V Congresso di Cultura cristiana – Lublino, 13 ottobre 2016

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V Congresso di Cultura cristiana – Lublino, 13 ottobre 2016
LA LIBERTÀ SA LVA TA
La luce crist iana sul le vie dell’uomo
(V Congresso di Cul tura cristiana – Lublino, 13 ottobre 2016)
Card. Gianfranco Ravasi
È scont ato ri conoscere che il t em a della libertà costituisca l’asse portan te
dell’antropol o gia crist iana attorno al qu ale si annodano e ruotano molte altre catego rie
e com ponenti. P er questo la nostra sar à u n’indagine molto semplificata e per certi versi
didascalica che comprenderà due tappe f on da mentali. Nella prima intercetteremo attorn o
all’asse della libert à due dati teologici ca pita li, la fede-fiducia umana e la grazia divina .
È in questo incroci o la struttura essen ziale d ell’atto libero alla luce della visione cristia na
della per sona. Nel secondo momento, inve ce, cercheremo di approfondire alcuni corolla ri,
come la connessione dell’etica, della ver it à e della natura umana con la libertà, tenen d o
conto dell’incontro t ra immanenza e t rascendenza, cioè tra umano e divino che si attua
all’interno della persona.
Fede tra grazia e liber tà
Nec religionis est cogere religion em . Lapidario è Tertulliano, con questo motto
del suo scr itto A Scapola (II, 2), ne l r icon oscere che nel cuore stesso della fede, o ve
pure impera la grazia divina, pulsa an che la libertà umana per cui «non è proprio d ella
religione costringere alla religione». Un p rin cipio, purtroppo, non sempre rispettato d alle
varie confessioni religiose, compreso il cristianesimo all’interno della sua storia secola re,
ed è significativo che san Giovanni Pao lo I I abbia anche di queste prevaricazioni chiesto
perdono nel Gi ubil eo del 2000, così come ha fatto talora lo stesso Papa France sco.
Nell’analisi della fede dobbiamo, pe rciò , celebrare il primato della grazia divina, ma
non possiam o assol utamente ignorare il n ece ssario contrappunto armonico della libertà
umana. Necessari o perché la libertà è st ru ttu rale all’antropologia biblica e non solo alla
concezione classi ca e moderna della pe rsona.
Non possi amo ora sviluppare questo te ma inseguendo la trama dei testi biblici. Ci
basti evocare due passi . Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la do nna
sono collocati nei cc. 2-3 della Genesi a ll’omb ra «dell’albero della conoscenza del ben e
e del male», un evidente simbolo del la m ora le nei cui confronti la creatura si trova libe ra
se accettarne il valore oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è b e ne
e male. D’altro lato, ci ti amo un passo emb lem at ico della sapienza d’Israele: «Da princip io
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Dio creò l’uomo e l o lasciò in balìa de l suo pr oprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i
comandamenti, l’essere fedele dipend e d alla t ua buona volontà. Egli ti ha posto da vanti
fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua m an o. Davanti agli uomini stanno la vita e la mo rte:
a ognuno sarà dato ciò che a lui piace rà» ( Sira cide 15,14-17).
La grazia divi na, pur nella sua e fficacia, scende non all’interno di un oggetto
inerte ma in un essere l ibero che può acco glier e o rifiutare quel dono, può aprire o lascia re
chiusa la porta dell a sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la ce lebre
metafora dell’Apocal isse (3,20). Esprim eva b en e questo intreccio delicato e fondame ntale
– sul quale si sono accaniti per secoli i te ologi cercando di definirne l’equilibrio – un po e ta
italiano, il religioso servita p. David M . Turo ldo (1916-1992), quando scriveva: «Sono certo
che Dio ha scopert o me, ma non sono cer to se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma
è allo stesso t empo una conquista». L ’epif ania divina ha mille forme in cui manifestarsi e
non è sem pre sfolgorante come sulla via di Da masco. Tuttavia non è mai così cogente da
condurr e a un assenso f orzato e obblig at o. L’a desione dev’essere personale, libera, anch e
faticosa. Siamo, inf att i, consapevoli che l’esercizio della libertà è tutt’altro che semplice .
