Moroni - Eddyburg

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Moroni - Eddyburg
Primo Moroni (materiali per una ricerca sulla memoria urbana e sociale) DAL NOMADISMO URBANO AL «MANGIARE IL CENTRO» LE BANDE DI QUARTIERE: UNA TERRITORIALITÀ CONCRETA Non tutte le bande di quartiere che esistono a Milano negli anni della ricostruzione hanno lo stesso rapporto con quello che considerano il proprio territorio. Il carattere di ciascun gruppo è, al contrario, «modellato» dalle specificità sociali e territoriali della porzione di spazio urbano entro cui si muove. La sensazione che le relazioni gruppo‐territorio siano «concrete» e simbiotiche, è confermata dall'analisi comparata dei dati storici e statistici, dell'evoluzione sociale e urbanistica della città, delle strutture assunte dai vari gruppi giovanili. Esiste dunque un rapporto univoco tra la banda e il proprio quartiere negli anni della ricostruzione, determinato da alcuni fattori: 1) Una forma di comunicazione urbana ancora rigida e chiusa, di tipo paleoindustriale, favorisce la formazione nel tessuto cittadino di porzioni di territorio autonome e definite; 2) Permangono modi tradizionali di trasmissione del sapere, non ancora pilotati dai media, e l'educazione dei vari attori sociali subisce in ogni caso il vaglio della memoria, familiare e di quartiere; 3) La struttura dei gruppi è rigidamente localizzata, nel senso che nella maggior parte dei casi la banda è composta da persone nate e cresciute nel quartiere, sensibilissime a qualsiasi trasformazione; 4) In moltissimi quartieri esiste una struttura di servizi estremamente ricca e articolata: ogni bisogno del singolo individuo (sopravvivenza, socializzazione ecc..) può trovare una soluzione attraverso l'uso sociale degli spazi all'interno del quartiere; 5) L'ostilità diffusa nei confronti della scuola e della fabbrica, si sovrappone alla presenza di entrambe le strutture all'interno del quartiere: si sollecita l'uso immediato e frequentissimo delle varie strutture per il tempo libero e dei vari poli di aggregazione locale (dopolavorismo). In questo periodo, le bande e le compagnie di strada sviluppano dinamiche di aggregazione sociale principalmente nei bar di quartiere (tanto che, molto spesso, il nome della banda coincide con quello del bar, o viceversa), mentre ai cinema locali (terza visione) e alle sale da ballo è delegato il compito della socializzazione con l'altro sesso (le bande sono esclusivamente maschili); 6) I locali di svago e socializzazione, così come le microreti commerciali, sono gestiti da abitanti del quartiere, e di conseguenza orientati all'amplificazione di forme comunicative «amicali» e tolleranti piuttosto che (come avverrà in seguito) al conseguimento di esclusivi obiettivi economici. Dal punto di vista del mercato immobiliare locale questo si traduce nell'uso, corrente, di vendere negozi con annessa abitazione; 7) Non esistono ancora «contaminazioni culturali»: i flussi migratori sono relativamente stabili per ampiezza e qualità, e non intaccano i modelli di comunicazione «lombarda‐paleoindustriale» dei quartieri; Primo Moroni ‐ 1 8) Esiste ancora una relativa stasi dei processi di riorganizzazione urbanistica: solo dopo il Piano Regolatore del 1953 , attraverso profonde modificazioni del tessuto cittadino, inizierà la distruzione dei microsistemi popolari consolidati da decenni. Abbiamo tentato di riassumere gli elementi unificanti del rapporto univoco tra attori sociali e spazi urbani. Pure, sono riscontrabili forti differenze tra un quartiere e l'altro, differenze nelle esperienze vitali, determinate dall'incidenza strategica delle «istanze territoriali», con caratteristiche variabili al variare della composizione sociale e della collocazione nella geografia urbana. Con queste premesse, è possibile su base empirica operare alcune classificazioni tipologiche. Nelle aree a composizione sociale complessa poste a ridosso del centro cittadino (centro culturale ed economico) si formano «bande» pure complesse e fortemente innovative. Nei quartieri storicamente operai (socialmente meno diversificati dei primi, in cui l'interscambio tra le classi sociali non è immediato e quotidiano) si formano gruppi o compagnie più chiusi e meno vivaci, autoconservativi e dotati di minore «flessibilità» nel confrontarsi con i percorsi della modernizzazione. Infine i quartieri periferici (esistono già negli anni Cinquanta, anche se la loro crescita smisurata sarà la caratteristica dei decenni successivi) registrano una cronica deficienza di servizi, reti di trasporto, luoghi di socializzazione: a questo corrispondono bande molto più