1. Le vicende della composizione e della pubblicazione del libro.

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1. Le vicende della composizione e della pubblicazione del libro.
1. Le vicende della composizione e della pubblicazione del libro.
Il Tractatus logico-philosophicus, insieme ad un libro di testo per le scuole elementari austriache
(1926) e al breve saggio Some remarks on Logical Form (1929), è l’unico scritto dato alle stampe in
vita da Ludwig Wittgenstein. L’opera ebbe una gestazione piuttosto lunga e travagliata. Il primo
progetto di un’opera filosofica risale probabilmente al 1911. In quel periodo Wittgenstein si trovava
a Manchester per proseguire i suoi studi di ingegneria aeronautica. La lettura delle opere di Gottlob
Frege e quella dei Principles of Mathematics di Bertrand Russell avevano dischiuso al giovane
Ludwig l’orizzonte degli studi di logica e filosofia, distogliendolo progressivamente dai suoi
interessi originari. Nell’estate del 1911 Wittgenstein si recò a Jena e discusse dei suoi progetti
filosofici con Frege, il quale gli suggerì di stabilirsi a Cambridge per studiare sotto la guida di
Bertrand Russell. L’incontro di Wittgenstein con l’autore dei Principia Mathematica avvenne il 18
ottobre di quell’anno e fu così descritto da Russell: “Comparve un tedesco affatto sconosciuto che
parlava inglese con difficoltà e che tuttavia si rifiutava di esprimersi in lingua tedesca. Alla fine
risultò uno che aveva studiato ingegneria a Charlottenburg, ma che nel corso di tali studi s’era
appassionato, in modo del tutto autonomo, alla filosofia della matematica, per cui sarebbe arrivato
qui a Cambridge con la ferma intenzione di assistere alle mie lezioni”.1
Ma Wittgenstein non si limitò ad “assistere” alle lezioni: egli iniziò infatti un vivace confronto con
Russell mettendone in discussione le teorie ed elaborando idee originali che risultavano spesso in
conflitto con quelle del maestro. “Il mio tedesco minaccia di trasformarsi in una pestilenza: al
termine delle lezioni mi vien dietro e non la smette di argomentare fino all’ora di cena. Ostinato e
spietato, non mi sembra però affatto stupido”.2 Pur dovendo far fronte agli attacchi continui di
Wittgenstein (le cui critiche si rivolgevano soprattutto alla Teoria dei tipi logici), Russell mostrava
di apprezzare le grandi doti intellettuali del suo allievo e col passare del tempo si rese conto che il
prossimo contributo di rilievo nel campo della logica matematica sarebbe venuto proprio dal “suo
tedesco”. Prima di dedicarsi completamente alle nuove discipline di studio, però, Wittgenstein
aveva un disperato bisogno di conferme, come testimonia il seguente episodio: “Alla fine del suo
primo trimestre a Cambridge, Wittgenstein venne da me e mi chiese: ‘Può dirmi, per favore, se sono
un idiota completo o no?’. Gli risposi: ‘Caro amico, non lo so proprio. Ma perché me lo chiede?’. E
lui: ‘Perché se sono un idiota completo farò il pilota d’aereo, se no farò il filosofo’. Gli dissi di
scrivermi qualcosa, durante le vacanze, su un qualche argomento filosofico, e poi gli avrei detto se
era un idiota completo o no. Seguì il mio consiglio e all’inizio del trimestre successivo mi portò il
suo elaborato. Dopo averne letto una sola frase gli dissi: ‘No, lei non deve fare il pilota d’aereo’ ”.3
Wittgenstein iniziò a lavorare ai problemi di logica con incredibile energia. “Ha il temperamento
dell’artista – scriveva di lui Russell in quel periodo- è intuitivo e lunatico. Dice che tutte le mattine
inizia il lavoro sotto il segno della speranza e tutte le sere lo conclude nella disperazione”.4 Nel
febbraio del 1912 Wittgenstein fu ammesso al Trinity College ed iniziò a seguire i corsi di logica.
Come già accaduto nei suoi incontri con Russell, egli si dimostrò un allievo piuttosto difficile.
“Prese a farmi lezione sin dal nostro primo incontro” dichiarò seccato uno dei suoi professori.5
Durante il suo soggiorno a Cambridge, negli anni 1912-1913, Wittgenstein strinse amicizia con il
filosofo G. E. Moore e con l’economista J. M. Keynes. Su richiesta di Russell, nel 1913 egli si
decise a mettere un po’ di ordine nei propri appunti e a scrivere un resoconto dei progressi fino ad
allora compiuti. Wittgenstein era ossessionato dall’idea di morire prima di essere riuscito a
completare il proprio lavoro. Il suo amico David Pinsent annotò nel proprio diario: “[Wittgenstein]
1
In: Monk 45.
In: Monk 46.
3
In: Kenny 14.
4
In: Monk 50.
5
In: Monk 49.
2
ha un terrore morboso di morire prima di mettere a punto quella teoria [ovvero la revisione della
Teoria dei tipi, ndr], e prima di aver messo per iscritto tutti gli altri lavori di modo che risultino
comprensibili al mondo e di qualche utilità per la scienza logica. Ha già scritto molto, Russell gli ha
perfino promesso di pubblicare le sue opere caso mai dovesse morire, ma lui è convinto che la loro
formulazione non sia abbastanza precisa e non rispecchi con la necessaria chiarezza i suoi metodi di
pensiero ecc., che ovviamente sono più preziosi dei risultati raggiunti. Non fa che dire di essere
certo di morire entro quattro anni: oggi erano diventati addirittura due mesi”.6 Forse questo
irragionevole timore fu una delle cause che spinsero Wittgenstein a prendere la penna e a fissare i
punti principali delle teorie elaborate fino a quel momento. Nacquero così le Note sulla logica, che
rappresentano la prima testimonianza scritta del suo pensiero.
Di lì a poco Wittgenstein decise inaspettatamente di lasciare Cambridge e di trasferirsi in Norvegia
per studiare in solitudine. Russell tentò di dissuaderlo, ma fu tutto inutile: “Gli dissi che sarebbe
stato buio e mi rispose che detesta la luce del sole. Gli dissi che sarebbe stato completamente solo e
mi rispose che si prostituiva l’intelletto parlando con la gente intelligente. Gli dissi che era pazzo e
mi rispose ‘Dio mi protegga dalla saggezza’. (E speriamo proprio che Dio lo protegga)”.7 Dal 1913
al 1914, salvo brevi interruzioni, Wittgenstein visse a Skjolden, sulla sponda di un fiordo, isolato
dal resto del mondo. Il soggiorno norvegese rappresentò per lui un periodo di grande creatività.
“All’epoca il mio cervello era infuocato!” dirà anni più tardi.8 E scrivendo a Russell: “Mi sembra
che stia crescendo dentro di me ogni specie di pianta logica, ma per il momento non sono ancora in
grado di scriverne”.9
Nell’aprile del 1914 Wittgenstein invitò a Skjolden George Edward Moore, al quale dettò i risultati
delle proprie indagini. Nelle note trascritte da Moore, Wittgenstein delineava quella distinzione tra
dire e mostrare che diventerà poi uno dei cardini della teoria esposta nel Tractatus. L’obiettivo
fondamentale di Wittgenstein era la sostituzione della Teoria dei tipi di Russell con una nuova
teoria dei simboli “la quale mostri che generi differenti di cose sono simbolizzati da generi
differenti di simboli che non possono essere sostituiti l’uno con l’altro” (LR 244).
Al suo ritorno a Cambridge, Moore si informò se il manoscritto (intitolato provvisoriamente:
Logica) potesse garantire a Wittgenstein il diploma di Bachelor of Arts al Trinity College. La
risposta fu negativa: il regolamento del college disciplinava rigidamente la struttura cui doveva
uniformarsi un elaborato e lo scritto di Wittgenstein non rientrava nei parametri richiesti.
Wittgenstein andò su tutte le furie e se la prese col povero Moore: “Caro Moore, la sua lettera mi ha
molto contrariato. Quando scrissi Logica non mi curai di consultare i Regolamenti, sicché ritengo
che sarebbe più che onesto se mi si desse il mio diploma senza andare tanto a consultarli! (…) Se
non son degno che si faccia un’eccezione per me riguardo ad alcuni stupidi dettagli, allora tanto
vale mandarmi al diavolo senza tanti ambagi, e se io ne sono degno e lei non lo fa, allora, per Dio!,
ci vada lei. L’intera faccenda è troppo idiota e troppo bestiale per continuare a scriverne”.10
Questa vivace reazione dipese probabilmente dallo stato di esaurimento fisico e nervoso in cui
venne a trovarsi Wittgenstein dopo lo sforzo produttivo dei mesi precedenti. Dominato da
un’esigenza di chiarezza che si traduceva in un’esasperante ricerca della perfezione, Wittgenstein
incontrava grandi difficoltà nel mettere in chiaro i propri pensieri ed era costantemente insoddisfatto
dei risultati raggiunti. Nei suoi diari annoterà: “La mia difficoltà è solo una – enorme – difficoltà
d’espressione” (Q 133). Il fatto che Wittgenstein abbia pubblicato così poco materiale durante la
sua vita è da ascriversi proprio a questa ricerca quasi maniacale della forma espressiva perfetta.
Ma i problemi di Wittgenstein erano anche di natura morale e si collegavano a quell’esigenza di
fare i conti con se stesso cui egli accenna in una lettera a Russell: “Come potrò mai essere un logico
6
Pinsent 107.
In: Monk 98.
8
In: Monk 101.
9
Ibidem.
10
In: Monk 108-109.
7
prima di essere un umano?”.11 Fu probabilmente tale necessità interiore di mettersi alla prova per
scoprire il proprio autentico io che spinse Wittgenstein, allo scoppio della Prima guerra mondiale,
ad arruolarsi come volontario nell’esercito austro-ungarico. “Wittgenstein riteneva che l’esperienza
di affrontare la morte lo avrebbe in qualche modo arricchito. Andò in guerra, si potrebbe dire, non
per il proprio paese ma per se stesso”.12
La sua prima destinazione, nel settembre del 1914, fu il fronte orientale, su un battello che
pattugliava il fiume Vistola. In questo periodo Wittgenstein lesse le Spiegazioni dei vangeli di
Tolstoj e si accostò alla fede cristiana. I suoi compagni lo chiamavano ‘l’uomo coi vangeli’.
Nonostante le difficoltà connesse al suo nuovo stato, Wittgenstein iniziò la stesura del Tractatus
annotando le proprie osservazioni su una serie di taccuini che portava sempre con sé nello zaino
militare. Nel dicembre del 1914 venne trasferito in un'officina di artiglieria, dove godette di una
maggiore tranquillità per proseguire i suoi studi. Lesse i Saggi di R. W. Emerson, l’Anticristo di
Nietzsche e I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Nell’ottobre del 1915 stese una prima redazione
del Tractatus, andata purtroppo perduta. Dal marzo del 1916 fu trasferito sulla linea del fuoco, sul
fronte russo. Interrotti i contatti con Russell e l’ambiente di Cambridge, Wittgenstein attraversò un
periodo molto difficile riuscendo tuttavia a portare avanti il proprio lavoro e distinguendosi anche
nelle azioni di guerra per il suo coraggio (acquisito il grado di ufficiale di artiglieria, nel 1917 venne
decorato con la medaglia d’argento al valore militare).
Nel marzo 1918, crollato il fronte russo e firmata la pace di Brest-Litovsk, Wittgenstein fu trasferito
sul fronte italiano. Nell’agosto dello stesso anno terminò la stesura del suo libro e ne inviò una
copia all’editore Jahoda, che però rifiutò di pubblicarlo; fu la prima di una lunga serie di risposte
negative, ma Wittgenstein aveva in quel momento ben altro di cui preoccuparsi: in ottobre cadde
infatti prigioniero dagli Italiani e fu trasferito in un campo di prigionia prima a Como e poi a
Cassino (dove rimarrà dal gennaio all’agosto 1919). Riuscito a riprendere il contatto epistolare con
Russell, gli comunicò di aver terminato la sua opera, per la quale aveva scelto il titolo di LogischPhilosophische Abhandlung. Wittgenstein temeva che il libro fosse troppo innovativo per essere
compreso, e le sue paure risultarono purtroppo fondate. Russell e Frege, cui era stata inviata una
copia manoscritta dell’opera, manifestarono molte riserve sul contenuto del testo e riconobbero
francamente di non aver compreso molto di esso. Ciò contribuì ad accentuare lo stato di sconforto
in cui versava Wittgenstein per le difficoltà di pubblicazione dell’opera: nessuno degli editori
contattati sembrava infatti disposto a rischiare su un’opera così singolare, e le lettere di rifiuto si
susseguivano inesorabili. Ancora nel 1929, quando il Tractatus fu presentato come tesi di laurea al
Trinity College di Cambridge, Wittgenstein era intimamente persuaso che quasi nessuno avesse
compreso la lezione del suo libro: al termine dell’esame, alzatosi dalla sedia, egli andò a battere
sulle spalle di Moore e Russell dicendo: “Non preoccupatevi troppo, tanto lo so bene che non lo
capirete mai”.13
Liberato dal campo di prigionia, Wittgenstein tornò a Vienna. Era uno degli uomini più ricchi di
tutta l’Austria14, ma il suo primo atto una volta rientrato in patria fu di rinunciare all’eredità paterna
e di iscriversi ad un corso per diventare maestro elementare. La scelta di abbandonare gli studi
filosofici era in fondo coerente con il giudizio negativo espresso sulla filosofia nel Tractatus e con
la convinzione di aver detto nella sua opera tutto quanto fosse possibile esprimere sensatamente
(nella sua Prefazione, Wittgenstein scrive: “La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra
intangibile e definitiva. Sono dunque dell’avviso d’aver definitivamente risolto nell’essenziale i
problemi”). Depresso e in preda alla sindrome del reduce (continuerà per anni a indossare una
logora divisa dell’esercito), Wittgenstein meditò a più riprese il suicidio (già tre dei suoi fratelli si
erano tolti la vita). Era comunque convinto che il suicidio fosse un errore: “Sinché una persona vive
11
In: Monk 103.
Monk 118.
13
Monk 269.
14
Il padre di Ludwig, Karl, era “l’eguale di un Krupp in Germania o un Carnegie negli Stati Uniti” (Jaccard 13).
