DONETSK, IL PESO FALSO - Rotary Rimini Riviera

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DONETSK, IL PESO FALSO - Rotary Rimini Riviera
ANNO XIX NUMERO 119 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 22 MAGGIO 2014
Sembra che Kharkiv voglia sparire nel
nulla in attesa che le cose si sistemino da
sole, che un giorno un ministro arrivi e dica: siete una città ucraina! Oppure: voi fate parte della Novorossiya! O ancora: questa terra è terra russa! Sulla Prospettiva
Lenin ho visto un farmacista cancellare
con lo straccio la scritta “referendum” che
qualcuno ha lasciato sulla vetrina del suo
negozio la notte prima. La maggior parte
della gente non è troppo interessata al colore del passaporto, il desiderio di conoscere la fine della storia pare oggi molto
più grande. Il sindaco Kernes appartiene
al Partito delle Regioni, lo stesso dell’ex
presidente Viktor Yanukovich, ma nei giorni della crisi ha cercato soprattutto di tenere insieme la città, lo ha fatto quando gli
studenti delle scuole superiori hanno occupato il palazzo del governo giurando di difenderlo sino allo stremo dagli attacchi dei
separatisti e anche un paio d’ore dopo,
quando i filorussi sono arrivati davvero,
hanno sfondato il portone d’ingresso e hanno preso a bastonate gli studenti. Oggi il palazzo è sorvegliato da una squadra di agenti del ministero dell’Interno. “Siamo circa
tremila in città”, dice il comandante all’ingresso dell’edificio. Alle sue spalle muratori e falegnami lavorano ancora per riparare i danni. I suoi uomini non sono di
Kharkiv, vengono da altre città, da Poltava,
forse anche da Leopoli. Il capitano dice:
“La situazione è tranquilla, potreste trasfe-
tov. Alcuni sono riusciti a fuggire, altri sono morti carbonizzati e intossicati: è stata
la peggiore strage dall’inizio della crisi insieme con la mattanza che le forze di sicurezza hanno portato a termine nella capitale durante gli ultimi giorni di Yanukovich. A Kiev alcuni politici hanno salutato la
strage come un gesto di coraggio, c’è chi ha
scritto che quel giorno la città ha mostrato “il suo valore”. Gli ucraini si incolpano
a vicenda, in Europa si osserva e si giudica dalle colonne sghembe dell’“obiettività”. Ma l’“obiettività” non è più di questa
terra: nessuno chiama le stragi con il loro
nome, nessuno parla di omicidi e agguati,
ma soltanto di “provocazioni”. Chi muore
passa su un elenco di nomi che non si piangono, tutt’al più si vendicano. Con questi
pesi falsi si misurano le colpe nella guerra d’Ucraina.
Se c’è una cosa che i separatisti non hanno ancora sconfitto è la burocrazia. Per lavorare come giornalisti a Donetsk occorre
un accredito della Repubblica popolare,
l’autorità che ha indetto il referendum
dell’11 maggio e cerca di impedire le presidenziali ucraine che si svolgono domenica. L’ufficio è al centro della città, in un palazzo occupato dai ribelli, e si può entrare
soltanto scortati da un volontario. Quello
che si offre di accompagnarmi si chiama
Vova, lo fa soprattutto per vedere i suoi superiori e chiedere un paio di anfibi e una
tuta mimetica (ora porta una maglietta nera, i pantaloni di una tuta, calze di spugna
“Qui è tranquillo, potete
trasferirvi se volete”. Se accade
qualcosa? “Non lo so. Gli ordini
arriveranno allora”
A Donetsk sventolare la
bandiera sbagliata è un reato. La
pena dipende da chi rappresenta
l’autorità in quel momento
rirvi qui, è una città magnifica”. E che cosa farete nel caso in cui qualcuno cercasse di occupare ancora il palazzo? “Non lo
so – risponde – Suppongo che gli ordini arriveranno allora”.
