Tizio, sedicenne, nel corso di una lite insorta a notte fonda all`uscita

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Tizio, sedicenne, nel corso di una lite insorta a notte fonda all`uscita
L’ANIMA DELLA TOGA AL FEMMINILE
Relazione del 9 settembre 2009 dell’avv. Paola Rubini al Rotary Club Padova
“Due donne devono essere particolarmente considerate dall’avvocato: la cliente, la moglie”.
All’evidenza, chi scrisse questo principio, in un trattatello del 1926, tale Angelo Ossorio, riteneva
che avvocati donne non potessero esistere! Anche se nella prefazione è costretto ad ammettere:
“Farò ai miei giovani lettori una dichiarazione tragica: l’avvocato non deve aver sesso: è dura ma
così dev’essere!”.
A parte queste amenità, nel mondo del diritto una donna, e che donna, vi fu fin dal 1300: era
Eleonora de Arborea. Nata a Molins de Rei nel 1340 e morta ad Oristano nel 1404 fu
“giudicessa”, mi si passi il termine antiquato, del Giudicato di Arborea (l’attuale Oristanese) in
Sardegna. Ella fu l’ultima regnante indigena della Sardegna e, soprattutto, promulgò la c.d. Carta
de Logu, uno dei primi esempi di costituzione del mondo. In essa vi è il tentativo di dare piena
attuazione allo stato di diritto in cui tutti sono tenuti all’osservanza, alla conoscenza e al rispetto
delle norme giuridiche e delle relative conseguenze.
Antonio Benini - Eleonora d’Arborea in atto di scrivere la Carta De Logu
Fu Catone il Censore ad ammonire gli uomini dicendo: “Appena le donne avranno cominciato
ad essere vostre eguali saranno vostre superiori”.
L’esercizio della professione forense, comunque, fu praticamente impossibile per le donne fino
all’inizio del XX secolo.
Fu proprio l’Italia, primo Stato in Europa, a porsi il problema, anche se poi fu risolto molti anni
dopo.
Infatti, il codice civile del 1865 aveva introdotto per le donne coniugate l’istituto
dell’autorizzazione maritale in base alla quale veniva loro limitata la capacità giuridica nella
gestione patrimoniale e nelle attività commerciali, condizionandone pertanto anche l’accesso alle
professioni in generale.
Nel Resoconto morale del Collegio degli Avvocati di Venezia dell’anno 1883 esposto
all’Assemblea Generale del 27 gennaio 1884 si legge (lo troverete alle pagg. 72 e 73 del libro di
cui vi ho fatto omaggio – L’Ordine Forense Veneziano nel centenario della sua istituzione,
Venezia 1974): “Con nota 3 agosto 1883 il Segretario del Consiglio dell’Ordine di Torino
interpellò il Consiglio nostro se fosse fra noi intervenuto il caso di una donna che domandi di
essere iscritta nell’Albo degli Avvocati; come fosse stato risolto; e quale potrebbe essere la
nostra opinione qualora si presentasse. La Presidenza si è creduta in dovere di rispondere a
questa interpellanza, soggiungendo come suo avviso che prima di ricusare alle donne la
iscrizione nell’Albo s’avrebbe dovuto impedire ad esse di prendere la laurea, di fare la pratica, e
più di tutto di subire gli esami dinanzi la Corte di Appello in esito ai quali la donna verrebbe
abilitata all’esercizio dell’avvocatura. Se non che la questione venne formalmente proposta al
Consiglio nella seduta del 3 settembre p.p., ed a maggioranza di voti venne presa una
deliberazione che escludeva le donne dall’esercizio della professione, ritenendo necessaria a tale
scopo una positiva disposizione di legge”.
La querelle era stata causata dalla richiesta di iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino da
parte di Lidia Poèt di Pinerolo, prima donna laureata in Giurisprudenza, peraltro con il massimo
dei voti, nel Regno d’Italia nell’anno 1881.
La Corte di Appello di Torino (sentenza 11/11/1883, in Giur. It. 1884, I, c. 9 e ss) annullò la
delibera di iscrizione concessa dall’Ordine degli Avvocati di Torino con una motivazione,
confermata dalla Corte di Cassazione, che oggi ci appare quanto mai anacronistica ma che,
all’epoca, era perfettamente aderente al comune sentire. Ebbene la Corte così motivò: “La
questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio
dell’avvocheria. Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle leggi che possono
aver rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del
legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non
dovevano punto immischiarsi le femmine. Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché
oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra,
agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente
trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso
più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le
buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne
oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui
andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il
tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda
impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno
del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno
agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore
della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra. Non è questo il momento, né il
luogo di impegnarsi in discussioni accademiche, di esaminare se e quanto il progresso dei tempi
possa reclamare che la donna sia in tutto eguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a
tutte le carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati soltanto dell’uomo. Di ciò potranno
occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se
sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza
con gli uomini, di andarsene confuse tra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne,
siccome la provvidenza le ha destinate”.
