SALOME Dramma musicale in un atto su testo di Oscar Wilde
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SALOME Dramma musicale in un atto su testo di Oscar Wilde
SALOME Dramma musicale in un atto su testo di Oscar Wilde Traduzione di Edwig Lachmann Musica di Richard Strauss Roma TEATRO DELL’OPERA 3 maggio 1988 Herodes Herodias Salome Jochanaan Narraboth Un paggio di Herodias Cinque ebrei Due nazareni Due soldati Un uomo della Cappadocia Uno schiavo Horst Hierstermann Elisabeth Glauser Lia Frey Rabine, Edda Moser Peter Weber Sergio Bertocchi Marijke Hendriks Manfred Schmidt Maille Roberto Mazzetti Silvano Paolillo Angelo Degl’Innocenti Bernardino Di Bagno Giovanni Rucci Carlo Bosi Ivo Ingram Vito Maria Brunetti Giancarlo Boldrini Giorgio Mereu Maestro concertatore e direttore Wolfgang Rennert Scene e costumi Enrico Job Coreografia Margarita Trayanova Regia Enrico Job Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma Jochanaan 142 In un siffatto contesto, in una scena jugendstil spicca nel suo biancore Salome, vergine, innocente e perversa “La luna – dice Job – è un elemento centrale nella Salome di Oscar Wilde. È una presenza vigile, quasi minacciosa, certamente un simbolo divino e nella mia scena, in questa sorta di marmoreo planetario, la luna lungo la sua orbita d’oro è un occhio che segue i personaggi, attendendo il compiersi dei loro destini… E sotto quello sguardo, nel suo adolescenziale corteggiamento della morte Salome scopre la propria necrofilia, un desiderio che le farà volere la testa di Jochanaan” (Guido Barbieri, Niente lascivia, soltanto musica, Il Messaggero, 3 maggio 1988). “Scena unica – spiega Job – come del resto è previsto già da Wilde. Ma in luogo della terrazza esterna, l’azione si svolge all’interno di un planetario, sotto lo sguardo della luna, cui i personaggi del dramma si riferiscono di continuo. Salome è la storia di una famiglia ‘nera’, strindberghiana, i cui componenti, detestandosi, si consumano nell’odio con sprezzante violenza, con gesti furibondi dei quali, alla fine, saranno vittime Jochanaan e Salome. La scena di questo inferno è preziosa, una calotta, un cielo marmoreo di lapislazzulo e oro, un raffinato, claustrofobico interno per la raffinatissima bellezza della parola wildiana e della musica di Strauss. All’Oriente ho appena accennato, in qualche dettaglio di costume, considerata la natura mitteleuropea, viennese, del linguaggio musicale – basti pensare al tempo di valzer così frequentemente impiegato dal compositore… Per Wilde, Salome è una fanciulla dalla conturbante, regale verginità, colta nel momento del proprio sbocciare sensuale. L’amore veemente che prova per il Battista in lei viene come bloccato dal suicidio di Narraboth, il giovane capitano che non accettava l’amore di lei per un altro uomo. Il corpo morto di Narraboth provoca in Salome una sorta di ‘transfert’, inconsciamente ella riversa il suo impeto d’amore sul cadavere del capitano. Poi, avrà orrore di se stessa. Ma quell’inconsapevole amore le ha fatto scoprire la necrofilia che protegge la sua verginità, la sua orgogliosa inviolabilità regale. E la morte, vendicandola di Giovanni, che a lei ha preferito Dio, glielo farà Salome stands out in her purity as an innocent and perverse virgin in such a contest, in a Jugendstil set. “The moon”, says Job, “is a central element in Oscar Wilde’s Salome. It is a vigilant, almost threatening presence, certainly a divine symbol, and in my set, in this kind of marble planetarium, the moon is an eye which follows the characters along its golden orbit, awaiting the fulfilment of their destinies... It is beneath its gaze that Salome discovers her own necrophilia, in her adolescent courtship of death, a desire which will make her want the head of Jochanaan” (Guido Barbieri, Niente lascivia, soltanto musica, Il Messaggero, 3 May 1988). “This is a single set”, Job explains, “as already conceived by Wilde. But in place of the outdoor terrace, the action unwinds within a planetarium, beneath the gaze of the moon to which the characters of the drama refer continuously. Salome is the story of a ‘dark’, Strindberghian family whose members, detesting each other, consume each other in hatred with disdainful violence, with furious gestures, of which Jochanaan and Salome will