Grossa come il pane giallo - Capitolo 4

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Grossa come il pane giallo - Capitolo 4
Grossa come il pane giallo - Capitolo 4
Venerdì 11 Marzo 2011 00:00
Quarto appuntamento e quarto capitolo per parlare dello sport preferito in famiglia: il ciclismo.
Mio padre, mio fratello e anche io abbiamo avuto una bici da corsa e abbiamo gareggiato a
livello agonistico. Loro due con ottimi risultati, mentre io ... bé, diciamo che a me piaceva
scrivere!
Buona lettura.
La Classica di Primavera
Per la nostra famiglia l’inizio della bella stagione era scandito da un grande evento sportivo.
Il ciclismo era lo sport preferito di mio padre, e prima ancora di mio nonno e “La Classica di
Primavera” la prima delle competizioni ciclistiche nel calendario della stagione, oltre che una
delle corse più conosciute, amate e seguite dal popolo degli appassionati di ciclismo su strada.
Papà in gioventù era stato un buon dilettante - la categoria precedente il professionismo - e
aveva smesso di correre solo perché si era innamorato della mamma e l’aveva sposata, con
grande cruccio del nonno che vedeva in lui un futuro campione e non gliel’aveva mai
perdonata, né a lui, né alla mamma. Vedere la Milano-San Remo da vicino era per noi un
appuntamento fisso, un "must" e chiunque in famiglia poteva partecipare, previo congruo e del
resto necessario avviso poiché i posti in auto erano limitati e papà ospitava ogni anno qualche
amico.
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Per seguire la gara quella mattina ci svegliavamo all’alba, ci caricavano in auto ancora un po’
assonnati e dopo la capatina al circolo per il caffè e l’incontro coi compagni di avventura,
partivamo alla volta del capoluogo lombardo, dove la competizione aveva inizio. A partire da un
costante gruppo di tre adulti e due bambini, si aggiungevano talvolta multipli di persone
in identica proporzione, suddivisi in altrettante automobili che avrebbero viaggiato insieme. Oggi la gara parte dalla Piazza del Castello Sforzesco e le operazioni pre-gara si svolgono nel
bellissimo Cortile della Rocchetta - ricordo degli anni della scuola professionale, quando con
l’insegnante di storia dell’arte ci esercitavamo nella descrizione turistica del monumento - ma
negli anni ’80 la partenza avveniva nella piazza simbolo della cristianità milanese, Piazza del
Duomo.
Per la città e per noi bambini era un giorno di festa.
Avevamo il permesso di gironzolare tra la folla e, stabilito un approssimativo luogo di
ricongiungimento, eravamo liberi di osservare il caos di magliette e caschetti multicolori,
biciclette più o meno tecnologiche, lunghe file di ammiraglie parcheggiate in fila indiana con
telai e ruote di ricambio sui tetti; affacciandoci ai finestrini degli abitacoli riconoscevamo i volti
noti dei direttori sportivi.
Le squadre avevano i nomi dei marchi di grandi Aziende italiane - Brooklyn, Magniflex, Sanson
e Gis Gelati, Cicli Colnago e Atala, cucine Del Tongo e Scic, Jeans Carrera, Inoxpran - che
dalle sponsorizzazione ricavavano notevole pubblicità per la vendita dei loro prodotti, dalla
gomma da masticare ai materassi, dai gelati alle biciclette, dalle cucine componibili ai jeans e
alle pentole da cucina in acciaio.
Noi bambini trovavamo particolarmente interessanti i grandi camion bianchi della “Rai”, in sosta
nelle vie adombrate dai palazzi a ridosso della Rinascente, dai quali uscivano metri e metri di
grossi cavi neri di gomma, con propulsori che sbuffavano aria fresca e rumori; spiavamo da
ogni porta socchiusa scoprendo all’interno le persone, le attrezzature e tanti piccoli monitor,
forse delle cabine di regia. Poco più in là erano allineate le Moto Guzzi: conducenti e
cameraman chiacchieravano prima di filmare la corsa in diretta televisiva, vicino a capannelli di
giornalisti - tra i quali Adriano De Zan, il radiocronista ufficiale - muniti di penne e block notes,
microfoni e cuffie. Tutt’un insieme di suoni, di colori e di confusione che mi mette ancor oggi
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allegria al solo pensiero.