Essere liberi , infatti, non è una pura e semplice reazione istintiva e “libertina”,
né soltanto un sot trarsi a un’oppressio ne o a un’imposizione, ma è una scelta coere nte e
cosciente tr a opzioni di fferenti per un a me ta da raggiungere. Per questo il drammaturg o
tedesco Georg B üchner nella Morte di Dan ton (1834) affermava che la statua della libe rtà
è sempre in fusi one ed è facile scot tarsi le dita. Vivere nella libertà autentica, come
ricorda spesso anche san Paolo, è un at t o impegnativo perché comporta un’esistenza
rigorosamente cosci ente, ed è sempre in ag gu at o il rischio del ricadere in schiavitù. Come
accade ai cani a cui si lancia un ramo secco o un oggetto e te lo riportano subito, così p er
molti la libertà è un elemento inutile che r ipo rt ano subito nelle mani del potere. Questa è
un’immagine di Dostoevskij e dal gran de r oma nziere desumiamo una suggestiva riflessio ne
sul nesso tra fede e l ibertà.
Sc riveva: «Tu non discend est i d alla croce quando ti si gridava: Discen d i
dalla croce e crederemo che sei Tu! Per ché una volta di più non volesti asservire
l’uomo… A vevi bisogno di un amore libe ro e non di servili entusiasmi, avevi sete di
fede liber a, non f ondata sul prodigio». Lo scrittore rievocava la scena del Golgota co l
Cristo m orente sbef feggiato dai passan ti: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci
in tr e giorni, sal va te stesso! Se se i Fig lio di Dio, scendi dalla croce! Ha salva to
gli altri, non può sal vare se stesso . È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli
crederemo!» ( Matteo 27,39-42). Come du rant e la sua esistenza terrena aveva evitato ge sti
taumatur gici spett acolari, preoccupandosi solo di sanare le sofferenze umane, spesso in
disparte dalla fol la e imponendo il s ile nzio ai miracolati, così in quel momento estre mo
Gesù affida la sua rivel azione non al pr odigio ma allo scandalo della croce. Egli non cerca
adesioni interessat e, ma invita a una f ed e lib er a e guidata dall’amore che è per eccelle n za
un atto di libe rtà.
Senza questa dimensio ne la fede diventa parodia, come si intuisce
dalla ricostr uzione che Simone de Beauvoir faceva della sua crisi giovanile che le
fece abbandonare la fede. Nelle sue Me mor ie di una ragazza perbene (1958) rievo ca ,
infatti, il momento in cui in collegio, asco lt ando una predica del cappellano p. Martin
sull’obbedienza, si era fatta in strad a in lei la necessità di liberarsi dall’incubo d e lla
religione, proprio perché essa – secondo quella visione che in realtà era una deformazio ne
dell’autentica f ede – comportava la cancellazione della libertà. Raccontava: «Men tre
l’abate parlava, una mano sciocca si er a a bb at tuta sulla mia nuca, mi faceva chinare la
testa, mi incollava la faccia al suolo, pe r tu tta la vita mi avrebbe obbligata a trascin armi
carponi, accecata dal fango e dalla te ne br a; b isognava dire addio per sempre alla verità ,
alla libertà, a qualsi asi gioia».
P er questo è importante un annuncio corr etto della fede che, senza concedere nulla
a un accom odamento troppo facile, a un com pr omesso generico e comodo, non de formi
però la vera ani ma della fede, introducendo un volto sfigurato di Dio, quella che Lute ro
chiamava la si mia Dei , cioè la “scimm iott atu ra di Dio”. Il credere genuino non è schi avitù
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ma libertà, non è imposi zione ma ricer ca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce ,
non è tristezza ma serenità, non è ne ga zione m a scelta positiva, non è incubo minaccioso
ma pace. Co me aff ermava in un suo sa gg io, Vivere come se Dio esistesse il teo logo
tedesco Heinz Zahrnt, «Dio abita solta nt o là dove lo si lascia entrare». Questa scelta
comporta – come i n ogni opzione libe ra – un aspetto di rischio. Entra, così, in azione u n
lineamento ulteriore che è la fiducia.
