Il lessico parlamentare di Guglielmo Negri * Nel suo bel saggio « Il

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Il lessico parlamentare di Guglielmo Negri * Nel suo bel saggio « Il
Il lessico parlamentare
di Guglielmo Negri *
Nel suo bel saggio « Il parlare in Parlamento », pubblicato su II
Ponte nel 1951, Vittorio Emanuele Orlando ricorda che « il dizionario del Tommaseo riproduce sotto la voce " Parlamento " un passo
tolto da.un trattato di Albertano da Brescia scritto tra Tanno 1235
e il 1246, con cui si esorta ad un " parlare " che sia buono, diritto
ed utile, ad evitare che " la lingua conduca a parlamento non utile ";
in tono poi di ironia o di biasimo, l'allusione torna in altre frasi:
" dopo un lungo parlamento concluse che non c'è da concludere nulla "
e poi " parlamenti dell'una e dell'altra parte più tediosi che insidiosi " ».
Il problema della circolazione, dell'efficacia e della costruttività della
parola all'interno dell'organo giuridicamente atto alle manifestazioni di
volontà di un ente collettivo pubblico è sempre stato di grande momento sia che si trattasse di quelle forme di democrazia create dalla
lotta politica nel mondo antico sia che concerna la democrazia rappresentativa dell'evo moderno.
Nel mondo antico, e mi riferisco anzitutto alla democrazia ateniese
nella quale, secondo la fine osservazione di Moses Finley, « il sistema
mancava del sostegno e delle istituzioni intermedie dei partiti e della
burocrazia », si viveva in uno stato di costante tensione da parte di
tutti, popolo e uomini politici, i quali ultimi sempre più comunemente
venivano definiti « oratori », « termine quasi tecnico » scrive ancora
il Finley « che non indicava proprio particolari abilità nell'arte della
parola ». Eppure questa tensione originava, attraversava e si scaricava
nel luogo geometrico del regime del demos: né\Y assemblea, nellVcc/e* Vice Segretario generale della Camera dei deputati.
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sia, cioè nel comizio di massa che determinava l'indirizzo politico
estero ed interno e deteneva l'effettiva direzione dello Stato. Il magistrato-presidente dell'assemblea del giorno era scelto per sorteggio tra
i membri del Consiglio: si deliberava su mozioni presentate, discusse e
spesso emendate nell'arco di una sola seduta. Scrive Finley che: « chi
desiderava guidare l'assemblea nella sua azione politica doveva presentarsi sulla Pnice ed esporre le sue ragioni... Uno era un leader in
quanto, e solo in quanto, l'assemblea accettava il suo programma a
preferenza di quelli dei suoi avversari »... Pertanto in tale regime del
demos il magistero della parola assumeva una rilevanza fondamentale,
come ben avvertiva Isocrate per il quale, scrive Levi ne La Lotta
Politica nel mondo antico, « il problema dell'oratoria diviene problema
essenziale non solo di paideia in senso stretto, ma di validità di un
sistema politico. Se gli uomini debbono trovare la libertà e la giustizia
con la loro discussione e la loro mente, occorre sappiano validamente
ragionare e discutere, e non preferire come suprema sapienza l'arte di
persuadere, in ogni caso, anche di cose false e ingiuste ».
Ho scelto, per l'esercitazione, brani di due discorsi pronunciati in
Assemblea a Sparta ed ad Atene tratti dalla Guerra del Peloponneso
di Tucidide: il primo pronunciato da Archidamo re di Sparta sul
dilemma « pace o guerra con Atene », un discorso dunque di politica
estera; il secondo concernente la proposta di punire la rivolta di Mitilene con l'uccisione di tutti i suoi cittadini fatta all'Assemblea ateniese
da Cleone di Cleneto, un discorso, questo, che va alle radici della natura umana. Il modo di impostazione dei due discorsi è profondamente diverso: sobrio e realistico, Archidamo rifiuta l'eloquenza che
considera « inutile spreco di acume » e si appella alla ragione; violento e sofistico, Cleone ricatta l'assemblea, toccando le corde deboli
dell'animo popolare in una maniera che ricorda la giustificazione di
Goebbels della « notte dei cristalli ».
