1. Le vicende della composizione e della pubblicazione del libro.
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1. Le vicende della composizione e della pubblicazione del libro.
1. Le vicende della composizione e della pubblicazione del libro. Il Tractatus logico-philosophicus, insieme ad un libro di testo per le scuole elementari austriache (1926) e al breve saggio Some remarks on Logical Form (1929), è l’unico scritto dato alle stampe in vita da Ludwig Wittgenstein. L’opera ebbe una gestazione piuttosto lunga e travagliata. Il primo progetto di un’opera filosofica risale probabilmente al 1911. In quel periodo Wittgenstein si trovava a Manchester per proseguire i suoi studi di ingegneria aeronautica. La lettura delle opere di Gottlob Frege e quella dei Principles of Mathematics di Bertrand Russell avevano dischiuso al giovane Ludwig l’orizzonte degli studi di logica e filosofia, distogliendolo progressivamente dai suoi interessi originari. Nell’estate del 1911 Wittgenstein si recò a Jena e discusse dei suoi progetti filosofici con Frege, il quale gli suggerì di stabilirsi a Cambridge per studiare sotto la guida di Bertrand Russell. L’incontro di Wittgenstein con l’autore dei Principia Mathematica avvenne il 18 ottobre di quell’anno e fu così descritto da Russell: “Comparve un tedesco affatto sconosciuto che parlava inglese con difficoltà e che tuttavia si rifiutava di esprimersi in lingua tedesca. Alla fine risultò uno che aveva studiato ingegneria a Charlottenburg, ma che nel corso di tali studi s’era appassionato, in modo del tutto autonomo, alla filosofia della matematica, per cui sarebbe arrivato qui a Cambridge con la ferma intenzione di assistere alle mie lezioni”.1 Ma Wittgenstein non si limitò ad “assistere” alle lezioni: egli iniziò infatti un vivace confronto con Russell mettendone in discussione le teorie ed elaborando idee originali che risultavano spesso in conflitto con quelle del maestro. “Il mio tedesco minaccia di trasformarsi in una pestilenza: al termine delle lezioni mi vien dietro e non la smette di argomentare fino all’ora di cena. Ostinato e spietato, non mi sembra però affatto stupido”.2 Pur dovendo far fronte agli attacchi continui di Wittgenstein (le cui critiche si rivolgevano soprattutto alla Teoria dei tipi logici), Russell mostrava di apprezzare le grandi doti intellettuali del suo allievo e col passare del tempo si rese conto che il prossimo contributo di rilievo nel campo della logica matematica sarebbe venuto proprio dal “suo tedesco”. Prima di dedicarsi completamente alle nuove discipline di studio, però, Wittgenstein aveva un disperato bisogno di conferme, come testimonia il seguente episodio: “Alla fine del suo primo trimestre a Cambridge, Wittgenstein venne da me e mi chiese: ‘Può dirmi, per favore, se sono un idiota completo o no?’. Gli risposi: ‘Caro amico, non lo so proprio. Ma perché me lo chiede?’. E lui: ‘Perché se sono un idiota completo farò il pilota d’aereo, se no farò il filosofo’. Gli dissi di scrivermi qualcosa, durante le vacanze, su un qualche argomento filosofico, e poi gli avrei detto se era un idiota completo o no. Seguì il mio consiglio e all’inizio del trimestre successivo mi portò il suo elaborato. Dopo averne letto una sola frase gli dissi: ‘No, lei non deve fare il pilota d’aereo’ ”.3 Wittgenstein iniziò a lavorare ai problemi di logica con incredibile energia. “Ha il temperamento dell’artista – scriveva di lui Russell in quel periodo- è intuitivo e lunatico. Dice che tutte le mattine inizia il lavoro sotto il segno della speranza e tutte le sere lo conclude nella disperazione”.4 Nel febbraio del 1912 Wittgenstein fu ammesso al Trinity College ed iniziò a seguire i corsi di logica. Come già accaduto nei suoi incontri con Russell, egli si dimostrò un allievo piuttosto difficile. “Prese a farmi lezione sin dal nostro primo incontro” dichiarò seccato uno dei suoi professori.5 Durante il suo soggiorno a Cambridge, negli anni 1912-1913, Wittgenstein strinse amicizia con il filosofo G. E. Moore e con l’economista J. M. Keynes. Su richiesta di Russell, nel 1913 egli si decise a mettere un po’ di ordine nei propri appunti e a scrivere un resoconto dei progressi fino ad allora compiuti. Wittgenstein era ossessionato dall’idea di morire prima di essere riuscito a completare il proprio lavoro. Il suo amico David Pinsent annotò nel proprio diario: “[Wittgenstein] 1 In: Monk 45. In: Monk 46. 3 In: Kenny 14. 4 In: Monk 50. 5 In: Monk 49. 2 ha un terrore morboso di morire prima di mettere a punto quella teoria [ovvero la revisione della Teoria dei tipi, ndr], e prima di aver messo per iscritto tutti gli altri lavori di modo che risultino comprensibili al mondo e di qualche utilità per la scienza logica. Ha già scritto molto, Russell gli ha perfino promesso di pubblicare le sue opere caso mai dovesse morire, ma lui è convinto che la loro formulazione non sia abbastanza precisa e non rispecchi con la necessaria chiarezza i suoi metodi di pensiero ecc., che ovviamente sono più preziosi dei risultati raggiunti. Non fa che dire di essere certo di morire entro quattro anni: oggi erano diventati addirittura due mesi”.6 Forse questo irragionevole timore fu una delle cause che spinsero Wittgenstein a prendere la penna e a fissare i punti principali delle teorie elaborate fino a quel momento. Nacquero così le Note sulla logica, che rappresentano la prima testimonianza scritta del suo pensiero. Di lì a poco Wittgenstein decise inaspettatamente di lasciare Cambridge e di trasferirsi in Norvegia per studiare in solitudine. Russell tentò di dissuaderlo, ma fu tutto inutile: “Gli dissi che sarebbe stato buio e mi rispose che detesta la luce del sole. Gli dissi che sarebbe stato completamente solo e mi rispose che si prostituiva l’intelletto parlando con la gente intelligente. Gli dissi che era pazzo e mi rispose ‘Dio mi protegga dalla saggezza’. (E speriamo proprio che Dio lo protegga)”.7 Dal 1913 al 1914, salvo brevi interruzioni, Wittgenstein visse a Skjolden, sulla sponda di un fiordo, isolato dal resto del mondo. Il soggiorno norvegese rappresentò per lui un periodo di grande creatività. “All’epoca il mio cervello era infuocato!” dirà anni più tardi.8 E scrivendo a Russell: “Mi sembra che stia crescendo dentro di me ogni specie di pianta logica, ma per il momento non sono ancora in grado di scriverne”.9 Nell’aprile del 1914 Wittgenstein invitò a Skjolden George Edward Moore, al quale dettò i risultati delle proprie indagini. Nelle note trascritte da Moore, Wittgenstein delineava quella distinzione tra dire e mostrare che diventerà poi uno dei cardini della teoria esposta nel Tractatus. L’obiettivo fondamentale di Wittgenstein era la sostituzione della Teoria dei tipi di Russell con una nuova teoria dei simboli “la quale mostri che generi differenti di cose sono simbolizzati da generi differenti di simboli che non possono essere sostituiti l’uno con l’altro” (LR 244). Al suo ritorno a Cambridge, Moore si informò se il manoscritto (intitolato provvisoriamente: Logica) potesse garantire a Wittgenstein il diploma di Bachelor of Arts al Trinity College. La risposta fu negativa: il regolamento del college disciplinava rigidamente la struttura cui doveva uniformarsi un elaborato e lo scritto di Wittgenstein non rientrava nei parametri richiesti. Wittgenstein andò su tutte le furie e se la prese col povero Moore: “Caro Moore, la sua lettera mi ha molto contrariato. Quando scrissi Logica non mi curai di consultare i Regolamenti, sicché ritengo che sarebbe più che onesto se mi si desse il mio diploma senza andare tanto a consultarli! (…) Se non son degno che si faccia un’eccezione per me riguardo ad alcuni stupidi dettagli, allora tanto vale mandarmi al diavolo senza tanti ambagi, e se io ne sono degno e lei non lo fa, allora, per Dio!, ci vada lei. L’intera faccenda è troppo idiota e troppo bestiale per continuare a scriverne”.10 Questa vivace reazione dipese probabilmente dallo stato di esaurimento fisico e nervoso in cui venne a trovarsi Wittgenstein dopo lo sforzo produttivo dei mesi precedenti. Dominato da un’esigenza di chiarezza che si traduceva in un’esasperante ricerca della perfezione, Wittgenstein incontrava grandi difficoltà nel mettere in chiaro i propri pensieri ed era costantemente insoddisfatto dei risultati raggiunti. Nei suoi diari annoterà: “La mia difficoltà è solo una – enorme – difficoltà d’espressione” (Q 133). Il fatto che Wittgenstein abbia pubblicato così poco materiale durante la sua vita è da ascriversi proprio a questa ricerca quasi maniacale della forma espressiva perfetta. Ma i problemi di Wittgenstein erano anche di natura morale e si collegavano a quell’esigenza di fare i conti con se stesso cui egli accenna in una lettera a Russell: “Come potrò mai essere un logico 6 Pinsent 107. In: Monk 98. 8 In: Monk 101. 9 Ibidem. 10 In: Monk 108-109. 7 prima di essere un umano?”.11 Fu probabilmente tale necessità interiore di mettersi alla prova per scoprire il proprio autentico io che spinse Wittgenstein, allo scoppio della Prima guerra mondiale, ad arruolarsi come volontario nell’esercito austro-ungarico. “Wittgenstein riteneva che l’esperienza di affrontare la morte lo avrebbe in qualche modo arricchito. Andò in guerra, si potrebbe dire, non per il proprio paese ma per se stesso”.12 La sua prima destinazione, nel settembre del 1914, fu il fronte orientale, su un battello che pattugliava il fiume Vistola. In questo periodo Wittgenstein lesse le Spiegazioni dei vangeli di Tolstoj e si accostò alla fede cristiana. I suoi compagni lo chiamavano ‘l’uomo coi vangeli’. Nonostante le difficoltà connesse al suo nuovo stato, Wittgenstein iniziò la stesura del Tractatus annotando le proprie osservazioni su una serie di taccuini che portava sempre con sé nello zaino militare. Nel dicembre del 1914 venne trasferito in un'officina di artiglieria, dove godette di una maggiore tranquillità per proseguire i suoi studi. Lesse i Saggi di R. W. Emerson, l’Anticristo di Nietzsche e I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Nell’ottobre del 1915 stese una prima redazione del Tractatus, andata purtroppo perduta. Dal marzo del 1916 fu trasferito sulla linea del fuoco, sul fronte russo. Interrotti i contatti con Russell e l’ambiente di Cambridge, Wittgenstein attraversò un periodo molto difficile riuscendo tuttavia a portare avanti il proprio lavoro e distinguendosi anche nelle azioni di guerra per il suo coraggio (acquisito il grado di ufficiale di artiglieria, nel 1917 venne decorato con la medaglia d’argento al valore militare). Nel marzo 1918, crollato il fronte russo e firmata la pace di Brest-Litovsk, Wittgenstein fu trasferito sul fronte italiano. Nell’agosto dello stesso anno terminò la stesura del suo libro e ne inviò una copia all’editore Jahoda, che però rifiutò di pubblicarlo; fu la prima di una lunga serie di risposte negative, ma Wittgenstein aveva in quel momento ben altro di cui preoccuparsi: in ottobre cadde infatti prigioniero dagli Italiani e fu trasferito in un campo di prigionia prima a Como e poi a Cassino (dove rimarrà dal gennaio all’agosto 1919). Riuscito a riprendere il contatto epistolare con Russell, gli comunicò di aver terminato la sua opera, per la quale aveva scelto il titolo di LogischPhilosophische Abhandlung. Wittgenstein temeva che il libro fosse troppo innovativo per essere compreso, e le sue paure risultarono purtroppo fondate. Russell e Frege, cui era stata inviata una copia manoscritta dell’opera, manifestarono molte riserve sul contenuto del testo e riconobbero francamente di non aver compreso molto di esso. Ciò contribuì ad accentuare lo stato di sconforto in cui versava Wittgenstein per le difficoltà di pubblicazione dell’opera: nessuno degli editori contattati sembrava infatti disposto a rischiare su un’opera così singolare, e le lettere di rifiuto si susseguivano inesorabili. Ancora nel 1929, quando il Tractatus fu presentato come tesi di laurea al Trinity College di Cambridge, Wittgenstein era intimamente persuaso che quasi nessuno avesse compreso la lezione del suo libro: al termine dell’esame, alzatosi dalla sedia, egli andò a battere sulle spalle di Moore e Russell dicendo: “Non preoccupatevi troppo, tanto lo so bene che non lo capirete mai”.13 Liberato dal campo di prigionia, Wittgenstein tornò a Vienna. Era uno degli uomini più ricchi di tutta l’Austria14, ma il suo primo atto una volta rientrato in patria fu di rinunciare all’eredità paterna e di iscriversi ad un corso per diventare maestro elementare. La scelta di abbandonare gli studi filosofici era in fondo coerente con il giudizio negativo espresso sulla filosofia nel Tractatus e con la convinzione di aver detto nella sua opera tutto quanto fosse possibile esprimere sensatamente (nella sua Prefazione, Wittgenstein scrive: “La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono dunque dell’avviso d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi”). Depresso e in preda alla sindrome del reduce (continuerà per anni a indossare una logora divisa dell’esercito), Wittgenstein meditò a più riprese il suicidio (già tre dei suoi fratelli si erano tolti la vita). Era comunque convinto che il suicidio fosse un errore: “Sinché una persona vive 11 In: Monk 103. Monk 118. 13 Monk 269. 14 Il padre di Ludwig, Karl, era “l’eguale di un Krupp in Germania o un Carnegie negli Stati Uniti” (Jaccard 13). 