be the final victims. The setting of this hell is precious: a hemisphere, a marble circle of lapis lazuli and gold, a refined, claustrophobic interior for the refined beauty of Wilde’s text and Strauss’s music. I only made some very subtle references to the East, in the odd detail in the costumes, given the Middle European, Viennese nature of the musical language for example in the waltz tempo so frequently adopted by the composer... In Wilde’s text Salome is a girl of disturbing, regal virginity, portrayed at the moment of her own sensual awakening.The vehement love which she feels for John the Baptist is as if blocked by the suicide of Narraboth, the young captain who could not accept her love for another man. Narraboth’s dead body provokes in Salome a kind of ‘transfer’, and she unconsciously reverts her impulse of love onto the captain’s corpse. Then, she is horrified by herself. But that unconscious love has made her discover the necrophilia which protects her virginity, her proud, royal inviolability. And death, avenging her for John, who preferred God to her, will also allow her to possess him” (Enrico Cavallotti, Strauss e Wilde: il regista Job parla della anche possedere” (Enrico Cavallotti, Strauss e Wilde: il regista Job parla della “fanciulla che scopre la necrofilia”, Il Tempo, 3 maggio 1988). “Un piano inclinato sul quale si muovono i protagonisti di questo dramma di interni. Sotto le sbarre della prigione dove è rinchiuso il profeta: sopra una cupola oppressiva quanto sfarzosa nei suoi riflessi blu di lapislazzulo, quasi una tomba di famiglia” (Sandro Cappelletto, Salome, la bambinaccia, La Stampa, 3 maggio 1988). “La Salome di Richard Strauss… sarà legata per sempre al nome di Enrico Job… Job ha capovolto il senso erotico dell’intera vicenda. E l’erotismo era presente sin dalle prime battute del lungo atto unico; il folto pubblico ha seguito il dramma nel più assoluto silenzio. Neppure un cenno di insofferenza, bensì l’esplosione di un intenso applauso finale. Lo spettacolo, interamente ideato da Job, ha rivelato infatti un altro Strauss, un’altra Salome; complice anche l’aspetto adolescenziale della protagonista, Lia Frey Rabine. Il sipario si è dunque aperto sulla bellissima scenografia di Job, il ‘contenitore’ della vicenda: a prima vista un mappamondo concavo, simbolo moderno di nuovi miti e di nuove ‘prigionie’. Il primo shock si è avuto avvertendo l’evidente proposito di creare un contrasto fra il perbenismo dei costumi convenzionali e la regia. Salome intesa come una capricciosa ‘allumeuse’ di buona famiglia, suscitatrice di desideri voluttuosi; non già la perversa donna fatale di Oscar Wilde. Salome, dunque, come una mitica Lolita che a furia di giocare con l’amore, si trova infine con la testa mozza del profeta Jochanaan fra le mani. L’intuizione di Job era di avere individuato, sul filo della musica di Strauss, malgrado la corretta, solida normalità interpretativa del direttore d’orchestra Wolfgang Rennert, che Salome sarebbe stata la vittima maggiore della sua stessa seduzione. Ma Job sospinge a questa fatale conclusione una Salome innocente, rivestendo sin dalla prima parte dell’opera ogni suo gesto di erotismo necrofilo... Uno spettacolo riuscito, comunque, in pieno. Uno spettacolo che ha trovato il suo punto di forza nella parte visiva” (Mya Tannenbaum, Lolita di famiglia, Corriere della Sera, 5 maggio 1988). “… Enrico Job ha una ricca esperienza di scenografo, anche nel teatro musicale. Il suo passaggio alla regia lirica è avvenuto naturalmente e, come era da aspettarsi, con esito impeccabile: ad esempio, nella danza di Salome ha trovato tutta la serie di alternative per sottrarsi tanto a un inutile realismo quanto a improprie esibizioni coreografiche... Job ha avuto una felice e semplice idea scenografica: l’opera è stata ambientata all’interno di un emisfero sfaccettato, sovrastante il carcere di Jochanaan e coronato da un’eclittica lungo il quale si muove lentamente un pianeta. Naturalmente le varie possibilità di questa scenografia... erano sfruttate con un attento dosaggio delle luci. Si è trattato di un dosaggio quasi impercettibile nelle sue variazioni, ma fondamentale per animare la scena: si direbbe che in esso si riassumono la colta eleganza e l’intelligenza di Job” (Maria