Alla punzonatura - la registrazione della presenza dell’atleta - i ciclisti ritiravano personalmente
il numero dorsale di gara e firmavano il foglio di presenza; era il momento di avvicinarsi e
provare a chiedere loro un autografo, che talvolta ci scribacchiavano velocemente su un
foglietto qualsiasi o su una cartolina che li raffigurava. Alcuni di loro ci chiedevano il nostro
nome: “Pamela! Mi chiamo Pamela!” – “E allora Pamela ecco qua, con affetto, Giuseppe
Saronni
” e ci facevano anche una dedica.
Erano dei miti, talvolta poco più che ragazzi, capaci di imprese grandiose in uno sport d’altri
tempi fatto di sudore e tenacia che riempiva il cuore di orgoglio sia nell’esserne parte attiva che
nell’esserne tifosi. Sia i bambini che gli adulti provavano una sorta di ammirazione per gli atleti:
lo sport era per i duri, per chi silenziosamente e con coraggio resisteva alla fatica riuscendo
nell’intento di portare a termine imprese che a tratti sembravano leggendarie.
Io riflettevo sull’enorme capacità di sopportazione degli sportivi - ciclisti, maratoneti, pugili, e il
pugilato per me non era uno sport - portatori sani di un vigore fisico che difficilmente si
paragonava ad altre discipline sportive, come il calcio, il nuoto, la pallavolo, la pallacanestro, il
tennis, dove ugualmente ci si allenava e si faticava ma un tempo per riprendere fiato c’era, e la
durata della prestazione era relativamente corta, mentre il sacrificio fisico e mentale richiesto
nelle gare di molte ore doveva necessariamente aver avuto un grado maggiore di preparazione
e di autodisciplina agonistica, essendo uno sforzo intenso prolungato. Considerato poi che era
uno sport sottopagato – papà lo diceva sempre - e che nonostante una carriera brillante
raramente lasciava gli atleti ricchi, ecco che l’ammirazione aumentava perché doveva trattarsi di
una sorta di passione pura con la quale vi si dedicavano senza aspettative, se non quelle di
gloria.
Il marmoreo ed austero biancore della piazza milanese era chiazzato dalle fantasiose divise in
lycra. Fisici armonici ed asciutti come nella danza e muscoli in evidenza forgiati dai chilometri
percorsi in allenamento, indossavano pantaloncini imbarazzanti in un altro contesto ma non qui,
dove l’estetica passava inosservata, percepita unicamente come un abbigliamento adatto alla
fatica che l’atleta stava per compiere. Il tessuto era essenziale: doveva riparare il busto dall’aria,
essere traspirante ed elastico, imbottito e rivestito di morbida pelle di daino nella delicata parte
a contatto con il sellino, pur ben imbottito anch’esso; l’unico vezzo concesso era un giubbino,
morbido, felpato, a manica lunga, nel caso in cui le condizioni atmosferiche fossero state
proibitive. Era mese di marzo, incontro tra inverno e primavera, il meteo era sempre incerto e in
qualche edizione, trovando neve e pioggia incessante lungo il percorso, e vestendo abiti
inadatti, i corridori erano giunti all’arrivo allo stremo delle forze.
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Osservare le squadre in divisa era un piacere: dieci, dodici uomini ugualmente vestiti in sella
alle loro bici si preparavano a partire allineandosi con calma sulla linea di partenza;
poco importava essere subito davanti perché la selezione l'avrebbero fatta i quasi trecento km
di percorso, per ora c’era tempo di conversare. Ciclisti e spettatori attendevano il segnale del
via e il momento giungeva con l’alzarsi in volo dell’elicottero Rai per le riprese dall’alto.