L’assalto al palazzo del governo e l’agguato contro Kernes hanno sollevato molti
dubbi sulla polizia locale, che da allora ha
praticamente perduto il controllo sulla
città. A Kernes hanno sparato con un fucile di precisione mentre correva nel Parco
Gorkij. Quando lo hanno colpito era solo e
passava accanto a un monumento per gli
eroi del ciclismo (prima di vedere quel monumento non avevo mai sentito parlare di
“eroi del ciclismo” ucraini o sovietici). Kernes è considerato in patria un politico originale: è un atleta, un collezionista di animali, i più generosi gli danno del corrotto,
nei bar bisbigliano che è tossicodipendente o schizofrenico. Dicono che passasse la
maggior parte del tempo all’Hotel National, un quattro stelle poco lontano dal centro. La hall è buia, ci sono divani in cui uomini parlano a bassa voce, quindi si avanza fra stampe francesi dell’Ottocento sino
alla sala da pranzo e lì c’è un enorme leone imbalsamato, le cameriere passano senza farci caso ma l’animale è impressionante. “Kernes non è certo un modello per noi
ebrei”, mi dice Nika, insegnante di Lingue
in una scuola di Kharkiv, tornata in Ucraina dopo gli studi a New York. “Al nostro
paese serve un vero patriota, uno che faccia esclusivamente gli interessi della no-
e sandali). Al cancello d’ingresso ci sono la
testa di una scimmia con la scritta “Obama”, simboli della Repubblica di Donetsk,
della chiesa ortodossa e dell’Unione sovietica. Il tragitto sino al corpo del palazzo
passa per barricate di vecchi copertoni, filo spinato, rottami e sacchi di sabbia, in
ogni angolo del cortile ci sono uomini armati, ma pochi dentro hanno il permesso
di portare pistole e fucili. Si vedono divise d’ogni tipo, alcuni hanno camicie russe,
altri giacconi americani, quelli con le armi
sono un paio per pianerottolo e tengono i
kalashnikov penzolanti sulle spalle. Al primo piano ci sono cucina e infermeria, al
secondo un ospedale, al quinto tengono i
prigionieri. L’ufficio stampa si trova al settimo, ma l’accredito è valido soltanto con
un timbro che si ottiene all’undicesimo
piano, in quelli che un tempo erano gli uffici del governatore. I separatisti dormono
dove capita, nessuno beve, si fuma ovunque. L’infermeria e la cucina sembrano le
sole cose funzionanti in questo palazzo occupato.
“Sono qui dal 6 maggio – dice Igor, faccia stanca, mani tatuate, uno dei cuochi del
palazzo – Ho lavorato sui treni, sono stato
in Siberia da ragazzo, ora ho perso il lavoro e credo che non andrò mai via di qui”.
Mi chiede di collegare una vecchia tv a un
lettore dvd mentre prepara caffè e pane
con la pancetta. Sul tavolo ci sono due grosse buste di plastica con funghi e patate. “E’
impossibile dire quanti soldati ci siano qui,
(segue dall’inserto I)
Nikolaj, leader di Pravy
Sektor, dice che “qui non è la
Crimea, siamo pronti a prove
fisiche contro i separatisti”
stra gente”. Quando le chiedo un paragone
poggia la tazza del caffè, sorride e domanda a sua volta: “Conosci Lukashenko? Credo che uno come Lukashenko sarebbe perfetto in Ucraina”. Qualche tempo fa Kernes
è finito al centro di uno scandalo per avere dato il via libera alla costruzione di un
grande complesso residenziale proprio
dentro il Parco Gorkij, lo stesso in cui gli
hanno sparato. La polizia, come diceva la
moglie del rabbino Moskovitz, non ha ancora scoperto il nome di chi l’ha colpito, ma
non ha spiegato neppure come abbiano fatto a centrarlo. Camminando lì intorno penso che il cecchino non lo possa avere colpito dall’alto perché non ci sono edifici,
non c’è una casa nel giro di chilometri, c’è
soltanto una strada completamente piatta e
trafficata in ogni ora del giorno. Quando
rialzo gli occhi da terra vedo un camion
con la gru e due operai che riparano i lampioni lontano meno di cinquanta metri.