marcatamente violente, caratterizzate da una tendenza alla «marginalità selvaggia». All'interno del tessuto urbano/sociale definito dalle tre tipologie, si svolgono le complesse dinamiche di comunicazione e conflitto poste in atto dai vari attori sociali, come possibili «risposte» ai processi di trasformazione metropolitani. Le modalità di queste dinamiche possono essere riassunte come segue: 1. la totalità delle bande è visibile in più microsistemi territoriali, definiti dalla presenza, o meno, delle medesime «istanze territoriali»; 1.a. i gruppi facenti parte del medesimo sistema assumono tendenzialmente gli stessi comportamenti di base; 2. se favorite dalla presenza di assi attrezzati di comunicazione, vie di transito per le informazioni e le merci, bande diverse facenti parte di un singolo microsistema innescano dinamiche di alleanza; 2.a. con le stesse modalità accade anche che, sulla spinta di ulteriori affinità elettive (o per la presenza nel quartiere di poli di aggregazione a livello urbano), si verifichino patti e accordi tra due o più microsistemi; 3. le vistose differenze di comportamenti tra i diversi sistemi, confermano una tendenza alla devianza, attenuata dall'incidenza delle «istanze» (complessità sociale, contiguità con i luoghi dell'innovazione, memoria storica, elementi formali, presenza di servizi) e viceversa; 3.a. la verifica dei comportamenti collettivi è facilitata dall'osservazione delle modalità di uso sociale dei locali che, in un certo periodo, rappresentano l'azimut delle capacità di autorappresentazione di un gruppo, di una banda, di un microsistema, e insieme le caratteristiche degli stessi locali, localizzative e qualitative. Negli anni Cinquanta le bande di quartiere siano dislocate su tutto il tessuto urbano, con una particolare concentrazione nella zona Sud/Sud‐Est del centro storico, collegata direttamente ai quartieri più esterni Romana, Vigentino, Ticinese, Genova. Come è ovvio, la relativa ricchezza di aggregazioni giovanili nel centro storico, a breve distanza dagli altri quartieri popolari e operai della zona Sud, è il risultato somma di alcuni fattori individuabili: Primo Moroni ‐ 2 a) All'inizio degli anni Cinquanta esistono ancora nel centro cittadino nuclei consolidati di origine preindustriale: Garibaldi‐Brera e il sistema ad asse Pasquirolo‐S.Stefano‐Via Larga‐Bottonuto; b) L'espansione radiocentrica di Milano tende storicamente a determinare un divario tra i modi di sviluppo dei settori settentrionali e quelli della fascia Sud. Non interessa in questa sede approfondire le motivazioni di tale dicotomia, quanto sottolinearne gli effetti su quartieri come il Ticinese‐Genova, che saranno al centro del nostro racconto. Fino al Piano Regolatore del 1953, la zona circostante l'Università Statale si caratterizza per la complessità del suo tessuto sociale. E un'area di impianto ancora medievale, con due grandi lotti a composizione sociale proletaria, sottoproletaria, e consistenti presenze di tipo extralegale: sono il Pasquirolo (attuale area di Corso Europa) e il Bottonuto (tra le vie Larga, Paolo da Cannobio, Albricci); esiste una zona «nobile» (S.Antonio, Francesco Sforza, Durini) e un sistema diffuso commerciale e artigianale. In definitiva, un esemplare frammento di città preindustriale, sopravvissuto in parte ai disastri della Seconda guerra mondiale. All'interno di questo microsistema urbano si formano negli anni Cinquanta le aggregazioni giovanili («bande») più creative della città. Nel tessuto sociale e urbano che abbiamo descritto, le favorevoli condizioni localizzative, indipendentemente dal disagio economico, consentono alle bande locali una indiscussa egemonia dal punto di vista creativo e culturale, rispetto ai gruppi dei quartieri meno complessi: Ticinese‐
Genova popolare‐extralegale, Romana‐Vigentino a forte tradizione operaia. Sarà proprio la maggiore capacità di «elaborazione teorica» delle bande del centro a consentire il brillante superamento di un trauma: dal 1953 inizia lento ma inesorabile lo sradicamento, la distruzione del microsistema. L'apparentemente «banale» realizzazione di un asse viario a scorrimento veloce ‐ conosciuto come «Racchetta» ‐ inciderà come una scure la trama sottile dei quartieri Pasquirolo e Bottonuto, cancellandoli dalla topografia urbana, trasformando la sonnolenta Via Larga da grande spazio a uso sociale a strada trafficata, dominata dalla mole vagamente fallica della Torre Velasca, eretta sulle macerie di una «casa di tolleranza» dismessa, a coronare uno straordinario esempio tangibile di «modernità». L'unica area paragonabile a quella che abbiamo descritta è il quartiere