Delogu, Salome dei debutti Frey-Rabine e Job, Il Popolo, 5 maggio 1988). “Cantato in tedesco, dunque ancora più imperscrutabile, quest’ebbro capolavoro dell’agony decadente ha stregato l’animo del pubblico, sommosso i sensi... Merito precipuo della parte scenica, affidata a Enrico Job” (Enrico Cavallotti, Salome, quella “maschietta” scandalosa tra Sade ed Artaud, Il Tempo, 5 maggio 1988). “… L’effetto, fin dall’inizio, della bellissima scena progettata da Enrico Job, è di soffocazione, di oppressione. La preziosità dei colori, degli smalti, il gelo delle luci che fendono questi ori e questi smalti, sembrano suggerire un clima di sensualità putrefatta. La bellezza, il lusso, il fruscio delle sete, o quello che si figura il fruscio delle sete, sono l’immagine di un mondo che si decompone, la maschera di una civiltà dentro la quale esplodono impulsi ferini.Tutto ciò appare subito accattivante e risponde assai bene al clima dell’opera, all’immaginazione preziosa di Wilde e alla frenesia scatenata di Richard Strauss.Tuttavia è anche vero che l’immagine di una terrazza che si apre sul deserto in una notte di luna è talmente legata allo stile della prosa di Wilde, alle filiformi spirali delle incisioni di Beardsley che illustravano la prima edizione del dramma, che bisogna fare uno sforzo per rinunciarvi e accettare la soffocazione dello spazio chiuso. La soffocazione è tanto più terribile, in quanto avviene sotto un cielo aperto come un abisso sugli uomini. Salome, uscita sulla terrazza, infatti, esclama nel testo di Wilde: ‘Com’è fresca qui l’aria! Finalmente qui si respira!’ Il soffocamento è dentro la reggia, Job ha voluto portare questo soffocamento sulla scena. E l’effetto è egualmente intenso” (Dino Villatico, E Salome morde la mela, la Repubblica, 5 maggio 1988). “fanciulla che scopre la necrofilia”, Il Tempo, 3 May 1988). “The characters of this drama of interiors move on a tilted stage. Beneath are the bars of the prison in which the prophet is held.Above is a dome which is oppressive as it is sumptuous in its blue glints of lapis lazuli, almost a family tomb” (Sandro Cappelletto, Salome, la bambinaccia, La Stampa, 3 May 1988). “Richard Strauss’s Salome... will always be linked to the name of Enrico Job... Job has turned the erotic meaning of the whole story upside down. And the eroticism was present right from the very first lines of the long, single act. The packed auditorium followed the drama in the most absolute silence, without the slightest sign of restlessness, until the explosion of intense applause at the end. Indeed, the production, conceived entirely by Job, has revealed a new Strauss, a new Salome. The adolescent appearance of the main character, Lia Frey Rabine, also contributed to this.The curtain therefore rises on Job’s beautiful set, the ‘container’ of the story.At first sight it looks like a concave map of the world, a modern symbol of new myths and new ‘confinements’. The first shock is caused by our perception of the evident intention of creating a contrast between the respectability of the conventional costumes and the direction. Salome conceived as the naughty tease from a good home, provoker of voluptuous desires, and not as Oscar Wilde’s perverse femme fatale. Salome, then, as a mythical Lolita, who by dint of playing with love ends up with the chopped-off head of the prophet Jochanaan in her hands. Job’s intuition was to have perceived in Strauss’s music, despite conductor Wolfgang Rennert’s correct, solid interpretational normality, that Salome was the greatest victim of her own seduction. But Job pushes an innocent Salome to this fatal conclusion, right from the first part of the opera covering her every gesture of necrophilous eroticism... A production which is therefore a thorough success. A production which has discovered its forte in it visual side” (Mya Tannenbaum, Lolita di famiglia, Corriere della Sera, 5 May 1988). “... Enrico Job has a wealth of experience as set designer, also in musical theatre. His transition to opera direction has taken place naturally and, as was to be expected, with impeccable results: for example, in Salome’s dance he has devised all the necessary alternatives to avoid any useless realism or unsuitable displays of choreography... Job has used a simple, successful