12
non è del tutto perduta. E invece, ciò che spinge una persona al sucidio è proprio il timore di essere
del tutto perduta”.15
Nonostante le difficoltà a trovare un editore per il Tractatus, Wittgenstein rifiutava l’idea di
pubblicare il libro a proprie spese: “Il mio lavoro è di modestissima mole, circa sessanta pagine. Ma
chi scrive sessanta paginette su questioni filosofiche? Gli unici sono quegli scribacchini disperati
che non possiedono né lo spirito dei grandi né l’erudizione dei professori, e, tuttavia, desiderano ad
ogni costo pubblicare qualcosa. Perciò tal genere di prodotti viene solitamente pubblicato a spese
dell’autore. Ma io non posso mescolare tra questi scritti l’opera della mia vita: perché di questo
appunto si tratta”.16
Le speranze di pubblicazione si appuntarono ad un certo punto su Ludwig Von Ficker, editore della
rivista letteraria Der Brenner: Wittgenstein scrisse una lettera di presentazione spiegando a Von
Ficker il significato dell’opera: “Il mio lavoro si compone di due parti: ciò che ho scritto, più tutto
ciò che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è importante. Grazie al mio libro, l’etico
viene per così dire delimitato dall’interno; e sono convinto che, in senso stretto, l’etico sia da
delimitarsi solo in questo modo. In breve, credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera,
io, nel mio libro, l’ho definito semplicemente tacendone. Perciò, a meno che non mi sbagli del tutto,
questo libro dirà molte cose che anche lei vuol dire, magari senza nemmeno accorgersi che vi
vengono dette. Nel frattempo, vorrei raccomandarle la lettura della prefazione e delle conclusioni,
perché esprimono le cose nella maniera più immediata”.17 Von Ficker si riservò di decidere dopo
aver consultato un professore di filosofia, ma Wittgenstein si mostrò tutt’altro che favorevole
all’idea: se nemmeno Frege e Russell avevano compreso la lezione del Tractatus non v’era speranza
che qualcun altro riuscisse nell’impresa. “Sottoporre un lavoro di filosofia a un professore di
filosofia è come gettare perle ai porci. […] Del resto non ne capirà una parola”.18 Anche questo
tentativo si risolse così in un fallimento.
Le cose cambiarono dopo che Russell, con il quale Wittgenstein aveva discusso il libro parola per
parola durante un incontro in Olanda, accettò di scrivere una introduzione al Tractatus. Il fatto che
un autore affermato e conosciuto internazionalmente quale era Russell si facesse garante del valore
dell’opera riuscì in effetti a convincere gli editori ad interessarsi al lavoro di Wittgenstein. Il
Tractatus (ancora intitolato Logisch-Philosophische Abhandlung) venne così pubblicato nel 1921 su
una rivista tedesca, Annalen der Naturphilosophie, diretta dal chimico Wilhelm Ostwald.
L’edizione era zeppa di errori tipografici e a Wittgenstein non fu data nemmeno la possibilità di
correggere le bozze. L’insoddisfazione di Wittgenstein crebbe ulteriormente per il fatto che
l’introduzione scritta da Russell conteneva a suo avviso gravi fraintendimenti della dottrina esposta
nell’opera.
Finalmente nel 1922 fu pubblicata l’edizione inglese, nella traduzione di Frank Ramsey e Cecil K.
Ogden. Il titolo Logisch-Philosophische Abhandlung fu cambiato in Tractatus logico-philosophicus
su proposta di G. E. Moore, ispiratosi al famoso Tractatus theologico-politicus di Spinoza (Moore
aveva colto alcune analogie tra le proposizioni finali del Tractatus e l'opera di Spinoza).
Wittgenstein aveva a quel punto già intrapreso la carriera di maestro elementare e continuò a
mantenersi lontano dagli studi logici e filosofici fino alla fine degli anni Venti (abbandonato
l’insegnamento, egli avrebbe lavorato come giardiniere in un convento e successivamente come
architetto insieme all’amico Paul Engelmann). Wittgenstein ritornò a Cambridge solo nel 1929,
scoprendo che il Tractatus logico-philosophicus lo aveva già da tempo consacrato come uno dei
massimi pensatori della scena mondiale.
15
In: Monk 190.
In: Monk 182.
17
In: Monk 182-183.
18
In: Monk 183.
16
2. La struttura del libro.
Il Tractatus logico-philosophicus si compone di sette proposizioni principali e dei corollari a queste
proposizioni, ordinati secondo un sistema di numerazione decimale che serve a mettere in rilievo
l’importanza di ogni singolo enunciato. Ad esempio, la proposizione 1 è più importante della 1.1 (il
cui contenuto presuppone quanto viene affermato nella 1), la quale è a sua volta più importante
della 1.11, etc.. In realtà Wittgenstein non rispetta sempre tale criterio e capita pertanto di trovare in
posizione subordinata osservazioni degne di maggiore rilievo. Le sette proposizioni fondamentali
costituiscono la struttura portante di tutta l’opera e la loro sequenza descrive sinteticamente
l’impianto teorico del Tractatus:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Il mondo è tutto ciò che accade.
Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.
L’immagine logica dei fatti è il pensiero.
Il pensiero è la proposizione munita di senso.
La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.
La forma generale della funzione di verità è: [ p , ξ , N( ξ ) ].
Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.
Il numero di enunciati subordinati a queste proposizioni di base è variabile: la numero 1 comprende
ad esempio soltanto sei corollari, mentre la 5 e la 6 ne contano diverse decine e la proposizione
numero 7 viene presentata senza alcun commento. Il Tractatus è caratterizzato da un’architettura
severa che richiede al lettore un impegno ed un’adesione costanti. “Con i miei numerosi segni
d’interpunzione, ciò che in realtà vorrei è rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei essere letto
lentamente. (Come leggo io stesso)” (PD 129). Wittgenstein presenta ogni pensiero nella forma di
un’asserzione che non ammette repliche (Bertrand Russell paragonò le proposizioni del Tractatus
agli ordini dello Zar) e non si cura molto di argomentare le proprie conclusioni. Chi sappia
collegare le fredde e laconiche osservazioni di Wittgenstein nel disegno generale dell’opera, però,
non potrà non apprezzare la bellezza essenziale e priva di fronzoli del Tractatus. La ricerca della
chiarezza espressiva senza alcuna concessione al dettaglio ornamentale e alla decorazione (“ogni
ornamento è un crimine”) accomunava Wittgenstein agli esponenti della nuova architettura
viennese come Adolf Loos, sostenitore di una cifra stilistica rigorosa e lineare. Da questo punto di
vista, il Tractatus può essere considerato come il risultato di un faticoso lavoro di distillazione del
materiale preparatorio mirante a concentrare fino alla sua essenza più pura il nucleo delle tesi
originarie. Preparando la stesura definitiva del libro per l’edizione inglese, Wittgenstein aveva
scritto una serie di aggiunte che (a parte una) non furono poi inserite nella redazione finale.
L’editore inglese chiese a Wittgenstein se fosse possibile inserire tali aggiunte per ampliare (e
rendere più comprensibile) l’opera. Ricevette questa risposta:
“Le aggiunte sono esattamente ciò che non deve pubblicarsi. E a parte il fatto
che non contengono alcuna delucidazione di sorta, sono ancor meno chiare delle
restanti proposizioni. Per quanto poi riguarda la brevità del libro ne sono
veramente costernato: ma cosa posso farci? Se lei mi spremesse come un
limone non ne caverebbe nemmeno una goccia. Lasciarle stampare le aggiunte
sarebbe una cosa irrimediabile. Sarebbe esattamente come se lei andasse da un
falegname a ordinare un tavolo e quello glielo facesse troppo corto e allora
volesse venderle i trucioli, la segatura e tutti gli altri scarti unitamente al tavolo
per rimediare al fatto che è corto. (Piuttosto che pubblicare le aggiunte per
ingrassare il libro, si lascino una dozzina di fogli bianchi a disposizione del
lettore per riempirli di imprecazioni quando dopo aver comprato il libro non ci
capisce nulla.)”.
Questo episodio e molti altri testimoniano il fatto che Wittgenstein considerava la forma del
Tractatus, per quanto ardua per il lettore, impossibile da modificare senza stravolgere il messaggio
stesso dell’opera. Forma e contenuto del Tractatus devono quindi considerarsi un’unità inscindibile:
gli insegnamenti che Wittgenstein intendeva comunicare potevano essere veicolati soltanto nella
forma espressiva scelta dall’autore.
Al di là dell’ordine di successione imposto ai singoli enunciati, nella trama del Tractatus si assiste
al costante e regolare riemergere delle idee fondamentali e al loro inquadramento prospettico
secondo una molteplicità di punti di vista differenti. La struttura dell’opera è stata in questo senso
paragonata felicemente ad una composizione musicale “i cui leitmotiv ricompaiono di continuo in
sottili modulazioni”.19 Il lettore si trova così ripetutamente posto di fronte alle ‘verità’ essenziali del
messaggio rendendosi conto che ogni sentiero del percorso suggerito da Wittgenstein, per quanto in
apparenza tortuoso e divergente dalla strada principale, lo riconduce infine sempre ad uno stesso
scenario di fondo (in questo senso ogni enunciato, anche quelli che a prima vista appaiono di
secondaria importanza, è comunque funzionale allo sviluppo di una delle molteplici linee
argomentative di cui si compone l’opera: “Delle frasi che scrivo solo una ogni tanto fa un passo
avanti; le altre sono come lo scatto delle forbici del barbiere, che deve continuare a muoverle per
dare un taglio al momento giusto”, PD 126).
L’idea di un itinerario filosofico che conduca il lettore a ‘vedere’ la verità del messaggio, un
percorso insomma che si limiti a ‘mostrare’ e a dischiudere l’orizzonte del visibile, era del resto
profondamente coerente con l’idea che Wittgenstein aveva maturato a proposito del sapere
filosofico: “Wittgenstein pensava (ed è un’idea a cui sarebbe rimasto sempre fedele) che essendo la
filosofia “puramente descrittiva” essa non contenga deduzioni. [...] Conformemente a questa
convinzione, il Tractatus non è organizzato (almeno in superficie) come una successione di
argomentazioni, ma come una sequenza di osservazioni. L’ordine delle osservazioni, e il loro ruolo
gerarchico, indicato (almeno in teoria) dal numero scritto a sinistra di ciascuna osservazione,
dovrebbe guidare il lettore non lungo un percorso argomentativo, ma piuttosto a “vedere” come
stanno le cose; così come si potrebbe pensare di guidare qualcuno a osservare un paesaggio
attirando la sua attenzione prima sui tratti più salienti, poi sui dettagli (prima su una catena di
montagne, poi su ciascuna montagna, poi sui villaggi ai piedi di ciascuna montagna, e così via)”. 20
Il Tractatus logico-philosophicus, come Wittgenstein afferma nella sua Prefazione, non è dunque
un ‘manuale’: il suo scopo non è fornire una serie di contenuti dottrinali precostituiti, bensì
(socraticamente) porre il lettore nel giusto angolo prospettico per cogliere da sé la verità. La
metafora più efficace per descrivere il Tractatus logico-philosophicus è allora quella della scala, cui
Wittgenstein accenna nella proposizione 6.54 del testo. I singoli enunciati del Tractatus sono i come
i gradini di una scala che il lettore sale fino a raggiungere un punto di vista che gli consente di
vedere quanto prima si celava al suo sguardo. Arrivati al vertice della struttura (cioè una volta giunti
alla proposizione finale dell’opera e assimilata la lezione del libro), ognuno di noi “vede rettamente
il mondo” (6.54) ed è in grado di agire in esso senza più il rischio di cadere negli equivoci e negli
errori tramandati dalla tradizione filosofica. Questo modo di considerare il testo ci suggerisce anche
quale valore debba essere attribuito al Tractatus una volta che esso abbia svolto la sua funzione. Nel
momento stesso in cui abbiamo raggiunto il livello prospettico adeguato, ci dice Wittgenstein, la
19
Black 12. Wittgenstein era dotato di grande sensibilità per la musica. Nella casa dei Wittgenstein a Vienna erano
spesso ospitati compositori di fama come Mendelssohn e Brahms. “C’è persino una somiglianza di famiglia tra le
strutture logiche, i motivi e le intenzioni del Tractatus e quelli della teoria musicale di Schönberg: perché anche
Schönberg è guidato dalla convinzione che il “linguaggio” attraverso cui egli si esprime, la musica, deve essere
innalzato ad un grado di necessità logica tale che eliminerebbe tutti gli incidenti soggettivi” (E. Heller in: Bouveresse
21).
20
Marconi 1997, 18 n. 9.
scala che ci ha reso possibile l’ascesa non serve più a nulla e bisogna perciò disfarsene senza
rimpianti. Perché il Tractatus logico-philosophicus è servito a mostrarci e indicarci la strada da
percorrere ed esaurisce il suo compito una volta che noi, i lettori, ci siamo incamminati nella
direzione giusta. Continuare a fissare i nostri sguardi sul libro equivarrebbe ripetere l’errore di
quello sciocco cui veniva indicata la luna e che invece di guardare in direzione del cielo
concentrava la sua attenzione sul dito teso del suo interlocutore.
_Scheda 1: La Prefazione di Wittgenstein – Le
finalità del Tractatus.
“Se gli avessero chiesto in qualunque momento, mentre
compilava trattati di geometria o di logica matematica,
oppure di scienze naturali, quale scopo egli si proponesse,
avrebbe risposto che un solo problema valeva veramente la
pena di essere meditato, e cioé quello del vivere giusto”.
(Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, I, 246)
Nella Prefazione al Tractatus, Wittgenstein espone per sommi capi le finalità dell’opera.
Innanzitutto, il libro intende chiarire in modo esaustivo (la teoria esposta è infatti definita
“intangibile e definitiva”) che i problemi filosofici nascono da un uso errato del linguaggio: la
definizione esatta delle regole logiche che governano gli enunciati della lingua servirà pertanto a
stabilire quale sia l’uso sensato delle nostre proposizioni e, nel contempo, quale sia il limite
invalicabile del linguaggio (al di là di questo limite tutto sarà nonsenso).
Wittgenstein, pur dichiarando di non essere interessato al fatto che altri filosofi possano aver già
discusso tesi comprese nel Tractatus, si riconosce debitore nei confronti di Frege e di Russell per i
loro studi innovatori nel campo della logica. Questo non vuol dire che il pensiero di Wittgenstein
non sia stato influenzato, come mostreremo di volta in volta, da altri pensatori; è comunque un dato
di fatto che Wittgenstein non ebbe una vera e propria formazione filosofica (studiò infatti
ingegneria e si accostò relativamente tardi alla filosofia) e che al tempo della stesura del Tractatus
egli considerava la logica come l’unica chiave per risolvere i problemi filosofici.
Il senso generale del Tractatus, secondo l’autore, è sintetizzabile in questa breve affermazione:
“Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Visto che
questo pensiero sarà ribadito nella proposizione finale (la numero 7), si può dire che Wittgenstein
saldi ad anello l’inizio e la conclusione del Tractatus per far meglio risaltare l’insegnamento
fondamentale dell’opera.