12 non è del tutto perduta. E invece, ciò che spinge una persona al sucidio è proprio il timore di essere del tutto perduta”.15 Nonostante le difficoltà a trovare un editore per il Tractatus, Wittgenstein rifiutava l’idea di pubblicare il libro a proprie spese: “Il mio lavoro è di modestissima mole, circa sessanta pagine. Ma chi scrive sessanta paginette su questioni filosofiche? Gli unici sono quegli scribacchini disperati che non possiedono né lo spirito dei grandi né l’erudizione dei professori, e, tuttavia, desiderano ad ogni costo pubblicare qualcosa. Perciò tal genere di prodotti viene solitamente pubblicato a spese dell’autore. Ma io non posso mescolare tra questi scritti l’opera della mia vita: perché di questo appunto si tratta”.16 Le speranze di pubblicazione si appuntarono ad un certo punto su Ludwig Von Ficker, editore della rivista letteraria Der Brenner: Wittgenstein scrisse una lettera di presentazione spiegando a Von Ficker il significato dell’opera: “Il mio lavoro si compone di due parti: ciò che ho scritto, più tutto ciò che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è importante. Grazie al mio libro, l’etico viene per così dire delimitato dall’interno; e sono convinto che, in senso stretto, l’etico sia da delimitarsi solo in questo modo. In breve, credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io, nel mio libro, l’ho definito semplicemente tacendone. Perciò, a meno che non mi sbagli del tutto, questo libro dirà molte cose che anche lei vuol dire, magari senza nemmeno accorgersi che vi vengono dette. Nel frattempo, vorrei raccomandarle la lettura della prefazione e delle conclusioni, perché esprimono le cose nella maniera più immediata”.17 Von Ficker si riservò di decidere dopo aver consultato un professore di filosofia, ma Wittgenstein si mostrò tutt’altro che favorevole all’idea: se nemmeno Frege e Russell avevano compreso la lezione del Tractatus non v’era speranza che qualcun altro riuscisse nell’impresa. “Sottoporre un lavoro di filosofia a un professore di filosofia è come gettare perle ai porci. […] Del resto non ne capirà una parola”.18 Anche questo tentativo si risolse così in un fallimento. Le cose cambiarono dopo che Russell, con il quale Wittgenstein aveva discusso il libro parola per parola durante un incontro in Olanda, accettò di scrivere una introduzione al Tractatus. Il fatto che un autore affermato e conosciuto internazionalmente quale era Russell si facesse garante del valore dell’opera riuscì in effetti a convincere gli editori ad interessarsi al lavoro di Wittgenstein. Il Tractatus (ancora intitolato Logisch-Philosophische Abhandlung) venne così pubblicato nel 1921 su una rivista tedesca, Annalen der Naturphilosophie, diretta dal chimico Wilhelm Ostwald. L’edizione era zeppa di errori tipografici e a Wittgenstein non fu data nemmeno la possibilità di correggere le bozze. L’insoddisfazione di Wittgenstein crebbe ulteriormente per il fatto che l’introduzione scritta da Russell conteneva a suo avviso gravi fraintendimenti della dottrina esposta nell’opera. Finalmente nel 1922 fu pubblicata l’edizione inglese, nella traduzione di Frank Ramsey e Cecil K. Ogden. Il titolo Logisch-Philosophische Abhandlung fu cambiato in Tractatus logico-philosophicus su proposta di G. E. Moore, ispiratosi al famoso Tractatus theologico-politicus di Spinoza (Moore aveva colto alcune analogie tra le proposizioni finali del Tractatus e l'opera di Spinoza). Wittgenstein aveva a quel punto già intrapreso la carriera di maestro elementare e continuò a mantenersi lontano dagli studi logici e filosofici fino alla fine degli anni Venti (abbandonato l’insegnamento, egli avrebbe lavorato come giardiniere in un convento e successivamente come architetto insieme all’amico Paul Engelmann). Wittgenstein ritornò a Cambridge solo nel 1929, scoprendo che il Tractatus logico-philosophicus lo aveva già da tempo consacrato come uno dei massimi pensatori della scena mondiale. 15 In: Monk 190. In: Monk 182. 17 In: Monk 182-183. 18 In: Monk 183. 16 2. La struttura del libro. Il Tractatus logico-philosophicus si compone di sette proposizioni principali e dei corollari a queste proposizioni, ordinati secondo un sistema di numerazione decimale che serve a mettere in rilievo l’importanza di ogni singolo enunciato. Ad esempio, la proposizione 1 è più importante della 1.1 (il cui contenuto presuppone quanto viene affermato nella 1), la quale è a sua volta più importante della 1.11, etc.. In realtà Wittgenstein non rispetta sempre tale criterio e capita pertanto di trovare in posizione subordinata osservazioni degne di maggiore rilievo. Le sette proposizioni fondamentali costituiscono la struttura portante di tutta l’opera e la loro sequenza descrive sinteticamente l’impianto teorico del Tractatus: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Il mondo è tutto ciò che accade. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. L’immagine logica dei fatti è il pensiero. Il pensiero è la proposizione munita di senso. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari. La forma generale della funzione di verità è: [ p , ξ , N( ξ ) ]. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Il numero di enunciati subordinati a queste proposizioni di base è variabile: la numero 1 comprende ad esempio soltanto sei corollari, mentre la 5 e la 6 ne contano diverse decine e la proposizione numero 7 viene presentata senza alcun commento. Il Tractatus è caratterizzato da un’architettura severa che richiede al lettore un impegno ed un’adesione costanti. “Con i miei numerosi segni d’interpunzione, ciò che in realtà vorrei è rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei essere letto lentamente. (Come leggo io stesso)” (PD 129). Wittgenstein presenta ogni pensiero nella forma di un’asserzione che non ammette repliche (Bertrand Russell paragonò le proposizioni del Tractatus agli ordini dello Zar) e non si cura molto di argomentare le proprie conclusioni. Chi sappia collegare le fredde e laconiche osservazioni di Wittgenstein nel disegno generale dell’opera, però, non potrà non apprezzare la bellezza essenziale e priva di fronzoli del Tractatus. La ricerca della chiarezza espressiva senza alcuna concessione al dettaglio ornamentale e alla decorazione (“ogni ornamento è un crimine”) accomunava Wittgenstein agli esponenti della nuova architettura viennese come Adolf Loos, sostenitore di una cifra stilistica rigorosa e lineare. Da questo punto di vista, il Tractatus può essere considerato come il risultato di un faticoso lavoro di distillazione del materiale preparatorio mirante a concentrare fino alla sua essenza più pura il nucleo delle tesi originarie. Preparando la stesura definitiva del libro per l’edizione inglese, Wittgenstein aveva scritto una serie di aggiunte che (a parte una) non furono poi inserite nella redazione finale. L’editore inglese chiese a Wittgenstein se fosse possibile inserire tali aggiunte per ampliare (e rendere più comprensibile) l’opera. Ricevette questa risposta: “Le aggiunte sono esattamente ciò che non deve pubblicarsi. E a parte il fatto che non contengono alcuna delucidazione di sorta, sono ancor meno chiare delle restanti proposizioni. Per quanto poi riguarda la brevità del libro ne sono veramente costernato: ma cosa posso farci? Se lei mi spremesse come un limone non ne caverebbe nemmeno una goccia. Lasciarle stampare le aggiunte sarebbe una cosa irrimediabile. Sarebbe esattamente come se lei andasse da un falegname a ordinare un tavolo e quello glielo facesse troppo corto e allora volesse venderle i trucioli, la segatura e tutti gli altri scarti unitamente al tavolo per rimediare al fatto che è corto. (Piuttosto che pubblicare le aggiunte per ingrassare il libro, si lascino una dozzina di fogli bianchi a disposizione del lettore per riempirli di imprecazioni quando dopo aver comprato il libro non ci capisce nulla.)”. Questo episodio e molti altri testimoniano il fatto che Wittgenstein considerava la forma del Tractatus, per quanto ardua per il lettore, impossibile da modificare senza stravolgere il messaggio stesso dell’opera. Forma e contenuto del Tractatus devono quindi considerarsi un’unità inscindibile: gli insegnamenti che Wittgenstein intendeva comunicare potevano essere veicolati soltanto nella forma espressiva scelta dall’autore. Al di là dell’ordine di successione imposto ai singoli enunciati, nella trama del Tractatus si assiste al costante e regolare riemergere delle idee fondamentali e al loro inquadramento prospettico secondo una molteplicità di punti di vista differenti. La struttura dell’opera è stata in questo senso paragonata felicemente ad una composizione musicale “i cui leitmotiv ricompaiono di continuo in sottili modulazioni”.19 Il lettore si trova così ripetutamente posto di fronte alle ‘verità’ essenziali del messaggio rendendosi conto che ogni sentiero del percorso suggerito da Wittgenstein, per quanto in apparenza tortuoso e divergente dalla strada principale, lo riconduce infine sempre ad uno stesso scenario di fondo (in questo senso ogni enunciato, anche quelli che a prima vista appaiono di secondaria importanza, è comunque funzionale allo sviluppo di una delle molteplici linee argomentative di cui si compone l’opera: “Delle frasi che scrivo solo una ogni tanto fa un passo avanti; le altre sono come lo scatto delle forbici del barbiere, che deve continuare a muoverle per dare un taglio al momento giusto”, PD 126). L’idea di un itinerario filosofico che conduca il lettore a ‘vedere’ la verità del messaggio, un percorso insomma che si limiti a ‘mostrare’ e a dischiudere l’orizzonte del visibile, era del resto profondamente coerente con l’idea che Wittgenstein aveva maturato a proposito del sapere filosofico: “Wittgenstein pensava (ed è un’idea a cui sarebbe rimasto sempre fedele) che essendo la filosofia “puramente descrittiva” essa non contenga deduzioni. [...] Conformemente a questa convinzione, il Tractatus non è organizzato (almeno in superficie) come una successione di argomentazioni, ma come una sequenza di osservazioni. L’ordine delle osservazioni, e il loro ruolo gerarchico, indicato (almeno in teoria) dal numero scritto a sinistra di ciascuna osservazione, dovrebbe guidare il lettore non lungo un percorso argomentativo, ma piuttosto a “vedere” come stanno le cose; così come si potrebbe pensare di guidare qualcuno a osservare un paesaggio attirando la sua attenzione prima sui tratti più salienti, poi sui dettagli (prima su una catena di montagne, poi su ciascuna montagna, poi sui villaggi ai piedi di ciascuna montagna, e così via)”. 20 Il Tractatus logico-philosophicus, come Wittgenstein afferma nella sua Prefazione, non è dunque un ‘manuale’: il suo scopo non è fornire una serie di contenuti dottrinali precostituiti, bensì (socraticamente) porre il lettore nel giusto angolo prospettico per cogliere da sé la verità. La metafora più efficace per descrivere il Tractatus logico-philosophicus è allora quella della scala, cui Wittgenstein accenna nella proposizione 6.54 del testo. I singoli enunciati del Tractatus sono i come i gradini di una scala che il lettore sale fino a raggiungere un punto di vista che gli consente di vedere quanto prima si celava al suo sguardo. Arrivati al vertice della struttura (cioè una volta giunti alla proposizione finale dell’opera e assimilata la lezione del libro), ognuno di noi “vede rettamente il mondo” (6.54) ed è in grado di agire in esso senza più il rischio di cadere negli equivoci e negli errori tramandati dalla tradizione filosofica. Questo modo di considerare il testo ci suggerisce anche quale valore debba essere attribuito al Tractatus una volta che esso abbia svolto la sua funzione. Nel momento stesso in cui abbiamo raggiunto il livello prospettico adeguato, ci dice Wittgenstein, la 19 Black 12. Wittgenstein era dotato di grande sensibilità per la musica. Nella casa dei Wittgenstein a Vienna erano spesso ospitati compositori di fama come Mendelssohn e Brahms. “C’è persino una somiglianza di famiglia tra le strutture logiche, i motivi e le intenzioni del Tractatus e quelli della teoria musicale di Schönberg: perché anche Schönberg è guidato dalla convinzione che il “linguaggio” attraverso cui egli si esprime, la musica, deve essere innalzato ad un grado di necessità logica tale che eliminerebbe tutti gli incidenti soggettivi” (E. Heller in: Bouveresse 21). 20 Marconi 1997, 18 n. 9. scala che ci ha reso possibile l’ascesa non serve più a nulla e bisogna perciò disfarsene senza rimpianti. Perché il Tractatus logico-philosophicus è servito a mostrarci e indicarci la strada da percorrere ed esaurisce il suo compito una volta che noi, i lettori, ci siamo incamminati nella direzione giusta. Continuare a fissare i nostri sguardi sul libro equivarrebbe ripetere l’errore di quello sciocco cui veniva indicata la luna e che invece di guardare in direzione del cielo concentrava la sua attenzione sul dito teso del suo interlocutore. _Scheda 1: La Prefazione di Wittgenstein – Le finalità del Tractatus. “Se gli avessero chiesto in qualunque momento, mentre compilava trattati di geometria o di logica matematica, oppure di scienze naturali, quale scopo egli si proponesse, avrebbe risposto che un solo problema valeva veramente la pena di essere meditato, e cioé quello del vivere giusto”. (Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, I, 246) Nella Prefazione al Tractatus, Wittgenstein espone per sommi capi le finalità dell’opera. Innanzitutto, il libro intende chiarire in modo esaustivo (la teoria esposta è infatti definita “intangibile e definitiva”) che i problemi filosofici nascono da un uso errato del linguaggio: la definizione esatta delle regole logiche che governano gli enunciati della lingua servirà pertanto a stabilire quale sia l’uso sensato delle nostre proposizioni e, nel contempo, quale sia il limite invalicabile del linguaggio (al di là di questo limite tutto sarà nonsenso). Wittgenstein, pur dichiarando di non essere interessato al fatto che altri filosofi possano aver già discusso tesi comprese nel Tractatus, si riconosce debitore nei confronti di Frege e di Russell per i loro studi innovatori nel campo della logica. Questo non vuol dire che il pensiero di Wittgenstein non sia stato influenzato, come mostreremo di volta in volta, da altri pensatori; è comunque un dato di fatto che Wittgenstein non ebbe una vera e propria formazione filosofica (studiò infatti ingegneria e si accostò relativamente tardi alla filosofia) e che al tempo della stesura del Tractatus egli considerava la logica come l’unica chiave per risolvere i problemi filosofici. Il senso generale del Tractatus, secondo l’autore, è sintetizzabile in questa breve affermazione: “Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Visto che questo pensiero sarà ribadito nella proposizione finale (la numero 7), si può dire che Wittgenstein saldi ad anello l’inizio e la conclusione del Tractatus per far meglio risaltare l’insegnamento fondamentale dell’opera. Indagata la natura e le condizioni del linguaggio, Wittgenstein mostrerà che l’unico uso sensato delle nostre proposizioni è quello descrittivo: gli enunciati della lingua sono raffigurazioni di fatti e finché si userà il linguaggio per comunicare contenuti rappresentativi sarà possibile esprimersi in modo corretto. L’ambito di quel che “si può dir chiaro”, dunque, corrisponde senza riserve all’ambito della descrizione di fatti: ne consegue che solo le proposizioni della scienza naturale rientrano a pieno diritto nella sfera delle proposizioni dotate di senso (cfr. 6.53). I problemi di cui si