Dalla Dea Madre al dio della Guerra - Kemi

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Dalla Dea Madre al dio della Guerra - Kemi
STUDI SIMBOLICI
di Patrizia Frontini
Dalla Dea Madre al dio
della guerra,
dal femminile al
maschile nei segni di
prestigio
Nella storia dell’uomo sembra che
alcuni oggetti indicatori di status siano senza tempo: gli ornamenti, i
materiali preziosi o esotici, le armi.
Gli oggetti di ornamento e poi i veri
propri gioielli sono espressione di un
gusto estetico ma, come l’abbigliamento, hanno una forte connotazione sociale definendo la persona sia
all’interno delle classi d’età che nella gerarchia della comunità.
I materiali preziosi o semipreziosi,
perché rari o di provenienza esotica, sono riservati a chi vi può accedere, non solo in termini di capacità
economica ma anche di “dignità” o
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“idoneità”: il loro elevato valore
simbolico, di cui rimane traccia nelle
narrazioni e nelle tradizioni popolari a tutt’oggi vive, e che dobbiamo ritenere ancora più radicato in
età preistorica e protostorica, li rendeva infatti portatori di significati e
poteri precisi che non ammettevano
dissonanze con quelli di chi li indossava.
Nel mostrare il potere / prestigio del
singolo anche le armi godono di lunga vita: almeno dal Neolitico fino
alla prima età del Ferro connotano
nella maggior parte dei territori le
sepolture di uomini eminenti.
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Mentre esse mantengono questo significato nelle aree dove sopravvive, per continuità o per invasione,
la tradizione celtica, lo indeboliscono fino quasi a perderlo entro il V
secolo a.C. là dove ci si avvicina ad
esperienze di tipo urbano (si vedano l’Etruria, il mondo veneto e
golasecchiano), quando il potere
militare si presuppone gestito da
autorità istituzionali e non più da
forme di aristocrazia guerriera, e i
ceti egemoni identificano con altre
sfere la propria posizione e la esprimono quindi con altri indicatori di
status.
Le armi, deposte nelle sepolture, offerte nei ripostigli, nei corsi e negli
specchi d’acqua, come era molto frequente, o sui rilievi, sulle cime o sui
passi, sembrano accompagnare il
processo che porta dalle comunità
di villaggio a società più complesse
in cui si definisce un vero e proprio
ceto aristocratico.
Un processo – ci dicono le armi –
ormai essenzialmente maschile.
Se non è un capriccio della documentazione archeologica, può avere un senso che le asce di pietra levigata, le prime armi in ordine di
tempo a indicare l’elevata posizione gerarchica di chi le possiede, aumentino progressivamente la loro
funzione di simbolo di status nell’arco di tempo in cui si rarefanno fino
a scomparire le statuine femminili
in terracotta, legate in maniera più
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o meno stretta all’immagine della
dea madre, nutrice, preposta alla fecondità, alla fertilità, al ritmo dei
cicli naturali particolarmente sentiti dai primi agricoltori neolitici.
Una sostituzione, a giudicare da questi simboli di prestigio, del maschile al femminile.
Questo non significa che d’ora in poi
le donne siano escluse dagli ambiti
degni di considerazione sociale: al
contrario, ancora nell’età del Rame
le statue stele, sia che rappresentino
divinità o individui eroizzati, degni
comunque di una forma di culto raffigurano personaggi sia maschili che
femminili e nelle necropoli dell’età
del Bronzo (per esempio la necropoli dell’Olmo di Nogara) il gruppo
delle tombe emergenti comprende
uomini sepolti con spada o con spada e pugnale e donne con ornamenti
in bronzo e ambra.
Ciò che apparentemente cambia è –
se così si può dire – la scala dei valori, l’impronta ideologica dominante che la comunità esprime: al potere della dea madre che genera, nutre
e incarna la forza stessa della natura
nei suoi aspetti di unità e continuità
sembra sostituirsi il potere delle
armi, coercitivo quando non anche
distruttivo.
Fondamentali in questo processo
sono per gli studiosi l’importanza
sempre maggiore del bestiame e
l’emergere di una élite maschile la
cui “sub-cultura” è rappresentata
dalla caratteristica associazione di
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