Indagata la natura e le condizioni del linguaggio, Wittgenstein mostrerà che l’unico uso sensato
delle nostre proposizioni è quello descrittivo: gli enunciati della lingua sono raffigurazioni di fatti e
finché si userà il linguaggio per comunicare contenuti rappresentativi sarà possibile esprimersi in
modo corretto. L’ambito di quel che “si può dir chiaro”, dunque, corrisponde senza riserve
all’ambito della descrizione di fatti: ne consegue che solo le proposizioni della scienza naturale
rientrano a pieno diritto nella sfera delle proposizioni dotate di senso (cfr. 6.53). I problemi di cui si
occupa la filosofia non possono invece essere formulati in proposizioni sensate perché tendono a
proiettare il soggetto conoscitivo oltre la sfera dei fatti. Così, quando la metafisica si interroga sui
fondamenti del mondo fenomenico chiamando in causa concetti quali “Essere”, “Anima”,
“Essenza”, etc., assistiamo alla pretesa di usare il linguaggio in senso non naturale (cioé non
descrittivo) con l’unica conseguenza di creare fraintendimenti e nonsensi; e lo stesso accade quando
in campo morale si pretende di indagare questioni come il Valore o il significato dell’esistenza.
Quest’ordine di problemi, facendo riferimento ad un livello di realtà sganciato dall’ambito dei fatti,
non può essere contenuto in parole significanti e va perciò consegnato al silenzio (su ciò di cui non
si può parlare si deve appunto tacere).
Wittgenstein giunge a questa radicale conclusione al termine di un’indagine volta a stabilire le
condizioni ed i limiti di quanto è pensabile ed esprimibile. Questa impostazione è stata spesso
accostata al problema critico affrontato da Kant nella Critica della ragion pura. Vi sono in effetti
molte analogie tra l’indagine di Kant e quella di Wittgenstein (ad esempio, entrambi sottolineano il
valore dell’esperienza ed escludono che la metafisica possieda lo status di scienza); tuttavia, nella
Prefazione al Tractatus è contenuta una precisazione polemica che colpisce un aspetto essenziale
della concezione kantiana. Kant aveva distinto tra l’ambito del fenomeno (inteso come il risultato
del mio modo a priori di conoscere) e quello del noumeno (o cosa in sé, esistente fuori di noi ma
inconoscibile). La cosa in sé era considerata da Kant come “un pensiero vuoto” (nel senso che ad
essa non poteva corrispondere un’intuizione sensibile), ma la sua esistenza doveva tuttavia essere
correlata a quella del fenomeno al fine di stabilire il principio dell’indipendenza della realtà “in sé”
dal pensiero ed evitare così il rischio di scivolare in una posizione compiutamente idealista. Il
noumeno, collocandosi esternamente al raggio della nostra conoscenza, si costituiva così quale
limite invalicabile della facoltà conoscitiva (e dato che la conoscenza umana può applicarsi soltanto
al campo dei fenomeni, Kant, nella Dialettica trascendentale, sottoponeva ad una critica serrata
ogni tentativo di estendere la nostra conoscenza oltre i suoi limiti naturali allo scopo di illuminare il
livello noumenico della realtà).
Wittgenstein accetta la tesi secondo la quale è impossibile conoscere quanto si trova oltre il limite
della conoscenza, ma ritiene che la posizione kantiana contenga una contraddizione. Quando Kant
si esprime riguardo alla pensabilità del noumeno, infatti, avviene proprio quello sconfinamento in
direzione dell’impensabile che avevamo dichiarato illecito.
Il limite è un concetto di natura spaziale ed è inevitabilmente legato alla distinzione tra un luogo
“interno” ed un luogo “esterno”: ogni volta che delimitiamo uno spazio per mezzo di un linea, in
altri termini, quel che otteniamo è una separazione tra ciò che è all’interno del limite e ciò che si
trova fuori di esso. Spinoza osservava a questo proposito che “nessuno può concepire i limiti di una
qualche estensione o spazio senza contemporaneamente concepire oltre essi altri spazi che lo
seguano immediatamente”.21 Se l’idea di limite chiama in causa automaticamente l’idea di un luogo
“esterno”, ne consegue che non è possibile tracciare un limite al pensiero: infatti, questa pretesa
metterebbe subito capo alla situazione assurda di concepire quel che per definizione dovrebbe porsi
al di fuori di ogni possibile pensiero (ne è appunto un esempio il noumeno kantiano, come già prima
di Wittgenstein avevano rilevato i filosofi idealisti). “Per tracciare al pensiero un limite – osserva
Wittgenstein nella Prefazione al Tractatus- dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite
(dovremmo dunque poter pensare quel che pensare non si può)”.
Per superare questa contraddizione, Wittgenstein si propone di tracciare un limite non al pensiero
bensì all’espressione dei pensieri, reimpostando così il problema kantiano da un punto di vista
strettamente linguistico (di qui la distinzione tra ciò che può essere espresso in modo sensato e ciò
che non può trovare posto nel linguaggio). Quel confine che Kant aveva stabilito in rapporto ad un
elemento (il noumeno) esterno alla facolta conoscitiva deve essere cercato procedendo dall’interno
del linguaggio, tentando di “delimitare l’impensabile dal di dentro attraverso il pensabile” (4.114).
Il limite del linguaggio non può dunque essere concretizzato al modo di un confine spaziale perché
così facendo evocheremmo immediatamente anche ciò che si trova oltre esso (e ci troveremmo,
come Kant, a parlare di quanto non è possibile esprimere). Ciò comporta in un certo senso lo
“sparire” del limite, cioé la sua trascendenza rispetto al campo prospettico della conoscenza umana.
Il campo visivo dell’occhio risulta di fatto senza limiti perché l’occhio non può coglierne il margine
estremo (cfr. 6.4311); allo stesso modo, i limiti del linguaggio non possono essere descritti
21
Spinoza 164.
all’interno del linguaggio stesso e finiscono perciò per assomigliare ad un orizzonte irraggiungibile
ed invalicabile. Tutto ciò che dobbiamo e possiamo fare, al fine di chiarire i limiti dell’espressione
sensata, si riduce perciò a rappresentare chiaramente il dicibile (4.115). L’uomo, per così dire, si
muove sempre nel linguaggio senza possibilità di trascenderlo in direzione di un impensabile “al di
fuori”: quel che non si può dire deve rimanere assolutamente inesprimibile e non c’è modo di
aggirare il divieto (di qui la costante preoccupazione, da parte di Wittgenstein, di escludere ogni
prospettiva che possa generare l’illusione di poter trascendere il linguaggio).
I limiti del mio linguaggio significano sempre i limiti del mio mondo (5.6) e quindi non possiamo
mai affermare: “Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no. Ciò parrebbe infatti presupporre che
noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe
trascendere i limiti del mondo; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato. Ciò,
che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo
pensare” (5.61). Il senso ultimo della lezione kantiana va colto proprio nell’impossibilità di
‘aggirare’ il linguaggio: “Il limite del linguaggio si mostra nell’impossibilità di descrivere il fatto
che corrisponde a una proposizione (che è la sua traduzione) senza appunto ripetere la proposizione.
(Abbiamo qui a che fare con la soluzione kantiana del problema della filosofia)” (PD 32). Ma
accettando questa lezione noi siamo costretti ad andare oltre Kant riconoscendo come insensato
anche il tentativo di illuminare per mezzo del linguaggio le condizioni a priori che ne consentono la
relazione raffigurativa con la realtà. Per conoscere le sue condizioni a priori, infatti, noi dovremmo
inevitabilmente evadere dal linguaggio per esprimerci su di esso. Colpendo un altro fondamentale
aspetto della filosofia kantiana, Wittgenstein destituisce perciò di ogni fondamento la pretesa di
costruire una conoscenza di tipo trascendentale che abbia ad oggetto le modalità di funzionamento
del linguaggio. Se ogni tentativo di abbandonare il piano del linguaggio per guadagnare regioni ad
esso esterne o superiori deve condurre al nonsenso allora operazioni come quelle rappresentate nella
seguente figura sono sempre illegittime (e ciò cui tendono le due frecce è semplicemente
impensabile):
Se il progetto di Wittgenstein possa dirsi riuscito e se la delimitazione “dall’interno” sia esente dalle
contraddizioni che si intendeva scansare sono questioni che è prematuro sollevare. Per valutare la
complessità della posizione di Wittgenstein basta pensare che egli sottolineò spesso l’importanza
fondamentale proprio di quanto risulta “indicibile”. Parlando del Tractatus, ad esempio,
Wittgenstein scrisse: “Il mio lavoro si compone di due parti: ciò che ho scritto; più tutto ciò che non
ho scritto. E proprio questa seconda parte è importante”.22
Quel che nel Tractatus è chiamato “il mistico” o “l’etico”, per quanto inesprimibile, è ciò che più
stava a cuore al filosofo viennese perché a tale livello trascendente è legata la possibilità di
comprendere il mistero dell’esistenza. E proprio in ciò risiede la differenza tra Wittgenstein ed i
filosofi del Circolo di Vienna, i quali si richiamarono spesso alla lezione del Tractatus. Paul
Engelmann osservò a questo riguardo: “Il Positivismo sostiene, e questa è la sua essenza, che ciò
che conta nella vita è ciò di cui possiamo parlare, mentre Wittgenstein crede appassionatamente che
ciò che conta veramente nella vita umana è proprio quello di cui, dal suo punto di vista, si deve
22
In: Monk 82.
tacere. Quando, con immensi sforzi, [Wittgenstein] delimita ciò che non è importante (e cioé gli
scopi e i limiti del linguaggio ordinario), non sta misurando le coste dell’isola che esplora con tanta
meticolosità, ma i confini dell’oceano”.23
Il rigore dell’analisi di Wittgenstein, insomma, si accompagna alla continua tensione verso ciò che
per natura si sottrae alle capacità definitorie ed espressive del linguaggio. In questa associazione di
“volontà di chiarezza e di aspirazione al trascendente”, Wittgenstein rivela una stretta affinità con le
idee dello scrittore viennese Robert Musil, autore de L’uomo senza qualità. Sia Wittgenstein che
Musil sono dominati (come notava Cesare Cases) dall’esigenza di servirsi del lavoro analitico della
ragione e “di spingerlo fino al punto in cui appaiono i contorni del paese della trascendenza”.24
Ulrich, il protagonista del romanzo di Musil, oscilla di continuo tra due differenti impulsi: il primo
è rivolto all’esattezza, alla precisione, all’analisi rigorosa della realtà secondo schemi logicomatematici ed alla verifica empirica propria delle scienze fisiche; il secondo impulso mira invece
alle verità superiori, non traducibili in parole, determinando una continua tensione a scavalcare il
livello empirico dei fatti al fine di cogliere il senso profondo che si cela dietro l’apparenza
fenomenica. Come per Ulrich, così anche in Wittgenstein convivono due pulsioni apparentemente
incompatibili verso la logica e verso il misticismo; e l’esigenza dell’ordine e dell’esattezza, anziché
annullare la tensione mistica, finisce proprio per evocarla come suo naturale complemento.
Certo, il linguaggio non consente di penetrare nella regione del trascendente, ovvero, riprendendo
l’esempio di Engelmann, il filosofo non può abbandonare l’isola di cui è prigioniero (leggi:
l’ambito delle proposizioni dotate di senso) per intraprendere l’esplorazione dell’oceano (leggi:
l’ambito del valore, inesprimibile). Se si comprende ciò, si sono risolti d’un colpo i problemi
filosofici semplicemente annullandoli come problemi (cfr. 6.52 e 6.521). Allo stesso tempo, però,
nota Wittgenstein nelle ultime righe della sua Prefazione, è manifesto “quanto poco sia fatto
dall’esser questi problemi risolti”, ovvero: quanto rimanga da fare sul piano etico per diventare
persone degne una volta riconosciuto che certe risposte fondamentali non possono essere trovate
all’interno del linguaggio e per mezzo di esso. Nella proposizione 6.52 leggiamo: “Noi sentiamo
che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri
problemi vitali non sono ancora neppur toccati”. Vestendo i panni del logico, Wittgenstein può
affermare di aver guadagnato la via d’uscita per sottrarsi a problemi che per loro natura sono
insolubili. Ma per l’uomo Wittgenstein, per il filosofo, l’incapacità di impostare una soluzione
sensata dei problemi fondamentali dell’esistenza suona come uno scacco e rivela il dramma di un
pensatore che continuava a ritenere quei problemi come gli unici ad avere realmente valore.
_Note al Tractatus.
IL MONDO
(1 – 1.21)
1. Le proposizioni che aprono il Tractatus (1-2.063) descrivono la struttura della realtà e
definiscono le nozioni di “mondo”, “oggetto”, “stato di cose” e “fatto”. Questa sezione inaugurale, a
23
24
In: Janik-Toulmin 193.
Cases XXI.
dispetto della sua collocazione, fu probabilmente redatta dopo le parti dedicate alla logica e alla
teoria raffigurativa del linguaggio. Ciò si spiega tenendo conto del fatto che l’interesse primario di
Wittgenstein, quando cominciò a scrivere il Tractatus, era costituito dalle problematiche di natura
logica. Wittgenstein era comunque guidato dall’idea di una sostanziale unità di forma tra logica e
realtà (2.18). La progressiva definizione dei temi logici fornì quindi il supporto per le analisi di
natura ontologica, come Wittgenstein annotò nei Quaderni: “Sì, il mio lavoro s’è esteso dai
fondamenti della logica all’essenza del mondo” (Q 181). Le tesi riguardanti l’essenza della realtà, in
questo senso, devono sempre esser valutate quale riflesso e conseguenza di quell’ordine logico che
Wittgenstein riteneva fissato a priori ed immutabile. La proposizione 1 del Tractatus asserisce che il
mondo (o “realtà”, 2.063) è costituito da tutto ciò che accade. Dato che “ciò che accade” sono i fatti
(2), il mondo è costituito dalla totalità dei fatti (1.1).
1.1. Il mondo non si compone di cose ma di fatti. Gli “oggetti” (ovvero, le “cose”) sono entità
semplici (2.02) e costituiscono la sostanza del mondo (2.021); essi non sussistono separatamente gli
uni dagli altri, bensì risultano sempre collegati con altri oggetti (2.011). Il mondo è dunque
costituito da combinazioni di oggetti e non da oggetti isolati. Queste combinazioni di oggetti danno
vita agli stati di cose, che sono appunto nessi di oggetti (2.01), ovvero entità complesse costituite da
determinate configurazioni di oggetti.
Un fatto, ovvero “ciò che accade”, è poi definito come “il sussistere di stati di cose” (2). Il mondo,
sulla base di tale definizione, è allora costituito dalla totalità degli stati di cose sussistenti (2.04).
Bisogna sottolineare fin d’ora che mentre gli oggetti, per loro natura, sono sempre legati gli uni agli
altri nello stato di cose, gli stati di cose sono invece reciprocamente indipendenti (2.061, 5.135). Se
gli accadimenti di cui si compone il mondo sono tutti indipendenti tra loro, allora il livello dei fatti è
caratterizzato da un’assoluta contingenza (1.21).
1.11. Il mondo come aggregato di fatti è l’orizzonte che racchiude tutto ciò che accade e perciò non
è ammesso alcun altro livello di realtà oltre a questo: non vi sono fatti extra-empirici. “Il mondo è
costituito da tutti i fatti, ma non c’è un super-fatto (o fatto di ordine superiore) per cui non ci sono
più fatti” (Black 44). Vale a dire, il livello dei fatti esaurisce l’intera realtà.