Libertà e fiducia
La fiducia è la famosa
fide s qua teologica, ossia la fede “con la qua le”
si aderisce confi dando in Dio e che f a accogliere la fides quae, cioè i conte nuti
della Rivelazione divina che il credere ci m anifesta. Abramo, che «per fede, chiamato
da Dio, obbe dì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì sen za
sapere dove andava» ( Ebrei 13,8), ne è l’ese mpio archetipico biblico. Per continuare il
contrappunto che abbiamo adottato tra t eolo gia e cultura, vorrei al riguardo evocare i ve rsi
di un’impor tan te scrittrice italiana con la qu ale personalmente ebbi un dialogo intenso n e gli
ultimi anni della sua vita, Lalla Romano, scom parsa nel 2001: «Fede non è sapere / che
l’altro esiste / è vivere / dentro di lui / calo re / nelle sue vene / sogno / nei suoi pensie ri. /
Qui aggirarsi / dormendo / in lui desta rsi» . Certo, la fede è anche sapere, conosce re,
comprendere, ma non è pura e semp lice dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. È
molto di più.
L’incontro t ra fede e libertà è, dunque, complesso perché suppone innanzitutto
l’incontro tr a antropologia e teologia, cioè tr a l’immanenza e la trascendenza, tra la
creaturalità e la divinità, tra l’uomo/donna e Dio. Un incontro nel quale nessuno dei d u e
protagonisti d eve prevaricare sull’altr o. Da u n lato, la creatura umana, dotata di libertà ,
non può ignorare il creatore e la sua p ar ola e, quindi, deve compiere una scelta lib era
ascoltando o rifiutando quella parola. Dio , d’alt ro lato, ha scelto di avere di fronte a sé un
interlocutore libero e non una stella re go lata da meccaniche celesti obbligatorie e, qu indi,
rispetta la deci sione umana, anche ne ga tiva, pur non restando indifferente, e qui entra in
scena il tema del gi udizi o morale sul be ne e sul male.
Ma l’incrocio tra fede e liber tà suppone anche una dimensione squisitamente
interna all’antropologia. Nella coscienza uma na l’opzione fondamentale nei confronti di Dio
e della sua parola coinvolge ragione e fe de che sono due volti della libertà. C’è, dunq ue,
innanzitutto la verif ica razionale legittim a e n ecessaria tant’è vero che s. Agostino non
esita a dichia rare che «la fede se non è pensata è nulla» perché la persona cred ente
«pensando crede» e «credendo pen sa» . Naturalmente il limite creaturale fa sì ch e il
mistero trascendente, cioè la nous, la “ m en te” di Dio, come dice s. Paolo (1Corinzi 2,16), o
la ‘esah , il “proget to” di vino, come si e spr ime il libro di Giobbe (42,3), non possono essere
esauriti dalla ment e e dal progetto uma no . È pe r questo che può scattare la duplice scelta
dell’adesione e del rifiuto.
L’adesione, come si diceva, è la fe de che h a al suo interno un duplice profilo che n on
esclude la ragione (la f ides quae) ma che esige un ulteriore canale di conoscenza, qu e llo
della fiducia, del l’ amore, della confide nza (la fides qua), emblematicamente espressa
nell’ascesa drammatica di Abramo sul m onte Moria obbedendo all’ sconvolgente coma n do
divino del sacri fi cio del figlio, una vice nd a sulla quale ha scritto pagine memorab ili il
filosofo Soeren Kierkegaard nel suo sa gg io Timore e tremore. La persona umana ha,
infatti, una conoscenza polimorfa: essa com prende la via razionale ma anche qu ella
d’amore, il met odo scientifico ma anch e l’in tuizione estetica, la sperimentazione sensoriale
ma anche l’ast razione intellettuale e così via. In questa luce si comprende la funzione
decisiva del la libertà che s’affida e con fida in Dio. Ed è su questo aspetto fiduciale che
vogliamo concludere con una riflessione d i indole testimoniale e culturale.