Con il discorso di Archidamo, purtroppo rimasto inascoltato, la oligarchia spartana dimostra di avere uomini di intuito politico e grande
saggezza; con quello di Cleone il regime del demos ateniese rivela il
processo ormai avanzato di involuzione della democrazia nella demagogia, cioè di aver raggiunto l'ultimo stadio, quello più pericoloso, del
processo di degenerazione della democrazia.
Se ora ci volgiamo a considerare il linguaggio politico nel Senato
romano, dobbiamo richiamare l'importante giudizio del Levi su questa
assemblea: « essa rappresentava la continuità del potere mentre i magistrati variavano ed entravano a farne . parte come ex titolari delle
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magistrature più elevate, cosicché si ebbe in Roma una netta, costituzionale distinzione fra ceto dominante rappresentato da tutti i cittadini di pieno diritto partecipanti alla vita delle assemblee e tenuti alla
prestazione militare, e le persone che esercitavano l'attività amministrativa e di comando come attività costante e prevalente, le quali erano
un vero ceto di governo limitato ad un ristretto novero di famiglie ».
Ma il Senato Romano non costituiva l'espressione di un « paese
legale » contrapposto ad un « paese reale » perché i suoi componenti
erano uniti al popolo dal comune vincolo militare e perché, come osserva finemente il Levi: « il privilegio concesso dalla ricchezza non
infirmava l'unità dello Stato, anzitutto poiché la ricchezza rappresentava realmente un complesso di responsabilità e di possibilità tali da
giustificare il predominio in campo politico e poi perché la stretta compenetrazione raggiunta in Roma tra l'elemento umano e quello divino
nella lotta collettiva, stringeva quelli che facevano parte del nomen,
della comunità statale romana, rispetto a quanti ne erano estranei ».
Ho prescelto per l'esercitazione odierna l'orazione contro Catilina
pronunciata da Cicerone in Senato nel tempo di Giove Statore il
5 dicembre della 63 a, C. Essa è particolarmente emblematica dello
stile e del linguaggio usati nel Senato di Roma, dei valori rappresentati dalla oligarchia senatoria, anche se risente della lunga esperienza
curiale del più eminente avvocato della Roma repubblicana il quale
sfrutta, con maggiore abilità dei suoi colleghi, le risorse del climax
ascendente, della perorazione, del sarcasmo, dell'ironia, dell'iperbole.
Ma non è oratoria « alta », aristocratica quella politica ciceroniana, nel
senso che essa è comprensibile a livello popolare, così come — è un
tratto comune interessante — abbiamo visto essere generalmente e perfettamente intellegibile il linguaggio politico delle assemblee del mondo
greco. In altre parole nell'evo antico non esiste, in politica, il linguaggio iniziatico, ossia una lingua politica curiale fuori dalla portata della
comprensione popolare, certamente in ragione dello stretto legame che
unisce l'assemblea, anche quella formata soltanto dagli ottimati, e il
popolo. Il linguaggio usato in assemblea è, dunque, quello corrente
nella comunità; i vocaboli adoperati sono di comune possesso ed intellegibilità da parte dei cittadini e noti a tutti sono gli affari trattati e
decisi che riguardavano prevalentemente l'ordine pubblico e la politica
estera.
Nei parlamenti medioevali, tranne in quello inglese che presenta
peculiarità proprie, il distacco del linguaggio politico da quello usato
nel circuito popolare è molto più marcato: l'ultima fase di decadenza
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dell'impero romano, Pimbarbarimento, il divorzio città-campagna, il
passaggio del potere nelle mani di conquistatori appartenenti a stirpi
e lingue diversi, lo stesso meccanismo istituzionale del feudalesimo allontanano il popolo dalla partecipazione e creano le premesse per la
circolazione di un linguaggio politico « alto », iniziatico, nel quale
confluiscono parole del vocabolario militare, religioso e giuridico tardogiustinianeo insieme con nuove strutture formali del discorso imposte
dalle regole della « cortousie » medioevale. Il linguaggio del Parlamento medioevale coincide così con il linguaggio della curia regis
attorno alla quale i parlamenti si sono formati per poi distaccarsene.
