piano a vacillare. Ancora mercoledì 25 il primo ministro aveva
telegrafato al sovrano un testo dai toni tutto sommato tranquillizzanti: «Adunata fascista Napoli è completamente terminata
con partenza squadre avvenuta regolarmente. Numero intervenuti che giornali dissero cinquantamila e trentamila in effetto è
di circa quindicimila. ... Credo che nota calata a Roma sia definitivamente tramontata. Tuttavia non sarà per nulla diminuita vivissima vigilanza nostra. Passata giornata Napoli si farà più interessante situazione ministeriale che ritengo insostenibile per vari
dissensi fra parecchi ministri. Tuttavia procuro ritardare scoppio dissenso fino quando non sia sicura una forte base di successione. Informerò vostra maestà andamento cose. Devoti ossequi».
Giovedì 26, invece, Facta aveva alzato il livello dal fiducioso
al leggermente preoccupato: «Informazioni improvvisamente giunte indicano possibilità qualche tentativo fascista. Governo provvederà energicamente. Mussolini fecemi sapere ieri che
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sarebbe disposto entrare ministero anche con qualche rinunzia
portafogli chiesti purché ministero stesso fosse presieduto da
me. ... Informerò vostra maestà seguito avvenimenti. Confermo intanto che furono date più rigorose disposizioni onde soffocare subito qualunque movimento pericoloso ordine pubblico. Devoti ossequi».
Ma a mezzanotte e dieci minuti di ieri, venerdì 27, il presidente del Consiglio con il seguente telegramma aveva lanciato
al re un vero e proprio allarme pregandolo di venire al più presto a Roma: «Condizioni si concretano in certo nervosismo dipendente dalle voci che fascisti stiano per promuovere in tutta
Italia movimenti insurrezionali. Da molti si ritiene notizia esagerata allo scopo di fare pressioni indole parlamentare cioè crisi
ministeriale e non apertura Parlamento. Si sono prese tutte precauzioni. Oggi ministri vennero dichiararmi mettermi a disposizione loro portafogli onde potessi essere completamente libero in qualunque evenienza. ... Ripeto che condizione ministero
è assolutamente compromessa sicché caduta può avvenire indipendentemente ogni causa esterna. ... Permettomi indicare vostra maestà che data situazione attuale ogni parte politica desidera che vostra maestà venga a Roma. Onorevole Salandra venne
oggi dirmi essere stato incaricato da parte fascista rappresentare vostra maestà situazione e che ritiene provvidenziale venuta
vostra maestà Roma senza ritardo. ... Devoti ossequi».
Letto il telegramma mentre era a caccia nella sua tenuta di San
Rossore, Vittorio Emanuele aveva fatto preparare immediatamente il treno reale e alle 20 di ieri sera era alla stazione Termini. Qui lo aspettava Facta. Il re (53 anni il prossimo 11 novembre) appariva stanco e nervoso. «Mantenga l’ordine» si sarebbe
limitato a dire al capo dell’esecutivo dandogli appuntamento a
più tardi a villa Savoia, la residenza reale immersa in un grande
parco sulla via Salaria dove il presidente del Consiglio è entrato poco dopo le 21. I termini esatti di questo secondo colloquio
non sono noti. Sembra che Facta abbia presentato le dimissioni
sue e dell’intero governo, mentre Vittorio Emanuele si sarebbe
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mostrato preoccupato per l’evolversi della situazione dichiarando: «Non faccio un ministero durante la violenza: abbandono
tutto, vado con mia moglie e mio figlio in campagna». Comunque, si può dedurre con sufficiente approssimazione che Facta
sia riuscito a convincere il re che la minacciata insurrezione fascista è solo un grande bluff, e che egli sia quindi uscito da villa
Savoia senza aver concordato con il capo dello Stato alcuna decisione operativa immediata. Non si comprenderebbe altrimenti come mai il presidente, invece di tornare al ministero, sia andato direttamente dalla residenza reale all’albergo e prima di
mettersi a dormire abbia addirittura telefonato ai suoi collaboratori dicendo che era tutto tranquillo e che si poteva chiudere
il servizio notturno.