Garibaldi‐Isola, che dai confini della cerchia medioevale si stende fino ad oltre le Mura spagnole, con una composizione sociale molto varia, la immediata prossimità al centro cittadino, la compenetrazione con la Brera degli artisti che assicura una quotidiana tollerante «percezione del diverso». Il quartiere non subirà «sventramenti» rilevanti immediatamente successivi al Piano del 1953, e il tessuto socioculturale locale continuerà fino ai primi anni Settanta a svolgere il suo ruolo di «punto di riferimento». Questo avviene per esempio con il Movimento «Beat», che si colloca soprattutto a Brera, e successivamente con il movimento degli anni Settanta, che vede i vari attori sociali ‐
»sistemici» e «extrasistemici»‐ condurre una lotta parzialmente vittoriosa per conservare l'identità del quartiere (5). Ancora oggi, si può osservare come Corso Garibaldi e parte dello stesso quartiere di Brera conservino caratteri complessivi fortemente incentivanti alla socialità: una rete commerciale/artigiana singolarmente diversificata, che vede contiguità tra osteria popolare e bar «intellettuale», tra antiquariato hippie e design shop moderno... Non pare superfluo notare, tra l'altro, come l'unico Centro Sociale Autogestito all'interno del centro storico (se si escludono le recenti occupazioni) sia collocato proprio nel quartiere Garibaldi. La tradizione, la memoria dei soggetti, si incrociano frequentemente con le istituzioni culturali ‐ formalizzate e non ‐ del quartiere, contribuendo a definire luoghi rilevanti di comunicazione e Primo Moroni ‐ 3 «tolleranza»: ne è un esempio la vicenda del Club Turati, con i legami Beat, anarchici, con l'esperienza BCD (6); ma basta citare i Bar «Giamaica», «Milano», «Gabriele», o la rilevanza delle iniziative musicali di S.Simplicio, la sezione P.C.I. di via Palermo, i primi corsi di «sociologia della conoscenza», le librerie «alternative» Incontro e Utopia, la sede della I.A.P., e molto altro (7). Sono, tutti, «eventi eloquenti»: il sistema metropolitano è ricco di potenzialità creative, potenzialità in grado di equilibrare le esigenze apparentemente antitetiche imposte dai processi di modernizzazione, specie quando si verifica la sovrapposizione tra sistemi sedimentati di vita tradizionale e un ampio ventaglio di nuove opportunità. Nell'area Garibaldi‐Brera non a caso si conservano e si riproducono per molti anni i «luoghi del tempo vissuto» che si estinguono nelle aree meridionali del centro. Tutto quanto poteva considerarsi innovativo in rapporto diretto con il vissuto quotidiano, per tutti gli anni Cinquanta e oltre, si realizza nelle zone limitrofe a Via Larga, o nel quartiere Garibaldi‐Brera. Basta pensare alle «caves esistenzialiste» Santa Tecla, Arethusa, o agli antenati del fast food, «Dollaro» (un «dollaro» per un pasto, all'epoca circa 600 lire) e «PAM‐
PAM», pensati non come luoghi «per mangiare più in fretta e lavorare di più», ma come spazi poco formalizzati di socializzazione, di uso diverso del «tempo mangiare». Le trasformazioni indotte dalla «Racchetta» sul tessuto urbano e sociale impoveriscono rapidamente di contenuti innovativi i vari locali adiacenti al Bottonuto e al Pasquirolo, che si riciclano rapidamente per rispondere alle nuove, apparentemente più remunerative esigenze. Contemporaneamente, le bande dei quartieri meridionali diventano più silenziose, chiuse in sè stesse, meno propense alla chiassosa scorribanda in centro. E il segnale di una fine, e nello stesso tempo di un inizio: la banda come espressione di uno specifico microsistema territoriale si scioglie, i nuovi protagonisti della conflittualità giovanile tenteranno di essere «protagonisti metropolitani», traendo energia non più dalle radici, ma dal trauma stesso dello sradicamento. La breve vicenda che riguarda i cosiddetti «Teddy Boys» è il primo atto dei «nuovi tempi». LA FRAMMENTAZIONE DEGLI ANNI SESSANTA I Teddy Boys si producono principalmente nella zona Sud della città, ai confini dei quartieri Ticinese e Vigentino, che solo pochi anni prima mantenevano forti flussi di scambio culturale con il centro storico, e nell'area Nord all'Isola e in via Castaldi, con asse di riferimento verso il centro rappresentato dal quartiere Garibaldi (tradizionalmente legato all'Isola dal comune uso sociale dello spazio, che come abbiamo detto era un'area fortemente innovativa da molti punti di vista. Il microsistema di bande Castaldi‐Venezia‐Isola tende ad aggirare l'«ostacolo insormontabile» dei quartieri ricchi ed esclusivi collocati sugli assi Venezia‐ San Babila‐Monforte, e Turati‐ Cavour‐