La fede nel suo ultimo stadio è, inf att i – come per altro insegna la grande mistica
(si pensi solo a Gi ovanni della Croce) – incontro, fiducia, abbraccio, amore; è vive re
in Dio, condivi dendone pensieri, sogn i, scelt e, anche nella notte oscura della prova. È
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addorm entarsi con lui per risvegliarsi ancor a accanto a lui, come confessa il Salmista: «In
pace mi cor ico e subito mi addormento: tu solo , Signore, al sicuro mi fai riposare» (Sa lmo
4,9). La fiducia ha il suo vaglio di aute nt icità nel tempo tenebroso della sofferenza o de l
silenzio di Dio, quando il volto divin o scom pa re, la sua parola tace, la sua presenza si
tramuta in assenza. G iobbe coinvolto in pien o nella tenebra, non cessa di credere e di ave r
fiducia: «Qua nd’anche Egli mi uccider à, no n me ne lamenterò» (13,15).
La tradizi one giudaica mett e in scena in una parabola un ebreo sfugg ito
all’Inquisizione spagnol a con moglie e f ig lio che, durante una tempesta, approd a in
un’isola. Lì, però, un fulmine uccide l a mo glie e un’onda trascina in mare il ragazzo. S olo,
nudo, flagel la to dalla tempesta, atte rrito , err abondo su quell’isola rocciosa, leva la sua
voce al cielo: «D io d’I sraele, sono finit o! Pr oprio ora, però, non ti posso servire se n on
liberamente. Tu hai f att o di tutto perch é io non creda più in te. Bene, te lo dico, Dio mio
e dei miei padri, tu non ci riuscirai. Puo i colpir mi, puoi prendermi i miei beni, quello ch e
mi è più caro al mondo, puoi torturarmi a m or te : io crederò sempre in te, ti amerò sempre ,
tuo malgr ado! ». E vidente è il paradosso, m a in questa ripresa che è la stessa del dramma
di Giobbe, brill ano l a t otale libertà de l credent e e la sua assoluta fiducia in Dio.
La libertà tra immanenza e trascendenza
Nella prefazione al suo
Tra ctat us logico-philosophicus (1921) il filosofo
viennese Ludwig Wittgenstein, illustrando lo scopo della sua ricerca, affermava che era
sua intenzione invest igare i contorni d i un’isola, ossia l’uomo circoscritto e limitato . Ma
ciò che aveva alla fine scoperto erano le f ro nt iere dell’oceano. La metafora è chiara : se
si percorre il litoral e di un’isola, guard an do solo al suo tracciato terrestre, si riesce a
computarla, definirla, identificarla. Ma se lo sg uardo si volge verso l’altro versante d ella
costa, si intuisce i l di stendersi del mar e inf inito. In sostanza nell’essere umano si ha u n
intreccio tra la f ini tudi ne e l’infinito, tr a u n contingente sperimentale e un oltre altretta n to
significativo ma più imponderabile. La scelta libera si colloca all’interno di questa duplicità .
Nella storia del pensiero si sono, così , confrontati due modelli estremi. C’è ch i
ha optato solo per l’ isola, scegliendo le varie forme di immanentismo, coi loro corolla ri
gnoseologici, etici, esistenziali, persin o sociali. Essi potevano anche esasperarsi, co me
nel r azionalismo, nel materialismo, ne l fe no menismo, nel relativismo, nel soggettivismo,
nel secolarismo, nello stesso postu manesimo e in certi approcci tecnologici radica li.
L’antropologia risulterebbe, così, am pu tat a da ogni dimensione trascendente, fissan dosi
solo su un orizzonte privo di vert ica lit à. C’è, però, anche l’estremo opposto d e l
trascendentalismo, che si protende so lt an to ver so l’oceano, il mistero, l’infinito e l’etern o ,
talora decollando dalla realtà verso il cielo purissimo ma astratto del dogmatismo , de l
fondamental ismo, dell’ideologismo e per sino dell’assolutismo sacrale.