Una simpatica automobile della Gazzetta dello Sport si faceva spazio nella gara; giovani ed
avvenenti signorine sedute e sporgenti dai finestrini posteriori lanciavano regali di ogni sorta – il
giornale, palloncini, cappellini, portachiavi, borracce – e sia l’auto che i gadget erano di un
tenue colore rosa, un tocco di femminile in un mondo totalmente maschile: la rivincita dello yin
sullo yang.
Finalmente dalla Tribuna d’Onore un colpo veniva sparato in aria e una bandiera sventolava
segnalando che il gruppo partiva; come in una sfilata di moda primaverile le ammiraglie si
susseguivano una dopo l’altra e al passaggio del soccorso medico che chiudeva la carovana, in
tutta calma, nella Milano ritrovata, noi raggiungevano la nostra auto. Non prima di aver preso un
altro caffè al Bar Motta, una brioche, caramelle e succo di frutta per i bambini, e poi ben
rifocillati ci rimettevamo in viaggio.
La gara seguiva il percorso delle montagne e la vecchia via Aurelia, papà imboccava
l’autostrada Milano-Serravalle, l’unico percorso alternativo possibile che immetteva dopo
qualche ora sull’Autostrada dei Fiori. Che nome romantico: l’Autostrada dei Fiori. In verità non
c’erano molti fiori su quell’autostrada, solo qualche oleandro al centro dello spartitraffico dopo le
gallerie, quando oramai si vedeva il mare… infatti i fiori che davano il nome al tratto di strada
erano quelli verso i quali viaggiavamo, quelli liguri, coltivati negli appezzamenti a terrazze e
nelle serre della mite Liguria. Negli anni a seguire la nuova autostrada Milano-Alessandria fu
terminata e papà preferiva passare di lì, allungando di un po’ il percorso e annoiando i bambini
con un paesaggio di campagna sempre uguale, a vantaggio però di una carreggiata più sicura e
scorrevole, che ci faceva arrivare ancor più velocemente al ristorante. Si, perché prima di
godersi l’arrivo di Via Roma a San Remo c’era la tappa mangereccia nella solita trattoria di
pesce con cucina casalinga: spaghetti allo scoglio, frittura mista e insalatina, a volte un risotto di
mare. Nel viaggio di andata ascoltavamo musica e radiocronaca: quando la gara era avvincente con
andature sostenute, scatti e fughe, la radiocronaca assumeva i toni di una televendita; se i
corridori se la prendevano comoda, mangiando e chiacchierando, gli speaker si
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imabarazzavano e De Zan non sapeva più cosa raccontare per far passare il tempo. Negli anni
di frequentazione della gara avevo imparato che le tattiche di corsa erano essenzialmente due:
riuscire a sganciare un gruppetto di uomini, gregari e favoriti, che arrivassero sulla salita della
cipressa con un buon vantaggio temporale, oppure rendere la corsa dura, cioè con un buon
ritmo sui pedali, per far si che gli uomini veloci favoriti al traguardo in volata, si staccassero
prima dell’arrivo. Nelle conferenze stampa indette ogni anno nei giorni precedenti la partenza si
parlava di previsioni di gara e di atleti favoriti, ma chiunque avrebbe aspirato a scrivere il suo
nome in quell’Albo d’Oro prestigioso e poiché il profilo altimetrico non era eccessivo come in
altre gare - la Parigi-Rubais o la Liegi-Bastogne-Liegi notoriamente non adatte a tutti i tipi di
gambe - ecco che era sempre un’incognita.
Intendiamoci, non è che fosse una gara facile, il percorso nascondeva diverse insidie e non
ultimo il vento e le cadute, ma il ciclismo oltre che fisico é testa e istinto, e anche su quelli
bisognava puntare. Cercare gli alleati, capire gli uomini da tenere vicino e stabilire “su chi
correre” cioè tenere d’occhio la persona giusta di quel giorno, chi era più in forma, era decisivo
ai fini della vittoria, anche perché perdere contatto e ritrovarsi in fondo al gruppo verso le ultime
asperità – i tre capi che precedono Imperia - pregiudicava definitivamente il risultato della gara.