Manzoni, spostandosi «orizzontalmente» verso il quartiere Garibaldi, fino a raggiungere l'agognata meta del centro: come su una scacchiera, aggirare l'avversario significa «mangiarlo», ma solo per predisporsi ancora a «mangiare», a consumare un centro città certamente più ricco di stimoli e occasioni del proprio quartiere. Un quartiere che, specie per le aree dell'Isola, sta subendo rapidamente gli effetti della ristrutturazione urbanistica, con la realizzazione del Centro Direzionale che, sommandosi all'eliminazione della Stazione Varesine, determina l'estensione della «barriera» tra i quartieri periferici e le aree centrali. In uno spazio urbano continuamente cangiante, nella logica complessiva di questo «vissuto», definito dagli psicologi «condizione ansiogena di ambiguità», si sviluppa il fenomeno «Teddy Boys». Come si può dedurre dalla Cartina n. 2, queste bande si producono anche in zona viale Argonne e nel quartiere Garibaldi (e probabilmente anche in altri luoghi della città), ma le concentrazioni in queste aree hanno una qualità diversa, più soggettiva, meno legata a processi di perdita di rapporto con il centro. Per altri versi, il microsistema delle bande nella zona Sud‐Est (Trecca e via dei Cinquecento, è contraddistinto da comportamenti relativamente violenti, e da Primo Moroni ‐ 4 pratiche extralegali, come risultato della somma tra disagi abitativi e lontananza fisica ed ideale dal centro, luogo di innovazione, cambiamento, nuove opportunità. Sono iniziati gli anni Sessanta, e il segnale confuso, minoritario, marginale, di disagio che scaturisce dai «Teddies» esprime comunque una rottura con il passato ormai avvenuta: le violente bande di periferia sono «sensori» delle grandi trasformazioni metropolitane in atto. Milano, negli anni compresi tra il Piano Regolatore del 1953 e la fine del decennio successivo, ha un incremento di popolazione di 5‐600.000 unità, senza contare le molte migliaia di persone che nello stesso periodo si stabiliscono nei comuni dell'hinterland. Nelle periferie, oltre i viali di circonvallazione più esterni, sorgono nuovi, giganteschi quartieri. Gli insediamenti popolari e operai a ridosso delle Mura spagnole si frantumano sotto la pressione del terziario avanzante dal centro storico, diventando aree indistinte, intermedie, «terra di nessuno» insinuata tra la City e i grandi dormitori delle periferie. Sembra di assistere al dispiegarsi di un modello fordista strisciante, simbolo e supporto delle nuove esigenze produttive: quartieri residenziali divisi per classi, ceti, funzioni; luoghi di lavoro lontani e separati anche idealmente dalle abitazioni; nuovi bisogni e nuovi consumi indotti «dall'alto», a sostegno del nuovo ciclo produttivo; forte «contaminazione culturale» come risultato delle straordinarie migrazioni interne verso il Triangolo Industriale... Una autentica rivoluzione... diretta dall'alto, che costringe i soggetti sociali a continue risposte ‐ di adeguamento o rifiuto ‐, che semplifica e inaridisce i microsistemi sociali, accentuando le differenze di classe e spostando la dimensione «dopolavorista» di uso immediato del tempo libero, dai quartieri all'interno del luogo di lavoro. Gli attori di questo grande processo ne percepiscono ‐ perlopiù inconsciamente ‐ il tentativo autoritario di canalizzare in modo rigido le loro esistenze verso esiti programmati e mercificati, e in questa «trappola interpretativa» cadono anche illustri intellettuali. Vale la pena, qui, di citare tra tutti Herbert Marcuse, che con il suo «paradigma unidimensionale» dominerà il dibattito culturale «alto» che quello più vicino alle lotte sociali degli anni Sessanta. Sulla base di questo o di altri «paradigmi», «... non solo le lotte sociali e di classe, ma anche i confini psicologici e le contraddizioni sono stati eliminati dallo stato dell'amministrazione totale (...) le idee dei soggetti, i loro bisogni e perfino i loro sogni, non sono i loro; le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, negli elettrodomestici degli appartamenti programmati per la famiglia mononucleare». Da questa riflessione deriva come «dall'interno» non sia possibile nessun cambiamento, e come questo vada ricercato ‐ per così dire ‐ «fuori» dalla società moderna e dai nuovi assetti metropolitani, ovvero tra gli esclusi e gli emarginati, di ogni razza e colore, i perseguitati, gli sfruttati, nelle culture e nelle lotte dei paesi del Terzo Mondo. Teorizzando questi percorsi, Marcuse ed altri registravano atteggiamenti diffusi e giustificati, ma nello stesso tempo perdevano di vista il profondo sommovimento sotterraneo che stava sconvolgendo la vita dei soggetti sociali, e che li avrebbe rapidamente costretti