occupa la filosofia non possono invece essere formulati in proposizioni sensate perché tendono a proiettare il soggetto conoscitivo oltre la sfera dei fatti. Così, quando la metafisica si interroga sui fondamenti del mondo fenomenico chiamando in causa concetti quali “Essere”, “Anima”, “Essenza”, etc., assistiamo alla pretesa di usare il linguaggio in senso non naturale (cioé non descrittivo) con l’unica conseguenza di creare fraintendimenti e nonsensi; e lo stesso accade quando in campo morale si pretende di indagare questioni come il Valore o il significato dell’esistenza. Quest’ordine di problemi, facendo riferimento ad un livello di realtà sganciato dall’ambito dei fatti, non può essere contenuto in parole significanti e va perciò consegnato al silenzio (su ciò di cui non si può parlare si deve appunto tacere). Wittgenstein giunge a questa radicale conclusione al termine di un’indagine volta a stabilire le condizioni ed i limiti di quanto è pensabile ed esprimibile. Questa impostazione è stata spesso accostata al problema critico affrontato da Kant nella Critica della ragion pura. Vi sono in effetti molte analogie tra l’indagine di Kant e quella di Wittgenstein (ad esempio, entrambi sottolineano il valore dell’esperienza ed escludono che la metafisica possieda lo status di scienza); tuttavia, nella Prefazione al Tractatus è contenuta una precisazione polemica che colpisce un aspetto essenziale della concezione kantiana. Kant aveva distinto tra l’ambito del fenomeno (inteso come il risultato del mio modo a priori di conoscere) e quello del noumeno (o cosa in sé, esistente fuori di noi ma inconoscibile). La cosa in sé era considerata da Kant come “un pensiero vuoto” (nel senso che ad essa non poteva corrispondere un’intuizione sensibile), ma la sua esistenza doveva tuttavia essere correlata a quella del fenomeno al fine di stabilire il principio dell’indipendenza della realtà “in sé” dal pensiero ed evitare così il rischio di scivolare in una posizione compiutamente idealista. Il noumeno, collocandosi esternamente al raggio della nostra conoscenza, si costituiva così quale limite invalicabile della facoltà conoscitiva (e dato che la conoscenza umana può applicarsi soltanto al campo dei fenomeni, Kant, nella Dialettica trascendentale, sottoponeva ad una critica serrata ogni tentativo di estendere la nostra conoscenza oltre i suoi limiti naturali allo scopo di illuminare il livello noumenico della realtà). Wittgenstein accetta la tesi secondo la quale è impossibile conoscere quanto si trova oltre il limite della conoscenza, ma ritiene che la posizione kantiana contenga una contraddizione. Quando Kant si esprime riguardo alla pensabilità del noumeno, infatti, avviene proprio quello sconfinamento in direzione dell’impensabile che avevamo dichiarato illecito. Il limite è un concetto di natura spaziale ed è inevitabilmente legato alla distinzione tra un luogo “interno” ed un luogo “esterno”: ogni volta che delimitiamo uno spazio per mezzo di un linea, in altri termini, quel che otteniamo è una separazione tra ciò che è all’interno del limite e ciò che si trova fuori di esso. Spinoza osservava a questo proposito che “nessuno può concepire i limiti di una qualche estensione o spazio senza contemporaneamente concepire oltre essi altri spazi che lo seguano immediatamente”.21 Se l’idea di limite chiama in causa automaticamente l’idea di un luogo “esterno”, ne consegue che non è possibile tracciare un limite al pensiero: infatti, questa pretesa metterebbe subito capo alla situazione assurda di concepire quel che per definizione dovrebbe porsi al di fuori di ogni possibile pensiero (ne è appunto un esempio il noumeno kantiano, come già prima di Wittgenstein avevano rilevato i filosofi idealisti). “Per tracciare al pensiero un limite – osserva Wittgenstein nella Prefazione al Tractatus- dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo dunque poter pensare quel che pensare non si può)”. Per superare questa contraddizione, Wittgenstein si propone di tracciare un limite non al pensiero bensì all’espressione dei pensieri, reimpostando così il problema kantiano da un punto di vista strettamente linguistico (di qui la distinzione tra ciò che può essere espresso in modo sensato e ciò che non può trovare posto nel linguaggio). Quel confine che Kant aveva stabilito in rapporto ad un elemento (il noumeno) esterno alla facolta conoscitiva deve essere cercato procedendo dall’interno del linguaggio, tentando di “delimitare l’impensabile dal di dentro attraverso il pensabile” (4.114). Il limite del linguaggio non può dunque essere concretizzato al modo di un confine spaziale perché così facendo evocheremmo immediatamente anche ciò che si trova oltre esso (e ci troveremmo, come Kant, a parlare di quanto non è possibile esprimere). Ciò comporta in un certo senso lo “sparire” del limite, cioé la sua trascendenza rispetto al campo prospettico della conoscenza umana. Il campo visivo dell’occhio risulta di fatto senza limiti perché l’occhio non può coglierne il margine estremo (cfr. 6.4311); allo stesso modo, i limiti del linguaggio non possono essere descritti 21 Spinoza 164. all’interno del linguaggio stesso e finiscono perciò per assomigliare ad un orizzonte irraggiungibile ed invalicabile. Tutto ciò che dobbiamo e possiamo fare, al fine di chiarire i limiti dell’espressione sensata, si riduce perciò a rappresentare chiaramente il dicibile (4.115). L’uomo, per così dire, si muove sempre nel linguaggio senza possibilità di trascenderlo in direzione di un impensabile “al di fuori”: quel che non si può dire deve rimanere assolutamente inesprimibile e non c’è modo di aggirare il divieto (di qui la costante preoccupazione, da parte di Wittgenstein, di escludere ogni prospettiva che possa generare l’illusione di poter trascendere il linguaggio). I limiti del mio linguaggio significano sempre i limiti del mio mondo (5.6) e quindi non possiamo mai affermare: “Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no. Ciò parrebbe infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del mondo; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato. Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare” (5.61). Il senso ultimo della lezione kantiana va colto proprio nell’impossibilità di ‘aggirare’ il linguaggio: “Il limite del linguaggio si mostra nell’impossibilità di descrivere il fatto che corrisponde a una proposizione (che è la sua traduzione) senza appunto ripetere la proposizione. (Abbiamo qui a che fare con la soluzione kantiana del problema della filosofia)” (PD 32). Ma accettando questa lezione noi siamo costretti ad andare oltre Kant riconoscendo come insensato anche il tentativo di illuminare per mezzo del linguaggio le condizioni a priori che ne consentono la relazione raffigurativa con la realtà. Per conoscere le sue condizioni a priori, infatti, noi dovremmo inevitabilmente evadere dal linguaggio per esprimerci su di esso. Colpendo un altro fondamentale aspetto della filosofia kantiana, Wittgenstein destituisce perciò di ogni fondamento la pretesa di costruire una conoscenza di tipo trascendentale che abbia ad oggetto le modalità di funzionamento del linguaggio. Se ogni tentativo di abbandonare il piano del linguaggio per guadagnare regioni ad esso esterne o superiori deve condurre al nonsenso allora operazioni come quelle rappresentate nella seguente figura sono sempre illegittime (e ciò cui tendono le due frecce è semplicemente impensabile): Se il progetto di Wittgenstein possa dirsi riuscito e se la delimitazione “dall’interno” sia esente dalle contraddizioni che si intendeva scansare sono questioni che è prematuro sollevare. Per valutare la complessità della posizione di Wittgenstein basta pensare che egli sottolineò spesso l’importanza fondamentale proprio di quanto risulta “indicibile”. Parlando del Tractatus, ad esempio, Wittgenstein scrisse: “Il mio lavoro si compone di due parti: ciò che ho scritto; più tutto ciò che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è importante”.22 Quel che nel Tractatus è chiamato “il mistico” o “l’etico”, per quanto inesprimibile, è ciò che più stava a cuore al filosofo viennese perché a tale livello trascendente è legata la possibilità di comprendere il mistero dell’esistenza. E proprio in ciò risiede la differenza tra Wittgenstein ed i filosofi del Circolo di Vienna, i quali si richiamarono spesso alla lezione del Tractatus. Paul Engelmann osservò a questo riguardo: “Il Positivismo sostiene, e questa è la sua essenza, che ciò che conta nella vita è ciò di cui possiamo parlare, mentre Wittgenstein crede appassionatamente che ciò che conta veramente nella vita umana è proprio quello di cui, dal suo punto di vista, si deve 22 In: Monk 82. tacere. Quando, con immensi sforzi, [Wittgenstein] delimita ciò che non è importante (e cioé gli scopi e i limiti del linguaggio ordinario), non sta misurando le coste dell’isola che esplora con tanta meticolosità, ma i confini dell’oceano”.23 Il rigore dell’analisi di Wittgenstein, insomma, si accompagna alla continua tensione verso ciò che per natura si sottrae alle capacità definitorie ed espressive del linguaggio. In questa associazione di “volontà di chiarezza e di aspirazione al trascendente”, Wittgenstein rivela una stretta affinità con le idee dello scrittore viennese Robert Musil, autore de L’uomo senza qualità. Sia Wittgenstein che Musil sono dominati (come notava Cesare Cases) dall’esigenza di servirsi del lavoro analitico della ragione e “di spingerlo fino al punto in cui appaiono i contorni del paese della trascendenza”.24 Ulrich, il protagonista del romanzo di Musil, oscilla di continuo tra due differenti impulsi: il primo è rivolto all’esattezza, alla precisione, all’analisi rigorosa della realtà secondo schemi logicomatematici ed alla verifica empirica propria delle scienze fisiche; il secondo impulso mira invece alle verità superiori, non traducibili in parole, determinando una continua tensione a scavalcare il livello empirico dei fatti al fine di cogliere il senso profondo che si cela dietro l’apparenza fenomenica. Come per Ulrich, così anche in Wittgenstein convivono due pulsioni apparentemente incompatibili verso la logica e verso il misticismo; e l’esigenza dell’ordine e dell’esattezza, anziché annullare la tensione mistica, finisce proprio per evocarla come suo naturale complemento. Certo, il linguaggio non consente di penetrare nella regione del trascendente, ovvero, riprendendo l’esempio di Engelmann, il filosofo non può abbandonare l’isola di cui è prigioniero (leggi: l’ambito delle proposizioni dotate di senso) per intraprendere l’esplorazione dell’oceano (leggi: l’ambito del valore, inesprimibile). Se si comprende ciò, si sono risolti d’un colpo i problemi filosofici semplicemente annullandoli come problemi (cfr. 6.52 e 6.521). Allo stesso tempo, però, nota Wittgenstein nelle ultime righe della sua Prefazione, è manifesto “quanto poco sia fatto dall’esser questi problemi risolti”, ovvero: quanto rimanga da fare sul piano etico per diventare persone degne una volta riconosciuto che certe risposte fondamentali non possono essere trovate all’interno del linguaggio e per mezzo di esso. Nella proposizione 6.52 leggiamo: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati”. Vestendo i panni del logico, Wittgenstein può affermare di aver guadagnato la via d’uscita per sottrarsi a problemi che per loro natura sono insolubili. Ma per l’uomo Wittgenstein, per il filosofo, l’incapacità di impostare una soluzione sensata dei problemi fondamentali dell’esistenza suona come uno scacco e rivela il dramma di un pensatore che continuava a ritenere quei problemi come gli unici ad avere realmente valore. _Note al Tractatus. IL MONDO (1 – 1.21) 1. Le proposizioni che aprono il Tractatus (1-2.063) descrivono la struttura della realtà e definiscono le nozioni di “mondo”, “oggetto”, “stato di cose” e “fatto”. Questa sezione inaugurale, a 23 24 In: Janik-Toulmin 193. Cases XXI. dispetto della sua collocazione, fu probabilmente redatta dopo le parti dedicate alla logica e alla teoria raffigurativa del linguaggio. Ciò si spiega tenendo conto del fatto che l’interesse primario di Wittgenstein, quando cominciò a scrivere il Tractatus, era costituito dalle problematiche di natura logica. Wittgenstein era comunque guidato dall’idea di una sostanziale unità di forma tra logica e realtà (2.18). La progressiva definizione dei temi logici fornì quindi il supporto per le analisi di natura ontologica, come Wittgenstein annotò nei Quaderni: “Sì, il mio lavoro s’è esteso dai fondamenti della logica all’essenza del mondo” (Q 181). Le tesi riguardanti l’essenza della realtà, in questo senso, devono sempre esser valutate quale riflesso e conseguenza di quell’ordine logico che Wittgenstein riteneva fissato a priori ed immutabile. La proposizione 1 del Tractatus asserisce che il mondo (o “realtà”, 2.063) è costituito da tutto ciò che accade. Dato che “ciò che accade” sono i fatti (2), il mondo è costituito dalla totalità dei fatti (1.1). 1.1. Il mondo non si compone di cose ma di fatti. Gli “oggetti” (ovvero, le “cose”) sono entità semplici (2.02) e costituiscono la sostanza del mondo (2.021); essi non sussistono separatamente gli uni dagli altri, bensì risultano sempre collegati con altri oggetti (2.011). Il mondo è dunque costituito da combinazioni di oggetti e non da oggetti isolati. Queste combinazioni di oggetti danno vita agli stati di cose, che sono appunto nessi di oggetti (2.01), ovvero entità complesse costituite da determinate configurazioni di oggetti. Un fatto, ovvero “ciò che accade”, è poi definito come “il sussistere di stati di cose” (2). Il mondo, sulla base di tale definizione, è allora costituito dalla totalità degli stati di cose sussistenti (2.04). Bisogna sottolineare fin d’ora che mentre gli oggetti, per loro natura, sono sempre legati gli uni agli altri nello stato di cose, gli stati di cose sono invece reciprocamente indipendenti (2.061, 5.135). Se gli accadimenti di cui si compone il mondo sono tutti indipendenti tra loro, allora il livello dei fatti è caratterizzato da un’assoluta contingenza (1.21). 1.11. Il mondo come aggregato di fatti è l’orizzonte che racchiude tutto ciò che accade e perciò non è ammesso alcun altro livello di realtà oltre a questo: non vi sono fatti extra-empirici. “Il mondo è costituito da tutti i fatti, ma non c’è un super-fatto (o fatto di ordine superiore) per cui non ci sono più fatti” (Black 44). Vale a dire, il livello dei fatti esaurisce l’intera realtà. 