L'Inghilterra, curiosamente, mantiene inalterato il nucleo politico
della tradizione democratica delle assemblee dell'evo antico nel proprio
parlamento, rivestendolo prima dell'involucro istituzionale del feudalesimo normanno che poi razionalizza nella costruzione del « re nel
Parlamento », poi ancora potenziando il rapporto diretto-Re-Camera
dei Comuni, infine puntando su quella tra elettorato popolare-Camera
dei Comuni-Governo del Premier.
La conseguenza di questa peculiare, graduale mutazione in Inghilterra è la permanenza del linguaggio politico come linguaggio accessibile anche ai non addetti ai lavori, pur in una Camera, quale quella
dei Comuni, rappresentativa, ma sempre aderentissima alle aspirazioni
popolari come dimostrano le vicende della rivoluzione puritana e più
tardi della gloriosa rivoluzione.
Dobbiamo soffermarci un attimo a considerare alcuni aspetti interessanti per quel che concerne l'oratoria parlamentare inglese che, in
parte, si riveleranno similari nell'esperienza nordamericana. Come sottolinea Sir Ivor Jennings in The Parliament: a) nell'aula dei Comuni
non si parla della tribuna (e possiamo facilmente misurare l'implicazione di questa scelta fondamentale pensando alla funzione scatenante
che la tribuna — come centro focale — ha psicologicamente giocato
nella Convenzione nazionale francese e nella storia politica della
Francia); b) l'Aula di Westminster è piccola e tecnicamente attrezzata
per far sedere soltanto la metà dei componenti; e) aggiungiamo noi che
l'architettura di Westminster realizza il progetto di creare un campo dì
discussione, una geometria di dibattito con la scelta della dimensione
rettangolare e la contrapposizione dei banchi della maggioranza e dunque del Governo da una parte e quelli dell'opposizione e del governoombra o governo alternativo di Sua Maestà dall'altra. L'oratoria parlamentare inglese naturalmente ha conosciuto varie « maniere »: n
Disraeli ricorda che il Primo ministro Sir Robert Peel, rivolgendosi ad
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una Camera che non aveva un previous knowledge negli affari di
Stato doveva entrare nei dettagli e diventare « didattico ». I discorsi
sono generalmente molto quietamente parlati, cosparsi di umorismo,
penetranti e puntuali nelTorgomentazione. Poche le digressioni, pochissime le ripetizioni e le citazióni, anche nei momenti di cruciali emergenze come documentano i discorsi di Churchill. Rimane storica la
conclusione di un discorso di A. S. Amery, uno dei più autorevoli uomini politici conservatori, il quale subito dopo Poccupazione della
Polonia da parte dei nazisti si rivolse a Neville Chamberlain, suo intimo amico e premier in carica, con le parole rivolte da Cromwell
al Lungo Parlamento all'atto di scioglimento: « You bave sat too
long bere for any good you bave been doing. Depart, I say and let
us bave done witb you. In the name of God, go ! ».
Del resto la scherma velocissima ed impietosa del question time è
una conferma che il parlare nella Camera dei Comuni, come scriveva
Albertano da Brescia, è « buono, diritto ed utile », creandosi così una
comunicazione diretta, una osmosi tra Paese legale e Paese reale.
La forza anche distorsiva della « tribuna » è, invece sottolineata,
perfino nella Camera orleanista in Francia, in alcuni brani di Stendhal
in quel romanzo Luciano Leuwen che ad André Gide parve ricco di
pagine « fluide e sottili » e che Leon Blum nel famoso saggio Stendhal
et le Beylisme giudicava: « le livre où Stendhal épanche le plus librement son dégoùt pour le précautions, les intrigues, les bassesses qui,
depuis Vavenement de l'Empire, étaient devenues, a son gre, le moyen
nécessaire de par venir ».
In effetti, oltre che ricostruire gli ideali e le posizioni dei partiti
di opposizione, Stendhal « partigiano moderato » del sistema creato
dalla Monarchia di luglio, disegnava un quadro devastante della macchina di governo e amministrativa francese a pochi anni dalla nuova
esperienza costituzionale, nella quale sembra salvarsi, forse per lo stesso
principio dialettico su cui poggiava, soltanto la Camera dei deputati,
ideale teatro — secondo Stendhal — per T« uomo di spirito », specialmente se isolato e in minoranza.