a scelte importanti di trasformazione. Nelle metropoli europee e americane degli anni Sessanta esiste un diffuso agitarsi di gruppi, movimenti, varie soggettività tese a rivendicare spazi, diritti, acquisizione del benessere materiale e nuovi modelli di vita. Un sommovimento che è l'esatto opposto della «unidimensionalità», che mira piuttosto a mettere i soggetti in condizione tale da assumere in prima persona il controllo della propria vita. Gli anni Sessanta sono stati definiti l'epoca della «rivolta esistenziale», di riscoperta della soggettività e di pratica dell'utopia. Sono cose vere, almeno in parte, ma si trascura il fatto che l'opposizione al progetto di «modernismo autoritario» attiva enormi energie, soggettive e collettive, in grado di confrontarsi con la «modernità», facendo scaturire il «nuovo» dalle rovine della tradizione, conservatrice o progressista. Primo Moroni ‐ 5 Anche in Italia, soprattutto nelle città industriali del Nord, gli effetti del nuovo ciclo economico industriale non tardano a manifestarsi, con esiti contraddittori, sui comportamenti sociali. I grandi quartieri di periferia sono, apparentemente, silenziosi e privi di rappresentanza, le compagnie di strada disperse o marginalizzate. Nello stesso tempo, rispetto ai comuni dell'hinterland e in genere della provincia, la grande città consolida il suo ruolo di centro dell'innovazione, di luogo privilegiato per il confronto o il rifiuto della modernità. Il Movimento Beat italiano nasce in buona parte da un bisogno/desiderio di questo tipo, differenziandosi sensibilmente dal modello statunitense. I beats americani sono essenzialmente un movimento intellettuale, nato come opposizione al modello economico militare imposto dal Pentagono nel clima della guerra fredda; contro il maccartismo e la guerra di Corea prima, contro l'intervento in Vietnam e l'espansionismo militare negli anni Sessanta. Da questa esperienza, il movimento italiano trae il rifiuto degli apparati militari e di una idea di progresso tecnologico separato dalle questioni sociali, il rifiuto di una esistenza programmata per le sole esigenze della produzione, attraverso le rigidità della famiglia nucleare e dei suoi consumi, l'uso della scienza e della tecnologia in funzione di dominio anzichè di liberazione. Ovviamente, una impostazione di questo tipo non può essere esente da utopie regressive ( di fatto il movimento beat italiano e internazionale ne sarà intriso fino al punto di sfociare più tardi nel misticismo), ma nel momento iniziale i beats sono insieme un elemento di novità e un «sensore» dei mutamenti in atto. Il Movimento Beat italiano si caratterizza per il suo «andare verso la città», individuata come luogo della possibile rappresentazione di sè e della propria diversità. I beats provengono in maggioranza dalla provincia, spesso da altre regioni. Si incontrano dapprima all'aperto nei dintorni di Piazzale Brescia, approfittando della tolleranza del parroco di Via Osoppo, ma molto rapidamente si sposteranno verso il centro cittadino, installandosi nel mezzanino della Metropolitana di Piazza Cordusio. Distinti da un look clamoroso e provocatore, i capelli lunghissimi, abiti stracciati e colorati, collanine, rifiutano qualsiasi tipo di lavoro, vivendo di elemosina e del ricavato della vendita di monili artigianali. Pacifisti, nonviolenti, i beats teorizzano «comuni» urbane o rurali come alternativa ad una famiglia considerata «libera e ariosa come una camera a gas»: riusciranno a realizzare in via Vicenda prima, in via San Maurilio poi, i primi spazi sociali autogestiti della città. Molti beats, dotati di notevole capacità creativa e di abilità grafiche particolari, si integreranno rapidamente nell'ambiente artistico di Brera. Alcune componenti della cultura beat sono paradossali, contraddittorie: primi a criticare «esistenzialmente» la società dei consumi e ad esprimere bisogni immateriali, sono nello stesso tempo portatori di sottoculture utopico‐regressive, che contribuiranno alla loro emarginazione dalle lotte degli anni Settanta. E però evidente come il loro muoversi nell'ambiente metropolitano sia fortemente segnato dalla «riappropriazione del centro»: anche la breve esperienza di «comune all'aperto» in fondo a via Ripamonti si ricomporrà nella migrazione verso il centro e nell'occupazione (insieme ad altre componenti di cultura antagonista) dell'Hotel Commercio di Piazza Fontana: in quegli anni, la più grande occupazione di edificio pubblico in Europa. ANNI SETTANTA: IL GRIDO E IL SILENZIO Riguardo ai movimenti politici degli anni Settanta, non si intende in questa sede tentarne una sintesi culturale: esistono decine di testi sull'argomento,e la questione rimane comunque molto complessa. Quanto interessa invece ai fini del nostro racconto è osservarne la dislocazione in città, ed in particolare la concentrazione quasi esclusiva nelle aree centro‐meridionali, al Ticinese ed a Porta Genova. Il quartiere Ticinese‐Genova, per dieci anni registrerà la più alta concentrazione di sedi politiche d'Europa, e nello stesso tempo modifica definitivamente la sua composizione tradizionale popolare‐extralegale. La trasformazione era comunque in atto da tempo, determinata da motivi di Primo Moroni ‐ 6 evoluzione sociale ed urbanistica. Tenteremo di seguito di riassumere sinteticamente alcune caratteristiche del quartiere: 1. Collocato in questo periodo in una posizione intermedia tra centro e periferia, il Ticinese è anche uno dei più antichi quartieri della città, con rilevanti sedimentazioni di epoca romana, medioevale e seicentesca; 2. Fino agli anni Settanta la zona non è stata interessata dai grandi processi speculativi immobiliari, e vanta un tessuto sociale fortemente radicato, con conseguente «trasmissione di memoria» ed in definitiva un assetto complessivo definibile come «microsistema»; 3. La tradizionale presenza di una zona extralegale come la «Casbah» di Porta Genova non ha mei determinato forme di conflittualità con il tessuto produttivo locale, di artigiani e piccole officine; 4. La componente extralegale del quartiere appartiene alla «malavita leggera» ‐ non violenta e dedita ad attività di «abilità extralegale» ‐ e ha saputo determinare nel tempo una diffusa cultura della tolleranza nei confronti del «diverso». Nello stesso tempo tradizione popolare e vicinanza al centro cittadino tendono a far identificare gli abitanti in una sorta di «elite» della cultura tradizionale milanese: culla del dialetto, della professionalità, dell'autoimprenditorialità...; 5. Blocco degli affitti in un primo tempo, applicazione della Legge 167 più tardi, sembrano determinare un certo «disinteresse» della proprietà immobiliare per la zona, disinteresse certamente acuito in questi anni dai risultati della lotta per la casa in un quartiere «gemello» come il Garibaldi; 6. Le trasformazioni produttive che interessano la grande industria determinano la scomparsa di una serie di attività dell'indotto nel quartiere. Anche spazi produttivi di tipo artigianale si rendono disponibili; 7. I processi di sostituzione delle attività produttive con insediamenti terziari non interessano ancora il Ticinese, concentrandosi nei settori settentrionali della città: i valori immobiliari rimarranno stabili per anni. Molti dei fattori che abbiamo riassunto convergono su un unico risultato: nell'area Ticinese‐
Genova è possibile nei primi anni Settanta trovare ampi spazi ad un prezzo abbordabile. A ciò, si aggiunga la collocazione del quartiere a ridosso del centro cittadino e nello stesso tempo fulcro di un sistema più vasto, un grande triangolo metropolitano con apice alle Colonne di San Lorenzo e la base costituita dai grandi quartieri periferici e dai Comuni di prima cintura: Barona, Gratosoglio, Rozzano, Corsico, Cesano Boscone. Un triangolo non solo ideale, dato che il sistema delle convergenze interessa anche assi viari e di trasporto pubblico. I movimenti politici «extrasistemici» degli anni Settanta, si pongono come forma di rappresentanza generale, non territoriale, seguendo il modello della «forma partito», con una sede centrale vicina al centro dei poteri cittadino e le sezioni decentrate sul territorio metropolitano. Resta il fatto che, con i presupposti che abbiamo riassunto, il Ticinese inizia a modificare il proprio ruolo urbano e la propria composizione sociale con l'apporto determinante di nuovi attori sociali a forte spessore politico, diventando un «caso» esemplare, destinato a consolidarsi nel tempo. La presenza nel quartiere di migliaia di soggetti portatori di proposte ricche e diversificate, influisce sulla rete commerciale, sull'insediamento residenziale, su un senso di «appartenenza» peraltro già consolidato: mentre la speculazione immobiliare si ritrae dal Primo Moroni ‐ 7 quartiere, «tornano» attraverso il Ticinese verso il centro gli abitanti dei grandi dormitori dell'hinterland : a vent'anni di distanza la zona ha ristabilito dinamiche di interscambio centro‐