idea for the set: it is a crosssectioned hemisphere, situated above Jochanaan’s prison and crowned with an ‘ecliptic’ along which a planet moves slowly.The set’s various possibilities were, of course, exploited by means of a careful regulation of the lighting. Indeed, the regulation was almost imperceptible in its variations, but fundamental for the animation of the set. It might be said that this summed up Job’s cultivated elegance and intelligence” (Maria Delogu, Salome dei debutti Frey-Rabine e Job, Il Popolo, 5 May 1988). “Sung in German and therefore all the more inscrutable, this elating masterpiece of decadent agony has bewitched the soul of the audience, stirred up the senses...This is thanks mainly to the theatrical side, entrusted to Enrico Job” (Enrico Cavallotti, Salome, quella “maschietta” scandalosa tra Sade ed Artaud, Il Tempo, 5 May 1988). “... Right from the beginning, the effect of Job’s beautiful set is one of claustrophobia and oppression. The precious nature of the colours and paints and the chill of the lights which cracks these golds and enamels seems to suggest a climate of putrefied sensuality. Beauty, luxury, and the rustling of silks, or what is represented by the rustling of silks, are the images of a decomposing world, the mask of a civilization within which wild impulses are exploding. Everything appears captivating and answers quite well to the climate of the opera, Wilde’s precious imagination and Richard Strauss’s unbridled frenzy. But it is also true that Wilde’s prose style is so inextricable from the image of a terrace opening out onto the desert on a moonlit night and the thread-like spirals of Beardsley’s engravings, which illustrated the first production of the drama, that it requires an effort to relinquish them and accept the claustrophobia of the indoor space. This claustrophobia is all the more terrible in that it takes place under an open sky, like an abyss hanging above. Indeed, in Wilde’s text Salome goes out onto the terrace and exclaims:‘How fresh the air is here! Here I can finally breathe!’The claustrophobia is generated by the director, Job has intended to bring it onto the stage. And the effect is equally intense” (Dino Villatico, E Salome morde la mela, la Repubblica, 5 May 1988). 14 144 Salome “La padronanza assoluta del campo ha permesso a Job di sviluppare una regia in continuità con la scena da lui ideata. Era una sorta di grande conchiglia sezionata in quadrati-feritoie trafitti da deboli luci perlacee. In basso appoggiava sulla gabbia-prigione di Jochanaan, in alto era attraversata di sbieco da un cerchio-anello con incastonata una enorme perla, la Luna, che ruotando impercettibilmente per tutta la durata dell’opera, ritornava alla fine al punto di partenza a significare l’unità di tempo e misura” (Ivana Musiani, Così innocente così perversa, Paese Sera, 5 maggio 1988). “Job ascolta attentamente, non perde di vista il suo disegno globale, l’unico che veramente conti e che si afferma giorno per giorno, vincendo le resistenze di Erode, Horst Hiestermann, qui giunto con tutte le irresistibili caccoline sceniche del grande interprete aduso a fare venti Salome all’anno da un capo all’altro del mondo” (Aldo Busi, Deliro per Salome, Panorama, 8 maggio 1988). “His absolute mastery of the field has allowed Job to develop a direction in line with the set he has created. It is a kind of big shell, sectioned into square slits pierced by weak pearly lights. It rests upon Jochanaan’s cage-prison below. Above, it is traversed by the oblique slant of a circle-ring, set with an enormous pearl, the Moon, which rotates imperceptibly for the whole duration of the production and finally returns to its point of departure, signifying the unit of time and measurement” (Ivana Musiani, Così innocente, così perversa, Paese Sera, 5 May 1988). “Job listens attentively and is careful not to lose sight of the universal plan, the only one which really counts and which is fulfilled day by day, overcoming the resistance of Herod, Horst Hiestermann, who has arrived here with all irresistible stage cackles of a great opera singer used to doing twenty Salomes a year from one end of the globe to the other” (Aldo Busi, Deliro per Salome, Panorama, 8 May 1988). 14 L’emisfero in ombra della luna