La intuizione di "Leuwen padre che, organizzando una trentina di
colleghi deputati (« erano quasi tutti del Mezzogiorno, Alverniesi o
gente che abitava sulla linea Perpignano-Bordeaux ») nella « Legione
del Mezzogiorno » (un gruppo parlamentare che prefigurava gli Ascari
giolittiani) fosse possibile condizionare parecchi ministri e addirittura
l'intero Governo, si sarebbe dimostrata validissima e realizzabile nella
storia del parlamentarismo francese, italiano e tedesco nell'Ottocento e
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perché no ? del primo e addirittura del secondo Novecento dopo la
nascita delle « correnti ».
Ma indispensabile e decisivo rimaneva per Stendhal sempre l'apporto dell'* uomo di spirito » che dirigeva il gruppo.
« Il Signor Leuwen sala alla tribuna, libero della propria opinione;
nonostante la debolezza della sua voce, viene ascoltato con religiosa
attenzione. È vero che sin dall'inizio del suo discorso, trovò tre o
quattro finissime malignità. La prima fece sorridere quindici o venti
deputati vicino alla tribuna, la seconda fece ridere in modo evidente
e provocò un mormorio di soddisfazione; la Camera si svegliava. La
terza, veramente molto perfida, fece sbellicare. Il ministro interessato
domandò la parola e parlò senza successo... ».
Né Stendhal minimizzava le difficoltà che incontrava chi capitanava
la « corrente »: « Ci vuole già il massimo dell'abnegazione e della
bravura per guidare quei ventotto pareri » pensava il signor Leuwen,
« che cosa accadrebbe se fossero quaranta o cinquanta, e per giunta
uomini di spirito, ognuno dei quali vorrebbe essere il mio aiutante
di campo e ben presto dare lo sgambetto al suo capitano ? »; né si
nascondeva l'apparente contraddittorietà politica delle nuove situazioni:
« accorrevano persino i moderati un po' sottili. Essi non riuscivano
a capacitarsi che un banchiere ricco facesse seriamente l'oppositore ».
Ma, in quel torno di anni, un ben diverso personaggio, Alexis de
Tocqueville, aveva tenuto alla Camera dei deputati francese un discorso che, nella sua stringatezza, lucidità, di argomentazione e pre- j
veggenza apre veramente il « secolo nuovo » a noi contemporaneo, j
Così egli annota nei Ricordi del 1848-49:
« Io ero ancor più esplicito e ancor più incalzante nel discorso alla Camera
dei deputati il 29 gennaio 1848 e che si può leggere nel Moniteur del 30.
Eccone i punti principali.
« ...Dicono che non ci sono affatto pericoli perché non ci sono tumulti; dicono
che poiché non ci sono disordini materiali alla superficie della società, le rivo*
luzioni sono lontane da noi.
« Signori, permettetemi di dirvi che vi sbagliate. Senza dubbio il disordine
non è nei fatti, ma è profondamente entrato negli spiriti. Osservate quello che
avviene tra le classi operaie che oggi, lo riconosco» sono tranquille. È vero che
esse non sono tormentate da passioni politiche propriamente dette, a quel modo
come erano tormentate una volta; ma non vi accorgete che le loro passioni da
politiche sono divenute sociali ? Non vedete come a poco a poco si diffondono
fra loro opinioni e idee, che non mirano soltanto a rovesciare alcune date
leggi o un dato ministero, o addirittura un dato governo, ma la stessa società *
a scuotere le basi su cui posa oggi ? Non intendete quello che si dice tra love
tutti i giorni ? Non intendete quello che ripetono senza tregua: che tutto quanto
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si trova al di sopra di loro è indegno ed incapace di governarle ? che la divisione dei beni del mondo fatta lino ad ora è ingiusta, che la proprietà riposa
su basi die non sono basi eque ? E non credete che quando opinioni tali prendono radice, quando si diffondono in maniera quasi generale, quando discendono
pfoiondamente nelle moltitudini, devono condurre presto o tardi, non so quando,
non so come, alle più formidaoili rivoluzioni ? questa è, o signori, la mia protonda convinzione: io credo che noi ci addormentiamo nell'ora presente su di
un vulcano, ne sono profondamente convinto...
« ...Io vi dicevo poco fa che questo male condurrà presto o tardi, — come
verranno, né da dove io non so — alle più gravi rivoluzioni in questo paese;
convincetevene pure.
