solennità di Cristo Re
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solennità di Cristo Re
XXXIV DOMENICA T.O. Solennità di Cristo Re Lc 23,35-43 Nell’ultima domenica del tempo ordinario la Chiesa celebra la solennità di Cristo Re proponendo alla nostra riflessione la pericope della crocifissione. Forse ci sarebbe parsa più appropriata quella della risurrezione e ascensione che ai nostri occhi meglio rappresenta e celebra il suo essere “il principe dei re della terra” secondo quanto troviamo scritto in Ap 1,5. In realtà quello della passione morte e risurrezione del Signore è un unico mistero dove celebriamo la vittoria sul peccato e sulla morte che ci ha ottenuto la salvezza. La pericope odierna sottolinea alcuni elementi che abbiamo già avuto modo di delineare nel corso delle letture precedenti e ci introduce verso la profondità di una verità che i nostri occhi e il nostro cuore stentano ad accogliere e a riconoscere nella nostra realtà quotidiana di battezzati e dunque testimoni del Cristo. Luca dipinge la scena della crocifissione con la nitidezza di particolari che lo contraddistingue facendola emergere come un dipinto posto davanti ai nostri occhi per la nostra contemplazione. Abbiamo tre gruppi di personaggi distinti caratterizzati ognuno da un atteggiamento ben preciso, fissato nel verbo, nei confronti di Gesù che rimane la figura centrale perfettamente isolata e sulla quale cade la luce di tutto il quadro. Il popolo è il primo gruppo che Luca tratteggia. Il termine indica un insieme di persone vista nella sua unità culturale, linguistica, religiosa. Nel linguaggio biblico è essenzialmente il popolo di Israele. Anche nel vangelo di Luca il termine è legato al concetto di popolo di Dio ma l’evangelista gli affianca spesso un secondo vocabolo che noi traduciamo con “folla” e che indica invece un insieme di persone più composito. Questi due poli non si oppongono nell’opera lucana ma scivolano gradualmente l’uno verso l’altro dando vita al nuovo popolo, la Chiesa. Le folle sono sempre in movimento, seguono Gesù ovunque si sposti, vogliono toccarlo, essere guarite; di lui dicono che è “Giovanni il battista, altri Elia, altri uno degli antichi profeti che è risorto” (Lc 9, 19). Il popolo a sua volta appare più spesso in una situazione di attesa. Lo troviamo così davanti al tempio ad attendere Zaccaria (Lc 1, 21)o ad ascoltare le parole del Battista (Lc 3,18). Difatti è questa la sua peculiarità che trova in Simeone la sua sintesi più eloquente: Israele attende il Messia. Entrambi, popolo e folla, giocano un ruolo attivo nei racconti di passione: una parte si lascia sobillare dai capi e chiede la condanna a morte per Gesù. Una parte lo segue sulla via della croce e ne ritorna “battendosi il petto”(Lc 23,27. 48). Qui troviamo il popolo ritratto nell’atteggiamento dello “stare a vedere”. Il verbo utilizzato (theoreo) significa osservare per capire il senso nascosto di ciò che si vede, un contemplare che porta lo sguardo al di la di quello che è comunemente percepito. Lo “spettacolo”, da intendersi non in senso goliardico ma didattico secondo il pensiero della cultura ellenista, ha un messaggio da comunicare che richiede di essere compreso. A questa comprensione si giungerà dopo l’evento della morte dove l’evangelista annota che “la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, se ne tornava battendosi il petto”. Assistiamo al sovrapporsi del popolo alla folla proprio all’interno dei racconti di passione-morte: qui sta nascendo il nuovo popolo di Dio. I capi sono i primi “attori” che incontriamo. La loro posizione nei confronti di Gesù è riassunta dal verbo “deridere”. Oggetto della derisione è l’incapacità a salvare se stesso dopo averlo fatto nei confronti degli altri. Non sa applicare a se quello che ha operato negli altri. Dunque non è il Cristo, ovvero il Messia, l’eletto di Dio, colui che è atteso per salvare il suo popolo. Anche i soldati , romani, si prendono gioco di Gesù per la sua incapacità a salvare se stesso. Egli dunque non è neppure il re dei Giudei, come scritto nel cartiglio della condanna appeso sopra il suo capo. Seguono i due malfattori. Qui l’azione si ramifica. Uno dei due lo insulta; anzi, per essere più precisi il verbo (blasfimeo) significa “parlare empiamente”. “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. L’empietà sta proprio nel non riconoscere che è esattamente ciò che sta avvenendo. Lo sguardo di quest’uomo non è capace di spingersi al di la della situazione contingente e rimane vincolato a delle false attese e false speranze che non sono la salvezza. Chi invece comprende e dimostra di “vedere oltre” è l’altro malfattore che anticipa l’affermazione che troveremo sulla bocca del centurione dopo la morte di Gesù: egli è il giusto e questo evento, che va contro la sua giustizia e di cui siamo fatti spettatori, ovvero la sua condanna, lo fa riconoscere come re. Chi ha seguito il Maestro nella via su cui Luca ci ha accompagnato dovrebbe ricordarsi che cosa è la giustizia che altrove abbiamo incontrato: la misericordia di Dio che salva. È sulla croce che si compie quell’oggi apportatore di salvezza annunciato dagli angeli, realizzato in Zaccheo che ancora una volta ci dice come la misericordia e la salvezza che Dio vuole donare non conoscano confini, o geografie umane impenetrabili. Lo sguardo di questo malfattore, come lui stesso dice reo della colpa per la quale è condannato, riesce a portarsi al di là di ciò che appare compiendo un gesto di fede grande. Facile era acclamarlo re e profeta e salvatore quando guariva i malati o ridonava la vita ai morti. Difficile scorgere in un uomo sconfitto e umiliato tutto questo. Quest’uomo gioca tutta la sua vita un istante prima che si compia il suo destino; in Gesù egli pone tutta la sua fiducia e gli riconosce, nel momento dell’umiliazione, la piena regalità. Una regalità che, come leggiamo in Giovanni, non è di questo mondo. Quella gli era già stata proposta dal tentatore nel deserto (“ti darò tutto questo potere e la loro gloria poiché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò se ti prostrerai davanti a me in adorazione, tutto sarà tuo” Lc 4,6) ma egli l’aveva rifiutata ribadendo la sua vera identità di Figlio, come era stato annunciato dall’angelo alla Vergine Maria: “Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,32s). La regalità che spetta a colui che porta la salvezza: Lo Spirito del Signore è sopra di me;per questo mi ha consacrato con l'unzione,e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore (Lc 4,18s). La regalità che appartiene a colui che in questo momento la sta realizzando nell’evento della sua crocifissione, dove la morte stessa sarà sconfitta perché il peccato è inchiodato al legno della croce; le catene della nostra schiavitù sono infrante. A chi cerca l’evidenza schiacciante del miracolo Dio risponde con la salvezza che viene dall’umiliazione della croce e ci invita a cogliere, con quello sguardo profondo capace di andare oltre ciò che appare, quell’oggi nel quale si realizza anche per noi la salvezza.