“L’idea che siamo stati noi è assolutamente assurda”. Nikolaj cerca in qualche
modo di mostrarsi divertito, ma sa che
molti a Kharkiv pensano esattamente
quello. Avrà quarant’anni, porta i jeans,
una vecchia camicia e una giacca ancora
più vecchia. Qui è uno dei leader di Pravy
Sektor, il movimento di estrema destra che
La bandiera della Repubblica popolare di Donetsk sventola fuori da un edificio amministrativo occupato dai separatisti
DONETSK, IL PESO FALSO
La piaga delle terre di Gogol’ deriva dai paramilitari che litigano tra
loro. La gente non si fida né della polizia né dell’esercito (malconcio)
ha combattuto a Kiev contro Yanukovich e
corre alle elezioni presidenziali con un
suo candidato, Dmitro Yarosh. “Se volete
capire chi ha sparato a Kernes dovete cercare chi guadagna dalla sua morte – ripete – Le elezioni sono vicine, Kernes si sarebbe ricandidato. Senza di lui si farà
avanti qualcun altro”. In città è pieno di
manifesti con il volto del sindaco e la scritta: “My Zhdem”, noi aspettiamo. Forse l’annuncio non vale per tutti. Nikolaj si muove con estrema dignità. Quando gli ho chiesto di incontrarmi mi ha dato appuntamento in un ristorante uzbeco lontano da
Kharkiv. Il ristorante si chiama Novruz, la
scusa è che lì avremmo potuto discutere
senza essere disturbati, la verità è che gli
esponenti di Pravy Sektor non mettono
piede in città da un mese per paura di essere arrestati. Va avanti così dagli scontri
al palazzo del governo, è un’altra conseguenza di quella battaglia.
Nikolaj è estremamente attento alle parole, direbbe tutto sottovoce se potesse, ma
appena ci sediamo in giardino gli amplificatori sparano musica tradizionale a tutto
volume, così dobbiamo strillare per capirci e tutti sentono quel che stiamo dicendo.
Come se non bastasse la cameriera arriva,
prende gli ordini e ci chiede quindici hryvnia per la musica, il che mette Nikolaj di
pessimo umore. L’uomo è arrivato con due
camerati molto più giovani di lui. Spiega
che fare parte di Pravy Sektor significa essere pronti a fare “qualcosa di concreto”
per difendere il paese. Quando gli chiedo
che cosa si può fare di “concreto”, risponde che è meglio non scendere nei dettagli.
Ripete lo stesso alle domande precise sul
numero di seguaci a Kharkiv e sull’organizzazione interna del gruppo. Gli altri due
siedono tranquilli, non sono armati, uno interviene spesso nella conversazione, l’altro
al massimo fuma. Pravy Sektor è nato circa sei mesi fa a Kiev dalla fusione di alcuni gruppi nazionalisti. I filorussi li chiamano genericamente “banderovzy”, da Stepan
Bandera, un politico ucraino che occupa
una posizione controversa nella storia del
paese: per alcuni è un eroe, uno che ha
combattuto contro i sovietici per l’indipendenza del paese, per altri era semplicemente un nazista che ha mandato al macello ottantamila ebrei e polacchi, per non
parlare dei connazionali. Nel 1941 ha approfittato dell’attacco nazista contro l’Unione sovietica per proclamare una Repubblica indipendente a Leopoli. Nel ’59 il Kgb
lo ha eliminato con il veleno a Monaco. Nel
2010, quando il governo ucraino ha deciso
di dedicargli un’onorificenza, si è preso le
condanne del Centro Simon Wiesenthal. In
una delle sue prime interviste alla stampa,
Yarosh ha dichiarato serenamente di avere
a disposizione circa cinquemila uomini,
gente preparata a combattere nei campi di
addestramento che si svolgono costantemente nelle campagne del paese. Chiedo ai
tre se hanno partecipato ai campi e la risposta è serena come quella di Yarosh: sì,
con noi c’erano reduci della Cecenia, alcuni hanno combattuto al fianco dei russi, altri stavano dalla parte opposta, ma sono
passati vent’anni da allora e oggi sosteniamo tutti una causa comune. Chiedo a Nikolaj che cosa farebbe se i filorussi annunciassero un referendum anche qui a
Kharkiv, lui risponde che questa “non è la
Crimea, qui siamo pronti a prove fisiche
contro i separatisti”. Poi aggiunge che il vero problema di Pravy Sektor non sono né
la Russia né i separatisti filorussi: “In questo momento siamo preoccupati soprattutto dal governo, noi abbiamo liberato l’Ucraina da Yanukovich e cosa abbiamo in
cambio? La polizia ci vuole disarmare, molti di noi sono finiti in carcere, ci perseguitano senza ragione. Indebolire noi significa
indebolire tutto il paese. In America tutti i
cittadini possiedono armi e lo stato li rispetta. Qui in Ucraina avviene l’esatto contrario. Non abbiamo più un luogo in cui incontrarci. La polizia sa chi siamo e dove viviamo, conosce le targhe delle nostre auto.