periferia analoghe a quelle interrotte con la distruzione del Pasquirolo‐Bottonuto. Ma i movimenti politici e sociali degli anni Settanta, indipendentemente dalle astrazioni ideologiche di carattere generale, affermano anche un bisogno di riappropriazione degli spazi metropolitani, di cui le lotte per la casa, per i trasporti e i servizi sono la manifestazione più visibile. Una riappropriazione che, a partire dal centro, irradiandosi verso le periferie, mira a realizzare forme di «contropotere territoriale», di spostare, in controtendenza rispetto alle fratture degli anni Sessanta, dalla fabbrica al quartiere il centro della realizzazione individuale dei soggetti. Nella prima fase, la collocazione verso il centro delle sedi politiche non è funzionale a questo obiettivo: si organizzano lotte per la casa ma si ribadisce la centralità del luogo di lavoro come spazio privilegiato della rappresentanza. Sarà l'inarrestabile e contraddittorio sviluppo metropolitano a determinare il parallelo sviluppo spontaneo della «nuova territorialità». Contemporaneamente alla crisi del modello per sedi centrali, cresce nei quartieri di periferia una nuova generazione, in gran parte nata proprio nei grandi dormitori, dove ha lentamente maturato la propria «identità territoriale». In maggioranza quindicenni, i nuovi soggetti sociali seguono il proprio originale percorso politico : dal gruppo di amici, compagni di scuola o di caseggiato, alla compagnia di strada, al bisogno di luoghi di socialità e autorappresentanza. Nascono così i «circoli autogestiti del proletariato giovanile»: espressione del bisogno di realizzare il proprio «vissuto» all'interno del quartiere; non riuscendo a trovare sbocco alle proprie esigenze nei luoghi commerciali come i bar, nè nelle sedi politiche, mettono in atto la pratica dell'occupazione di spazi sociali. Come evidenziato dalla Cartina 8, i circoli giovanili (qui assimilati ai «coordinamenti autonomi») nascono praticamente in tutti i quartieri di nuova costruzione o di nuova grande espansione: i Circoli, in qualche modo, «accerchiano» la città. Caratteristiche comuni di queste esperienze comunque estremamente diversificate sono: 1. una composizione estremamente «localizzata», come nel caso delle bande degli anni Cinquanta; 2. estrema attenzione ai fermenti sociali del quartiere e ai suoi problemi, evidenti nelle lotte contro il lavoro nero, per la casa e per i servizi; 3. continua richiesta di spazi di socializzazione 4. forte senso di esclusione dal consumo dello spazio urbano. Da qui le continue scorribande verso il centro, con le autoriduzioni, le contestazioni ai concerti, il generale contraddittorio atteggiamento nei confronti della città al tempo stesso nemica e oggetto di desiderio. Da qui la definizione di «indiani metropolitani», confinati nelle riserve dei dormitori, lontane dal centro, territorio dei «visi pallidi»; 5. tentativo di identificare punti di riferimento in centro, che si concretizzerà nella nascita dei «coordinamenti autonomi» collocati nelle aree intermedie. I due principali Coordinamenti si insediano nei quartieri Ticinese‐Genova e Romana‐Vigentino, a conferma del sempre più accentuato ruolo di «cerniera» assunto da alcune aree, cerniera non solo dal punto di vista urbanistico, dato che i «poli» di riferimento dei Coordinamenti interessano buona parte del tessuto sociale metropolitano. In generale comunque, la vicenda politica ed esistenziale dei «circoli del proletariato giovanile» assume nella storia della città una valenza Primo Moroni ‐ 8 emblematica: ultimo, drammatico tentativo degli attori sociali di ricostruire una identità territoriale, come presupposto alla acquisizione di strumenti flessibili e complessi finalizzati ad un confronto con i processi di modernizzazione. Bisogno di far vivere il territorio di appartenenza come organismo vitale; rivendicazione/negazione del diritto al collegamento/ scambio con i centri decisionali, sono i due elementi caratterizzanti dell'azione dei Circoli, la cui fine determinerà un trauma, sintetizzato da una scritta comparsa su un muro, alla Barona: «LE FERITE NON RIMARGINATE NEL CORPO SOCIALE GENERANO MOSTRI». Il mostro, in questo caso, è l'eroina, il cui diffondersi massiccio è espressione radicale del disagio e dei percorsi di esclusione metropolitani. L'eroina «passa», in drammatica progressione geometrica, a partire dal silenzio sociale dei grandi quartieri dell'hinterland. Non a caso, le prime due storiche «piazze» dello spaccio sono al Giambellino, in via Odazio, e al Corvetto, in Piazza Gabrio Rosa: nel cuore di grandi quartieri popolari, frontiera tra i frastagliati margini urbani e le vite «invisibili» delle nuove periferie. Col tempo, lo spacciatore si impone come un vero e proprio «esperto dei modi di uso sociale dello spazio urbano»: manovra i suoi spostamenti in senso circolare estendendo le «piazze» a tutti i quartieri periferici, ed inizia più tardi a convergere