« Quando io mi metto a cercare nei diversi tempi, nelle diverse epoche, presso
i diversi popoli quale sia stata la causa vera che ha condotto alla rovina le
classi governabili, vedo bene l'avvenimento, l'uomo la causa accidentale o superbiate; ma credete pure che la causa reale, la causa determinante che ha fatto
perdere agli uomini il potere è stato sempre il fatto che essi sono divenuti
sdegni di tenerlo.
« Pensate, o signori, all'antica monarchia; era più forte di voi, più forte per
'a sua origine; si appoggiava meglio di voi ad antichi usi, a vecchi costumi, ad
antiche credenze: era ben più forte di voi e tuttavia è precipitata nella polvere.
E perché è caduta ? Credete che sia precipitata per un dato fatto particolare ?
da attribuirsi a quel dato uomo, o al deficit o al giuramento della palla a
corda, o al La Fayette, o al Mirabeau ? No, signori: il motivo è un altro: è
che la classe-che governava allora era divenuta, per la sua indifferenza, per il
suo -egoismo,, per i suoi vizi incapace e indegna di governare.
« Ecco la causa vera.
« Eh ! signori se è giusto avere tale preoccupazione patriottica in tutti i tempi,
quanto non è più giusto averla nel nostro ? Non sentite voi, per una specie di
intuito istintivo, che non può essere analizzato, ma che è certo, che il suolo
trema di nuovo in Europa ? Non sentite nell'aria un vento di rivoluzione ?
Questo vento non si sa dove nasca, donde venga, né, credetelo pure, chi porgerà via. E in tempi simili voi restate calmi in presenza della degradazione dei
pubblici costumi: né la mia è una parola troppo forte.
« Io qui vi parlo senza amarezza, e credo anche senza spirito di parte; attacco
nomini contro i quali non nutro rancore, ma infine sono obbligato a dire al
ftio paese la mia salda e profonda convinzione. Ebbene la mia salda e profonda
convinzione si è che i pubblici costumi decadono; si è che la degredazione dei
pubblici costumi vi porterà in un breve e forse prossimo tempo a nuove rivoluzioni. Forse che h vita dei re è legata a un filo più saldo e più difficile
a spezzare di quella degli altri uomini ? Avete voi forse nell'ora presente,
U certezza dell'indomani ? Sapete voi forse quello che può succedere in Francia
da qui a un anno, da qui a un mese, da qui a un giorno ? Voi l'ignorate; ma
quello che vai sapete è che la tempesta è all'orizzonte, che marcia su voi. Vi
ascerete dunque sorprendere ?
« Signori, io vi supplico di non farlo; non ve lo domando, ve ne supplico:
volentieri mi metterei in ginocchio davanti a voi, tanto io credo che il pericolo
*ia serio e reale, tanto io son persuaso che il segnalarlo non sia ricorrere ad
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na vana forma di retorica. Il pericolo è grande: scongiuratelo, mentre c'è tempo
incora; correggete il male con mezzi efficaci, non attaccandolo nei sintomi, ma
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> se stesso.
«Si è parlato di cambiamenti nella legislazione. Sono molto ben disposto a
federe che i cambiamenti sono non solo molto utili ma anche necessari: così
c
*edo all'utilità della riforma elettorale, all'urgenza della riforma parlamentare;
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ma non sono così stolto, signori, da non sapere che non sono le leggi in é
che fanno il destino dei popoli; no, non è il meccanismo delle leggi che produce avvenimenti, o signori, ma lo spirito stesso del governo. Conservate e
leggi, se volete — sebbene pensi che avete torto a farlo — conservatele; co tservate anche gli uomini, se questo vi fa piacere: per conto mio non mi opponga
ma per dio, cambiate lo spirito del governo perché questo vi trascina nell'abisso I.
« Queste fosche predizioni », scrive ancora Tocqueville nei « Ricordi! », « furori)
accolte con risa motteggiatrici da parte della maggioranza .L'opposizione applaucì
calorosamente ma per spirito di parte più che per convinzione. La verità è àt
nessuno credeva sul serio al pericolo che io annunciavo, sebbene si fosse co: 1
vicini alla catastrofe. L'inveterata abitudine che avevano presa tutti gli uomii 1
politici durante la lunga commedia parlamentare, di colorare oltre misura li
espressioni dei loro sentimenti e di esagerare smisuratamente i loro pensier
li aveva resi incapaci di misurare il vero e la realtà. Da molti anni la maggie
ranza diceva tutti i giorni che l'opposizione metteva in pericolo la società;
l'opposizione ripeteva continuamente che i ministri perdevano la monarchia
queste cose le avevano ripetute tante volte, senza credervi troppo, da una part
e dall'altra che avevano finito per non crederci più del tutto proprio nel memento in cui gli eventi venivano a dare ragione a tutte e due ».