1.12. L’insieme dei fatti di cui si compone il mondo costituisce la totalità di ciò che esiste (accade)
e, allo stesso tempo, determina anche tutto quel che non accade nel mondo. Più avanti Wittgenstein
ribadirà che il mondo è la totalità degli stati di cose sussistenti (2.04) e che questa totalità determina
anche quali stati di cose non sussistono (2.05). Dato un insieme di fatti sussistenti è dunque
immediatamente determinato anche ciò che di fatto non sussiste (non accade) nel mondo. Se ad
esempio io so che nel mondo sussiste il fatto che p (il libro si trova sul tavolo), allora so anche quel
che nel mondo non sussiste (ovvero so che il libro non si trova sul pavimento, oppure sul divano
etc.). Il non sussistere di una tale possibilità sarà definito da Wittgenstein un “fatto negativo”.
1.13. Lo spazio logico è generato dalle possibilità combinatorie degli oggetti, i cui nessi reciproci
danno origine agli stati di cose. In questo senso, ogni cosa si trova in “uno spazio di possibili stati di
cose” (2.013) e con gli oggetti sono immediatamente “dati” anche tutti gli stati cose possibili
(2.0124). Come lo spazio geometrico contiene virtualmente tutti gli oggetti spaziali
indipendentemente dal fatto che tali oggetti esistano o meno nello spazio fisico, così lo spazio
logico contiene tutte le possibili combinazioni di oggetti (ovvero tutti gli stati di cose)
indipendentemente dal loro sussistere o non sussistere in atto nella realtà. Uno stato di cose (in
tedesco: Sachverhalt), il quale è un’entità meramente possibile, viene definito da Wittgenstein un
fatto (in tedesco: Tatsache) qualora esso sussista nella realtà (cfr. 2: il fatto è “il sussistere di stati di
cose”). La distinzione tra stato di cose e fatto deve perciò intendersi come una distinzione modale
tra ciò che è possibile e ciò che è reale (ovvero sussistente in atto nella realtà). Da questo punto di
vista, asserire che il mondo è costituito dai fatti situati nello spazio logico equivale ad asserire che il
mondo è quanto otteniamo individuando nell’insieme degli stati di cose il sottoinsieme degli stati
cose sussistenti (cfr. 2.04: il mondo è la totalità degli stati di cose sussistenti).
1.2. Il mondo “si divide” in fatti, ovvero è un aggregato, un mosaico di fatti reciprocamente
indipendenti (1.21).
1.21. Un evento può accadere come non accadere “e tutto l’altro restare uguale”. Wittgenstein
sostiene l’indipendenza reciproca degli stati di cose: “Gli stati di cose sono indipendenti l’uno
dall’altro” (2.061). Pertanto, dall’accadere o non accadere di un certo stato di cose non può inferirsi
l’accadere o non accadere di un altro stato di cose (2.062, 5.135). Su queste basi, Wittgenstein
rifiuterà di attribuire un fondamento al nesso causale (il quale presuppone appunto un legame
necessario tra due accadimenti, cfr. 6.37). Se gli eventi di cui si compone il mondo possono
indifferentemente accadere o non accadere allora essi sono tutti contingenti e non sussistono tra essi
relazioni necessarie. L’unica necessità ammessa da Wittgenstein è quella logica (6.37), mentre tutto
ciò che vediamo e che possiamo descrivere “potrebbe essere altrimenti” (5.634).
OGGETTI, STATI DI COSE E FATTI
(2 – 2.063)
2. Un fatto (Tatsache) è il sussistere di stati di cose (Sachverhalte). “Il plurale va inteso
semplicemente come: il sussistere di uno o più stati di cose. Quindi, tra stato di cose e fatto c’è una
duplice differenza: in primo luogo uno stato di cose è un nesso meramente possibile di oggetti,
mentre un fatto è attuale, reale; in secondo luogo, quando parliamo di un fatto, non siamo vincolati
a intendere, con ciò, un solo stato di cose sussistente, ma includiamo anche il caso in cui esso sia
costituito da più stati di cose sussistenti” (Frascolla 2000, 124). La distinzione tra fatto e stato di
cose in termini modali (possibilità/realtà) pare in contrasto con quella, accreditata dallo stesso
Wittgenstein in una lettera a Russell, secondo la quale gli stati di cose sarebbero nient’altro che le
componenti atomiche dei fatti, e questi ultimi sarebbero aggregati molecolari di stati di cose. Scrive
Wittgenstein: “Qual è la differenza tra Tatsache e Sachverhalt? Sachverhalt è ciò che corrisponde a
un enunciato elementare, se questo è vero. Tatsache è ciò che corrisponde al prodotto logico di
proposizioni elementari quando questo prodotto è vero” (LR 252). Un fatto risulterebbe perciò dalla
congiunzione di due o più stati di cose. Considerare uno stato di cose come “fatto atomico”
lascerebbe però aperto il problema della giustificazione dell’esistenza delle proposizioni elementari
false, le quali sono immagini di stati di cose: “Se tutti gli stati di cose fossero fatti, cioè
sussistessero, non potrebbero esserci proposizioni elementari false – oppure una proposizione
elementare falsa non sarebbe l’immagine di uno stato di cose. […] Sembra che qui Wittgenstein
stesso sia stato sviato dal doppio uso della coppia: Sachverhalt-Tatsache: essa indica sia la
distinzione tra possibile e attuale, sia quella tra configurazione singola e combinazione di
configurazioni. Wittgenstein ha in mente questa seconda distinzione quando dice che “La struttura
del fatto consta delle strutture degli stati di cose” (2.034), e parla della possibilità che un fatto
“consti di infiniti stati di cose” (4.2211). I due usi non sono necessariamente incompatibili: uno
stato di cose è una singola configurazione possibile, un fatto è il sussistere “di stati di cose”, cioè di
una combinazione di stati di cose, che può anche consistere di un singolo stato di cose” (Marconi
1997, 25 n.22). L’ontologia del Tractatus si può riassumere schematicamente così: oggetti = entità
semplici; una possibile combinazione di oggetti = uno stato di cose; uno o più stati di cose
sussistenti = un fatto; la totalità dei fatti = la totalità di ciò che accade = il mondo.
2.01. Lo stato di cose è una configurazione o connessione di oggetti. Sappiamo che il mondo è
costituito di fatti, e non di cose (1.1). Le cose (oggetti) non esistono isolatamente le une dalle altre
ma si combinano insieme formando gli stati di cose. Nello stato di cose gli oggetti sono in relazione
reciproca (2.031) come le maglie di una catena (2.03).
2.011. “Un oggetto è, essenzialmente, un possibile costituente di uno stato di cose” (Kenny 92).
Mentre gli stati di cose sono reciprocamente indipendenti, gli oggetti, il cui nesso dà origine allo
stato di cose, sono sempre inseriti in un contesto (ovvero sono sempre legati l’uno all’altro nella
struttura dello stato di cose). L’oggetto contiene la possibilità del suo occorrere in stati di cose così
come un elemento chimico contiene virtualmente tutte le sue possibili combinazioni con altri
elementi, e non possiamo concepire alcun oggetto fuori della sua possibilità di essere collegato ad
altri oggetti (2.0121). Questa tesi può essere considerata affine a quella di Leibniz secondo cui “la
cosa, il soggetto deve contenere tutti i suoi possibili predicati” (Vanni Rovighi 541). La proprietà di
combinarsi reciprocamente per costituire un complesso è propria anche dei nomi, i quali hanno la
funzione di indicare gli oggetti (3.3).
2.012. La logica è l’ambito delle verità necessarie e quindi nulla è in essa accidentale (ciò che è
accidentale è sempre fuori della logica, cfr. 6.3). La possibilità di entrare in connessione con altri
oggetti è una proprietà “logica” (essenziale) dell’oggetto e come tale è necessariamente connessa al
suo esistere: in questo senso, la possibilità dello stato di cose dev’essere “pregiudicata” (cioè
contenuta necessariamente) negli oggetti stessi. Ogni possibile combinazione dell’oggetto con altri
oggetti è dunque generata dalla “forma” dell’oggetto stesso, vale a dire dalle sue proprietà logiche.
Non è però necessario, bensì accidentale, che di fatto sussistano nel mondo certe combinazioni di
oggetti piuttosto che altre. La logica determina solo l’insieme delle possibilità di combinazione (cfr.
2.0121) ma non determina quali possibilità si realizzano: l’ordine dei fatti rimane perciò
contingente.
2.0121. Se un oggetto può connettersi ad altri nello stato di cose, tale possibilità dev’essere già
connaturata ad esso. In questo senso è la logica a determinare l’insieme delle possibilità
combinatorie dell’oggetto: la logica tratta infatti “di ogni possibilità e tutte le possibilità sono i suoi
fatti”. Se così non fosse potremmo concepire gli oggetti come entità prive di relazioni le une con le
altre e a questo punto il legame di un oggetto con altri diventerebbe qualcosa di puramente
accidentale. Ma come un oggetto spaziale non può essere concepito fuori dello spazio, né un
oggetto temporale fuori del tempo, allo stesso modo nessun oggetto può concepirsi fuori dalla
possibilità di un nesso con altri oggetti.
2.0122. Solo astrattamente si può considerare un oggetto separato dal suo nesso con gli altri: anche
se un oggetto può non trovarsi inserito in una determinata relazione (in questo senso si manifesta la
sua indipendenza), tuttavia è impensabile che esso sia sganciato da ogni contesto possibile (e qui
viene in luce il suo essere dipendente). Allo stesso modo, un nome (la cui funzione è indicare un
oggetto) dev’essere sempre inserito nel contesto della proposizione: il nome può occorrere in
diverse proposizioni, ma da solo non può stare. Cfr: 3.3: “Solo la proposizione ha senso; solo nella
connessione della proposizione un nome ha significato”.
2.0123-2.01231. Le “proprietà interne” dell’oggetto corrispondono alle sue possibilità “logiche” di
combinarsi con altri oggetti per formare uno stato di cose; le proprietà esterne dell’oggetto
corrispondono invece alle sue relazioni con altri oggetti in uno stato di cose esistente. Stabilendo
un’analogia con il gioco degli scacchi, che una torre possa muoversi in orizzontale e verticale
dipende dalle proprietà interne di quel pezzo; che una certa torre si trovi sulla casella a2, e dunque
sia in una determinata relazione con i pezzi circostanti, è invece una proprietà esterna di quel pezzo.
Si può dire che in base alle proprietà interne dell’oggetto posso fare affermazioni necessarie a
priori, mentre le proprietà esterne sono contingenti e determinabili solo a posteriori. Conoscere un
oggetto significa conoscerne le proprietà interne, ovvero le proprietà essenziali: ad esempio,
conoscere una torre significa sapere quali sono le sue possibilità logiche (cioé come essa può
muoversi sulla scacchiera, il che ci consente di prevedere in quali combinazioni essa può trovarsi).
Conoscere un oggetto vuol dire appunto conoscere “tutte le possibilità del suo occorrere in stati di
cose”. Ogni possibilità è contenuta nella natura dell’oggetto: “Nello spirito, è una soluzione
aristotelica. Le forme che Russell aveva posto in un mondo platonico, Wittgenstein le tratta cone
caratteristiche essenziali degli oggetti. Ma è una strana versione dell’aristotelismo, perché l’unione
tra un oggetto e una forma non è un vero tipo di complessità, e dunque non può essere rispecchiata
in una proposizione” (Pears 78).
2.0124. Dato che ogni oggetto contiene in sé tutte le sue possibili combinazioni con altri oggetti
(ovvero, ogni oggetto contiene la possibilità di tutti gli stati di cose in cui può occorrere), allora se
sono dati tutti gli oggetti sono con ciò dati anche tutti i possibili stati di cose. Dalle proprietà
logiche degli oggetti si genera l’intera serie delle situazioni possibili, cioè l’intero spazio logico (cfr.
2.014).
2.013. Come una macchia non può non avere un colore ed un suono non può non essere
caratterizzato da un’altezza (2.0131), così l’oggetto in generale non può non trovarsi in
combinazione con altri. Un oggetto è dunque idealmente inserito in uno spazio di relazioni possibili
(“è come in uno spazio di possibili stati di cose”) e se da una parte posso concepire tale spazio come
vuoto (cioè posso concepire che di fatto non si realizzi alcuno stato di cose), dall’altra non posso
pensare un oggetto fuori dello spazio. L’argomentazione di Wittgenstein ricorda un passaggio della
Critica della ragion pura kantiana: “Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia
spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi alcun oggetto” (Kant 1781, 69).
2.0131. L’oggetto spaziale è idealmente collocato nello spazio infinito ed è inconcepibile che un
oggetto spaziale non occupi una porzione di spazio; v’è pertanto una somiglianza tra il luogo
spaziale e la “x” che compare in una funzione, la quale rappresenta un “luogo” in cui può trovar
posto un argomento. E’ ugualmente inconcepibile, aggiunge Wittgenstein, che un oggetto cromatico
non abbia un colore, o che un suono non possieda un’altezza, etc.. L’oggetto in generale deve
essere inserito in un reticolo di combinazioni possibili con altri oggetti.
2.014-2.0141. Negli oggetti è contenuta la possibilità di tutte le situazioni e ogni possibile
combinazione da cui si origina uno stato di cose dipende dalla forma degli oggetti. Riassumendo le
indicazioni fornite da Wittgenstein, si può affermare che la possibilità dell’oggetto di entrare in
relazione con gli altri oggetti rappresenta la sua essenza (2.011) o natura (2.0123), le sue proprietà
interne (2.01231) e la sua forma (2.0141). Wittgenstein assume pertanto questi termini come
equivalenti: essenza = natura = proprietà interne = forma. “E’ chiaro che egli considera la forma
logica di un oggetto alla stregua della capacità o facoltà di combinarsi con altri oggetti […]: gli
oggetti hanno forme logiche diverse quando hanno diverse possibilità di associazione” (Black 62).
2.02. Dato che gli oggetti sono la sostanza del mondo, essi devono essere semplici. La posizione di
Wittgenstein può essere confrontata con la tesi di Leibniz sulla semplicità della monade: “La
monade di cui parleremo qui non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti;
semplice, cioè senza parti. E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che ci sono composti;
poiché il composto non è altro che un ammasso o aggregato di semplici” (Leibniz 1720, §§1,2 ). Gli
oggetti sono le entità semplici la cui aggregazione dà vita agli stati di cose. Cfr. Kant: “Se si
ammettesse che le sostanze composte non constino di parti semplici, sopprimendo nel pensiero ogni
composizione, non resterebbe nessuna parte composta, e (non essendoci parti semplici) nessuna
parte semplice, quindi assolutamente niente, e per conseguenza nessuna sostanza sarebbe data”
(Kant 1781, 360). Va notato che Wittgenstein non sostiene la tesi che gli enti fisici siano divisibili
in un numero finito di parti e che perciò debbano esservi oggetti; anche nel caso in cui il mondo
fosse infinitamente complesso, infatti, dovrebbero esistere oggetti e stati di cose (4.2211).