verso il centro, sfruttando i «triangoli» di confluenza delle linee di trasporto pubblico e collocandosi negli ideali «vertici» del Castello Sforzesco, del Parco delle Basiliche al Ticinese, nella zona di Porta Romana. Nelle stesso periodo in cui nella città si diffonde l'eroina, si rallentano visibilmente i grandi processi di ristrutturazione urbanistica, che alla fine degli anni Settanta vedono lo spostamento degli interessi in questo senso verso le aree più esterne, ma Milano è comunque una «centrifuga», che espelle abitanti con gli stessi incalzanti ritmi del grande inurbamento dei due decenni precedenti: mutano gli scenari, i punti di riferimento, le percezione stessa della metropoli. I soggetti sociali variamente antagonisti sembrano spariti, o almeno molto silenziosi. Dagli anni Sessanta in poi, i movimenti giovanili avevano espresso in varie forme una forte «domanda di modernizzazione», una istanza di partecipazione collettiva alla vita della città, scontrandosi puntualmente con una cultura di governo impreparata ad accoglierla. Da qui i processi di «iperpoliticizzazione», di antagonismo sempre più violento, fino al silenzio, all'invisibilità. Ma è nel silenzio e nella invisibilità che si compie una ulteriore mutazione. L'inesausta ricerca di rapporto con il centro, i vari tentativi di «portare» il centro verso la periferia, in altre parole le istanze di «riequilibrio» comunque espresse, si sono rivelate illusorie. Quanto abbiamo ripreso all'inizio del nostro racconto da Berman, sul bisogno di «mettersi nella condizione di assumere il controllo della propria vita», scegliere un «nucleo di esperienza vitale», sembra essersi definitivamente frantumato nella sempre più stretta spirale dell'alternativa omologazione/autodistruzione. LA RICERCA DEL FUTURO I Punks iniziano un percorso insolito: la dichiarata separatezza dal sociale. Nessuna utopia è praticabile ‐ anche come semplice pretesto ‐ nel quartiere, nella città. L'unico slogan, dopo le grandi utopie declamate, piante, urlate, ha l'asciutta compostezza di un segnale stradale: «NO FUTURE». Il movimento punk, come quello dei Circoli, nasce in gran parte nei quartieri più esterni, coinvolgendo anche giovani che hanno parzialmente vissuto le esperienze precedenti. Il punk esprime l'impossibilità di rappresentarsi attraverso l'azione collettiva, e dal suo rifiuto di qualsiasi socialità nasce la rinuncia a qualunque rapporto particolare con il quartiere, il microsistema, per considerare proprio territorio l'intera città. E, ancora una volta, il concetto di «città» coincide con quello di «centro città». Primo Moroni ‐ 9 I punks «invadono» il centro secondo modalità graduali, e tendenzialmente intendono considerarlo uno spazio di «residenza stabile» anzichè un «territorio di caccia»: un approccio molto simile a quello dei Beats, e molto lontano dalle scorribande dei Teddy Boys con cui il nuovo movimento sembra a prima vista avere molto in comune, dallo sradicamento al look aggressivo. I punks apprezzano la capacità di espressione culturale del beat ‐ pur rifiutandone la carica progettuale utopica ‐ cui sono accomunati da un idea di uso del corpo come «macchina per comunicare», simbolo e succedaneo del diritto di rappresentanza negato; ma la loro «migrazione» verso il centro riassume molti caratteri dello spostamento analogo dei vari movimenti giovanili del secondo dopoguerra, di cui rappresenta una sintesi. Dopo l'esperienza del «Virus» in via Correggio (vera «Cattedrale» del punk italiano), i punks si concentrano nella zona intermedia centro‐meridionale, occupando ancora una volta l'area di cerniera tra la City e i quartieri dormitorio, il fulcro su cui concentrare le forze per «DISTRUGGERE IL CERCHIO, ROMPERE LA GABBIA, CREARE ORGANIZZARE LA NOSTRA RABBIA». Con il movimento per gli «spazi sociali autogestiti», il cui simbolo è un cerchio (la città) attraversato da una saetta (i comportamenti soggettivi), anche la dura separatezza della pratica punk si attenua, diluendosi nella contraddittorietà e molteplicità dei movimenti metropolitani degli anni Ottanta: istanze ecologiste radicali, autonomi di terza generazione, neoanarchici... Il Movimento degli Spazi Autogestiti si configura, ancora una volta, come tentativo di territorializzazione, di rapporto dialettico con i centri decisionali. E, ancora una volta, l'attenzione maggiore del movimento è verso le aree intermedie, i nodi per instaurare un rapporto di interscambio tra centro e periferia, una convivenza difficile, forse, ma sicuramente priva dei toni foschi del «no future», del silenzio, della conflittualità violenta, senza sbocchi. Primo Moroni ‐ 10