1.12. L’insieme dei fatti di cui si compone il mondo costituisce la totalità di ciò che esiste (accade) e, allo stesso tempo, determina anche tutto quel che non accade nel mondo. Più avanti Wittgenstein ribadirà che il mondo è la totalità degli stati di cose sussistenti (2.04) e che questa totalità determina anche quali stati di cose non sussistono (2.05). Dato un insieme di fatti sussistenti è dunque immediatamente determinato anche ciò che di fatto non sussiste (non accade) nel mondo. Se ad esempio io so che nel mondo sussiste il fatto che p (il libro si trova sul tavolo), allora so anche quel che nel mondo non sussiste (ovvero so che il libro non si trova sul pavimento, oppure sul divano etc.). Il non sussistere di una tale possibilità sarà definito da Wittgenstein un “fatto negativo”. 1.13. Lo spazio logico è generato dalle possibilità combinatorie degli oggetti, i cui nessi reciproci danno origine agli stati di cose. In questo senso, ogni cosa si trova in “uno spazio di possibili stati di cose” (2.013) e con gli oggetti sono immediatamente “dati” anche tutti gli stati cose possibili (2.0124). Come lo spazio geometrico contiene virtualmente tutti gli oggetti spaziali indipendentemente dal fatto che tali oggetti esistano o meno nello spazio fisico, così lo spazio logico contiene tutte le possibili combinazioni di oggetti (ovvero tutti gli stati di cose) indipendentemente dal loro sussistere o non sussistere in atto nella realtà. Uno stato di cose (in tedesco: Sachverhalt), il quale è un’entità meramente possibile, viene definito da Wittgenstein un fatto (in tedesco: Tatsache) qualora esso sussista nella realtà (cfr. 2: il fatto è “il sussistere di stati di cose”). La distinzione tra stato di cose e fatto deve perciò intendersi come una distinzione modale tra ciò che è possibile e ciò che è reale (ovvero sussistente in atto nella realtà). Da questo punto di vista, asserire che il mondo è costituito dai fatti situati nello spazio logico equivale ad asserire che il mondo è quanto otteniamo individuando nell’insieme degli stati di cose il sottoinsieme degli stati cose sussistenti (cfr. 2.04: il mondo è la totalità degli stati di cose sussistenti). 1.2. Il mondo “si divide” in fatti, ovvero è un aggregato, un mosaico di fatti reciprocamente indipendenti (1.21). 1.21. Un evento può accadere come non accadere “e tutto l’altro restare uguale”. Wittgenstein sostiene l’indipendenza reciproca degli stati di cose: “Gli stati di cose sono indipendenti l’uno dall’altro” (2.061). Pertanto, dall’accadere o non accadere di un certo stato di cose non può inferirsi l’accadere o non accadere di un altro stato di cose (2.062, 5.135). Su queste basi, Wittgenstein rifiuterà di attribuire un fondamento al nesso causale (il quale presuppone appunto un legame necessario tra due accadimenti, cfr. 6.37). Se gli eventi di cui si compone il mondo possono indifferentemente accadere o non accadere allora essi sono tutti contingenti e non sussistono tra essi relazioni necessarie. L’unica necessità ammessa da Wittgenstein è quella logica (6.37), mentre tutto ciò che vediamo e che possiamo descrivere “potrebbe essere altrimenti” (5.634). OGGETTI, STATI DI COSE E FATTI (2 – 2.063) 2. Un fatto (Tatsache) è il sussistere di stati di cose (Sachverhalte). “Il plurale va inteso semplicemente come: il sussistere di uno o più stati di cose. Quindi, tra stato di cose e fatto c’è una duplice differenza: in primo luogo uno stato di cose è un nesso meramente possibile di oggetti, mentre un fatto è attuale, reale; in secondo luogo, quando parliamo di un fatto, non siamo vincolati a intendere, con ciò, un solo stato di cose sussistente, ma includiamo anche il caso in cui esso sia costituito da più stati di cose sussistenti” (Frascolla 2000, 124). La distinzione tra fatto e stato di cose in termini modali (possibilità/realtà) pare in contrasto con quella, accreditata dallo stesso Wittgenstein in una lettera a Russell, secondo la quale gli stati di cose sarebbero nient’altro che le componenti atomiche dei fatti, e questi ultimi sarebbero aggregati molecolari di stati di cose. Scrive Wittgenstein: “Qual è la differenza tra Tatsache e Sachverhalt? Sachverhalt è ciò che corrisponde a un enunciato elementare, se questo è vero. Tatsache è ciò che corrisponde al prodotto logico di proposizioni elementari quando questo prodotto è vero” (LR 252). Un fatto risulterebbe perciò dalla congiunzione di due o più stati di cose. Considerare uno stato di cose come “fatto atomico” lascerebbe però aperto il problema della giustificazione dell’esistenza delle proposizioni elementari false, le quali sono immagini di stati di cose: “Se tutti gli stati di cose fossero fatti, cioè sussistessero, non potrebbero esserci proposizioni elementari false – oppure una proposizione elementare falsa non sarebbe l’immagine di uno stato di cose. […] Sembra che qui Wittgenstein stesso sia stato sviato dal doppio uso della coppia: Sachverhalt-Tatsache: essa indica sia la distinzione tra possibile e attuale, sia quella tra configurazione singola e combinazione di configurazioni. Wittgenstein ha in mente questa seconda distinzione quando dice che “La struttura del fatto consta delle strutture degli stati di cose” (2.034), e parla della possibilità che un fatto “consti di infiniti stati di cose” (4.2211). I due usi non sono necessariamente incompatibili: uno stato di cose è una singola configurazione possibile, un fatto è il sussistere “di stati di cose”, cioè di una combinazione di stati di cose, che può anche consistere di un singolo stato di cose” (Marconi 1997, 25 n.22). L’ontologia del Tractatus si può riassumere schematicamente così: oggetti = entità semplici; una possibile combinazione di oggetti = uno stato di cose; uno o più stati di cose sussistenti = un fatto; la totalità dei fatti = la totalità di ciò che accade = il mondo. 2.01. Lo stato di cose è una configurazione o connessione di oggetti. Sappiamo che il mondo è costituito di fatti, e non di cose (1.1). Le cose (oggetti) non esistono isolatamente le une dalle altre ma si combinano insieme formando gli stati di cose. Nello stato di cose gli oggetti sono in relazione reciproca (2.031) come le maglie di una catena (2.03). 2.011. “Un oggetto è, essenzialmente, un possibile costituente di uno stato di cose” (Kenny 92). Mentre gli stati di cose sono reciprocamente indipendenti, gli oggetti, il cui nesso dà origine allo stato di cose, sono sempre inseriti in un contesto (ovvero sono sempre legati l’uno all’altro nella struttura dello stato di cose). L’oggetto contiene la possibilità del suo occorrere in stati di cose così come un elemento chimico contiene virtualmente tutte le sue possibili combinazioni con altri elementi, e non possiamo concepire alcun oggetto fuori della sua possibilità di essere collegato ad altri oggetti (2.0121). Questa tesi può essere considerata affine a quella di Leibniz secondo cui “la cosa, il soggetto deve contenere tutti i suoi possibili predicati” (Vanni Rovighi 541). La proprietà di combinarsi reciprocamente per costituire un complesso è propria anche dei nomi, i quali hanno la funzione di indicare gli oggetti (3.3). 2.012. La logica è l’ambito delle verità necessarie e quindi nulla è in essa accidentale (ciò che è accidentale è sempre fuori della logica, cfr. 6.3). La possibilità di entrare in connessione con altri oggetti è una proprietà “logica” (essenziale) dell’oggetto e come tale è necessariamente connessa al suo esistere: in questo senso, la possibilità dello stato di cose dev’essere “pregiudicata” (cioè contenuta necessariamente) negli oggetti stessi. Ogni possibile combinazione dell’oggetto con altri oggetti è dunque generata dalla “forma” dell’oggetto stesso, vale a dire dalle sue proprietà logiche. Non è però necessario, bensì accidentale, che di fatto sussistano nel mondo certe combinazioni di oggetti piuttosto che altre. La logica determina solo l’insieme delle possibilità di combinazione (cfr. 2.0121) ma non determina quali possibilità si realizzano: l’ordine dei fatti rimane perciò contingente. 2.0121. Se un oggetto può connettersi ad altri nello stato di cose, tale possibilità dev’essere già connaturata ad esso. In questo senso è la logica a determinare l’insieme delle possibilità combinatorie dell’oggetto: la logica tratta infatti “di ogni possibilità e tutte le possibilità sono i suoi fatti”. Se così non fosse potremmo concepire gli oggetti come entità prive di relazioni le une con le altre e a questo punto il legame di un oggetto con altri diventerebbe qualcosa di puramente accidentale. Ma come un oggetto spaziale non può essere concepito fuori dello spazio, né un oggetto temporale fuori del tempo, allo stesso modo nessun oggetto può concepirsi fuori dalla possibilità di un nesso con altri oggetti. 2.0122. Solo astrattamente si può considerare un oggetto separato dal suo nesso con gli altri: anche se un oggetto può non trovarsi inserito in una determinata relazione (in questo senso si manifesta la sua indipendenza), tuttavia è impensabile che esso sia sganciato da ogni contesto possibile (e qui viene in luce il suo essere dipendente). Allo stesso modo, un nome (la cui funzione è indicare un oggetto) dev’essere sempre inserito nel contesto della proposizione: il nome può occorrere in diverse proposizioni, ma da solo non può stare. Cfr: 3.3: “Solo la proposizione ha senso; solo nella connessione della proposizione un nome ha significato”. 2.0123-2.01231. Le “proprietà interne” dell’oggetto corrispondono alle sue possibilità “logiche” di combinarsi con altri oggetti per formare uno stato di cose; le proprietà esterne dell’oggetto corrispondono invece alle sue relazioni con altri oggetti in uno stato di cose esistente. Stabilendo un’analogia con il gioco degli scacchi, che una torre possa muoversi in orizzontale e verticale dipende dalle proprietà interne di quel pezzo; che una certa torre si trovi sulla casella a2, e dunque sia in una determinata relazione con i pezzi circostanti, è invece una proprietà esterna di quel pezzo. Si può dire che in base alle proprietà interne dell’oggetto posso fare affermazioni necessarie a priori, mentre le proprietà esterne sono contingenti e determinabili solo a posteriori. Conoscere un oggetto significa conoscerne le proprietà interne, ovvero le proprietà essenziali: ad esempio, conoscere una torre significa sapere quali sono le sue possibilità logiche (cioé come essa può muoversi sulla scacchiera, il che ci consente di prevedere in quali combinazioni essa può trovarsi). Conoscere un oggetto vuol dire appunto conoscere “tutte le possibilità del suo occorrere in stati di cose”. Ogni possibilità è contenuta nella natura dell’oggetto: “Nello spirito, è una soluzione aristotelica. Le forme che Russell aveva posto in un mondo platonico, Wittgenstein le tratta cone caratteristiche essenziali degli oggetti. Ma è una strana versione dell’aristotelismo, perché l’unione tra un oggetto e una forma non è un vero tipo di complessità, e dunque non può essere rispecchiata in una proposizione” (Pears 78). 2.0124. Dato che ogni oggetto contiene in sé tutte le sue possibili combinazioni con altri oggetti (ovvero, ogni oggetto contiene la possibilità di tutti gli stati di cose in cui può occorrere), allora se sono dati tutti gli oggetti sono con ciò dati anche tutti i possibili stati di cose. Dalle proprietà logiche degli oggetti si genera l’intera serie delle situazioni possibili, cioè l’intero spazio logico (cfr. 2.014). 2.013. Come una macchia non può non avere un colore ed un suono non può non essere caratterizzato da un’altezza (2.0131), così l’oggetto in generale non può non trovarsi in combinazione con altri. Un oggetto è dunque idealmente inserito in uno spazio di relazioni possibili (“è come in uno spazio di possibili stati di cose”) e se da una parte posso concepire tale spazio come vuoto (cioè posso concepire che di fatto non si realizzi alcuno stato di cose), dall’altra non posso pensare un oggetto fuori dello spazio. L’argomentazione di Wittgenstein ricorda un passaggio della Critica della ragion pura kantiana: “Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi alcun oggetto” (Kant 1781, 69). 2.0131. L’oggetto spaziale è idealmente collocato nello spazio infinito ed è inconcepibile che un oggetto spaziale non occupi una porzione di spazio; v’è pertanto una somiglianza tra il luogo spaziale e la “x” che compare in una funzione, la quale rappresenta un “luogo” in cui può trovar posto un argomento. E’ ugualmente inconcepibile, aggiunge Wittgenstein, che un oggetto cromatico non abbia un colore, o che un suono non possieda un’altezza, etc.. L’oggetto in generale deve essere inserito in un reticolo di combinazioni possibili con altri oggetti. 2.014-2.0141. Negli oggetti è contenuta la possibilità di tutte le situazioni e ogni possibile combinazione da cui si origina uno stato di cose dipende dalla forma degli oggetti. Riassumendo le indicazioni fornite da Wittgenstein, si può affermare che la possibilità dell’oggetto di entrare in relazione con gli altri oggetti rappresenta la sua essenza (2.011) o natura (2.0123), le sue proprietà interne (2.01231) e la sua forma (2.0141). Wittgenstein assume pertanto questi termini come equivalenti: essenza = natura = proprietà interne = forma. “E’ chiaro che egli considera la forma logica di un oggetto alla stregua della capacità o facoltà di combinarsi con altri oggetti […]: gli oggetti hanno forme logiche diverse quando hanno diverse possibilità di associazione” (Black 62). 2.02. Dato che gli oggetti sono la sostanza del mondo, essi devono essere semplici. La posizione di Wittgenstein può essere confrontata con la tesi di Leibniz sulla semplicità della monade: “La monade di cui parleremo qui non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè senza parti. E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che ci sono composti; poiché il composto non è altro che un ammasso o aggregato di semplici” (Leibniz 1720, §§1,2 ). Gli oggetti sono le entità semplici la cui aggregazione dà vita agli stati di cose. Cfr. Kant: “Se si ammettesse che le sostanze composte non constino di parti semplici, sopprimendo nel pensiero ogni composizione, non resterebbe nessuna parte composta, e (non essendoci parti semplici) nessuna parte semplice, quindi assolutamente niente, e per conseguenza nessuna sostanza sarebbe data” (Kant 1781, 360). Va notato che Wittgenstein non sostiene la tesi che gli enti fisici siano divisibili in un numero finito di parti e che perciò debbano esservi oggetti; anche nel caso in cui il mondo fosse infinitamente complesso, infatti, dovrebbero esistere oggetti e stati di cose (4.2211). 