2.0201. L a relazione di isomorfismo sussistente tra struttura della realtà e struttura della lingua
consente a Wittgenstein di deviare bruscamente il discorso dal piano ontologico a quello linguistico.
Lo spunto per questa digressione è offerto dal tema della semplicità degli oggetti, che richiama
quello della analizzabilità delle proposizioni del linguaggio. Ogni proposizione che descrive un
complesso può essere scomposta in una serie di proposizioni che descrivono le parti costitutive del
complesso. “Ogni proposizione che sembra vertere su un complesso può analizzarsi in una
proposizione intorno ai suoi costituenti e intorno alla proposizione che descrive completamente il
complesso; intorno cioè a quella proposizione che equivale a dire che il complesso esiste” (NL
209). Wittgenstein si riferisce alla procedura utilizzata da Russell per l’analisi delle proposizioni
che contengono descrizioni definite, presentando per la prima volta l’idea di “analisi della
proposizione” quale strumento per svelare la struttura degli enunciati (cfr. 3.24, 4.0031).
2.021. Gli oggetti sono la sostanza del mondo: in quanto tali essi devono risultare semplici, cioé non
scomponibili in parti minori, ed immutabili. La nozione classica di “sostanza” presuppone appunto
la stabilità e la permanenza (cfr. 2.023 e 2.026: gli oggetti sono la “forma fissa” del mondo). Ciò
che nel mondo muta sono le configurazioni degli oggetti (“la configurazione è il vario, l'incostante”,
2.0271), ovvero le loro diverse combinazioni, ma gli oggetti sono entità “fisse” e “sussistenti [per
sé]” (2.027, 2.0271). Cfr. 2.024: la sostanza è “ciò che sussiste indipendemente da ciò che accade”.
2.0211-2.0212. Cfr. quanto discusso nella Scheda 2. Se, per assurdo, il mondo non avesse sostanza,
allora ad un nome corrisponderebbe non un oggetto semplice, ma un complesso dotato di una
molteplicità indefinita di parti. Secondo Wittgenstein, da ciò conseguirebbe l'impossibilità di
stabilire il senso di una proposizione. Perché una proposizione abbia senso, infatti, è necessario che
i nomi di cui essa si compone abbiano significato, cioé rimandino ad entità perfettamente
individuabili. Se ad esempio dico: “L'orologio è nel cassetto”, i nomi “orologio” e “cassetto”
devono riferirsi a qualcosa di determinato. Supponiamo però che chi sente pronunciare il nome
“orologio” sia in grado di afferrarne il significato solo a patto di sapere che la serie degli elementi
costitutivi dell'orologio (molle, ingranaggi, e poi molecole, atomi...) è interamente presente. Allora
il senso della proposizione “L’orologio è nel cassetto” dipenderebbe dalla verità di una serie di altri
enunciati che asseriscono l’esistenza di ogni componente dell’orologio (“Questo ingranaggio è
nell'orologio”, “Questa molla è nell'orologio”, etc.). Ma per ognuno degli enunciati descriventi le
parti dell'orologio si ripresenterebbe il problema iniziale: il senso di tali enunciati dipenderebbe cioé
dal fatto che i nomi che in essi compaiono si riferiscano ad entità semplici, pena la necessità di
chiamare in causa altri enunciati che asseriscono l'esistenza delle sottoparti dell'elemento descritto,
e così via all'infinito (cfr. NM 234: “La questione, se una proposizione abbia senso, non può mai
dipendere dalla verità d'un'altra proposizione sopra un costituente della prima”). Sarebbe allora
impossibile progettare un’immagine (vera o falsa) del mondo, cioé sarebbe impossibile asserire
alcunché riguardo al mondo. Con ciò non si nega la possibilità di “scomporre” mediante l'analisi
una proposizione che tratta di un complesso in modo da ricavare proposizioni che trattano delle sue
parti costitutive (cfr. 2.0201, 3.24). Wittgenstein sostiene che in ogni caso, se si vuole salvare la
determinatezza del senso, la scomposizione deve avere un termine.
2.022-2.023. Gli oggetti, “forma fissa” (2.023) o “sostanza” del mondo (2.021), determinano in
virtù delle loro possibilità combinatorie l’insieme di tutti gli stati di cose, cioè delle situazioni
possibili. Accanto al mondo reale, costituito dall’insieme di tutti gli stati di cose sussistenti (cioè
dall’insieme dei fatti), risulta pertanto concepibile una serie di mondi possibili costituiti da tutti gli
stati di cose che di fatto non sussistono nella realtà attuale. Ogni mondo possibile, per quanto
differente dal mondo della nostra esperienza, risulta comunque avere comune con il mondo reale
una forma, rappresentata appunto dagli oggetti. Gli oggetti come “sostanza” o “forma” della realtà
sono le condizioni di pensabilità del mondo. Cfr. Kenny 93: gli oggetti “non sono generabili e sono
indistruttibili: ogni possibile mondo, infatti, deve contenere gli stessi oggetti di questo”.
2.0231. Per “proprietà materiali” si devono intendere le caratteristiche degli stati di cose esistenti.
Esse sono contingenti e mutevoli (non necessarie), e pertanto vanno intese in opposizione alle
proprietà “interne” o “formali” (necessarie a priori). La sostanza del mondo (gli oggetti) determina
necessariamente soltanto la forma della realtà (ovvero l’insieme delle relazioni possibili, che vale a
priori e dipende dalle proprietà interne degli oggetti) ma non determina quali stati di cose sussistono
poi effettivamente in atto (il che costituisce una questione fattuale). Le proprietà “materiali”, ovvero
le caratteristiche proprie degli stati di cose esistenti, sono descritti dalle proposizioni del linguaggio.
2.0232. Gli oggetti sono incolori, “cioè: ogni proprietà [materiale, esterna], ogni “colore” è
attribuito agli oggetti dalla proposizione, dal trovarsi gli oggetti in uno stato di cose” (Vanni
Rovighi, 541). “Il colore, come dimensione del mondo fisico, riguarda certe caratteristiche dei fatti
(il riflettere, [da parte di] una determinata superficie, la luce di una certa lunghezza d'onda) e,
quindi, non è predicabile dei singoli oggetti ma solo di certe loro combinazioni sussistenti nel
mondo” (Frascolla 2000, 107). Cfr. 2.0251: il colore, lo spazio e il tempo sono “forme degli
oggetti”.
2.0233-2.02331. Wittgenstein asserisce che due oggetti di uguale forma logica (cioé dotati delle
stesse possibilità combinatorie) sono diversi e distinti l'uno dall'altro a prescindere dalle loro
proprietà esterne. E' qui implicito il rifiuto del leibniziano principio degli indiscernibili, secondo il
quale non possono esistere due oggetti indistinguibili. Tuttavia, proprio tale principio pare chiamato
in causa nella 2.02331, ove si afferma che la distinguibilità di due cose riposa sulle loro differenti
proprietà, e se più cose hanno in comune tutte le proprietà è affatto impossibile distinguerle. Ma
Wittgenstein precisa che si possono distinguere tali diverse proprietà “mediante una descrizione”:
quindi in questo caso sono chiamate in causa le proprietà “materiali” degli oggetti, che sono
determinate “solo dalla configurarazione degli oggetti negli stati di cose” (2.0231) e che possono
appunto essere oggetto di descrizione. Da questo punto di vista, l’apparente contraddizione si
risolve così: Wittgenstein ammette che due oggetti a e b, dotati di egual forma logica, possano
essere distinti, quanto alle loro proprietà materiali, solo a patto di individuare per ognuno una
proprietà che l'altro non possiede; e tuttavia, quand'anche ciò non avvenga, essi continueranno a
risultare due oggetti differenti. Non v’è infatti alcuna contraddizione logica a pensare due oggetti
uguali e distinti (cfr. 5.5302: è sempre sensato asserire che due cose possano avere comuni tutte le
proprietà).
2.024. Wittgenstein accetta la classica definizione della sostanza come fondamento immutabile
della realtà. Quel che muta nella realtà sono le caratteristiche accidentali, mentre l’essenza permane
sempre uguale a se stessa. Gli oggetti, quali sostanza del mondo, sussistono indipendentemente da
ciò che accade, indipendentemente cioè dalle loro configurazioni (gli stati di cose), le quali
costituiscono l’elemento accidentale della realtà. Cfr. 2.0271: l’oggetto è ciò che sussiste come
fisso, mentre la configurazione è variabile e incostante.
2.025. Riassumendo quanto viene detto nelle proposizioni precedenti: gli oggetti rappresentano la
sostanza (2.021), la forma fissa e immutabile (2.023) e il contenuto (2.025) del mondo. “Considerati
come i fattori determinanti [degli stati di cose] in cui possono presentarsi, gli oggetti hanno
ciascuno la sua propria forma e tutti insieme costituiscono sotto questo rispetto la forma del mondo.
Ma gli oggetti sono anche il materiale che costituisce i fatti” (Black 70). Perciò gli oggetti sono sia
forma che contenuto del mondo.
2.0251. Cfr. 2.0232. Spazio, tempo e colore non sono proprietà riferibili agli oggetti “in sé”, bensì
soltanto alle configurazioni degli oggetti (cioé agli stati di cose). Ogni oggetto è caratterizzato da
una forma, ovvero da una serie di relazioni possibili con altri oggetti (2.0141). Un determinato
oggetto, ad esempio, può ‘contenere’ nella propria forma la possibilità di collegarsi ad un altro
secondo la relazione spaziale “a destra di”, oppure secondo la relazione temporale “prima di”, o
ancora secondo la relazione cromatica “più scuro di”. Ma ciò significa appunto che spazialità,
temporalità e cromaticità sono nient'altro che relazioni, rapporti e non caratteristiche proprie degli
oggetti considerati astrattamente nel loro isolamento. Essendo nient'altro che possibili relazioni
determinate dalla forma di un oggetto, spazio tempo e colore sono pertanto definibili quali forme
degli oggetti. Sulle nozioni spazio e di tempo cfr. 6.3611.
2.026-2.027-2.0271. Solo se esistono oggetti esiste una forma fissa del mondo (cfr. 2.023):
l’oggetto è un’entità fissa e sussistente per sé, mentre le configurazioni di oggetti sono l’elemento
accidentale della realtà (“il vario, l’incostante”).
2.0272. Lo stato di cose è un’entità complessa formata da una combinazione di oggetti (cfr. 2.01).
E’ soltanto la configurazione degli oggetti, cioè la reciproca disposizione degli oggetti determinata
dalla forma logica di questi, a dar vita allo “stato di cose”. “Non c’è bisogno di alcuna aggiunta di
‘colla logica’ per combinare gli oggetti in uno stato di cose. […] Una configurazione di oggetti (e
null’altro che oggetti) forma uno stato di cose (senza alcun aiuto esterno)” (Hintikka 161). Cfr.
2.03, 4.0311.
2.03-2.031. Nello stato di cose gli oggetti sono connessi secondo un ordine logico, come gli anelli
di una catena: in questo senso, uno stato di cose non è un ‘miscuglio’ di oggetti (cfr. 3.141). E' la
forma dell'oggetto a determinare il modo delle sue possibili connessioni con altri oggetti nello stato
di cose (2.0141): le relazioni tra gli oggetti nello stato di cose sono quindi generate dalle proprietà
logiche degli oggetti stessi e non dall'intervento di un ulteriore elemento formale. “Neanche questa
casa è un complesso fatto dei mattoni e delle loro relazioni spaziali […]. Anche la catena consiste
dei suoi anelli, non dei suoi anelli e delle loro relazioni spaziali” (GF 162-163, corsivo mio). “Il
paragone con gli anelli di una catena serve ad indicare il carattere immediato delle relazioni che
legano fra loro gli oggetti in uno stato di cose, nel senso che è da escludere la presenza di un
ulteriore elemento dello stato di cose che medi la connessione reciproca degli oggetti, pena
l'innescarsi di un regresso all'infinito (cosa media la connessione di un tale presunto elemento
mediatore agli oggetti?)” (Frascolla 2000, 118, cfr. Mounce 28).
2.032. La struttura di un’entità complessa (stato di cose o immagine) è il modo della connessione
dei suoi elementi costitutivi (cfr. 2.15). La struttura di uno stato di cose è il modo in cui gli oggetti
sono connessi l’uno con l’altro.
2.033. La forma dell’oggetto è la sua “possibilità di occorrere in stati di cose” (2.0141). La forma di
un oggetto è pertanto ciò che rende possibile l’esistere di una struttura: è, appunto, “la possibilità
della struttura”.
2.034. Un fatto è il sussistere di uno o più stati cose (2). La struttura di un fatto risulta dunque
determinata dalle strutture dello stato di cose o degli stati di cose (cioè delle situazioni possibili) di
cui il fatto costituisce l’attualità. “Si noti che parlare di un fatto composto da più stati di cose
sussistenti non equivale a parlare della sussistenza di un composto formato da quegli stati di cose: si
tratta solo di un modo abbreviato di parlare della sussistenza di tutti quei singoli stati di cose. Il
punto è rilevante perché […] le proposizioni composte da più proposizioni non asseriscono
l’esistenza di un complesso formato da più stati di cose (per esempio, la sussistenza della
‘disgiunzione’ o della ‘congiunzione’ di due o più stati di cose), ma esprimono concordanza con
alcune combinazioni del sussistere e non sussistere di quei singoli stati di cose, e non-concordanza
con altre” (Frascolla 2000, 124). Ad esempio, la proposizione complessa: “Il gatto è sul tappeto o il
libro è sul tavolo” non asserisce che sul piano ontologico esista un fatto ‘molecolare’ composto
dagli ‘stati atomici’: “Il gatto è sul tappeto”, “Il libro è sul tavolo” in reciproca connessione, bensì
si limita ad esprimere concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non-sussistere di
quegli stati di cose (cfr. 4.2).
2.04. Wittgenstein riprende ora l’analisi del concetto di “mondo”. Se “Il mondo è tutto ciò che
accade” (1) e “ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose”(2), allora il mondo è l’insieme
di tutti gli stati di cose sussistenti.
2.05. Ma l’insieme degli stati di cose sussistenti determina anche l’insieme degli stati di cose che
non sussistono. Cfr. 1.12: “Ché la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che
non accade”. Sapendo tutto ciò che esiste come “fatto” nel mondo sono in grado di dire anche tutto
quanto non sussiste nel mondo. Gli stati di cose che non sussistono sono definiti da Wittgenstein
“fatti negativi” (2.06).