Con i social network il loro lavoro è diventato sin troppo facile”.
* * *
“I tuoi pesi sono tutti falsi, eppure tutti giusti. Perciò non ti denunceremo!
Siamo convinti che tutti i tuoi pesi sono
giusti. Io sono il grande verificatore”.
Joseph Roth, “Il peso falso”
Le milizie sono un problema enorme
per l’Ucraina. In un paese piegato dalla
crisi economica e spaventato della guerra
civile, basta una tuta verde per trasformare un autista senza lavoro in una buona recluta. In Ucraina ci sono decine di milizie
paramilitari, Pravy Sektor ha il suo esercito privato e chiede al governo di riconoscerlo ufficialmente, Svoboda ha un braccio armato, il governatore di Dnipropetrovsk, Igor Kolomoisky, possiede PrivatBank
ed è legato a tre battaglioni che si chiamano Dnipro, Donbass e Azov: garantiscono
la sicurezza in quattro distretti nella parte meridionale del paese, i loro comandanti proteggeranno le elezioni del 25 maggio,
per questo motivo a Donetsk e nelle altre
province separatiste è diventato quasi impossibile trovare uno sportello di PrivatBank che funzioni ancora. Il magnate delle materie prime Akhmetov usa gli operai
delle sue fabbriche per tenere sotto controllo le città dell’est, autorizza scioperi,
vuole impedire che i separatisti prendano
troppo potere, ma non si oppone alle loro
richieste. Naturalmente anche i filorussi
hanno gli eserciti. A Donetsk tre formazioni distinte si sono unite nell’Armata Russo-Ortodossa e nei giorni scorsi questi uomini hanno attaccato i seggi delle presidenziali per fermare i preparativi. Rubano
i timbri, distruggono i registri, vogliono costringere il governo ad annullare tutto. Il
Parlamento ucraino accetterà il risultato
finale anche nel caso in cui alcune province non dovessero votare, lo dice una legge
approvata pochi giorni fa. Ma questa norma aprirà molti interrogativi sulla legittimità delle elezioni e già rischia di favorire i candidati più vicini alle istanze dell’Ucraina occidentale, dove si voterà senz’altro, da Poroshenko alla sua rivale più quotata, che è Yulia Tymoshenko, sino ai partiti di estrema destra. Sarà un problema in
più per l’Ucraina che sceglierà di avvicinarsi all’Europa.
Anche a Slovyansk e Kramatorsk ci sono
formazioni paramilitari ben organizzate.
Fra questi gruppi non corrono buoni rapporti, spesso si scontrano, si contendono
strade e prigionieri, vogliono mostrare ai finanziatori chi è davvero il più forte: non
hanno un capo comune, sono divisi secondo clan, i soldi, più degli ideali, guidano le
loro azioni. Le milizie sono posti di lavoro,
voti, braccia a disposizione dei potenti locali. La gente non si fida della polizia, l’esercito ucraino – quello vero – è malconcio,
le truppe sono senza cibo e sacchi a pelo,
il compito di sfamarli è lasciato ai cittadini che vivono nelle zone in cui si svolgono
le operazioni “antiterrorismo”, come le
chiama il governo di Kiev. Per molti, gli uomini dell’Armata Russo-Ortodossa sono più
affidabili delle forze regolari. Ecco la Novorossiya: nessuna vera ideologia, nessun
senso della nazione, soltanto milizie che difendono le strade dagli attacchi di “fascisti” e poliziotti.