2.0201. L a relazione di isomorfismo sussistente tra struttura della realtà e struttura della lingua consente a Wittgenstein di deviare bruscamente il discorso dal piano ontologico a quello linguistico. Lo spunto per questa digressione è offerto dal tema della semplicità degli oggetti, che richiama quello della analizzabilità delle proposizioni del linguaggio. Ogni proposizione che descrive un complesso può essere scomposta in una serie di proposizioni che descrivono le parti costitutive del complesso. “Ogni proposizione che sembra vertere su un complesso può analizzarsi in una proposizione intorno ai suoi costituenti e intorno alla proposizione che descrive completamente il complesso; intorno cioè a quella proposizione che equivale a dire che il complesso esiste” (NL 209). Wittgenstein si riferisce alla procedura utilizzata da Russell per l’analisi delle proposizioni che contengono descrizioni definite, presentando per la prima volta l’idea di “analisi della proposizione” quale strumento per svelare la struttura degli enunciati (cfr. 3.24, 4.0031). 2.021. Gli oggetti sono la sostanza del mondo: in quanto tali essi devono risultare semplici, cioé non scomponibili in parti minori, ed immutabili. La nozione classica di “sostanza” presuppone appunto la stabilità e la permanenza (cfr. 2.023 e 2.026: gli oggetti sono la “forma fissa” del mondo). Ciò che nel mondo muta sono le configurazioni degli oggetti (“la configurazione è il vario, l'incostante”, 2.0271), ovvero le loro diverse combinazioni, ma gli oggetti sono entità “fisse” e “sussistenti [per sé]” (2.027, 2.0271). Cfr. 2.024: la sostanza è “ciò che sussiste indipendemente da ciò che accade”. 2.0211-2.0212. Cfr. quanto discusso nella Scheda 2. Se, per assurdo, il mondo non avesse sostanza, allora ad un nome corrisponderebbe non un oggetto semplice, ma un complesso dotato di una molteplicità indefinita di parti. Secondo Wittgenstein, da ciò conseguirebbe l'impossibilità di stabilire il senso di una proposizione. Perché una proposizione abbia senso, infatti, è necessario che i nomi di cui essa si compone abbiano significato, cioé rimandino ad entità perfettamente individuabili. Se ad esempio dico: “L'orologio è nel cassetto”, i nomi “orologio” e “cassetto” devono riferirsi a qualcosa di determinato. Supponiamo però che chi sente pronunciare il nome “orologio” sia in grado di afferrarne il significato solo a patto di sapere che la serie degli elementi costitutivi dell'orologio (molle, ingranaggi, e poi molecole, atomi...) è interamente presente. Allora il senso della proposizione “L’orologio è nel cassetto” dipenderebbe dalla verità di una serie di altri enunciati che asseriscono l’esistenza di ogni componente dell’orologio (“Questo ingranaggio è nell'orologio”, “Questa molla è nell'orologio”, etc.). Ma per ognuno degli enunciati descriventi le parti dell'orologio si ripresenterebbe il problema iniziale: il senso di tali enunciati dipenderebbe cioé dal fatto che i nomi che in essi compaiono si riferiscano ad entità semplici, pena la necessità di chiamare in causa altri enunciati che asseriscono l'esistenza delle sottoparti dell'elemento descritto, e così via all'infinito (cfr. NM 234: “La questione, se una proposizione abbia senso, non può mai dipendere dalla verità d'un'altra proposizione sopra un costituente della prima”). Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine (vera o falsa) del mondo, cioé sarebbe impossibile asserire alcunché riguardo al mondo. Con ciò non si nega la possibilità di “scomporre” mediante l'analisi una proposizione che tratta di un complesso in modo da ricavare proposizioni che trattano delle sue parti costitutive (cfr. 2.0201, 3.24). Wittgenstein sostiene che in ogni caso, se si vuole salvare la determinatezza del senso, la scomposizione deve avere un termine. 2.022-2.023. Gli oggetti, “forma fissa” (2.023) o “sostanza” del mondo (2.021), determinano in virtù delle loro possibilità combinatorie l’insieme di tutti gli stati di cose, cioè delle situazioni possibili. Accanto al mondo reale, costituito dall’insieme di tutti gli stati di cose sussistenti (cioè dall’insieme dei fatti), risulta pertanto concepibile una serie di mondi possibili costituiti da tutti gli stati di cose che di fatto non sussistono nella realtà attuale. Ogni mondo possibile, per quanto differente dal mondo della nostra esperienza, risulta comunque avere comune con il mondo reale una forma, rappresentata appunto dagli oggetti. Gli oggetti come “sostanza” o “forma” della realtà sono le condizioni di pensabilità del mondo. Cfr. Kenny 93: gli oggetti “non sono generabili e sono indistruttibili: ogni possibile mondo, infatti, deve contenere gli stessi oggetti di questo”. 2.0231. Per “proprietà materiali” si devono intendere le caratteristiche degli stati di cose esistenti. Esse sono contingenti e mutevoli (non necessarie), e pertanto vanno intese in opposizione alle proprietà “interne” o “formali” (necessarie a priori). La sostanza del mondo (gli oggetti) determina necessariamente soltanto la forma della realtà (ovvero l’insieme delle relazioni possibili, che vale a priori e dipende dalle proprietà interne degli oggetti) ma non determina quali stati di cose sussistono poi effettivamente in atto (il che costituisce una questione fattuale). Le proprietà “materiali”, ovvero le caratteristiche proprie degli stati di cose esistenti, sono descritti dalle proposizioni del linguaggio. 2.0232. Gli oggetti sono incolori, “cioè: ogni proprietà [materiale, esterna], ogni “colore” è attribuito agli oggetti dalla proposizione, dal trovarsi gli oggetti in uno stato di cose” (Vanni Rovighi, 541). “Il colore, come dimensione del mondo fisico, riguarda certe caratteristiche dei fatti (il riflettere, [da parte di] una determinata superficie, la luce di una certa lunghezza d'onda) e, quindi, non è predicabile dei singoli oggetti ma solo di certe loro combinazioni sussistenti nel mondo” (Frascolla 2000, 107). Cfr. 2.0251: il colore, lo spazio e il tempo sono “forme degli oggetti”. 2.0233-2.02331. Wittgenstein asserisce che due oggetti di uguale forma logica (cioé dotati delle stesse possibilità combinatorie) sono diversi e distinti l'uno dall'altro a prescindere dalle loro proprietà esterne. E' qui implicito il rifiuto del leibniziano principio degli indiscernibili, secondo il quale non possono esistere due oggetti indistinguibili. Tuttavia, proprio tale principio pare chiamato in causa nella 2.02331, ove si afferma che la distinguibilità di due cose riposa sulle loro differenti proprietà, e se più cose hanno in comune tutte le proprietà è affatto impossibile distinguerle. Ma Wittgenstein precisa che si possono distinguere tali diverse proprietà “mediante una descrizione”: quindi in questo caso sono chiamate in causa le proprietà “materiali” degli oggetti, che sono determinate “solo dalla configurarazione degli oggetti negli stati di cose” (2.0231) e che possono appunto essere oggetto di descrizione. Da questo punto di vista, l’apparente contraddizione si risolve così: Wittgenstein ammette che due oggetti a e b, dotati di egual forma logica, possano essere distinti, quanto alle loro proprietà materiali, solo a patto di individuare per ognuno una proprietà che l'altro non possiede; e tuttavia, quand'anche ciò non avvenga, essi continueranno a risultare due oggetti differenti. Non v’è infatti alcuna contraddizione logica a pensare due oggetti uguali e distinti (cfr. 5.5302: è sempre sensato asserire che due cose possano avere comuni tutte le proprietà). 2.024. Wittgenstein accetta la classica definizione della sostanza come fondamento immutabile della realtà. Quel che muta nella realtà sono le caratteristiche accidentali, mentre l’essenza permane sempre uguale a se stessa. Gli oggetti, quali sostanza del mondo, sussistono indipendentemente da ciò che accade, indipendentemente cioè dalle loro configurazioni (gli stati di cose), le quali costituiscono l’elemento accidentale della realtà. Cfr. 2.0271: l’oggetto è ciò che sussiste come fisso, mentre la configurazione è variabile e incostante. 2.025. Riassumendo quanto viene detto nelle proposizioni precedenti: gli oggetti rappresentano la sostanza (2.021), la forma fissa e immutabile (2.023) e il contenuto (2.025) del mondo. “Considerati come i fattori determinanti [degli stati di cose] in cui possono presentarsi, gli oggetti hanno ciascuno la sua propria forma e tutti insieme costituiscono sotto questo rispetto la forma del mondo. Ma gli oggetti sono anche il materiale che costituisce i fatti” (Black 70). Perciò gli oggetti sono sia forma che contenuto del mondo. 2.0251. Cfr. 2.0232. Spazio, tempo e colore non sono proprietà riferibili agli oggetti “in sé”, bensì soltanto alle configurazioni degli oggetti (cioé agli stati di cose). Ogni oggetto è caratterizzato da una forma, ovvero da una serie di relazioni possibili con altri oggetti (2.0141). Un determinato oggetto, ad esempio, può ‘contenere’ nella propria forma la possibilità di collegarsi ad un altro secondo la relazione spaziale “a destra di”, oppure secondo la relazione temporale “prima di”, o ancora secondo la relazione cromatica “più scuro di”. Ma ciò significa appunto che spazialità, temporalità e cromaticità sono nient'altro che relazioni, rapporti e non caratteristiche proprie degli oggetti considerati astrattamente nel loro isolamento. Essendo nient'altro che possibili relazioni determinate dalla forma di un oggetto, spazio tempo e colore sono pertanto definibili quali forme degli oggetti. Sulle nozioni spazio e di tempo cfr. 6.3611. 2.026-2.027-2.0271. Solo se esistono oggetti esiste una forma fissa del mondo (cfr. 2.023): l’oggetto è un’entità fissa e sussistente per sé, mentre le configurazioni di oggetti sono l’elemento accidentale della realtà (“il vario, l’incostante”). 2.0272. Lo stato di cose è un’entità complessa formata da una combinazione di oggetti (cfr. 2.01). E’ soltanto la configurazione degli oggetti, cioè la reciproca disposizione degli oggetti determinata dalla forma logica di questi, a dar vita allo “stato di cose”. “Non c’è bisogno di alcuna aggiunta di ‘colla logica’ per combinare gli oggetti in uno stato di cose. […] Una configurazione di oggetti (e null’altro che oggetti) forma uno stato di cose (senza alcun aiuto esterno)” (Hintikka 161). Cfr. 2.03, 4.0311. 2.03-2.031. Nello stato di cose gli oggetti sono connessi secondo un ordine logico, come gli anelli di una catena: in questo senso, uno stato di cose non è un ‘miscuglio’ di oggetti (cfr. 3.141). E' la forma dell'oggetto a determinare il modo delle sue possibili connessioni con altri oggetti nello stato di cose (2.0141): le relazioni tra gli oggetti nello stato di cose sono quindi generate dalle proprietà logiche degli oggetti stessi e non dall'intervento di un ulteriore elemento formale. “Neanche questa casa è un complesso fatto dei mattoni e delle loro relazioni spaziali […]. Anche la catena consiste dei suoi anelli, non dei suoi anelli e delle loro relazioni spaziali” (GF 162-163, corsivo mio). “Il paragone con gli anelli di una catena serve ad indicare il carattere immediato delle relazioni che legano fra loro gli oggetti in uno stato di cose, nel senso che è da escludere la presenza di un ulteriore elemento dello stato di cose che medi la connessione reciproca degli oggetti, pena l'innescarsi di un regresso all'infinito (cosa media la connessione di un tale presunto elemento mediatore agli oggetti?)” (Frascolla 2000, 118, cfr. Mounce 28). 2.032. La struttura di un’entità complessa (stato di cose o immagine) è il modo della connessione dei suoi elementi costitutivi (cfr. 2.15). La struttura di uno stato di cose è il modo in cui gli oggetti sono connessi l’uno con l’altro. 2.033. La forma dell’oggetto è la sua “possibilità di occorrere in stati di cose” (2.0141). La forma di un oggetto è pertanto ciò che rende possibile l’esistere di una struttura: è, appunto, “la possibilità della struttura”. 2.034. Un fatto è il sussistere di uno o più stati cose (2). La struttura di un fatto risulta dunque determinata dalle strutture dello stato di cose o degli stati di cose (cioè delle situazioni possibili) di cui il fatto costituisce l’attualità. “Si noti che parlare di un fatto composto da più stati di cose sussistenti non equivale a parlare della sussistenza di un composto formato da quegli stati di cose: si tratta solo di un modo abbreviato di parlare della sussistenza di tutti quei singoli stati di cose. Il punto è rilevante perché […] le proposizioni composte da più proposizioni non asseriscono l’esistenza di un complesso formato da più stati di cose (per esempio, la sussistenza della ‘disgiunzione’ o della ‘congiunzione’ di due o più stati di cose), ma esprimono concordanza con alcune combinazioni del sussistere e non sussistere di quei singoli stati di cose, e non-concordanza con altre” (Frascolla 2000, 124). Ad esempio, la proposizione complessa: “Il gatto è sul tappeto o il libro è sul tavolo” non asserisce che sul piano ontologico esista un fatto ‘molecolare’ composto dagli ‘stati atomici’: “Il gatto è sul tappeto”, “Il libro è sul tavolo” in reciproca connessione, bensì si limita ad esprimere concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non-sussistere di quegli stati di cose (cfr. 4.2). 2.04. Wittgenstein riprende ora l’analisi del concetto di “mondo”. Se “Il mondo è tutto ciò che accade” (1) e “ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose”(2), allora il mondo è l’insieme di tutti gli stati di cose sussistenti. 2.05. Ma l’insieme degli stati di cose sussistenti determina anche l’insieme degli stati di cose che non sussistono. Cfr. 1.12: “Ché la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade”. Sapendo tutto ciò che esiste come “fatto” nel mondo sono in grado di dire anche tutto quanto non sussiste nel mondo. Gli stati di cose che non sussistono sono definiti da Wittgenstein “fatti negativi” (2.06). 