In realtà, le motivazioni sottostanti facevano riferimento a questioni c.d. “mediche” e ad altre di
carattere giuridico.
Si pensava che l’equilibrio fisico e biologico della donna venisse gravemente compromesso per
almeno una settimana al mese a causa del ciclo mestruale, con sicure ripercussioni sulla capacità
di occuparsi serenamente dei casi affidatile dagli ipotetici clienti.
In secondo luogo, più fondatamente, si rammentava che le donne non godevano, a termini di
legge, della parità dei diritti rispetto agli uomini. Per le sposate vi era l’autorizzazione maritale e
questo creava il paradosso di dover rivolgersi al marito per esercitare il mandato difensivo;
inoltre le donne non potevano essere testimoni nelle cause di stato civile o nei testamenti.
In definitiva era un patrocinatore non in possesso della totalità delle facoltà giuridiche.
Il Parlamento, benché investito della questione, come accade qualche volta anche ai nostri giorni,
adottò una tattica dilatoria senza prendere posizione.
Lidia Poèt continuò a lavorare nello studio legale del fratello Enrico interessandosi agli
emarginati e ai carcerati; divenne vicepresidente del Congresso Penitenziario Internazionale e
rappresentò l’Italia in vari consessi giuridici nel mondo. Morì nel 1949 a novantaquattro anni
senza aver mai potuto esercitare la professione forense appieno come avrebbe voluto.
Qualche anno dopo anche Teresa Labriola dovette misurarsi con i medesimi ostacoli.
Teresa Labriola
Teresa, nata a Napoli nel 1873, era la figlia del filosofo Antonio Labriola. Dopo la laurea in
giurisprudenza conseguita nel 1901, ottenne la libera docenza in Filosofia del Diritto, prima
donna all’Università di Roma. Nel 1912 presentò domanda di iscrizione all’Albo degli avvocati e
il Consiglio accettò la domanda con la motivazione che a un professore universitario non si
poteva negare di svolgere la professione di avvocato. Purtroppo, a seguito di ricorso del Pubblico
Ministero, la Corte di Appello di Roma annullò la delibera di ammissione e nel 1913 la Corte di
Cassazione confermò la decisione. Nel 1919, all’indomani dell’approvazione della Legge
“Sacchi” n. 1176 del 17 luglio sulla capacità giuridica delle donne (l’art. 7 sancisce l’ammissione
delle donne “a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli
impieghi pubblici”), fu tra le prime donne italiane avvocato e in seguito vincitrice di una cattedra
universitaria. Delusa tuttavia dall’avvocatura, che solo in minima parte la sostenne durante la sua
battaglia, scelse l’impegno politico che la portò a ricoprire un ruolo fondamentale nelle
associazioni femminili per la conquista dei diritti civili e politici, come il Consiglio Nazionale
Donne Italiane.
E a Padova qual era la situazione?
Non dissimile dal resto d’Italia. La prima donna a iscriversi all’Albo dei Procuratori Legali fu
Piera Dolfin nel 1935 e nel 1941 all’Albo degli Avvocati. In allora Piera Dolfin, di fortissima
personalità ed intelligenza, esercitò l’avvocatura con successo e impegno.Tra l’altro contribuì a
fondare nel 1953 il Soroptimist Club di Padova. Ciò destò una certa perplessità nella c.d.
“Padova conservatrice” poiché si considerava troppo fuori dalle regole che delle signore sole,
all’inizio 18, si ritrovassero in ora serale presso l’Albergo Storione per discutere di politica e di
problemi sociali.
Concludendo: “Quanto più generoso e gentile il cuore, che pure batte e pulsa sotto la fredda toga,
tanto più la Giustizia diventa degna di monito e di coazione psicologica. Ebbene, quale cuore più
generoso e più gentile di quello di una donna che valuta i fatti umani e vivifica col sentimento la
dura norma della legge?” (così l’Onorevole Mancini il 14 novembre 1947 nel corso della seduta
dell’Assemblea Costituente riguardante la discussione del Titolo VI sulle “Garanzie
costituzionali”).