Ben si comprende, invece, lo stordimento di Facta, adesso ai
piedi del suo letto, dopo essere stato bruscamente svegliato da
Rossini e Beneduce. È come imbambolato, non sa che decisioni
prendere, mentre guarda il suo telefono riservato, collegato direttamente con il Viminale, che dopo numerosi tentativi continua a rimanere inesorabilmente muto. Provocando l’irritazione di
Rossini: «Ma è impossibile che tu, presidente del Consiglio, non
trovi nessuno...». E lui: «Eh, insomma, alle 11 mi hanno chiesto
il permesso di andare a dormire, perché tanto c’è la crisi, siamo
dimissionari, io ho detto che andassero, che ci saremmo visti domani mattina». Poi, in un soprassalto di attivismo, Facta propone la convocazione immediata del Consiglio dei ministri. I due
sottosegretari lo dissuadono, obiettano che sarebbe opportuno
verificare intanto la reale situazione nel paese convocando immediatamente una riunione informativa.
A mezzanotte e mezza, Facta e pochi suoi collaboratori sono
dunque al ministero della Guerra, in via Venti Settembre, poco
distante dall’Hôtel Londra, dove il ministro Marcello Soleri li
aspetta. Questi ha raccolto su un grande tavolo i primi rapporti giunti da diverse città del Centro-Nord. Il quadro è allarmante. Uffici telegrafici occupati, prefetture assediate, movimenti di
uomini armati.
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Comincia l’insurrezione
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Una compagnia di carabinieri viene subito fatta schierare davanti al ministero. Si decide di trasferire la tutela dell’ordine
pubblico dall’autorità civile a quella militare. Ma non tutti i tasselli della macchina statale funzionano in sintonia uno con l’altro. Per esempio, l’ordine di affidare all’esercito la difesa della
capitale viene comunicato dal direttore generale della pubblica
sicurezza, Raffaele Gasbarri, con una semplice telefonata al comandante del presidio militare di Roma, il generale Emanuele
Pugliese. E quando questi chiede ordini precisi e scritti «circa i
compiti da assolvere, e circa il contegno delle truppe, di fronte a
eventuali tentativi insurrezionali», il funzionario del ministero
dell’Interno risponde: «Gli ordini saranno dati domattina: tanto, i fascisti non possono essere qui prima delle 7. Io ora me ne
vado a dormire».
Gli squadristi, invece, non stanno a dormire. A Perugia hanno
già occupato la prefettura e il rappresentante del governo, Emilio Franzè, ha accettato di trasmettere i poteri al quadrumvirato
fascista. Il risultato è stato ottenuto senza alcuna azione cruenta. Semplicemente, alle 23.30 quattro «messaggeri» sono entrati nel palazzo e hanno chiesto al prefetto «la resa senza spargimento di sangue». Il sì è arrivato dopo un’ora di riflessione. Un
pericoloso segnale di cedimento delle istituzioni.
Le notizie che arrivano dalle altre città sono ancora frammentarie. Sembra che l’insurrezione in molti casi sia scattata anzitempo, dal pomeriggio o dalla serata di ieri, per esempio a Firenze
e a Pisa con esiti ancora da verificare. A Cremona e a Bologna ci
sarebbero stati scontri a fuoco, con morti e feriti.
A Milano Mussolini è asserragliato nella sede del «Popolo d’Italia», in via Lovanio all’angolo con via Moscova. Ieri sera aveva chiamato i suoi collaboratori e aveva domandato: «La redazione è al completo? Qual è la disciplina delle squadre dei nostri
operai? Sono possibili più turni? C’è il macchinario per le tirature massime? C’è la carta in magazzino? Da questa sera bisogna considerarci tutti mobilitati e provvedere per la difesa armata dell’edificio e delle macchine. L’azione sta per incominciare e
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ognuno sia al suo posto. Bisogna difendere il nostro fortilizio a
ogni costo». Subito dopo, una fila di bobine di carta rotativa veniva piazzata davanti alla sede del quotidiano per formare una
barricata. Intanto Mussolini aveva telefonato al teatro Manzoni
per prenotare tre poltrone: per lui, per la moglie Rachele e per
la figlia Edda. Ieri sera davano Il cigno di Ferenc Molnár con la
compagnia di Dario Niccodemi.
Dopo lo spettacolo il leader del Partito fascista è tornato al
giornale-fortilizio. Prima di andare a casa ha chiesto di sapere
come usciranno i principali quotidiani milanesi, che cosa scriveranno dell’insurrezione appena iniziata. Ha affidato l’incarico al
suo fedele segretario Cesare Rossi. In questi minuti l’uomo sta
reclutando un manipolo di squadristi che lo accompagni nella
visita notturna alle redazioni dei giornali: «Corriere della Sera»,
«La Giustizia», «Avanti!», «Il Secolo». Il messaggio che deve trasmettere, per ordine di Mussolini, è una chiarissima minaccia:
i direttori che avessero intenzione di scrivere in termini critici
della marcia su Roma farebbero meglio, molto meglio, a non far
uscire i loro giornali.
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