Capo Mele, Capo Cervo e Capo Berta erano la prova del nove per chi ci arrivava pensando di
avere ancora “carburante” a sufficienza: le tre salite testavano effettivamente le riserve di
energia non consumata dai duecento chilometri già nelle gambe.
Noi vedevamo le ultime fasi comodamente seduti in un bar nelle vicinanze dell’arrivo, godendo
del gran premio della montagna e del passaggio dei ciclisti nelle cittadine gremite di pubblico.
Gli italiani hanno sempre amato questa corsa e continuano a dimostrarlo con la grande
partecipazione ai lati delle strade, gli striscioni e le scritte verniciate sul manto stradale. Il
rumore dell’elicottero richiamava la nostra attenzione, le riprese del gruppo dall’alto del regista
Giancarlo Tomassetti - che si era inventato il sistema dell’elicottero ponte - erano spettacolari e
quando la media dei 40 km orari si alzava la corsa entrava nelle fasi finali. Era il momento in cui
i capitani delle formazioni e i compagni di squadra lavoravano all’unisono: chi pedalava
disinvolto e aveva una buona posizione sarebbe giunto al traguardo pronto a dare battaglia per
la vittoria, per chi era indietro la San-Remo era già finita.
Gli arrivi in volata mi emozionavano ma preferivo le azioni singole sul percorso, le fughe di chi
aveva il coraggio di provarci; la volata nelle gare di lunga durata mi sembrava riduttiva, poco
interessante rispetto ai tanti chilometri percorsi, e inoltre temevo per l’incolumità degli atleti,
avevo paura delle cadute ad una velocità che sfiorava gli 80 orari. Mi era capitato di assistervi,
sia tra professionisti che nei livelli minori e le cadute in bici erano rovinose, i malcapitati si
facevano malissimo, e se si cadeva male c’era anche il rischio di lasciarci la vita. Il caschetto un
po’ attutiva ma la divisa di lycra non riparava, si strappava subito e la pelle nuda si strofinava
sull’asfalto riportando in più punti danni profondi al tessuto, quando non rotture di ossa e
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tendini, e comunque lacerazioni che faticavano poi a rimettersi sia nel fisico che nella mente.
L’euforia relativa al traguardo durava pochissimo, poi c’erano solo caos e suoni fastidiosi che
invitavano ad allontanarsi, tanto più che i corridori provati, dopo le brevi ma intense interviste in
tv, andavano subito a riposarsi.
Non attendevamo la premiazione, la vedevamo la sera in replica alla tv. E dato che a quel punto
lo spettacolo era finito ci avviavano verso il Mercato coperto dei Fiori – i Fiori, il prodotti tipico
della riviera - per la consuetudine di portare dei fiori in regalo alla mamma. La scelta era
impossibile ma noi avevamo le idee chiare sui suoi gusti: le piacevano le delicate orchidee
piatte bianche e rosa, le lunghe strelizie viola ed arancio, o i grandi vasi di azalee - fucsia,
bianche, arancio - da piantare in giardino, che nel baule si schiacciavano un po' ma non
importava perché lei era felice di riceverle anche ammaccate, soprattutto se le avevamo scelte
noi bambini.
Il giorno successivo, al circolo, importanti particolari della corsa si discutevano tra un bicchiere
di vino e una partita a briscola o scopone scientifico, prendendo accordi e prenotazioni per il
posto auto dell’evento successivo. Anche io non perdevo occasione di raccontare a scuola le
emozioni provate, fiera d’aver vissuto una cosa “da grandi”, qualcosa che i bambini della mia
classe vedevano soltanto alla tv mentre io c’ero stata per davvero.
Milano-San Remo 2011
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