2.06. Uno stato di cose sussistente è chiamato da Wittgenstein un “fatto positivo”, mentre uno stato
di cose non sussistente è chiamato un “fatto negativo”. La realtà si comporrebbe dunque sia di fatti
positivi (cioé di stati di cose sussistenti) che di fatti negativi (cioé di stati cose non sussistenti); e
dato che che “realtà” equivale a “mondo” (2.063), il mondo dovrebbe conseguentemente essere
costituito dall’insieme degli stati di cose sussistenti più l’insieme degli stati di cose non sussistenti,
il che è in esplicito contrasto con l’affermazione secondo cui il mondo è “la totalità degli stati di
cose sussistenti” (2.04). Nelle 1.12 e 2.05 viene spiegato che una volta dato l’insieme dei fatti (cioè
degli stati di cose sussistenti) viene determinato automaticamente anche l’insieme degli stati di cose
che di fatto non sussistono; in questo senso agli stati di cose non sussistenti non viene concessa
alcuna consistenza ontologica. Introducendo l’espressione “fatti negativi”, invece, Wittgenstein
lascia presupporre che ad uno stato di cose non sussistente corrisponda una forma di esistenza nella
realtà (quel che potremmo chiamare un’esistenza negativa). L’idea che il mondo si componga anche
di non-esistenze è però inaccettabile, per quanto le oscillazioni di Wittgenstein su questo punto
siano evidenti e ricorrano anche nei lavori preparatori al Tractatus (si veda ad esempio NL 202-203:
“Vi sono fatti positivi e fatti negativi”; cfr. l’esempio della macchia nella 4.063: “Al fatto che un
punto [della macchia] è bianco (non nero) [corrisponde] un fatto negativo”). “Adottando tale
espressione, in effetti, si finisce col dover chiamare ‘fatti’ anche gli stati di cose non sussistenti e si
oscura, così, la distinzione tra stati di di cose e fatti, tracciata in termini di mera possibilità ed
attualità” (Frascolla 2000, 125). Immaginiamo che il mondo sia una porzione di scacchiera sulla
quale si trovano due oggetti (una torre e un cavallo), e che uno stato di cose corrisponda ad una
possibile posizione dei pezzi sulle caselle. Sulla base di quanto abbiamo osservato, se di fatto la
torre e il cavallo si trovano, rispettivamente, sulle caselle a1 e b1 allora possiamo affermare che il
mondo è costituito esclusivamente dai due fatti positivi: “Torre in a1” e “Cavallo in b1” (fig. 1);
l’idea che il mondo sia costituito dai due fatti positivi in questione più gli stati di cose che di fatto
non sussistono (ad esempio, i fatti negativi: “Torre in a2” e “Cavallo in b2”, raffigurati in nero) è
invece da respingere come fuorviante (fig. 2).
2.061-2.062. Dall’accadere di un determinato stato di cose non può essere inferito l’accadere o non
accadere di uno stato di cose diverso Gli stati di cose sono pertanto caratterizzati dalla reciproca
indipendenza. Non vi sono, tra due stati di cose, relazioni di tipo logico che consentano di derivare
l’uno dall’altro. Cfr. 1.21, 5.135.
2.063. La realtà “totale” (die gesamte Wirklichkeit) è il mondo, ovvero la totalità degli stati di cose
sussistenti (2.04). Sul conflitto tra questa definizione e quella secondo cui la realtà equivarrebbe
all’insieme dei fatti positivi e negativi, v. 2.06.
_Note al Tractatus
MONDO E VOLONTA’
NECESSITA’ E IMPOSSIBILITA’ LOGICA
(6.373 – 6.3751)
6.373. Sulla volontà cfr. 6.423, 6.43. Ciò che accade, cioé il mondo come insieme di fatti, sussiste
indipendentemente dal mio volere: non v’è, tra la mia volontà ed il mondo, alcuna connessione
necessaria (6.374). Ne consegue che il mio volere non può modificare in nessun modo i fatti del
mondo. Dal punto di vista etico, questa osservazione suggerisce l’impossibilità per il soggetto di
influenzare l’ordine contingente dei fatti per mezzo delle proprie intenzioni morali (6.43). Nel
mondo tutto “avviene come avviene” (6.41) e non v’è alcun nesso tra le mie aspettative di natura
morale ed il livello degli accadimenti.
6.374. Dato che non v’è alcuna connessione tra la volontà ed il mondo, se tutto quel che vogliamo o
desideriamo si realizzasse veramente ciò avverrebbe per puro accidente (sarebbe “una grazia del
fato”). Cfr. Q. 173: “Io non posso guidare gli eventi del mondo secondo la mia volontà; al contrario,
sono affatto impotente”; Q. 175: “Il mondo mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge al mondo
completamente dal di fuori, come a un fatto compiuto”.
6.375. Come non esiste una necessità fisica così non esiste una impossibilità fisica: necessità e
impossibilità non sussistono fuori della logica. Cfr. 6.3 (fuori della logica tutto è accidente), 6.37
(v’è solo una necessità logica).
6.3751. Il fatto che uno stesso luogo del campo visivo sia allo stesso tempo rosso e verde è
impossibile logicamente perché in contraddizione con la forma logica del colore, ovvero con le
leggi fondamentali del cromatismo. In fisica (riducendo il colore al moto di particelle), ciò potrebbe
essere tradotto nell'impossibilità che due particelle siano in due luoghi diversi allo stesso tempo e
quindi nel fatto che “particelle in luoghi diversi in un unico tempo non possono essere identiche”.
Ciò conduce ad escludere che una proposizione del tipo “A è rosso” possa essere considerata come
una proposizione elementare. Tale proposizione, infatti, risulta in contraddizione con l'enunciato “A
è verde”, violando il principio dell'indipendenza reciproca delle proposizioni elementari (4.211).
Stando così le cose, “A è rosso” e “A è verde” devono essere enunciati complessi e mediante
l'analisi si dovrebbe riuscire a svelare la loro interna complessità. Ma Wittgenstein si convinse
progressivamente che tale compito fosse irrealizzabile. In mancanza di un'adeguata procedura di
riduzione degli enunciati “A è rosso” e “A è verde” ai loro costituenti elementari siamo costretti a
riconoscere che esistono “relazioni logiche tra proposizioni che non dipendono dal tipo di
complessità che è descritta dall'analisi in termini di funzioni di verità. O, da un altro punto di vista,
[che] le tavole di verità dei connettivi catturano solo in parte le regole per ‘e’, ‘non’, ecc.: da quelle
tavole, infatti, non risulta che ‘A è rosso e A è verde’ è contraddittoria” (Marconi 1997, 64). La fase
di revisione delle dottrine del Tractatus, che avrebbe portato Wittgenstein alla svolta degli anni
Trenta (la cosiddetta filosofia del “secondo Wittgenstein”), prende le mosse proprio da questa
discussione. “Però da ‘a è rosso, ora’ segue ‘a non è verde, ora’, e dunque in questo senso le
proposizioni elementari non sono indipendenti l’una dall’altra come lo erano le proposizioni
elementari nel mio calcolo, che io descrissi a suo tempo, e al quale –ingannato da un falso concetto
di questa riduzione- supponevo potesse ricondursi tutto quanto l’uso delle proposizioni” (GF 173).
L’ETICA, IL VALORE, IL SENSO DELLA VITA.
(6.4 – 6.522)
6.4. Gli eventi di cui è costituito il mondo (data l’indipendenza reciproca degli stati di cose, 2.061)
sono tutti “accidentali” e dunque non è possibile distinguerli stabilendo tra essi differenze di valore
(nessun fatto è più ‘importante’ o ‘migliore’ di un altro). Anche le proposizioni sono tutte “neutrali”
rispetto alla prospettiva del valore: esse sono tutte “d’egual valore”, ovvero non v’è alcuna
differenza di valore tra esse. Le proposizioni del linguaggio hanno l’esclusiva funzione di
raffigurare i fatti, e nessuna descrizione può contenere una valutazione: l’immagine è
semplicemente estranea alla distinzione tra bene e male (le immagini possono rappresentare eventi
che dal punto di vista morale sono giudicabili riprovevoli o giusti, ma in quanto immagini esse non
giudicano affatto). La natura raffigurativa del linguaggio rende dunque impossibile tradurre in
parole un giudizio morale sugli eventi: l’etica, afferma Wittgenstein nella 6.421, non può
formularsi.
6.41. I fatti sono tutti equivalenti, ogni evento “avviene come avviene” e nessun accadimento
differisce da un altro riguardo al valore. Non esistono perciò fatti buoni o cattivi, azioni
raccomandabili o riprovevoli: il mondo è come è, e il linguaggio si limita a registrare ciò che
accade. Se per “Valore” intendiamo un principio assoluto, necessario e immodificabile, è chiaro che
esso può essere concepito solo come trascendente l’ordine contingente dei fatti. L’ambito dei valori
deve dunque essere proiettato al di fuori della sfera degli accadimenti empirici, vale a dire fuori del
mondo. L’Etica, cui è essenziale il riferimento ai Valori, non ha nulla a che fare con il livello dei
fatti di cui si compone il mondo.
6.42. Che le proposizioni non possano esprimere nulla “ch’è più alto” e che non vi possano essere
proposizioni etiche è diretta conseguenza di quanto affermato nella 6.4. La teoria raffigurativa
determina l’impossibilità di piegare il linguaggio alle esigenze dell’etica. Gli enunciati si limitano a
descrivere la realtà, il che è ben diverso dalla valutazione cui aspiriamo in campo morale. L’Etica
rimanda ad un dover-essere, mentre la funzione naturale del linguaggio è riflettere l’esistente (cioè
la semplice presenza dei fatti, il loro accadere). Di fronte ad un omicidio ci si può porre dal punto di
vista morale e giudicare riprovevole l’azione pronunciando un giudizio di condanna (un evento di
questo genere non dovrebbe accadere perché viola una valore morale); d’altra parte, dal punto di
vista scientifico si tenderà a descrivere l’evento come un qualsiasi altro accadimento fisico,
tentando magari di inserirlo in un contesto statistico o illustrandone le modalità di attuazione etc..
Chi adotta quest’ultima prospettiva assume un atteggiamento neutrale di fronte al valore morale
degli eventi e si interessa soltanto della descrizione di essi. Se l’unico uso sensato degli enunciati,
seguendo la teoria del Tractatus, è la raffigurazione (cioé la descrizione), ne consegue che la nostra
esperienza dei fatti si svolge esclusivamente secondo le modalità a-valutative proprie della
razionalità scientifica, escludendo così l’atteggiamento etico da ogni possibilità di espressione
sensata.
6.421. “L’etica dev’essere una condizione del mondo, come la logica”. (Q 178). Wittgenstein
individua un tratto comune alla logica ed all’etica: nè l’una nè l’altra trattano del mondo (le
proposizioni della logica “trattano di nulla”, 6.124). La logica, descrivendo “l’armatura del mondo”,
può essere a ragione considerata condizione del mondo ed essere definita come “trascendentale”.
Più complesso è spiegare le ragioni che spingono Wittgenstein ad affermare che l’etica è
trascendentale, dato che solo la logica conferisce una forma a priori ai nostri enunciati ed è escluso
che l’etica possa rappresentare un’alternativa alla logica o manifestarsi indipendentemente da essa
(non esiste una “forma etica” che possa sostituire la forma logica o aggiungersi ad essa: le
proposizioni del linguaggio sono strutturate secondo la forma logica e nessuna delle proposizioni
dotate di senso può contenere un senso “etico”). Nei Quaderni (Q 180), Wittgenstein aveva scelto
di qualificare l’etica come trascendente: questa definizione si accorda meglio con l’estraneità
dell’etica rispetto al mondo e con la sua impossibilità a “far presa” su esso. Probabilmente la scelta
dell’aggettivo “trascendentale” si giustifica in relazione alla capacità dell’etica di valere come
condizione di quella trasfigurazione totale della realtà di cui Wittgenstein parla nella 6.43.
Sull’identità etica – estetica, cfr. Q 185: “L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e
la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica”. Il
nesso etica-estetica fu probabilmente suggerito a Wittgenstein dalla lettura di Schopenhauer.
Quest’ultimo, ne Il mondo come volontà e rappresentazione, aveva descritto l’esperienza estetica
come uno stato di contemplazione dei valori sganciato dalle modalità conoscitive ordinarie legate
alla rappresentazione del mondo fenomenico. Per Schopenhauer, “l’arte concepisce con la pura
contemplazione, e riproduce poi, le idee eterne, cioé tutto quello che vi è di essenziale e di
permanente in tutti i fenomeni del mondo [...]. L’arte si attiene dunque all’oggetto singolo,
considerato a sé stante; ferma la ruota dei tempi; svanite le relazioni, l’essenziale, l’idea, formano il
suo unico oggetto” (Schopenhauer 1819, III, §6). Anche secondo Schopenhauer, dunque, l’opera
d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis.
6.422. Wittgenstein esclude che un imperativo morale equivalga ad una semplice subordinazione di
mezzi a fini. Kant aveva parlato a questo proposito di imperativo ipotetico, che è un precetto di
natura strumentale (se tu vuoi x allora devi agire in un certo modo); questo tipo di precetto lascia
del tutto inesplorata la questione del valore dell’obiettivo che si intende conseguire interessandosi
soltanto dell’efficacia del nostro agire (l’obiettivo “x” potrebbe corrispondere ad una qualsiasi
azione malvagia riguardo alla quale ci vengono proposti i mezzi adeguati per porla in atto). Il vero
imperativo morale, quello che Kant definisce ‘categorico’, chiama invece in causa la volontà
buona, cioé l’intenzione con la quale il soggetto si adegua al comando della Ragion pratica.
Affermando che il problema delle conseguenze di un’azione è irrilevante, Wittgenstein collega la
dimensione etica ad un principio che –al pari della volontà buona di Kant- è del tutto indipendente
dall’ordine dei fatti. Nella 6.423 Wittgenstein precisa che il “portatore dell’etico” è proprio la
volontà. L’azione morale scaturisce dalla volontà buona indipendentemente da ogni circostanza
fattuale e da ogni calcolo delle conseguenze. Kant aveva scritto: “Anche se l’avversità della sorte o
i doni avari di una natura matrigna privassero interamente questa volontà del potere di realizzare i
propri progetti; anche se il suo maggior sforzo non approdasse a nulla ed essa restasse una pura e
semplice buona volontà [...] essa brillerebbe di luce propria come un gioiello, come qualcosa che ha
in sé il suo pieno valore” (Kant 1785, §1). In questo senso si comprende meglio l’affermazione di
Wittgenstein secondo cui il premio e la pena devono essere nell’azione stessa.
6.423. Il volere quale “portatore dell’etico”, ovvero quale condizione del riferimento ai Valori, non
appartiene al mondo perché non è un fatto. Si può parlare sensatamente soltanto dei fatti; dunque è
possibile parlare solo del volere in quanto fenomeno (cioè di ogni atto manifesto del soggetto che
vuole), e ciò è di pertinenza della scienza psicologica. Ma non v’è alcuna possibilità di esprimere il
livello più profondo della volontà morale. Wittgenstein aveva già affermato che “il soggetto che
pensa, immagina, non v’è” (5.631). Con la “scomparsa” del soggetto quale fondamento dell’attività
rappresentativa viene proiettato fuori della sfera dei fatti anche il cardine dell’esperienza morale,
ovvero l’io quale “portatore dell’etico” (su questo tema cfr. Scheda 16).