Bisogna, però, ri cordare che un’am pia p or zione della ricerca filosofica e soprattutto
teologica si è i nvece sforzata di tener e insie me “simbolicamente” le due sponde, la terre na
e l’infinita, combatt endo ogni radicalismo esclusivista. Certo, l’equilibrio è delicato perché
deve tenere in trecciate tra loro dimen sioni dot at e di una loro autonomia come la fisica e la
metafisica, la prassi e l’etica, la storia e l’e tern o. Già la cultura classica, soprattutto greca,
è stata ver amente esemplare nel compier e q uesta operazione “sim-bolica”. Proponiamo
solo qualche esempi o i n modo molto semp lif ica to.
Platone svela nel suo Iperur an io la pr esenza dei tre grandi trascendentali de l
Vero, del Bene e del B ello: essi si irradian o e vengono partecipati divenendo il fondamento
di ogni ente, di ogni razionalità, di ogni e tica. Aristotele – seguito poi da s. Tomma so
d’Aquino – punt erà, invece, a un ver tice unico supremo, l’Essere, primo motore perfe tto
e i mmobile, pri ncipi o però dell’uno, del ver o, del bene e “pensiero del pensiero” di ogn i
essere umano. P lot ino, col neoplatonism o e con la successiva riflessione agostin iana ,
porrà all’apice il Nous trascendente, una M ente che è Essere e Bene divino dalla qua le
procede la to tal it à degli esseri, in una sequenza decrescente di perfezione fino al li vello
estremo ove l’essere si dissolve nel nulla.
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Tutte queste concezioni, pur nelle lo ro diversità e variazioni, cercano di comporre
un nesso stre tt o t ra il trascendente e l’im manente. Se vogliamo stare al livello della
scelta morale , bisogna riconoscere che, quanto più ci si distacca dal bene trascende nte
– attraver so l e opzioni negative della libe rt à umana –, tanto più cresce e imperve rsa
l’im mor alità, ci oè l’ empietà, la falsità, l’od io, la bruttura etica e la bruttezza este tica.
Questa prospettiva ha una sua rappresenta zione molto suggestiva nell’antropologia d e lla
Bibbia che è, pur sempre, il nostro “ gr ande codice culturale”. Bisogna innanzitutto
ricordare che, soprat tutto per il cristian esim o ( ma i prodromi sono già nella “rivelazio n e
storica” dell’A nti co Testamento), fond am enta le è proprio il legame tra trascendenza e
immanenza.
Emblemat ica al riguardo è la scena iniziale della stessa Bibbia ch e
abbiamo sopra gi à evocato: l’uomo e la do nna sono posti, nei cc. 2-3 della Ge nesi,
all’ombra «d ell ’al bero della conoscenza del b ene e del male», un albero intoccabile, cioè
trascendente e preesistente, fisso ne lla sua entità che precede ed eccede la pur reale
libertà umana. Quel l’ albero diventa, quind i, il simbolo della morale. Certo, la scelta lib era
della persona può accogliere quella dete rminazione trascendente del bene e del male,
oppure, str appandone i l frutto, decide re in p roprio ciò che è bene e male, relativizza n do
così l’assolut ezza dei valori morali. L a st essa rappresentazione è presente nel Decalog o
che è proposto dall ’al to della vetta del Sin ai, dalla voce divina, simbolo della trascend enza
dell’etica che è in sé codificata. Ma a nch e in questo caso, decisiva è la libertà uma n a
che può accogliere, custodire e osser var e la legge morale, oppure ricomporla a suo
piacimento, c ome accade nell’episodio alt re tta nto simbolico del vitello d’oro (Esodo 32).
Il con cett o di ver ità
Come è evi dente, in quest a concezione etica è fondamentale il nesso e
l’interazione tra assoluto e libertà, tr a o gg et t ivo e soggettivo, tra precetto e opzione , tra
trascendenza e i mmanenza. Un lega me molto delicato e complesso che è, comunqu e ,
l’anima stessa dell a morale classica e giudeo-cristiana e che ha un valore parallelo in
un altro ambito affine a cui vorremmo or a accennare perché altrettanto significativo .