“Signori viaggiatori, il treno seguirà un
percorso alternativo a causa di operazioni
militari”. Questo è il messaggio che il capotreno del convoglio 17 da Kharkiv a Donetsk trasmette con il microfono due minuti dopo la partenza. E’ un treno minimo, un
vagone di prima classe e due di seconda,
gente che vive nelle terre di Gogol’, nelle
cittadine di Slovyansk, Kramatorsk e Gorlovka, dove ora si combatte per l’indipendenza. Nessuno protesta, nessuno chiede
qual è il tragitto alternativo – una domanda
che metterebbe il controllore in terribile
difficoltà. Tutto questo accade pochi minuti prima che il controllore si avvicini a due
grossi televisori piazzati sopra le nostre teste e faccia partire un film sull’hockey al
tempo dell’Unione sovietica. A quel punto
molti si addormentano, sul treno 17. Il convoglio arriva a Donetsk a notte fonda. Oggi
la città si trova in quella parte di Ucraina
in cui sventolare la bandiera sbagliata
equivale a un reato. E dato che non esiste
una norma scritta per fermare chi cammina in strada con un drappo giallo e blu al
bavero della giacca, la pena dipende dall’uomo che rappresenta la legge in quel
preciso momento: uno schiaffo, uno sputo,
una manganellata. Negli uffici pubblici
hanno sostituito le bandiere dell’Ucraina
con quelle, più discrete, della provincia
(c’è un sole che sorge su campo nero). Alla
facoltà di Scienze politiche hanno interrotto alcuni corsi per evitare problemi. Nelle
strade bandiere non ce ne sono, l’ultima rimasta si trova sulla colonna di un ponte, a
venti metri d’altezza, e l’ha sistemata lì un
prete che prega in strada ogni giorno con
una ventina di fedeli per l’unità dell’Ucraina. Lo incontro accanto alla sua tenda, il
vento è caldo quel pomeriggio.
Secondo padre Sergiy la secessione è
“un peccato” perché è il diavolo che separa, mentre il Signore unisce. E spiega che
i separatisti hanno le bandiere dell’Unione sovietica, non bisogna aggiungere altro.
Poi racconta: “Anche nella mia chiesa siamo divisi. Quasi tutti sono contrari ai separatisti, ma nessuno vuole dirlo apertamente perché fra i nostri fedeli sono molti i filorussi. Mi hanno detto che metto in
pericolo tutta la comunità con le mie preghiere, ma a Slovyansk hanno preso la mia
chiesa e l’hanno trasformata in un deposito di armi. Forse i miei colleghi sono pronti a morire per Dio, non per questo paese”.
Un’altra volta i separatisti sono entrati
nella tenda di padre Sergyi con i passamontagna e i manganelli, hanno rovesciato la croce e hanno gridato: “Non vi perdoneremo Odessa”. A Odessa, che si trova sul
mar Nero, settecento chilometri a ovest rispetto a Donetsk, decine di uomini e donne sono stati uccisi nel palazzo delle Unioni professionali. Il palazzo non è “andato
a fuoco”, in quel momento era occupato da
un gruppo consistente di filorussi ed è finito sotto l’attacco di nazionalisti ucraini e
gruppi di ultras armati di bottiglie molo-
Negli appartamenti dei
miliziani regna la confusione.
Ognuno controlla un piano, gli
ascensori sono tutti bloccati
a volte il cibo non basta per tutti. Nessuno
riceve denaro, tutto quel che possono avere è due pasti al giorno. Molti sono vegetariani, è per quello che ho comprato le patate e i funghi”. Negli appartamenti dei paramilitari regna la confusione. Ogni milizia
controlla un piano diverso, gli ascensori sono bloccati, le finestre coperte con libri,
poster, sedie e scrivanie: è come se ogni
giorno qualcuno arrivasse e aggiungesse un
piccolo pezzo a quel caos gigantesco. “Non
ce ne andremo mai”, ripete Viktor, uno studente di Psicologia inquadrato nel gruppo
“Oplot”. C’è solo un modo per risolvere la
crisi, spiega, ed è l’arrivo dell’esercito russo. Ma le truppe ucraine si sono già schierate in forze alle spalle della città, tra la
periferia di Donetsk e il confine con la Russia: anche se le milizie della Novorossiya
dovessero chiedere aiuto, per Putin sarebbe difficile mandare le sue truppe oltre
quella linea.
Fuori dal palazzo, a pochi passi di distanza, i giovani bevono e parlano nei locali sulla Prospettiva Artema. Il vento è ancora tiepido, la musica esce dai ristoranti
e raggiunge la passeggiata. Così scorre il
tempo nell’Europa orientale, aspettando di
sapere che ne sarà dell’Ucraina.
Luigi De Biase