Certamente la rivoluzione industriale ha determinato radicali mu
tazioni nella struttura e nell'azione dello Stato così come nei modi d
vivere e di pensare degli uomini e delle donne. L'impatto è state
enorme con conseguenze sconvolgenti nei comparti della vita politici
e del linguaggio delle assemblee. La nascita dei grandi partiti nazional
e dei partiti operai ha prodotto effetti notevoli anche sul linguaggi*
politico: ad esempio Roberto Michels in « La sociologia del partite
politico », apparsa in Italia nel 1912, scriveva: « Quanto stretta sii
la parentela del partito di lotta democratica con l'organizzazione mi
litare emerge dalla terminologia socialista che, specialmente in Germania
è in gran parte tolta in prestito dalla scienza militare. Non c'è forse
espressione di tattica militare, di strategia di caserma, in una parola
del gergo militare che non si ritrovi negli articoli di fondo dells
stampa socialista ».
Ma l'allargamento pronunciatissimo del lessico politico e parlamentare con l'apporto di vocaboli mutuati dal linguaggio economico, scientifico e giuridico che ha luogo tra la metà dell'Ottocento e i giorni
nostri deriva dalla successiva, graduale dilatazione dei compiti dello
Stato che trascendono ormai quelli tradizionali del mantenimento dell'ordine pubblico e della difesa contro le aggressioni provenienti dagli
Stati confinanti, nonché dal generale progresso della conoscenza, dal
sempre più elevato grado di acculturazione dei cittadini. La stampa?
la radio e la televisione, hanno attivato un gigantesco processo di
miscelazione del linguaggio, che ha potenziato il momento autodidattico*
come osserva il Moles, nella vita di ogni giorno: « l'autodidattica par*
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eciperà del ricordo di una data produzione televisiva o radiofonica,
Iella lettura di questo o quel giornale e parteciperà soprattutto della
lensità e della ripetizione di quegli stimoli, per dare luogo ad una
ntegrazione mnemonica quando si passa dal ricordo fugace alla menorizzazione volontaria o forzata ».
Si pensi, ad esempio, all'ingresso nel linguaggio quotidiano e in
juello politico, del vocabolario delle imprese spaziali con espressioni
luali, ad esempio, « allunaggio morbido », « orbita », « modulo di servizio », « sensore », « rotta di collisione », ecc.; si pensi al tema poitico della lotta contro l'inquinamento ed alla mutuazione dei voca)oli del linguaggio scientifico, medico-biologico, botanico, chimico-fisico,
ice. I nostri resoconti sommari e stenografici sono ormai pieni zeppi
di queste parole usate in senso proprio o figurato: questo direi è uno
lei caratteri differenziali che emerge, ictu oculi, da un esame comparato di due testi di discorsi parlamentari a confronto ad esempio
del 1849 e del 1984.
La conseguenza di tutto ciò è stata l'abbattimento dei diaframmi che
incora potevano ridurre la fluidità di circolazione del linguaggio tra
!e assemblee ""parlamentari e il popolo, che davano luogo a sacche di
lingua « alta » o di neolingua politica. In efletti la rivoluzione del
Sessantotto aveva creato il fenomeno del «sinistrese», una sublingua
di riforma politica segmentata in circoli più o meno vasti sparsi all'interno della classe politica e con echi varii in Parlamento. Nel corso
dell'ultimo decennio abbiamo, tuttavia, assistito al processo di riassorbimento della parte più valida del « sinistrese » nella lingua comune
ed alla obsolescenza e morte dei vocaboli senza futuro creati in una
età che assomigliava molto a quella del Barocco per genialità di intuizioni, velleità temeraria, emotività ma anche per la incapacità di
dare luogo a trasformazioni profonde e irreversibili nella storia del
costume della nostra età.