Intendiamo riferi rci alla categoria ver ità. Se n oi seguiamo il percorso culturale di qu e sti
ultimi secoli, i nfat ti , possiamo dire che il concetto di verità è diventato sempre più
immanente e soggettivo fino ad arrivar e al “sit uazionismo” del secolo scorso. Si pensi, a d
esempio, alla frase significativa e sp esso citat a, attinta al Leviathan del filosofo ingle se
secentesco Hobbes: Auctoritas, non ver it as f acit legem . In ultima analisi è, questo, il
principio del contrattualismo, secondo il quale l’autorità, sia civile sia religiosa, p u ò
decidere la norma e, quindi, indirettament e la verità, in base alle convenienze della società
e ai vantaggi del potere secondo le cir cost anze contingenti.
Tale concezione fluida della ver ità è ormai abbastanza acquisita nella
cultura contemporanea. Basti pensare a ll’antr opologia culturale. Infatti, il filosofo fran cese
Michel F oucault, studiando le diverse culture e le loro variabili comportamentali, invita va
caldamente ad accent uare questa dim en sione soggettiva e mutevole della verità, simile a
una medusa cangi ante, che cambia aspett o co ntinuamente a seconda dei contesti e d e lle
circostanze. Quest o soggettivismo è sosta nzialm ente ciò che Benedetto XVI ha chia mato
“relativismo”, ed è curi oso notare com e la pensatrice americana, Sandra Harding, face ndo
il verso a un a celebre frase del Vangelo d i Giovanni (8,32: «La verità vi farà libe ri»),
afferm ava al contrario i n un suo saggio che «la verità non vi farà liberi». Essa, infatti, vie ne
concepita come una cappa di piombo oppr essiva, come una pre-comprensione, come un a
sterilizzazione del la dinamicità e dell’incandescenza della libertà del pensiero umano.
T utte le religioni, e in particola re il cr istianesimo, hanno invece una concezio ne
trascendente della verità: la verità ci pre cede e ci supera; essa ha un primato di
illuminazione, non di dominio. Anche se Theodor Adorno l’aveva applicata soprattutto alla
felicità, è sug gesti va una sua espressione t ra tta dai Minima moralia . Il filosofo tede sco,
parlando del la verità e comparandola appunto alla felicità, dichiara: «La verità non la si ha ,
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ma vi si è», cioè si è immersi in essa. Ro be rt M usil, nel suo famoso romanzo L’uomo senza
qualità, al prot agonist a fa dire una frase int er essante: «La verità non è come una p ietra
preziosa che si può mettere in tasca, bensì è come un mare nel quale ci si immerge».
S i tratta, fondamentalmente, della classica concezione platonica espressa nel F edro
mediante l’immagine del la “pianura della verità ”: la biga dell’anima corre su questa pian u ra
preesistente ed esterna per conoscerla e conquistarla. Proprio per questo, nella Apolog ia
di Socrate , lo st esso fi losofo affermava: « Una vita senza ricerca non merita di essere
vissuta». È q uesto l’itinerario da com piere ne ll’orizzonte “dato” e, quindi, trascende n te
della verità. Da t ale punto di vista le r eligio ni sono nette: la verità ha un primato ch e ci
supera, la verità è appunto trascende nt e, e co mpito dell’uomo è essere pellegrino, co n la
sua liber a r icerca, all’interno dell’assolut o d ella verità. Per questo in esse si consid era
divina la verità: non per nulla il cristianesim o ap plica a Cristo l’identificazione con la verità
per eccellenz a ( Giovanni 14,6: «Io son o la Via, la Verità, la Vita»).