6.43. Dato che il mondo è indipendente dalla mia volontà (6.373), in cosa consiste il mutamento di
cui è responsabile il volere buono o cattivo? Le immagini proposte da Wittgenstein (un’alterazione
dei limiti del linguaggio, un cambiamento che non può essere espresso in parole e che produce una
modificazione ‘totale’ del mondo) paiono identificare la prospettiva etica con uno stato mistico di
trasfigurazione della realtà. Nei Quaderni Wittgenstein specifica che il crescere o decrescere in toto
del mondo avviene “come per aggiunta o caduta d’un senso” (Q 174). Questo ribaltamento della
prospettiva ordinaria è del tutto indescrivibile perché produce un cambiamento del campo
prospettico nella sua interezza: esso riguarda i limiti del linguaggio, e non i singoli fatti descrivibili
per mezzo del linguaggio. Musil scrive a questo proposito: “Tutti i precetti della morale indicano
uno stato di trasognamento che è già sfuggito alle regole in cui lo si chiude […]. Nel momento in
cui si evade dalla vita inessenziale si stabiliscono nuove correlazioni. Anzi, direi quasi che le cose
non stanno più in alcun rapporto fra loro, perché si tratta di un rapporto sconosciuto, del quale non
abbiamo nessuna esperienza, e tutte le altre correlazioni sono smarrite; ma questa nonostante la sua
oscurità è così chiara che non la si può negare. E’ forte, ma è inconcepibilmente forte. Si potrebbe
anche dire: di solito noi guardiamo qualcosa e lo sguardo è come una bacchettina o un filo teso al
quale l’occhio e l’oggetto guardato si appoggiano reciprocamente, e ogni secondo che passa
sorregge una trama di questo genere; mentre in questa particolare disposizione d’animo c’è
piuttosto qualcosa di dolorosamente dolce che disgiunge i raggi visuali” (Musil 1952, II, 738-739).
Musil, al pari di Wittgenstein, descrive tale mutamento come un “evento” confinato nella
dimensione privata del soggetto e nega perciò che esso abbia un’incidenza sul mondo: si è soliti
pensare che “una persona buona rende buono tutto ciò che tocca, anche se gli altri le fanno guerra:
appena entrano nel suo campo, essa li trasforma interamente”; ma in realtà “questo sarebbe uno dei
malintesi più antichi! Perché una persona buona non migliora affatto il mondo né influisce in alcun
modo su di esso; se ne allontana soltanto!” (Ibidem). Rispetto al mondo dell’infelice –osserva
Wittgenstein- quello in cui vive la persona felice è semplicemente un altro mondo.
6.431-6.4311. La posizione di Wittgenstein “comporta una forma di solipsismo per il quale la realtà
si identifica con la vita [5.621] e la vita si identifica con la coscienza, vale a dire con la mia
esperienza attuale, col singolare risultato che con la morte, quando la coscienza ha termine, il
mondo non cambia ma cessa di esistere” (Glock 84). Le osservazioni di Wittgenstein richiamano il
celebre argomento di Epicuro secondo cui non si può fare esperienza della morte perché vita e
morte si escludono a vicenda (“quando noi siamo, la morte non è presente, e quando è presente la
morte, allora noi non siamo”, Diog. Laert., X, 125). La morte delimita l’orizzonte della temporalità
poiché con essa ha termine il tempo della nostra esistenza. Ci sono però due modi di intendere tale
limitazione. Nel senso etico-religioso, si è soliti considerare la morte come confine tra due durate
(la nostra esistenza e la vita eterna), e di qui si è condotti a porsi il problema della destinazione
ultraterrena dell’anima. Ma in questo modo ci si rappresenta il limite da un punto di vista esterno –
esattamente come quando si raffigura il campo visivo chiuso da una linea e si considera ciò che è
situato fuori di esso (cfr. 5.6331). Il modo corretto di considerare la morte quale limite, allora,
consiste nel riconoscerne la trascendenza rispetto alla vita (“la morte non è un evento della vita.
Non è un fatto del mondo”, Q 175). Scomparso il limite, diviene privo di senso anche concepire un
tempo che si estende oltre la vita: la morte non produce una alterazione del mondo, bensì la sua
cessazione. “I filosofi che dicono: ‘dopo la morte subentrerà una condizione senza tempo’, oppure:
‘con la morte subentra una condizione senza tempo’ e non si accorgono di aver detto ‘dopo’ e ‘con’
e ‘subentra’ in senso temporale e che la temporalità è insita nella loro grammatica” (PD 53).
L’unica scelta coerente diviene perciò l’accettazione dell’immanenza, ciò che Wittgenstein chiama
“vivere nel presente”. Nei Quaderni Wittgenstein scrive: “Solo chi vive non nel tempo, ma nel
presente, è felice”; “Per la vita nel presente non v’è morte” (Q 175). Escludendo il pensiero della
morte come linea separatrice tra il tempo e l’eterno, l’esistenza viene concepita come priva di limiti:
in questo modo si guadagna l’unica forma di “eternità” che è concessa all’uomo, la quale coincide
con l’intemporalità. J. L. Borges notava a questo riguardo: “Essere immortale è cosa da poco:
tranne l’uomo tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte” (Borges 1952, 18).
6.4312. Nulla, nel mondo, può provare l’immortalità dell’anima umana (la questione non riguarda
la scienza naturale, cioé non vi sono fatti che possano provare o smentire questa tesi). Del resto,
l’ipotesi di una vita eterna non costituisce affatto la chiave risolutoria del mistero dell’esistenza:
qualora la accettassimo non faremmo altro che duplicare il problema iniziale dato che la vita eterna
risulta enigmatica al pari della vita presente. Se ciò che può dirsi coincide con quanto asseriscono le
proposizioni della scienza naturale, l’ordine di problemi che qui chiamiamo in causa deve essere
rigettato come privo di senso. Le risposte che stiamo cercando sono sganciate dal livello dei fatti
(sono “fuori dello spazio e tempo”).
6.432-6.4321. Wittgenstein ribadisce la trascendenza di Dio e dell’ambito dei valori. Questa
posizione lo porta ad escludere che l’ordine dei fatti sia manifestazione di Dio o che il livello dei
fatti possa contenere la soluzione dei problemi etici. La 6.432 sembra negare la Provvidenza divina
nei confronti del mondo (come il mondo è, ovvero l’ordine contingente dei fatti, è indifferente per
Dio). L’esclusione di Dio dal campo fenomenico accomuna Wittgenstein al Kant della Critica della
ragion pura. Ma Kant può compensare l’insufficienza dell’intelletto teoretico (incapace di
comprendere Dio tra i propri oggetti) con la dimensione pratica della ragione: Dio è introdotto nel
sistema kantiano come postulato della ragion pratica, ovvero come esigenza morale. Non così per
Wittgenstein: non c’è modo di aggirare il linguaggio, non esistono modalità alternative di
espressione che possano contenere il sentimento della dipendenza del mondo da Dio come creatore
e garante dell’ordine morale.
6.44. Cfr. 5.552. Permanendo a livello dei fatti (occupandosi cioé di “come il mondo è”) non è
possibile alcun aggancio con l’ambito dei valori. L’intuizione del mistico avviene nel momento in
cui assumiamo come problema l’esistenza del mondo (“che il mondo è”). Quando ciò accade, il
nostro punto di vista non è più interno al mondo ma viene proiettato esternamente ad esso: allora si
tenta di vedere la realtà come un “tutto” e si ricerca la causa della sua esistenza. Nella Conferenza
sull’etica l’atteggiamento etico è paragonato al meravigliarsi per l’esistere delle cose (stupor
mundi). Questo particolare sentimento rivela la tensione a raffigurarsi Dio come causa
dell’esistenza del mondo. Stupirsi per l’esistenza del mondo, scrive Wittgenstein, è “l’esperienza
cui si fa riferimento quando si dice che Dio ha creato il mondo” (LC 15). Cfr. Q 173: “Il senso
della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio
quale padre”.
6.45. La terminologia di Wittgenstein richiama il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza.
La metafisica pretende di considerare il mondo come totalità data, ovvero come un oggetto che la
ragione può contemplare nella sua interezza. B. Russell definisce in questo senso la metafisica come
“il tentativo di concepire il mondo come un tutto per mezzo del pensiero” (Russell 1918b, 3). Per
far ciò, bisogna idealmente proiettarsi al di fuori del mondo assumendo una prospettiva per la quale
l’insieme degli eventi può essere circoscritto e considerato come un’unità limitata. “Mi sembra però
che, oltre il lavoro dell’artista, vi sia un altro modo di cogliere il mondo sub specie aeterni. E’ credo- la via del pensiero, che per così dire passa sul mondo a volo d’uccello e lo lascia così com’è
– contemplandolo in volo dall’alto” (PD 24). Un simile punto di vista coinciderebbe con quello di
Dio quale creatore del mondo (il mondo come “tutto limitato” può valere come metafora del mondo
in quanto creato da Dio). Cfr. Q 185: “Il consueto modo di vedere vede gli oggetti quasi dal di
dentro; il vederli sub specie aeternitatis, dal di fuori. Così che per sfondo hanno il mondo intero. E’
forse che essa vede l’oggetto con, invece che in, lo spazio e il tempo? Ogni cosa condiziona tutto il
mondo logico, per così dire, tutto lo spazio logico. (S’impone il pensiero): La cosa vista sub specie
aeternitatis è la cosa vista con tutto lo spazio logico”. Wittgenstein suggerisce che solo in forza di
un’intuizione soprarazionale si potrebbe giudicare il mondo nella prospettiva del Valore. Ma
pretendere che la conoscenza oltrepassi i propri limiti naturali è insensato: l’etica è dunque destinata
a muoversi nel campo dell’inesprimibile.
6.5. Le domande etico-religiose sul senso del mondo (ovvero, sul senso della vita) non possono
avere risposta perché non sono nemmeno formulabili come domande (non possono essere espresse
sensatamente dal linguaggio). In questo senso, non esistono enigmi e l’unico modo per avviare a
soluzione il problema del significato dell’esistenza è annullarlo come problema (6.521).
Wittgenstein prepara con queste affermazioni l’enunciato finale del Tractatus, nel quale
raccomanda il silenzio come unico atteggiamento autentico riguardo al problema morale.
6.51. L’antica scuola scettica negava che fosse possibile raggiungere una conoscenza certa e
infallibile del mondo. La pretesa di sottoporre a giudizio la facoltà conoscitiva, secondo
Wittgenstein, è però un’impresa disperata che condanna lo Scetticismo al nonsenso. Gli argomenti
scettici, pertanto, non sono confutabili perché privi di senso (soltanto gli enunciati dotati di senso
possono essere veri o falsi, ovvero confermabili o refutabili per mezzo dell’esperienza).
6.52. Le proposizioni della scienza esauriscono il campo del dicibile e tuttavia esse non contengono
alcuna indicazione che consenta di risolvere gli enigmi che più stanno a cuore all’uomo (in primo
luogo, il problema del senso della nostra esistenza). Nella Prefazione Wittgenstein aveva anticipato
tale argomento asserendo che il Tractatus mostra “quanto poco sia fatto dall’essere questi problemi
risolti”: una volta scoperto che le domande essenziali non possono essere formulate, e che dunque
“non resta più domanda alcuna”, l’uomo sente in modo ancora più angoscioso la propria impotenza
di fronte al mistero della vita. Cfr. Q 146: “L’impulso al mistico viene dalla mancata soddisfazione
dei nostri desideri da parte della scienza”.
6.521. Il problema della vita (le domande riguardanti il mistero della nostra esistenza e in generale
le domande di natura etica) si risolve solo nel momento in cui comprendiamo che non stiamo
trattando di fatti, e che perciò non v’è alcuna risposta possibile (cfr. 6.51). Quando raggiungiamo
questa consapevolezza allora il problema sparisce semplicemente, liberando la nostra prospettiva.
E’ importante tuttavia notare che Wittgenstein non nega che la soluzione degli enigmi possa essere
raggiunta (anche se in forma assolutamente privata e incomunicabile): vi sono infatti individui cui il
senso della vita divenne improvvisamente chiaro. Nessuno di costoro, però, fu in grado di spiegare
in che consistesse questo senso perché il linguaggio non permetteva loro di esprimerlo come un
‘evento’. Le domande e le risposte, in campo etico-religioso, trascendono i limiti del linguaggio.
“La soluzione del problema che tu vedi nella vita è un modo di vivere che fa scomparire ciò che
rappresenta un problema. Se la vita è problematica, è un segno che la tua vita non si adatta alla
forma della vita. Devi quindi cambiare la tua vita; quando si adatterà alla forma, allora scomparirà
ciò che è problematico” (PD 60-61).
6.522. Cfr. 5.641. L’ineffabile, ciò che non può essere espresso sensatamente dal linguaggio
(ovvero il mistico, l’ambito dei valori), mostra la propria presenza pur non potendo essere reso
esplicito in alcun modo. “L’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in
grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista
significato” (PD 43). “La soluzione negativa in Wittgenstein ha un contenuto nettamente positivo:
l’universo delle risposte possibili, quello del dicibile, ‘fa segno’ verso qualche cosa, al di fuori dei
suoi limiti, che non può integrare e nemmeno negare” (Bouveresse 14).
_ Scheda 20: Il mistico, l’etica.
“Cara Agathe, c’è un cerchio di domande che ha una grande
circonferenza e nessun centro: e quelle domande significano
tutte come devo vivere? ”.
(R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, II, 868.)
“Tutto ciò che è visibile è attaccato all’invisibile, l’udibile al
non-udibile, il sensibile al non-sensibile. Forse il pensabile
all’impensabile”.
(Novalis, Fragmente, §1710)
Nella primavera del 1916, Wittgenstein fu trasferito in prima linea sulla parte meridionale del fronte
russo. E’ in questo periodo che le sue riflessioni si spostano dalle tematiche logiche a quelle etiche e
religiose. “Se Wittgenstein avesse trascorso l’intera guerra nelle retrovie, il Tractatus logicophilosophicus sarebbe rimasto quello che con ogni probabilità era nella prima concezione del 1915:
un trattato sulla logica” (Monk 144). Il quotidiano confronto con la morte indusse invece
Wittgenstein ad interrogarsi sempre più spesso sul tema di Dio e dei valori, sul significato
dell’esistenza e sui problemi di natura etica.25 Questa svolta è segnalata nei Quaderni da una
annotazione in data 11 giugno 1916:
“Che so di Dio e del fine della vita?
Io so che questo mondo è.
Che io sto in esso, come il mio occhio nel suo campo
visivo.
Che in esso è problematico qualcosa, che chiamiamo il suo
senso.
Che questo senso non risiede in esso ma fuori di esso”.