2.06. Uno stato di cose sussistente è chiamato da Wittgenstein un “fatto positivo”, mentre uno stato di cose non sussistente è chiamato un “fatto negativo”. La realtà si comporrebbe dunque sia di fatti positivi (cioé di stati di cose sussistenti) che di fatti negativi (cioé di stati cose non sussistenti); e dato che che “realtà” equivale a “mondo” (2.063), il mondo dovrebbe conseguentemente essere costituito dall’insieme degli stati di cose sussistenti più l’insieme degli stati di cose non sussistenti, il che è in esplicito contrasto con l’affermazione secondo cui il mondo è “la totalità degli stati di cose sussistenti” (2.04). Nelle 1.12 e 2.05 viene spiegato che una volta dato l’insieme dei fatti (cioè degli stati di cose sussistenti) viene determinato automaticamente anche l’insieme degli stati di cose che di fatto non sussistono; in questo senso agli stati di cose non sussistenti non viene concessa alcuna consistenza ontologica. Introducendo l’espressione “fatti negativi”, invece, Wittgenstein lascia presupporre che ad uno stato di cose non sussistente corrisponda una forma di esistenza nella realtà (quel che potremmo chiamare un’esistenza negativa). L’idea che il mondo si componga anche di non-esistenze è però inaccettabile, per quanto le oscillazioni di Wittgenstein su questo punto siano evidenti e ricorrano anche nei lavori preparatori al Tractatus (si veda ad esempio NL 202-203: “Vi sono fatti positivi e fatti negativi”; cfr. l’esempio della macchia nella 4.063: “Al fatto che un punto [della macchia] è bianco (non nero) [corrisponde] un fatto negativo”). “Adottando tale espressione, in effetti, si finisce col dover chiamare ‘fatti’ anche gli stati di cose non sussistenti e si oscura, così, la distinzione tra stati di di cose e fatti, tracciata in termini di mera possibilità ed attualità” (Frascolla 2000, 125). Immaginiamo che il mondo sia una porzione di scacchiera sulla quale si trovano due oggetti (una torre e un cavallo), e che uno stato di cose corrisponda ad una possibile posizione dei pezzi sulle caselle. Sulla base di quanto abbiamo osservato, se di fatto la torre e il cavallo si trovano, rispettivamente, sulle caselle a1 e b1 allora possiamo affermare che il mondo è costituito esclusivamente dai due fatti positivi: “Torre in a1” e “Cavallo in b1” (fig. 1); l’idea che il mondo sia costituito dai due fatti positivi in questione più gli stati di cose che di fatto non sussistono (ad esempio, i fatti negativi: “Torre in a2” e “Cavallo in b2”, raffigurati in nero) è invece da respingere come fuorviante (fig. 2). 2.061-2.062. Dall’accadere di un determinato stato di cose non può essere inferito l’accadere o non accadere di uno stato di cose diverso Gli stati di cose sono pertanto caratterizzati dalla reciproca indipendenza. Non vi sono, tra due stati di cose, relazioni di tipo logico che consentano di derivare l’uno dall’altro. Cfr. 1.21, 5.135. 2.063. La realtà “totale” (die gesamte Wirklichkeit) è il mondo, ovvero la totalità degli stati di cose sussistenti (2.04). Sul conflitto tra questa definizione e quella secondo cui la realtà equivarrebbe all’insieme dei fatti positivi e negativi, v. 2.06. _Note al Tractatus MONDO E VOLONTA’ NECESSITA’ E IMPOSSIBILITA’ LOGICA (6.373 – 6.3751) 6.373. Sulla volontà cfr. 6.423, 6.43. Ciò che accade, cioé il mondo come insieme di fatti, sussiste indipendentemente dal mio volere: non v’è, tra la mia volontà ed il mondo, alcuna connessione necessaria (6.374). Ne consegue che il mio volere non può modificare in nessun modo i fatti del mondo. Dal punto di vista etico, questa osservazione suggerisce l’impossibilità per il soggetto di influenzare l’ordine contingente dei fatti per mezzo delle proprie intenzioni morali (6.43). Nel mondo tutto “avviene come avviene” (6.41) e non v’è alcun nesso tra le mie aspettative di natura morale ed il livello degli accadimenti. 6.374. Dato che non v’è alcuna connessione tra la volontà ed il mondo, se tutto quel che vogliamo o desideriamo si realizzasse veramente ciò avverrebbe per puro accidente (sarebbe “una grazia del fato”). Cfr. Q. 173: “Io non posso guidare gli eventi del mondo secondo la mia volontà; al contrario, sono affatto impotente”; Q. 175: “Il mondo mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge al mondo completamente dal di fuori, come a un fatto compiuto”. 6.375. Come non esiste una necessità fisica così non esiste una impossibilità fisica: necessità e impossibilità non sussistono fuori della logica. Cfr. 6.3 (fuori della logica tutto è accidente), 6.37 (v’è solo una necessità logica). 6.3751. Il fatto che uno stesso luogo del campo visivo sia allo stesso tempo rosso e verde è impossibile logicamente perché in contraddizione con la forma logica del colore, ovvero con le leggi fondamentali del cromatismo. In fisica (riducendo il colore al moto di particelle), ciò potrebbe essere tradotto nell'impossibilità che due particelle siano in due luoghi diversi allo stesso tempo e quindi nel fatto che “particelle in luoghi diversi in un unico tempo non possono essere identiche”. Ciò conduce ad escludere che una proposizione del tipo “A è rosso” possa essere considerata come una proposizione elementare. Tale proposizione, infatti, risulta in contraddizione con l'enunciato “A è verde”, violando il principio dell'indipendenza reciproca delle proposizioni elementari (4.211). Stando così le cose, “A è rosso” e “A è verde” devono essere enunciati complessi e mediante l'analisi si dovrebbe riuscire a svelare la loro interna complessità. Ma Wittgenstein si convinse progressivamente che tale compito fosse irrealizzabile. In mancanza di un'adeguata procedura di riduzione degli enunciati “A è rosso” e “A è verde” ai loro costituenti elementari siamo costretti a riconoscere che esistono “relazioni logiche tra proposizioni che non dipendono dal tipo di complessità che è descritta dall'analisi in termini di funzioni di verità. O, da un altro punto di vista, [che] le tavole di verità dei connettivi catturano solo in parte le regole per ‘e’, ‘non’, ecc.: da quelle tavole, infatti, non risulta che ‘A è rosso e A è verde’ è contraddittoria” (Marconi 1997, 64). La fase di revisione delle dottrine del Tractatus, che avrebbe portato Wittgenstein alla svolta degli anni Trenta (la cosiddetta filosofia del “secondo Wittgenstein”), prende le mosse proprio da questa discussione. “Però da ‘a è rosso, ora’ segue ‘a non è verde, ora’, e dunque in questo senso le proposizioni elementari non sono indipendenti l’una dall’altra come lo erano le proposizioni elementari nel mio calcolo, che io descrissi a suo tempo, e al quale –ingannato da un falso concetto di questa riduzione- supponevo potesse ricondursi tutto quanto l’uso delle proposizioni” (GF 173). L’ETICA, IL VALORE, IL SENSO DELLA VITA. (6.4 – 6.522) 6.4. Gli eventi di cui è costituito il mondo (data l’indipendenza reciproca degli stati di cose, 2.061) sono tutti “accidentali” e dunque non è possibile distinguerli stabilendo tra essi differenze di valore (nessun fatto è più ‘importante’ o ‘migliore’ di un altro). Anche le proposizioni sono tutte “neutrali” rispetto alla prospettiva del valore: esse sono tutte “d’egual valore”, ovvero non v’è alcuna differenza di valore tra esse. Le proposizioni del linguaggio hanno l’esclusiva funzione di raffigurare i fatti, e nessuna descrizione può contenere una valutazione: l’immagine è semplicemente estranea alla distinzione tra bene e male (le immagini possono rappresentare eventi che dal punto di vista morale sono giudicabili riprovevoli o giusti, ma in quanto immagini esse non giudicano affatto). La natura raffigurativa del linguaggio rende dunque impossibile tradurre in parole un giudizio morale sugli eventi: l’etica, afferma Wittgenstein nella 6.421, non può formularsi. 6.41. I fatti sono tutti equivalenti, ogni evento “avviene come avviene” e nessun accadimento differisce da un altro riguardo al valore. Non esistono perciò fatti buoni o cattivi, azioni raccomandabili o riprovevoli: il mondo è come è, e il linguaggio si limita a registrare ciò che accade. Se per “Valore” intendiamo un principio assoluto, necessario e immodificabile, è chiaro che esso può essere concepito solo come trascendente l’ordine contingente dei fatti. L’ambito dei valori deve dunque essere proiettato al di fuori della sfera degli accadimenti empirici, vale a dire fuori del mondo. L’Etica, cui è essenziale il riferimento ai Valori, non ha nulla a che fare con il livello dei fatti di cui si compone il mondo. 6.42. Che le proposizioni non possano esprimere nulla “ch’è più alto” e che non vi possano essere proposizioni etiche è diretta conseguenza di quanto affermato nella 6.4. La teoria raffigurativa determina l’impossibilità di piegare il linguaggio alle esigenze dell’etica. Gli enunciati si limitano a descrivere la realtà, il che è ben diverso dalla valutazione cui aspiriamo in campo morale. L’Etica rimanda ad un dover-essere, mentre la funzione naturale del linguaggio è riflettere l’esistente (cioè la semplice presenza dei fatti, il loro accadere). Di fronte ad un omicidio ci si può porre dal punto di vista morale e giudicare riprovevole l’azione pronunciando un giudizio di condanna (un evento di questo genere non dovrebbe accadere perché viola una valore morale); d’altra parte, dal punto di vista scientifico si tenderà a descrivere l’evento come un qualsiasi altro accadimento fisico, tentando magari di inserirlo in un contesto statistico o illustrandone le modalità di attuazione etc.. Chi adotta quest’ultima prospettiva assume un atteggiamento neutrale di fronte al valore morale degli eventi e si interessa soltanto della descrizione di essi. Se l’unico uso sensato degli enunciati, seguendo la teoria del Tractatus, è la raffigurazione (cioé la descrizione), ne consegue che la nostra esperienza dei fatti si svolge esclusivamente secondo le modalità a-valutative proprie della razionalità scientifica, escludendo così l’atteggiamento etico da ogni possibilità di espressione sensata. 6.421. “L’etica dev’essere una condizione del mondo, come la logica”. (Q 178). Wittgenstein individua un tratto comune alla logica ed all’etica: nè l’una nè l’altra trattano del mondo (le proposizioni della logica “trattano di nulla”, 6.124). La logica, descrivendo “l’armatura del mondo”, può essere a ragione considerata condizione del mondo ed essere definita come “trascendentale”. Più complesso è spiegare le ragioni che spingono Wittgenstein ad affermare che l’etica è trascendentale, dato che solo la logica conferisce una forma a priori ai nostri enunciati ed è escluso che l’etica possa rappresentare un’alternativa alla logica o manifestarsi indipendentemente da essa (non esiste una “forma etica” che possa sostituire la forma logica o aggiungersi ad essa: le proposizioni del linguaggio sono strutturate secondo la forma logica e nessuna delle proposizioni dotate di senso può contenere un senso “etico”). Nei Quaderni (Q 180), Wittgenstein aveva scelto di qualificare l’etica come trascendente: questa definizione si accorda meglio con l’estraneità dell’etica rispetto al mondo e con la sua impossibilità a “far presa” su esso. Probabilmente la scelta dell’aggettivo “trascendentale” si giustifica in relazione alla capacità dell’etica di valere come condizione di quella trasfigurazione totale della realtà di cui Wittgenstein parla nella 6.43. Sull’identità etica – estetica, cfr. Q 185: “L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica”. Il nesso etica-estetica fu probabilmente suggerito a Wittgenstein dalla lettura di Schopenhauer. Quest’ultimo, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, aveva descritto l’esperienza estetica come uno stato di contemplazione dei valori sganciato dalle modalità conoscitive ordinarie legate alla rappresentazione del mondo fenomenico. Per Schopenhauer, “l’arte concepisce con la pura contemplazione, e riproduce poi, le idee eterne, cioé tutto quello che vi è di essenziale e di permanente in tutti i fenomeni del mondo [...]. L’arte si attiene dunque all’oggetto singolo, considerato a sé stante; ferma la ruota dei tempi; svanite le relazioni, l’essenziale, l’idea, formano il suo unico oggetto” (Schopenhauer 1819, III, §6). Anche secondo Schopenhauer, dunque, l’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis. 6.422. Wittgenstein esclude che un imperativo morale equivalga ad una semplice subordinazione di mezzi a fini. Kant aveva parlato a questo proposito di imperativo ipotetico, che è un precetto di natura strumentale (se tu vuoi x allora devi agire in un certo modo); questo tipo di precetto lascia del tutto inesplorata la questione del valore dell’obiettivo che si intende conseguire interessandosi soltanto dell’efficacia del nostro agire (l’obiettivo “x” potrebbe corrispondere ad una qualsiasi azione malvagia riguardo alla quale ci vengono proposti i mezzi adeguati per porla in atto). Il vero imperativo morale, quello che Kant definisce ‘categorico’, chiama invece in causa la volontà buona, cioé l’intenzione con la quale il soggetto si adegua al comando della Ragion pratica. Affermando che il problema delle conseguenze di un’azione è irrilevante, Wittgenstein collega la dimensione etica ad un principio che –al pari della volontà buona di Kant- è del tutto indipendente dall’ordine dei fatti. Nella 6.423 Wittgenstein precisa che il “portatore dell’etico” è proprio la volontà. L’azione morale scaturisce dalla volontà buona indipendentemente da ogni circostanza fattuale e da ogni calcolo delle conseguenze. Kant aveva scritto: “Anche se l’avversità della sorte o i doni avari di una natura matrigna privassero interamente questa volontà del potere di realizzare i propri progetti; anche se il suo maggior sforzo non approdasse a nulla ed essa restasse una pura e semplice buona volontà [...] essa brillerebbe di luce propria come un gioiello, come qualcosa che ha in sé il suo pieno valore” (Kant 1785, §1). In questo senso si comprende meglio l’affermazione di Wittgenstein secondo cui il premio e la pena devono essere nell’azione stessa. 6.423. Il volere quale “portatore dell’etico”, ovvero quale condizione del riferimento ai Valori, non appartiene al mondo perché non è un fatto. Si può parlare sensatamente soltanto dei fatti; dunque è possibile parlare solo del volere in quanto fenomeno (cioè di ogni atto manifesto del soggetto che vuole), e ciò è di pertinenza della scienza psicologica. Ma non v’è alcuna possibilità di esprimere il livello più profondo della volontà morale. Wittgenstein aveva già affermato che “il soggetto che pensa, immagina, non v’è” (5.631). Con la “scomparsa” del soggetto quale fondamento dell’attività rappresentativa viene proiettato fuori della sfera dei fatti anche il cardine dell’esperienza morale, ovvero l’io quale “portatore dell’etico” (su questo tema cfr. Scheda 16). 