Il Memorial museum custodisce nelle fondamenta delle Torri
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Il Memorial museum custodisce nelle fondamenta delle Torri
reportage NEW YORK 15 ANNI DOPO Il Memorial museum custodisce nelle fondamenta delle Torri gemelle le testimonianze e i reperti del giorno che ha cambiato la storia degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente Christina Horsten/AP di Maddalena Maltese dentro le viscere dell’11 settembre reportage NEW YORK 15 ANNI DOPO Chris Melzer/AP Un gruppo di visitatori nel museo dell’11 settembre davanti a “l’ultima colonna” lasciata intatta tra le macerie dopo il crollo. 9/11. Nine eleven. Bastano due numeri per ricordare agli statunitensi uno dei giorni più tragici della loro storia: l’11 settembre 2001. Non bastano invece i 7 piani sotto terra del Memorial museum a contenerne il lutto. E non espiano il dolore i 2983 nomi incisi sulle balaustre delle due vasche, che disegnano il perimetro di quelle che fino alle 8.46 e alle 9.03 di 15 anni fa erano le Torri gemelle. Quel mattino due aerei di linea dirottati da un commando di terroristi di origine mediorientale si schiantarono sulle Torri. Oggi sono due voragini, su cui si riversa una cascata d’acqua di migliaia di metri cubi, a dare le proporzioni delle fondamenta e dell’altezza. Al tramonto le pareti di questi abissi si colorano di arancio e giallo, effetto del riflesso delle migliaia di luci sulla lega d’alluminio e rame di cui 84 cittànuova n.9 | Settembre 2016 Un mazzo di fiori sui nomi delle vittime incisi sulle balaustre di una delle due vasche. sono forgiati. Qui sorgevano i due grattacieli più alti della Grande mela, quelli delle cartoline e delle foto ricordo, luogo di lavoro di 50 mila persone: il World trade center, il centro d’affari della città e non solo. Dopo 15 anni il cantiere è ancora aperto: si lavora a una stazione della metro e alla chiesa greco-ortodossa sventrata dai crolli. New York esorcizza la tragedia edificando del nuovo. Ci si scopre ad accarezzare quei nomi con le dita, quasi che il contatto fisico possa restituire, per qualche secondo, una sorta di consolazione alle vite spezzate Bebeto Matthews/AP Attorno alle enormi vasche si ergono 400 querce bianche disposte in filari ordinati. Ognuna celebra il coraggio dei poliziotti, pompieri, medici, volontari che persero la vita nelle operazioni di salvataggio: il Memorial plaza, la piazza della memoria, è dedicata a loro. Intanto qualche rosa bianca o rossa viene appuntata sui nomi delle vittime incisi sul parapetto delle vasche. I giocatori del Bayern Monaco vi depositano fiori e qualcuno infilza una bandiera americana. Ci si scopre ad accarezzare quei nomi con le dita, quasi che il contatto fisico possa restituire, per qualche secondo, una sorta di consolazione alle vite spezzate dei Ragusa, Fazio, Ricciardelli. Tanti gli italoamericani, ma ci sono pure russi, coreani, irlandesi e poi buddhisti, musulmani, ebrei, cristiani. Questa è la tomba di un pezzo di umanità. Resti delle colonne perimetrali del World Trade Center installate nel museo dell’11 settembre. Ho perso un amico George e Lucille sono due volontari che in questa piazza custodiscono la memoria di quel giorno e del periodo seguente. Ben 16 milioni di persone hanno finora visitato questo luogo. Lucille ha visto il crollo dalle finestre del suo ufficio: una volta in pensione ha deciso di accogliere chi arriva qui a conoscere, a capire. «Dopo avergli raccontato dell’albero della cittànuova n.9 | Settembre 2016 85 NEW YORK 15 ANNI DOPO Craig Ruttle/AP reportage Andraya Croft/AP Un’immagine dell’ex World Trade Center riflessa sul vetro del 9/11 Memorial Museum. Il caschetto da vigile del fuoco del tenente David Halderman, morto durante i soccorsi. memoria e mostrato le foto, i volti e gli atteggiamenti cambiano. Nascondono bibite e panini. Le loro scarpe poggiano su un suolo ancora dolente». L’albero della memoria è un pero chanticleer, con fiori dal profumo intensissimo. Riemerse ancora vivo quando 1.8 milioni di tonnellate di macerie furono rimosse dalla piazza. Curato nel giardino botanico del Bronx, è tornato nella sua sede. Incrocio anche scettici e polemici: «Leggi i prezzi per l’ingresso al museo: gli americani sanno far soldi anche dalle tragedie»… 86 cittànuova n.9 | Settembre 2016 «Hanno creato un cimitero a pagamento». E qui è George a prendere la parola con le sue foto consumate dal tempo. Lui ha perso un amico, un pompiere. Non discute. Racconta della polvere che per giorni sovrastava la città e che oggi si pensa sia causa di oltre 5 mila tumori. Racconta di chi scavava a mani nude tra il ferro rovente. Mostra ragazze con in mano la foto del fratello, del marito, del padre. Chiedevano ragione o