Il con cett o di “natura umana”
Ma ritorniamo alla specificità de l n ost ro t ema con un’ultima riflessione su un’altra
categoria capitale per quanto concern e il rapporto tra libertà e trascendenza. Accad e
spesso che n ell e esperienze del cosidd et t o “ Cortile dei Gentili” – cioè del dialogo tra
credenti e non credent i da svolgere n ello spazio aperto e libero della discussione fuori d el
Tempio e del Palazzo – ci si interroghi sulla possibilità o meno di avere una piattaf orma
comune di incont ro. Il discorso punta, a llo ra, sul concetto di natura umana: essa p uò
essere concepi ta i n senso metafisico e quind i trascendente, oppure deve ridursi a u n a
mera proceduralità sociale, priva di ind icazion i morali “oggettive”?
Ebbene, i n questi ultimi t em pi at torno a una tale categoria antropologica
basilare si è abbat tut a una bufera che ne ha scosso le fondamenta: basti solo pensare al
“politeismo dei valori” registrato da Weber o an che al puro e semplice pluralismo culturale.
La domanda, allora, è questa: è possibile r ecuperare un concetto condiviso di “natu ra”
antropologica che superi la mera fenome no logia delle possibili opzioni, che abbia qu indi
un fondamento che trascenda la muta bilit à dei costumi e che quindi impedisca di scivo la re
nelle sabbie mobili del già evocato rela tivismo e di una libertà assoluta, cioè sciolta d a
ogni vincolo etico oggettivo e destinata a sf ociare in una molteplicità sfaldata e babelica ?
Nell a storia del pensiero occid en tale attorno a questa categoria possiamo
individuare come due grandi fiumi int er pr etativi, dotati di tante anse, affluenti e
ramificazioni ma ben identificabili nel lo ro p er corso. Il primo ha la sua sorgente ideale n ella
filosofia aristotelica che – come già si diceva – per formulare il concetto di natura uman a
ha attinto al la matri ce metafisica dell’esse re. La base è, perciò, oggettiva e trascende n te,
iscritta nella real tà st essa della pers on a, e fu nge da stella polare necessaria per l’etica .
Questa concezione, dominante per secoli n ella filosofia e nella teologia, è icasticame n te
incisa nel motto del la filosofia scolastica me dievale Agere sequitur esse , il dover essere
nasce dall’essere, l’ontologia precede la deontologia.
Questa impostazi one piuttosto gr anitica e f ondata su un basamento solido ha subìto
in epoca moderna una serie di picconate , so pr attutto quando – a partire da Cartesio e d a l
riconoscimento dell ’i mportanza della soggett ività (cogito, ergo sum) – si è posta al cen tro
la liber tà personale. S i è diramato, così , un a lt ro fiume che ha come sorgente il pen siero
kantiano: la matrice ora è la ragione pra tica del soggetto col suo imperativo catego rico,
il “tu devi”. Al monito della “ragione”, d ella le gge morale incisa nella coscienza, si unisce
la “pratica” , cioè l a determinazione co ncr et a dei contenuti etici, guidata da alcune no rme
generali, come la “regola d’oro” ebraica e cr istiana («non fare all’altro ciò che non vuoi
sia fatto a te» e «fa’ all’altro ciò che vu oi ti si faccia») o come il principio “laico” del no n
trattar e mai ogni persona come mezz o bensì come fine.
La m et amorf osi è significativa: al t rascendentale ontologico aristotelico-tomistico
si sostituisce il trascendentale gnoseolog ico, la cosiddetta “conoscenza a priori” o ragion e
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universale. La t rascendenza è, dunque , af ferm ata ma è assegnata alla legge interna d e llo
spirito um ano . E ssa regola l’esperien za e le varie conoscenze e scelte etiche parzia li
personali. Famosa è la finale della Cr it ica d ella ragion pratica (1788), ove si afferma un a
duplice trascendenza, quella fisico-cosm ica e quella morale umana: «Due cose riempion o
l’animo di ammi razione e di riverenza se mpr e nuove e crescenti quanto più spesso e a
lungo il pensiero vi si sofferma: il cielo st ellat o sopra di me e la legge morale in me ( d er
bestirnte Himmel über mir und das mora lisch e Gesetz in mir)».