6.43. Dato che il mondo è indipendente dalla mia volontà (6.373), in cosa consiste il mutamento di cui è responsabile il volere buono o cattivo? Le immagini proposte da Wittgenstein (un’alterazione dei limiti del linguaggio, un cambiamento che non può essere espresso in parole e che produce una modificazione ‘totale’ del mondo) paiono identificare la prospettiva etica con uno stato mistico di trasfigurazione della realtà. Nei Quaderni Wittgenstein specifica che il crescere o decrescere in toto del mondo avviene “come per aggiunta o caduta d’un senso” (Q 174). Questo ribaltamento della prospettiva ordinaria è del tutto indescrivibile perché produce un cambiamento del campo prospettico nella sua interezza: esso riguarda i limiti del linguaggio, e non i singoli fatti descrivibili per mezzo del linguaggio. Musil scrive a questo proposito: “Tutti i precetti della morale indicano uno stato di trasognamento che è già sfuggito alle regole in cui lo si chiude […]. Nel momento in cui si evade dalla vita inessenziale si stabiliscono nuove correlazioni. Anzi, direi quasi che le cose non stanno più in alcun rapporto fra loro, perché si tratta di un rapporto sconosciuto, del quale non abbiamo nessuna esperienza, e tutte le altre correlazioni sono smarrite; ma questa nonostante la sua oscurità è così chiara che non la si può negare. E’ forte, ma è inconcepibilmente forte. Si potrebbe anche dire: di solito noi guardiamo qualcosa e lo sguardo è come una bacchettina o un filo teso al quale l’occhio e l’oggetto guardato si appoggiano reciprocamente, e ogni secondo che passa sorregge una trama di questo genere; mentre in questa particolare disposizione d’animo c’è piuttosto qualcosa di dolorosamente dolce che disgiunge i raggi visuali” (Musil 1952, II, 738-739). Musil, al pari di Wittgenstein, descrive tale mutamento come un “evento” confinato nella dimensione privata del soggetto e nega perciò che esso abbia un’incidenza sul mondo: si è soliti pensare che “una persona buona rende buono tutto ciò che tocca, anche se gli altri le fanno guerra: appena entrano nel suo campo, essa li trasforma interamente”; ma in realtà “questo sarebbe uno dei malintesi più antichi! Perché una persona buona non migliora affatto il mondo né influisce in alcun modo su di esso; se ne allontana soltanto!” (Ibidem). Rispetto al mondo dell’infelice –osserva Wittgenstein- quello in cui vive la persona felice è semplicemente un altro mondo. 6.431-6.4311. La posizione di Wittgenstein “comporta una forma di solipsismo per il quale la realtà si identifica con la vita [5.621] e la vita si identifica con la coscienza, vale a dire con la mia esperienza attuale, col singolare risultato che con la morte, quando la coscienza ha termine, il mondo non cambia ma cessa di esistere” (Glock 84). Le osservazioni di Wittgenstein richiamano il celebre argomento di Epicuro secondo cui non si può fare esperienza della morte perché vita e morte si escludono a vicenda (“quando noi siamo, la morte non è presente, e quando è presente la morte, allora noi non siamo”, Diog. Laert., X, 125). La morte delimita l’orizzonte della temporalità poiché con essa ha termine il tempo della nostra esistenza. Ci sono però due modi di intendere tale limitazione. Nel senso etico-religioso, si è soliti considerare la morte come confine tra due durate (la nostra esistenza e la vita eterna), e di qui si è condotti a porsi il problema della destinazione ultraterrena dell’anima. Ma in questo modo ci si rappresenta il limite da un punto di vista esterno – esattamente come quando si raffigura il campo visivo chiuso da una linea e si considera ciò che è situato fuori di esso (cfr. 5.6331). Il modo corretto di considerare la morte quale limite, allora, consiste nel riconoscerne la trascendenza rispetto alla vita (“la morte non è un evento della vita. Non è un fatto del mondo”, Q 175). Scomparso il limite, diviene privo di senso anche concepire un tempo che si estende oltre la vita: la morte non produce una alterazione del mondo, bensì la sua cessazione. “I filosofi che dicono: ‘dopo la morte subentrerà una condizione senza tempo’, oppure: ‘con la morte subentra una condizione senza tempo’ e non si accorgono di aver detto ‘dopo’ e ‘con’ e ‘subentra’ in senso temporale e che la temporalità è insita nella loro grammatica” (PD 53). L’unica scelta coerente diviene perciò l’accettazione dell’immanenza, ciò che Wittgenstein chiama “vivere nel presente”. Nei Quaderni Wittgenstein scrive: “Solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è felice”; “Per la vita nel presente non v’è morte” (Q 175). Escludendo il pensiero della morte come linea separatrice tra il tempo e l’eterno, l’esistenza viene concepita come priva di limiti: in questo modo si guadagna l’unica forma di “eternità” che è concessa all’uomo, la quale coincide con l’intemporalità. J. L. Borges notava a questo riguardo: “Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte” (Borges 1952, 18). 6.4312. Nulla, nel mondo, può provare l’immortalità dell’anima umana (la questione non riguarda la scienza naturale, cioé non vi sono fatti che possano provare o smentire questa tesi). Del resto, l’ipotesi di una vita eterna non costituisce affatto la chiave risolutoria del mistero dell’esistenza: qualora la accettassimo non faremmo altro che duplicare il problema iniziale dato che la vita eterna risulta enigmatica al pari della vita presente. Se ciò che può dirsi coincide con quanto asseriscono le proposizioni della scienza naturale, l’ordine di problemi che qui chiamiamo in causa deve essere rigettato come privo di senso. Le risposte che stiamo cercando sono sganciate dal livello dei fatti (sono “fuori dello spazio e tempo”). 6.432-6.4321. Wittgenstein ribadisce la trascendenza di Dio e dell’ambito dei valori. Questa posizione lo porta ad escludere che l’ordine dei fatti sia manifestazione di Dio o che il livello dei fatti possa contenere la soluzione dei problemi etici. La 6.432 sembra negare la Provvidenza divina nei confronti del mondo (come il mondo è, ovvero l’ordine contingente dei fatti, è indifferente per Dio). L’esclusione di Dio dal campo fenomenico accomuna Wittgenstein al Kant della Critica della ragion pura. Ma Kant può compensare l’insufficienza dell’intelletto teoretico (incapace di comprendere Dio tra i propri oggetti) con la dimensione pratica della ragione: Dio è introdotto nel sistema kantiano come postulato della ragion pratica, ovvero come esigenza morale. Non così per Wittgenstein: non c’è modo di aggirare il linguaggio, non esistono modalità alternative di espressione che possano contenere il sentimento della dipendenza del mondo da Dio come creatore e garante dell’ordine morale. 6.44. Cfr. 5.552. Permanendo a livello dei fatti (occupandosi cioé di “come il mondo è”) non è possibile alcun aggancio con l’ambito dei valori. L’intuizione del mistico avviene nel momento in cui assumiamo come problema l’esistenza del mondo (“che il mondo è”). Quando ciò accade, il nostro punto di vista non è più interno al mondo ma viene proiettato esternamente ad esso: allora si tenta di vedere la realtà come un “tutto” e si ricerca la causa della sua esistenza. Nella Conferenza sull’etica l’atteggiamento etico è paragonato al meravigliarsi per l’esistere delle cose (stupor mundi). Questo particolare sentimento rivela la tensione a raffigurarsi Dio come causa dell’esistenza del mondo. Stupirsi per l’esistenza del mondo, scrive Wittgenstein, è “l’esperienza cui si fa riferimento quando si dice che Dio ha creato il mondo” (LC 15). Cfr. Q 173: “Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre”. 6.45. La terminologia di Wittgenstein richiama il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza. La metafisica pretende di considerare il mondo come totalità data, ovvero come un oggetto che la ragione può contemplare nella sua interezza. B. Russell definisce in questo senso la metafisica come “il tentativo di concepire il mondo come un tutto per mezzo del pensiero” (Russell 1918b, 3). Per far ciò, bisogna idealmente proiettarsi al di fuori del mondo assumendo una prospettiva per la quale l’insieme degli eventi può essere circoscritto e considerato come un’unità limitata. “Mi sembra però che, oltre il lavoro dell’artista, vi sia un altro modo di cogliere il mondo sub specie aeterni. E’ credo- la via del pensiero, che per così dire passa sul mondo a volo d’uccello e lo lascia così com’è – contemplandolo in volo dall’alto” (PD 24). Un simile punto di vista coinciderebbe con quello di Dio quale creatore del mondo (il mondo come “tutto limitato” può valere come metafora del mondo in quanto creato da Dio). Cfr. Q 185: “Il consueto modo di vedere vede gli oggetti quasi dal di dentro; il vederli sub specie aeternitatis, dal di fuori. Così che per sfondo hanno il mondo intero. E’ forse che essa vede l’oggetto con, invece che in, lo spazio e il tempo? Ogni cosa condiziona tutto il mondo logico, per così dire, tutto lo spazio logico. (S’impone il pensiero): La cosa vista sub specie aeternitatis è la cosa vista con tutto lo spazio logico”. Wittgenstein suggerisce che solo in forza di un’intuizione soprarazionale si potrebbe giudicare il mondo nella prospettiva del Valore. Ma pretendere che la conoscenza oltrepassi i propri limiti naturali è insensato: l’etica è dunque destinata a muoversi nel campo dell’inesprimibile. 6.5. Le domande etico-religiose sul senso del mondo (ovvero, sul senso della vita) non possono avere risposta perché non sono nemmeno formulabili come domande (non possono essere espresse sensatamente dal linguaggio). In questo senso, non esistono enigmi e l’unico modo per avviare a soluzione il problema del significato dell’esistenza è annullarlo come problema (6.521). Wittgenstein prepara con queste affermazioni l’enunciato finale del Tractatus, nel quale raccomanda il silenzio come unico atteggiamento autentico riguardo al problema morale. 6.51. L’antica scuola scettica negava che fosse possibile raggiungere una conoscenza certa e infallibile del mondo. La pretesa di sottoporre a giudizio la facoltà conoscitiva, secondo Wittgenstein, è però un’impresa disperata che condanna lo Scetticismo al nonsenso. Gli argomenti scettici, pertanto, non sono confutabili perché privi di senso (soltanto gli enunciati dotati di senso possono essere veri o falsi, ovvero confermabili o refutabili per mezzo dell’esperienza). 6.52. Le proposizioni della scienza esauriscono il campo del dicibile e tuttavia esse non contengono alcuna indicazione che consenta di risolvere gli enigmi che più stanno a cuore all’uomo (in primo luogo, il problema del senso della nostra esistenza). Nella Prefazione Wittgenstein aveva anticipato tale argomento asserendo che il Tractatus mostra “quanto poco sia fatto dall’essere questi problemi risolti”: una volta scoperto che le domande essenziali non possono essere formulate, e che dunque “non resta più domanda alcuna”, l’uomo sente in modo ancora più angoscioso la propria impotenza di fronte al mistero della vita. Cfr. Q 146: “L’impulso al mistico viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza”. 6.521. Il problema della vita (le domande riguardanti il mistero della nostra esistenza e in generale le domande di natura etica) si risolve solo nel momento in cui comprendiamo che non stiamo trattando di fatti, e che perciò non v’è alcuna risposta possibile (cfr. 6.51). Quando raggiungiamo questa consapevolezza allora il problema sparisce semplicemente, liberando la nostra prospettiva. E’ importante tuttavia notare che Wittgenstein non nega che la soluzione degli enigmi possa essere raggiunta (anche se in forma assolutamente privata e incomunicabile): vi sono infatti individui cui il senso della vita divenne improvvisamente chiaro. Nessuno di costoro, però, fu in grado di spiegare in che consistesse questo senso perché il linguaggio non permetteva loro di esprimerlo come un ‘evento’. Le domande e le risposte, in campo etico-religioso, trascendono i limiti del linguaggio. “La soluzione del problema che tu vedi nella vita è un modo di vivere che fa scomparire ciò che rappresenta un problema. Se la vita è problematica, è un segno che la tua vita non si adatta alla forma della vita. Devi quindi cambiare la tua vita; quando si adatterà alla forma, allora scomparirà ciò che è problematico” (PD 60-61). 6.522. Cfr. 5.641. L’ineffabile, ciò che non può essere espresso sensatamente dal linguaggio (ovvero il mistico, l’ambito dei valori), mostra la propria presenza pur non potendo essere reso esplicito in alcun modo. “L’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato” (PD 43). “La soluzione negativa in Wittgenstein ha un contenuto nettamente positivo: l’universo delle risposte possibili, quello del dicibile, ‘fa segno’ verso qualche cosa, al di fuori dei suoi limiti, che non può integrare e nemmeno negare” (Bouveresse 14). _ Scheda 20: Il mistico, l’etica. “Cara Agathe, c’è un cerchio di domande che ha una grande circonferenza e nessun centro: e quelle domande significano tutte come devo vivere? ”. (R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, II, 868.) “Tutto ciò che è visibile è attaccato all’invisibile, l’udibile al non-udibile, il sensibile al non-sensibile. Forse il pensabile all’impensabile”. (Novalis, Fragmente, §1710) Nella primavera del 1916, Wittgenstein fu trasferito in prima linea sulla parte meridionale del fronte russo. E’ in questo periodo che le sue riflessioni si spostano dalle tematiche logiche a quelle etiche e religiose. “Se Wittgenstein avesse trascorso l’intera guerra nelle retrovie, il Tractatus logicophilosophicus sarebbe rimasto quello che con ogni probabilità era nella prima concezione del 1915: un trattato sulla logica” (Monk 144). Il quotidiano confronto con la morte indusse invece Wittgenstein ad interrogarsi sempre più spesso sul tema di Dio e dei valori, sul significato dell’esistenza e sui problemi di natura etica.25 Questa svolta è segnalata nei Quaderni da una annotazione in data 11 giugno 1916: “Che so di Dio e del fine della vita? Io so che questo mondo è. Che io sto in esso, come il mio occhio nel suo campo visivo. Che in esso è problematico qualcosa, che chiamiamo il suo senso. Che questo senso non risiede in esso ma fuori di esso”. Da questo punto dei Quaderni in poi, le osservazioni di natura etica prendono il sopravvento su quelle riguardanti le tematiche logico-linguistiche. Va sottolineato che gli esiti “mistici” del Tractatus, più che un elemento di rottura con i temi finora considerati, possono essere considerati come un naturale sviluppo e complemento delle concezioni logiche di Wittgenstein. Ciò che caratterizza ogni forma di misticismo è l’idea che l’ambito delle verità supreme, pur manifestandosi in vari modi al soggetto, non possa essere espresso per mezzo del normale linguaggio significante. Quando Wittgenstein distingue tra ciò che il linguaggio dice e ciò che esso può soltanto mostrare rivela appunto di credere nell’esistenza di un livello di verità ultime di cui il linguaggio è incapace di render conto. Le proposizioni dotate di senso parlano del mondo empirico, ma possono solo mostrare (e non dire) la forma logica che consente loro di raffigurare la realtà. Da un lato, per mezzo del linguaggio tutto diviene chiaro, manifesto e il mondo stesso si illumina e diventa visibile; allo stesso tempo, però, il linguaggio evoca, con la sua stessa presenza, scenari che si sottraggono alla luminosità. Il linguaggio è in questo senso il mezzo attraverso il quale l’indicibile manifesta la propria presenza. A questo livello trascendente della realtà Wittgenstein assegna non solo l’insieme dei presupposti della conoscenza, bensì anche tutti quei contenuti che costituiscono il fondamento dell’etica e della religione. E se è pur vero che “l’enigma non v’è” (6.5), nel senso che non si dà alcuna possibilità di tradurre in linguaggio significante le domande su ciò che si trova oltre i confini del conoscibile, risulta tuttavia evidente che “V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico” (6.522). L’indicibilità del mistico non va pertanto interpretata come la prova della sua nullità, ma al contrario è per Wittgenstein un segno manifesto dell’esistenza di qualcosa che supera le nostre capacità espressive. La tensione tra ciò che è dentro il linguaggio e ciò che si proietta fuori di esso percorre ogni affermazione di Wittgenstein riguardante i temi dell’etica. Dato che l’ambito dei valori trascende il livello degli accadimenti Wittgenstein afferma l’assoluta estraneità dell’etica rispetto ai fatti. Ciò che chiamiamo “il senso del mondo” (o “il senso dell’esistenza”) deve perciò trovarsi fuori del mondo (6.41). 