un corpo o almeno uno di quei 1900 brandelli umani ritrovati tra gli scavi. Il suono dei ricordi L’attesa concitata all’ingresso del Memorial museum diventa silenzioso raccoglimento man mano che ci si avvicina alla cupola in vetro. Il rituale dei controlli smorza la tensione e appena dentro il vociare riprende. Ma non si ride. E non si salgono scale. Si scende. Si fa una gimkana tra i pannelli virtuali su cui i visitatori, in forma sonora e scritta, incidono la loro memoria di quel giorno. «C’è un tempo prima e un tempo dopo l’11 settembre», commenta Robert De Niro, aprendo la app che funge da audio guida. Non c’è spazio neppure per la sua voce suadente. Si ha bisogno di silenzio mentre si scende la scala in cemento grezzo, costruita sulla rampa che i soccorritori scavarono per individuare i primi seppelliti dalle macerie. Si continua a scendere a fianco del tridente, la colonna d’acciaio piegata dall’urto dell’aereo tra il 93° e il 96° piano della Torre sud. Dall’altro lato ci sono i 38 gradini di Vesey street, la via di fuga per gli impiegati della Torre nord, la differenza tra chi ce l’ha fatta e chi no. La penombra è costante, fino alle fondamenta in granito che reggevano i 110 piani. Qui una parete di mattonelle dall’azzurro al cobalto, al celeste, al color lavanda ti si para innanzi con un’enorme scritta: No day shall erase you from the memory of time (nessun giorno vi cancellerà dalla memoria del tempo). A Virgilio viene affidato il senso di questa tragedia e il dovere di non dimenticarla: non archiviare i colori del cielo di quel mattino riprodotti dalle piastrelle e neppure i resti d’acciaio della Torre con cui sono state forgiate le lettere della frase. Appena dietro, un muro raccoglie le foto delle vittime. Primi piani. Scatti di festa o in uniforme. Mentre le osservi, ascolti voci che ne pronunciano il nome e il legame d’affetto. Tutti nella sala registrazione possono incidere la loro memoria, mentre in un cubo nero si ascoltano i racconti di queste vite spezzate. /AP Il calvario di Ground zero L’antenna di teletrasmissioni situata sulla Torre nord si para innanzi in tutta la sua imponenza ferita. C’è poi il primo camion dei pompieri che accorse e fu travolto dai crolli. E lei, l’ultima colonna in acciaio a essere stata rimossa. da udire e vedere. Gli schermi all’ingresso e lungo il percorso trasmettono le immagini delle tv di tutto il mondo con lo schianto, i crolli delle Torri, l’attentato al Pentagono e l’abbattimento (o la caduta) del volo United 93 in Pennsylvania. Quasi nascoste sono le riprese di chi si è lanciato nel vuoto. Non si possono trattenere le lacrime, osservando i 23 secondi che li hanno separati dalla morte. In una teca in vetro si slancia verso l’alto la croce ritrovata da Frank Silecchia: l’operaio la Foto e filmati sull’attacco aereo nel 9/11 Memorial Museum. Densa di scritte e messaggi, ricorda operai, fabbri, volontari, assistenti spirituali sacerdoti, ristoratori e forze dell’ordine che si spesero per la bonifica di Ground Zero. Il numero 37 che spicca in alto è l’omaggio al sacrificio di 37 agenti della polizia portuale. Infine una porta a vetri si apre sul museo vero e proprio, che espone oltre 2900 reperti. Scarpe rosa impolverate, Clark consumate dalle fiamme, mostrine e berretti d’ordinanza, autoambulanze e macchine della polizia; e anche qui parole, individuò in un atrio sotterraneo formato dai detriti. È il calvario di Ground zero ai cui piedi, per mesi, si sono celebrate messe e funzioni religiose. Dopo l’11 settembre, le indagini che portarono a individuare in Osama Bin Laden il mandante dell’attentato concludono il percorso storico, non senza interrogativi. Perché, se i terroristi erano in prevalenza sauditi, si dichiarò guerra all’Iraq di Saddam e non all’Arabia Saudita? Perché non si fa memoria del recente rapporto Chilcot in cui Toni Blair, tra i fautori del conflitto, dichiara di essersi sbagliato e non si fa lo stesso con le dichiarazioni di Colin Powell che confessava di essere stato costretto a mentire all’Onu sul possesso di un arsenale nucleare da parte di Saddam? Quanto questa scelta armata ha influito sulla formazione dell’Isis e sull’odierna strategia terrorista? Questo è l’angolo più scomodo del museo, perché vi si incrociano le vicende di ieri e di oggi, quella dell’Occidente e del Medio Oriente, senza happy end. Si risale dalle viscere di Ground zero sulle scale mobili e si vede la luce, ma ci si volta indietro spesso perché in quell’oscurità ciascuno ha capito qualcosa di sé, del dolore e della speranza che continuano a scrivere la Storia. 16 milioni di persone hanno visitato questo luogo dalla sua inaugurazione. Difficile definirsi turisti in quello che è un sacrario. cittànuova n.9 | Settembre 2016 87