Da questo punto dei Quaderni in poi, le osservazioni di natura etica prendono il sopravvento su
quelle riguardanti le tematiche logico-linguistiche. Va sottolineato che gli esiti “mistici” del
Tractatus, più che un elemento di rottura con i temi finora considerati, possono essere considerati
come un naturale sviluppo e complemento delle concezioni logiche di Wittgenstein. Ciò che
caratterizza ogni forma di misticismo è l’idea che l’ambito delle verità supreme, pur manifestandosi
in vari modi al soggetto, non possa essere espresso per mezzo del normale linguaggio significante.
Quando Wittgenstein distingue tra ciò che il linguaggio dice e ciò che esso può soltanto mostrare
rivela appunto di credere nell’esistenza di un livello di verità ultime di cui il linguaggio è incapace
di render conto. Le proposizioni dotate di senso parlano del mondo empirico, ma possono solo
mostrare (e non dire) la forma logica che consente loro di raffigurare la realtà. Da un lato, per
mezzo del linguaggio tutto diviene chiaro, manifesto e il mondo stesso si illumina e diventa visibile;
allo stesso tempo, però, il linguaggio evoca, con la sua stessa presenza, scenari che si sottraggono
alla luminosità. Il linguaggio è in questo senso il mezzo attraverso il quale l’indicibile manifesta la
propria presenza. A questo livello trascendente della realtà Wittgenstein assegna non solo l’insieme
dei presupposti della conoscenza, bensì anche tutti quei contenuti che costituiscono il fondamento
dell’etica e della religione. E se è pur vero che “l’enigma non v’è” (6.5), nel senso che non si dà
alcuna possibilità di tradurre in linguaggio significante le domande su ciò che si trova oltre i confini
del conoscibile, risulta tuttavia evidente che “V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il
mistico” (6.522). L’indicibilità del mistico non va pertanto interpretata come la prova della sua
nullità, ma al contrario è per Wittgenstein un segno manifesto dell’esistenza di qualcosa che supera
le nostre capacità espressive.
La tensione tra ciò che è dentro il linguaggio e ciò che si proietta fuori di esso percorre ogni
affermazione di Wittgenstein riguardante i temi dell’etica. Dato che l’ambito dei valori trascende il
livello degli accadimenti Wittgenstein afferma l’assoluta estraneità dell’etica rispetto ai fatti. Ciò
che chiamiamo “il senso del mondo” (o “il senso dell’esistenza”) deve perciò trovarsi fuori del
mondo (6.41).
25
Wittgenstein si era arruolato nell’esercito austro-ungarico proprio allo scopo di mettersi alla prova, nel tentativo di
trasformarsi in una persona diversa: “Ora avrei la possibilità di essere una persona decente, perché mi trovo faccia a
faccia con la morte (...) Forse la vicinanza della morte mi porterà la luce della vita. Dio mi illumini!” (in: Monk 118).
Concepire un codice morale equivale per Wittgenstein a postulare l’esistenza di valori assoluti. Nel
mondo, però, “tutto è come è, e tutto avviene come avviene” (6.41): i fatti, cioé, accadono
semplicemente e non possono essere distinti l’uno dall’altro sulla base di una differenza di valore.
Nulla, nel mondo, si presenta come un “valore”: l’accadere dei fatti si impone come una presenza
irriducibilmente neutra riguardo al bene ed al male e non è possibile trarre dagli eventi alcuna
indicazione di natura morale. In questo senso, anche le proposizioni che descrivono i fatti sono tutte
“d’egual valore” (6.4): appunto in quanto descrizioni, esse non possono esprimere alcuna
valutazione dei loro oggetti. L’etica comporta sempre un riferimento al dover-essere, ma nessuna
descrizione di fatti contiene qualcosa di più della semplice raffigurazione di ciò che è: nessuna
proposizione dotata di senso può dunque essere utilizzata per dare una risposta ai nostri problemi
morali. Gli enunciati del linguaggio significante non contengono “nulla ch’è più alto” (6.42) e
dunque “l’etica non può formularsi” (6.421).
Pur non essendo possibile riferire i concetti di bene e di male ai fatti del mondo, tuttavia essi
risultano in qualche modo connessi alla sfera della soggettività. “Bene e male e male –scrive
Wittgenstein- non interviene che attraverso il soggetto” (Q 180); essi sono “predicati del soggetto,
non proprietà del mondo” (Q 181). Ne consegue che “buono e cattivo è essenzialmente solo l’io,
non il mondo” (Q 181). Kant esprimeva la stessa idea quando affermava che “in ogni parte del
mondo e, in generale, anche fuori di esso non è concepibile nulla di incondizionatamente buono
all’infuori di una volontà buona” (Kant 1785, §1). Il soggetto di cui parlano sia Kant che
Wittgenstein non è però l’io fenomenico-empirico, bensì l’io noumenico-trascendentale. Il primo è
nient’altro che un fatto del mondo, e di esso si interessa la psicologia; il secondo è essenzialmente
“il portatore dell’etico” e nessun discorso sensato può avviarsi intorno alla sua essenza: “del volere
quale portatore dell’etico non può parlarsi. E la volontà quale fenomeno interessa solo la
psicologia” (6.423). Il dualismo tra ambito dei fatti e volontà del soggetto richiama l’analoga
contrapposizione che Schopenhauer (seguendo l’impostazione kantiana) aveva instaurato tra il
mondo della rappresentazione e il livello della Volontà. Pertanto “si potrebbe dire (alla
Schopenhauer): Il mondo della rappresentazione è né buono né cattivo; buono e cattivo è il soggetto
che vuole” (Q 180).
Dato che l’ambito del valore risulta connesso esclusivamente all’ambito dell’io, ciò che può
derivare dall’atteggiamento etico è soltanto una modificazione del modo in cui il soggetto
individuale si rapporta ai fatti. Ad un conoscente che asseriva che l’etica può cambiare il mondo,
Wittgenstein rispose: “Si limiti a migliorare se stesso, è l’unica cosa che possa fare per cambiare il
mondo” (in: Monk 215). L’etico non si può insegnare perché non è un fatto descrivibile e quindi
non v’è possibilità di comunicare ad altri l’essenza dell’esperienza morale: “Non si può guidare gli
uomini al bene, si può solo condurli in qualche luogo. Il bene è al di fuori dell’ambito dei fatti” (LC
24). La morale non modifica l’ordine naturale degli eventi né può in alcun modo produrre effetti
sulla mentalità e gli atteggiamenti che caratterizzano una determinata società: se essa ha un effetto,
lo ha esclusivamente sul soggetto e perciò la salvezza è sempre una salvezza individuale.
La nostra volontà risulta in effetti del tutto incapace di influire sugli eventi: “Il mondo è
indipendente dalla mia volontà” (6.373), perché esso “mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge
al mondo completamente dal di fuori, come a un fatto compiuto” (Q 175). E’ però vero che “il
mondo del felice è altro da quello dell’infelice” (6.43). Pur non potendo alterare l’ordine
contingente degli accadimenti, la volontà buona o cattiva può infatti far sì che il mondo acquisti una
qualità, un senso differente. E’ impossibile spiegare in che consista tale ribaltamento prospettico:
coloro i quali lo hanno vissuto non hanno poi saputo tradurre in parole il senso della loro esperienza
(6.521). Wittgenstein tenta tuttavia di chiarirne i presupposti: ciò che viene alterato sono i limiti del
mondo, e pertanto il mondo deve “crescere o decrescere in toto” (6.43). Nei Quaderni aggiunge:
“Come per aggiunta o caduta d’un senso” (Q 174).
Concepire il mondo secondo categorie morali, per Wittgenstein, significa intuirlo come un “tutto
limitato” (6.45), e sentire il mondo come una totalità equivale ad abbandonare l’ordinario punto di
vista interno alla realtà per abbracciare con lo sguardo tutta la sfera dell’essere. Chi adotta una
simile prospettiva tenderà inevitabilmente a domandarsi quale sia la causa dell’esistere del mondo
come totalità. Lo stupore per l’esistenza del mondo è il fondamento dell’esperienza religiosa:
meravigliarsi perché le cose esistono, scrive Wittgenstein nella Conferenza sull’etica, è esattamente
“l’esperienza cui si fa riferimento quando si dice che Dio ha creato il mondo” (LC 15). Si può allora
dire che la trasfigurazione del mondo operata dall’etica dipende dal fatto che la prospettiva del
valore contiene in sé il sentimento della dipendenza del mondo da Dio. Da questo punto di vista, la
vita felice cui conduce l’etica significa “essere in armonia” con la volontà di Dio (Q 175). Il mondo
e la nostra esistenza acquistano allora un senso e il soggetto morale vede che il suo mondo è
diventato semplicemente un altro mondo:
“Credere in un Dio vuol dir comprendere la questione del
senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti
del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire
vedere che la vita ha un senso” (Q 175).
L’etica di Wittgenstein richiama perciò come suo naturale complemento l’atteggiamento misticoreligioso: la possibilità del giudizio morale sul mondo può infatti giustificarsi solo nella prospettiva
dell’esistenza di Dio. In questo senso, tutte le domande dell’etica possono formularsi secondo le
categorie proprie della sfera religiosa. Scrive ad esempio Wittgenstein: “Il senso della vita, cioé il
senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre.
Pregare è pensare al senso della vita” (Q 173). Rispondendo a Waismann, che aveva domandato se
l’esistenza del mondo è connessa con l’etico, Wittgenstein rispose: “Che si dia, qui, una
connessione, gli uomini l’hanno sentito e l’hanno espresso così: -Il Padre ha creato il mondo, il
Figlio (o la Parola, che da Dio procede) è l’Etico-” (LC 25).
Ma è bene rammentare che ogniqualvolta tentiamo di esprimerci riguardo ai temi dell’etica e della
religione noi facciamo un cattivo uso del linguaggio. Nessuna delle espressioni da noi utilizzate per
parlare del Valore, del bene e del male, etc., può essere dotata di senso: queste proposizioni, infatti,
non descrivono eventi ma qualcosa che, se esiste, deve trovarsi oltre il perimetro del dicibile. Tutto
il discorso di Wittgenstein può dunque essere inteso come un tentativo di esprimere l’inesprimibile
(e dunque esso va giudicato come insensato). Ne consegue che la risoluzione del problema della
vita si può effettivamente scorgere soltanto “allo sparire di esso” (6.521), cioé comprendendo che la
risposta che cerchiamo non può essere formulata per mezzo del linguaggio. “Certo allora non resta
più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta” (6.52).
_Note al Tractatus
CIO’ CHE PUO’ DIRSI.
IL TRACTATUS E’ UNA SCALA.
(6.53 – 6.54)
6.53. Compito della filosofia è “chiarire e delimitare nettamente i pensieri”, e quindi essa “non è
una dottrina, ma un’attività” (4.112). Non vi sono contenuti filosofici, né proposizioni filosofiche:
ciò di cui si può parlare sono soltanto i fatti del mondo, ragion per cui le proposizioni della scienza
naturale sono le uniche in grado di esprimere un senso. “Fare filosofia” significa esercitare un
compito di sorveglianza critica del linguaggio, ovvero significa impedire che le proposizioni siano
utilizzate in modo contrario al loro uso naturale (uso che consiste nella raffigurazione di fatti).
6.54. Anche le proposizioni del Tractatus logico-philosophicus devono essere riconosciute come un
illecito sconfinamento in quell’ambito che Wittgenstein aveva considerato al di là di ogni possibile
discorso sensato. Il Tractatus, infatti, vieta che si parli del linguaggio: ma di cosa ha discusso il
libro? Del linguaggio, appunto, e delle condizioni in base alle quali è possibile enunciare
proposizioni dotate di senso. Anche Wittgenstein, insomma, adotta una prospettiva di tipo
“trascendentale”, pur negando che questa operazione sia lecita. I limiti del linguaggio venivano
cercati “dall’interno”, ma lo svolgimento dell’indagine ha richiesto la proiezione del punto
prospettico in quelle regioni “esterne” che il Tractatus stesso si sforzava via via di negare. Ci si
potrebbe chiedere: “da dove” ci parla il Tractatus? Non dal punto di vista del linguaggio naturale
poiché il libro si esprime su di esso e dunque deve porsi ad un livello superiore: ed ecco risorgere la
metaconoscenza, il metalinguaggio, la gerarchia dei livelli (come nella Teoria dei tipi di Russell).
Wittgenstein riconosce questa grave difficoltà e suggerisce una soluzione, ma l’enunciato 6.54
minaccia di rappresentare il punto in cui il Tractatus annulla se stesso. “Gettar via la scala dopo
esservi saliti” significa riconoscere che la lezione del Tractatus va utilizzata senza più badare al
testo che l’ha espressa, dato che questo testo ha dovuto violare –per rendere comprensibile il
proprio messaggio- gli stessi insegnamenti in esso contenuti. Sembra davvero impossibile sfuggire
al paradosso: se infatti accetto di considerare insensate le proposizioni del Tractatus allora quelle
stesse proposizioni devono avere un senso giacché è sulla base di quanto esse stabiliscono che io
distinguo ciò che ha senso da ciò che ne è privo; del resto, se io accetto che quelle proposizioni
abbiano un senso, il loro insegnamento deve condurmi a riconoscerle come insensate. La
‘soluzione’ suggerita da Wittgenstein ha un illustre precedente. La tesi scettica secondo cui “tutto è
falso” rappresenta un enunciato che finisce per falsificare se stesso (allo stesso modo, le tesi del
Tractatus implicano il non-senso del Tractatus stesso). Sesto Empirico rispondeva a questa
difficoltà affermando che la dottrina scettica è come una scala da gettar via dopo la salita e che “le
proposizioni scettiche si possono annullare da se medesime, circoscrivendo se stesse con le cose di
cui si dicono; così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma anche se stesse
espellono insieme con gli umori” (Schizzi Pirroniani, I, 206; quest’ultima metafora è sicuramente
meno elegante di quella della scala, ma il senso è lo stesso). Anche nelle dottrine buddiste ricorre
un’immagine che ricorda l’esempio della scala da gettare via: Budda infatti “paragonò il suo
insegnamento ad una zattera con cui si attraversa il fiume, e che bisogna lasciarsi dietro quando si
sia giunti all’altra riva” (Watts 58).
Il percorso tracciato da Wittgenstein è così giunto al suo termine naturale. Una volta saliti sulla
scala del Tractatus noi dobbiamo dimenticare il cammino percorso e rivolgere il nostro sguardo al
mondo. Da questo momento in poi noi useremo il linguaggio esclusivamente per raffigurare i fatti,
esprimendo con chiarezza il dicibile e respingendo come insensato ogni tentativo di parlare
dell’indicibile. “Le nostre parole, usate come noi le usiamo nella scienza, sono strumenti capaci
solo di contenere e di trasmettere significato e senso, senso e significato naturali. L’etica, se è
qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti; così come
una tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino all’orlo, e io ne facessi versare un
ettolitro” (LC 11). Non ci resta che consegnare al silenzio, come recita la proposizione finale
dell’opera, tutte le questioni che non possono essere ‘contenute’ nelle proposizioni del linguaggio.
LA PROPOSIZIONE FINALE
(7)
7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.