25 Wittgenstein si era arruolato nell’esercito austro-ungarico proprio allo scopo di mettersi alla prova, nel tentativo di trasformarsi in una persona diversa: “Ora avrei la possibilità di essere una persona decente, perché mi trovo faccia a faccia con la morte (...) Forse la vicinanza della morte mi porterà la luce della vita. Dio mi illumini!” (in: Monk 118). Concepire un codice morale equivale per Wittgenstein a postulare l’esistenza di valori assoluti. Nel mondo, però, “tutto è come è, e tutto avviene come avviene” (6.41): i fatti, cioé, accadono semplicemente e non possono essere distinti l’uno dall’altro sulla base di una differenza di valore. Nulla, nel mondo, si presenta come un “valore”: l’accadere dei fatti si impone come una presenza irriducibilmente neutra riguardo al bene ed al male e non è possibile trarre dagli eventi alcuna indicazione di natura morale. In questo senso, anche le proposizioni che descrivono i fatti sono tutte “d’egual valore” (6.4): appunto in quanto descrizioni, esse non possono esprimere alcuna valutazione dei loro oggetti. L’etica comporta sempre un riferimento al dover-essere, ma nessuna descrizione di fatti contiene qualcosa di più della semplice raffigurazione di ciò che è: nessuna proposizione dotata di senso può dunque essere utilizzata per dare una risposta ai nostri problemi morali. Gli enunciati del linguaggio significante non contengono “nulla ch’è più alto” (6.42) e dunque “l’etica non può formularsi” (6.421). Pur non essendo possibile riferire i concetti di bene e di male ai fatti del mondo, tuttavia essi risultano in qualche modo connessi alla sfera della soggettività. “Bene e male e male –scrive Wittgenstein- non interviene che attraverso il soggetto” (Q 180); essi sono “predicati del soggetto, non proprietà del mondo” (Q 181). Ne consegue che “buono e cattivo è essenzialmente solo l’io, non il mondo” (Q 181). Kant esprimeva la stessa idea quando affermava che “in ogni parte del mondo e, in generale, anche fuori di esso non è concepibile nulla di incondizionatamente buono all’infuori di una volontà buona” (Kant 1785, §1). Il soggetto di cui parlano sia Kant che Wittgenstein non è però l’io fenomenico-empirico, bensì l’io noumenico-trascendentale. Il primo è nient’altro che un fatto del mondo, e di esso si interessa la psicologia; il secondo è essenzialmente “il portatore dell’etico” e nessun discorso sensato può avviarsi intorno alla sua essenza: “del volere quale portatore dell’etico non può parlarsi. E la volontà quale fenomeno interessa solo la psicologia” (6.423). Il dualismo tra ambito dei fatti e volontà del soggetto richiama l’analoga contrapposizione che Schopenhauer (seguendo l’impostazione kantiana) aveva instaurato tra il mondo della rappresentazione e il livello della Volontà. Pertanto “si potrebbe dire (alla Schopenhauer): Il mondo della rappresentazione è né buono né cattivo; buono e cattivo è il soggetto che vuole” (Q 180). Dato che l’ambito del valore risulta connesso esclusivamente all’ambito dell’io, ciò che può derivare dall’atteggiamento etico è soltanto una modificazione del modo in cui il soggetto individuale si rapporta ai fatti. Ad un conoscente che asseriva che l’etica può cambiare il mondo, Wittgenstein rispose: “Si limiti a migliorare se stesso, è l’unica cosa che possa fare per cambiare il mondo” (in: Monk 215). L’etico non si può insegnare perché non è un fatto descrivibile e quindi non v’è possibilità di comunicare ad altri l’essenza dell’esperienza morale: “Non si può guidare gli uomini al bene, si può solo condurli in qualche luogo. Il bene è al di fuori dell’ambito dei fatti” (LC 24). La morale non modifica l’ordine naturale degli eventi né può in alcun modo produrre effetti sulla mentalità e gli atteggiamenti che caratterizzano una determinata società: se essa ha un effetto, lo ha esclusivamente sul soggetto e perciò la salvezza è sempre una salvezza individuale. La nostra volontà risulta in effetti del tutto incapace di influire sugli eventi: “Il mondo è indipendente dalla mia volontà” (6.373), perché esso “mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge al mondo completamente dal di fuori, come a un fatto compiuto” (Q 175). E’ però vero che “il mondo del felice è altro da quello dell’infelice” (6.43). Pur non potendo alterare l’ordine contingente degli accadimenti, la volontà buona o cattiva può infatti far sì che il mondo acquisti una qualità, un senso differente. E’ impossibile spiegare in che consista tale ribaltamento prospettico: coloro i quali lo hanno vissuto non hanno poi saputo tradurre in parole il senso della loro esperienza (6.521). Wittgenstein tenta tuttavia di chiarirne i presupposti: ciò che viene alterato sono i limiti del mondo, e pertanto il mondo deve “crescere o decrescere in toto” (6.43). Nei Quaderni aggiunge: “Come per aggiunta o caduta d’un senso” (Q 174). Concepire il mondo secondo categorie morali, per Wittgenstein, significa intuirlo come un “tutto limitato” (6.45), e sentire il mondo come una totalità equivale ad abbandonare l’ordinario punto di vista interno alla realtà per abbracciare con lo sguardo tutta la sfera dell’essere. Chi adotta una simile prospettiva tenderà inevitabilmente a domandarsi quale sia la causa dell’esistere del mondo come totalità. Lo stupore per l’esistenza del mondo è il fondamento dell’esperienza religiosa: meravigliarsi perché le cose esistono, scrive Wittgenstein nella Conferenza sull’etica, è esattamente “l’esperienza cui si fa riferimento quando si dice che Dio ha creato il mondo” (LC 15). Si può allora dire che la trasfigurazione del mondo operata dall’etica dipende dal fatto che la prospettiva del valore contiene in sé il sentimento della dipendenza del mondo da Dio. Da questo punto di vista, la vita felice cui conduce l’etica significa “essere in armonia” con la volontà di Dio (Q 175). Il mondo e la nostra esistenza acquistano allora un senso e il soggetto morale vede che il suo mondo è diventato semplicemente un altro mondo: “Credere in un Dio vuol dir comprendere la questione del senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso” (Q 175). L’etica di Wittgenstein richiama perciò come suo naturale complemento l’atteggiamento misticoreligioso: la possibilità del giudizio morale sul mondo può infatti giustificarsi solo nella prospettiva dell’esistenza di Dio. In questo senso, tutte le domande dell’etica possono formularsi secondo le categorie proprie della sfera religiosa. Scrive ad esempio Wittgenstein: “Il senso della vita, cioé il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre. Pregare è pensare al senso della vita” (Q 173). Rispondendo a Waismann, che aveva domandato se l’esistenza del mondo è connessa con l’etico, Wittgenstein rispose: “Che si dia, qui, una connessione, gli uomini l’hanno sentito e l’hanno espresso così: -Il Padre ha creato il mondo, il Figlio (o la Parola, che da Dio procede) è l’Etico-” (LC 25). Ma è bene rammentare che ogniqualvolta tentiamo di esprimerci riguardo ai temi dell’etica e della religione noi facciamo un cattivo uso del linguaggio. Nessuna delle espressioni da noi utilizzate per parlare del Valore, del bene e del male, etc., può essere dotata di senso: queste proposizioni, infatti, non descrivono eventi ma qualcosa che, se esiste, deve trovarsi oltre il perimetro del dicibile. Tutto il discorso di Wittgenstein può dunque essere inteso come un tentativo di esprimere l’inesprimibile (e dunque esso va giudicato come insensato). Ne consegue che la risoluzione del problema della vita si può effettivamente scorgere soltanto “allo sparire di esso” (6.521), cioé comprendendo che la risposta che cerchiamo non può essere formulata per mezzo del linguaggio. “Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta” (6.52). _Note al Tractatus CIO’ CHE PUO’ DIRSI. IL TRACTATUS E’ UNA SCALA. (6.53 – 6.54) 6.53. Compito della filosofia è “chiarire e delimitare nettamente i pensieri”, e quindi essa “non è una dottrina, ma un’attività” (4.112). Non vi sono contenuti filosofici, né proposizioni filosofiche: ciò di cui si può parlare sono soltanto i fatti del mondo, ragion per cui le proposizioni della scienza naturale sono le uniche in grado di esprimere un senso. “Fare filosofia” significa esercitare un compito di sorveglianza critica del linguaggio, ovvero significa impedire che le proposizioni siano utilizzate in modo contrario al loro uso naturale (uso che consiste nella raffigurazione di fatti). 6.54. Anche le proposizioni del Tractatus logico-philosophicus devono essere riconosciute come un illecito sconfinamento in quell’ambito che Wittgenstein aveva considerato al di là di ogni possibile discorso sensato. Il Tractatus, infatti, vieta che si parli del linguaggio: ma di cosa ha discusso il libro? Del linguaggio, appunto, e delle condizioni in base alle quali è possibile enunciare proposizioni dotate di senso. Anche Wittgenstein, insomma, adotta una prospettiva di tipo “trascendentale”, pur negando che questa operazione sia lecita. I limiti del linguaggio venivano cercati “dall’interno”, ma lo svolgimento dell’indagine ha richiesto la proiezione del punto prospettico in quelle regioni “esterne” che il Tractatus stesso si sforzava via via di negare. Ci si potrebbe chiedere: “da dove” ci parla il Tractatus? Non dal punto di vista del linguaggio naturale poiché il libro si esprime su di esso e dunque deve porsi ad un livello superiore: ed ecco risorgere la metaconoscenza, il metalinguaggio, la gerarchia dei livelli (come nella Teoria dei tipi di Russell). Wittgenstein riconosce questa grave difficoltà e suggerisce una soluzione, ma l’enunciato 6.54 minaccia di rappresentare il punto in cui il Tractatus annulla se stesso. “Gettar via la scala dopo esservi saliti” significa riconoscere che la lezione del Tractatus va utilizzata senza più badare al testo che l’ha espressa, dato che questo testo ha dovuto violare –per rendere comprensibile il proprio messaggio- gli stessi insegnamenti in esso contenuti. Sembra davvero impossibile sfuggire al paradosso: se infatti accetto di considerare insensate le proposizioni del Tractatus allora quelle stesse proposizioni devono avere un senso giacché è sulla base di quanto esse stabiliscono che io distinguo ciò che ha senso da ciò che ne è privo; del resto, se io accetto che quelle proposizioni abbiano un senso, il loro insegnamento deve condurmi a riconoscerle come insensate. La ‘soluzione’ suggerita da Wittgenstein ha un illustre precedente. La tesi scettica secondo cui “tutto è falso” rappresenta un enunciato che finisce per falsificare se stesso (allo stesso modo, le tesi del Tractatus implicano il non-senso del Tractatus stesso). Sesto Empirico rispondeva a questa difficoltà affermando che la dottrina scettica è come una scala da gettar via dopo la salita e che “le proposizioni scettiche si possono annullare da se medesime, circoscrivendo se stesse con le cose di cui si dicono; così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma anche se stesse espellono insieme con gli umori” (Schizzi Pirroniani, I, 206; quest’ultima metafora è sicuramente meno elegante di quella della scala, ma il senso è lo stesso). Anche nelle dottrine buddiste ricorre un’immagine che ricorda l’esempio della scala da gettare via: Budda infatti “paragonò il suo insegnamento ad una zattera con cui si attraversa il fiume, e che bisogna lasciarsi dietro quando si sia giunti all’altra riva” (Watts 58). Il percorso tracciato da Wittgenstein è così giunto al suo termine naturale. Una volta saliti sulla scala del Tractatus noi dobbiamo dimenticare il cammino percorso e rivolgere il nostro sguardo al mondo. Da questo momento in poi noi useremo il linguaggio esclusivamente per raffigurare i fatti, esprimendo con chiarezza il dicibile e respingendo come insensato ogni tentativo di parlare dell’indicibile. “Le nostre parole, usate come noi le usiamo nella scienza, sono strumenti capaci solo di contenere e di trasmettere significato e senso, senso e significato naturali. L’etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti; così come una tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino all’orlo, e io ne facessi versare un ettolitro” (LC 11). Non ci resta che consegnare al silenzio, come recita la proposizione finale dell’opera, tutte le questioni che non possono essere ‘contenute’ nelle proposizioni del linguaggio. LA PROPOSIZIONE FINALE (7) 7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.