Frantumata da tempo la meta fisica aristotelica, si è però assistito nell’epoca
contempor ane a anche alla dissoluzione della ragione universale kantiana che pure ave va
una sua “ solidi tà”. Ci si è trovati, così, su un terreno molle, ove ogni fondamen to
si è sgretolat o, ove il “disincanto” ha f att o svanire ogni discorso sui valori, ove la
secolarizzazio ne ha avviato le scelte m ora li so lo sul consenso sociale e sull’utile per sé o
per m olti, ove il mult iculturalismo ha pr od ot t o non solo un politeismo religioso ma a nche
un pluralism o etico. Al “dover essere” che er a stampato nell’essere o nel soggetto si è ,
così, sostituita solo una normativa pro ced ur ale o un’adesione ai mores dominanti, cio è ai
modelli comuni esistenziali e comporta ment ali di loro natura mobili.
È po ssibi le reagire a questa der iva che conduce all’attuale delta ramifica to
di un’etica vari abil e così da ricomporr e una nuova tipologia di “natura” che conser vi un
po’ delle acque dei due fiumi simbolici sop ra evocati senza le rigidità delle loro mapp e
ideologiche? In paral lelo ma anche in au tonomia rispetto alla netta concezione d e lla
trascendenza t eologi ca ed etica prop ria della r eligione, molti ritengono che sia possibile
creare un nuovo modell o filosofico-mor ale cen trato su un altro assoluto, la dignità de lla
persona, còlt a nella sua qualità relazionale . Si unirebbero, così, le due compon e nti
dell’oggettività (l a digni tà) e della sogget tivit à (la persona) legandole tra loro attrave rso
la relazione al l’ alt ro, essendo la natur a um ana non monadica e chiusa in se stessa ma
dialogica, non cellulare ma organica, non so lip sistica ma comunionale. È questo il prog etto
della filosofia personalistica (pensiamo ai cont ributi di Buber, Lévinas, Mounier, Ricoe u r).
La natura umana così concepita recupera, allora, una serie di categorie etich e
classiche che pot rebbero dare sostanza al suo libero agire e al suo realizzarsi. Provia mo
ad elencar ne alcune. I nnanzitutto la virt ù della giustizia che è strutturalmente ad alte rum
e che il dir itto romano aveva codificato n el pr incipio Suum cuique tribuere (o Unicuiq ue
suum ) : a ogni persona dev’essere rico no sciuta una dignità che affermi l’unicità ma an ch e
l’universalità per la sua appartenenza a ll’uma nità. Parlavamo sopra di parallelo co n la
religione: nella stessa linea procede la cult ur a ebraico-cristiana col Decalogo che evoca i
diritti fondament ali del la persona alla liber tà, alla vita, all’amore, all’onore, alla religion e ,
alla proprietà. Nella stessa prospettiva si colloca la citata “regola d’oro”.
In sintesi, l ’i mperativo morale fo nd am entale si dovrebbe ricostruire partendo
da un’ontologia personale relazionale , in pr at ica dalla figura universale (e cristiana) de l
“prossimo” e dalla logi ca dell’amore n ella su a reciprocità ma anche nella sua gratuità
e donazione. Per spi egarci in termini biblici a tutti noti: «Ama il prossimo tuo come te
stesso» ( reciprocit à), ma anche «non c’è am ore più grande di chi dà la vita per la persona
che ama» (donazi one). Inoltre, in sen so p iù completo, nel dialogo “io-tu” è coinvolto –
come suggeriva il f il osofo francese Pa ul Ricoeur – pure il “terzo”, cioè l’umanità in tera ,
anche chi non incont ro e non conosco m a che appartiene alla comune realtà uma na.
Da qui si giustifica, allora, anche la fu nzione della politica dedicata a costruire struttu re
giuste per l’in tera società. La riflession e at t or no a questi temi è naturalmente più amp ia
e com plessa e dovrebbe essere declinata secondo molteplici applicazioni, ma in ultima
analisi potrebbe essere fondata su un dato semplice, ossia sulla nostra più radica le,
universale e costante identità persona le dia logica. È in essa che si esplica la libertà n e lla
sua autentica dimensi one etica.
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