l`esperienza: più estesa del sistema nervoso

Transcript

l`esperienza: più estesa del sistema nervoso
RICCARDO MANZOTTI
VINCENZO TAGLIASCO
L’ESPERIENZA: PIÙ ESTESA DEL SISTEMA NERVOSO
1. INTRODUZIONE
Alfred North Whitehead (1925, 48) ha scritto che:
Quando si analizza la filosofia di un’epoca non si deve dirigere l’attenzione
esclusivamente su quelle posizioni che gli autori sentono il bisogno di difendere esplicitamente. Ci sono alcune ipotesi o metafore che vengono accettate
implicitamente. Queste ipotesi appaiono così ovvie che la gente non si rende
conto che le usa e che ci potrebbero essere delle alternative alle stesse.
In ogni disciplina vi sono presupposti impliciti che rendono possibile la ricerca e la indirizzano verso certi obiettivi: questi presupposti
costituiscono la cornice all’interno della quale ogni epoca crea i propri
modelli sulla realtà. A volte, sono erronei ed è necessario considerare
delle alternative per progredire nella comprensione di certi fenomeni.
Da oltre un secolo, l’approccio scientifico alla mente si scontra contro una serie di difficoltà che sembra rendere insolubile il problema del
rapporto tra la coscienza e il corpo. Per esempio, Jerry Fodor (1992, 5)
scrive che: «Nessuno ha la minima idea circa il modo in cui qualcosa
di fisico possa essere cosciente. Nessuno sa nemmeno che forma dovrebbe avere una teoria della coscienza che spieghi come sia possibile
che qualcosa di fisico sia cosciente». Analoghe critiche di principio
alla comprensibilità della coscienza sono state avanzate da molti altri
autori da punti di vista diversi (McGinn 1989; Trautteur 1995; Harnad
2003).
Nonostante questa persistente vaghezza, molti neuroscienziati reputano, senza prove scientifiche certe, che l’esperienza cosciente debba
«emergere» dall’attività nervosa del sistema nervoso centrale. Per esempio,
Giulio Tononi (2004, 1) non esita a chiedersi «perché la coscienza sia
generata da certe parti del cervello, come il sistema talamo-corticale e
non da altre parti, come il cervelletto?». In modo analogo Cristof Koch
(2004, 177) è convinto che «la coscienza sia il risultato dell’attività del
cervello, anzi di un suo sotto-insieme». Come conciliare la sicurezza
SISTEMI INTELLIGENTI / a. XX, n. 3, dicembre 2008
405
di queste direzioni di ricerca con la totale assenza di punti fermi a cui
faceva riferimento Fodor e, come lui, molti altri?
L’idea che, in qualche modo, il sistema nervoso (o sottoinsieme) sia
sufficiente a produrre la coscienza non è l’unico presupposto tacito nel
campo della coscienza. Esistono altre ipotesi non dimostrate e parecchie
metafore comunemente accettate che influenzano le linee di indagine.
Alcune di esse riguardano non soltanto la coscienza, ma la concezione
del mondo fisico nel suo complesso. Sia pure in modo estremamente
sintetico, vale la pena di elencarle e di metterle in discussione (Bickhard
e Terveen 1995; Bennett e Hacker 2003; Rockwell 2005).
In questo articolo metteremo in evidenza una serie di presupposti
accettati implicitamente da molti; presupposti che, sospettiamo, non
abbiano avuto, almeno finora, alcuna conferma scientifica. Se si definisce anzitempo e infondatamente quale dovrebbe essere la risposta a un
problema, si rischia di non poterla mai trovare. Si racconta dell’ubriaco
che aveva perso le chiavi di casa e le cercava sotto la luce di un lampione. Passa un vicino di casa e chiede: «Perché cerchi le chiavi sotto il
lampione? Le hai perse lì?». L’ubriaco risponde: «No, ma qui ci vedo».
Cercare la coscienza nell’attività neurale potrebbe essere analogo a
cercare le chiavi sotto la luce del lampione.
Non è la prima volta che una o più metafore finiscono con il condizionare la ricerca scientifica. Per esempio, secondo Edwin Hutchins
(1995), il computazionalismo è stato viziato dall’avere assunto quale
modello accettabile della mente l’attività di particolari figure socialmente e cognitivamente limitate quali i calcolatori umani che, prima dello
sviluppo dei calcolatori elettronici, eseguivano calcoli aritmetici. Una
metafora sociale che ha finito per influenzare la ricerca scientifica.
Prima di esaminare i presupposti che, secondo noi, non sono fondati,
vorremmo suggerirne uno che riteniamo irrinunciabile e, pur non avendo
alcun modo di dimostrarlo, desideriamo aderirvi: l’esperienza cosciente
– qualsiasi cosa sia – deve corrispondere a qualche fenomeno fisico, si
tratta di capire quale.
Come ha scritto Arthur Eddington (1929/1935): «l’esperienza cosciente e il mondo fisico sono fatti della stessa materia». In un certo
senso, del mondo fisico, conosciamo in modo diretto solo quella parte
che corrisponde alla nostra esperienza cosciente. Il resto del mondo fisico
è conosciuto per via indiretta, attraverso le alterazioni e le modificazioni
di quella parte del mondo fisico che coincide con la nostra esperienza
cosciente. Questo dominio della conoscenza è stato sistematizzato sotto
forma di conoscenza scientifica. La domanda sulla natura della coscienza (o esperienza fenomenica) può essere tradotta nella domanda circa
quale fenomeno corrisponde, nella descrizione scientifica, a ciò che è la
nostra esperienza? Tuttavia per comprendere la portata di tale domanda
è necessario considerare esplicitamente alcuni assunti ancora vaghi per
406
quanto riguarda la nostra conoscenza del mondo. Non solo il ruolo del
cervello in quanto necessario e sufficiente non è mai basato su evidenze
scientifiche (Bennett e Hacker 2003; Thompson 2007), ma anche una
serie di altri assunti andrebbero presi in considerazione e discussi criticamente in quanto giocano un ruolo chiave nella comprensione della
natura dell’esperienza: i confini temporali, i confini spaziali, i confini
causali, le caratteristiche dell’esperienza cosciente, la nozione di rappresentazione, la separazione tra soggetto e oggetto, l’ambiguità della
metafora input-output, il dogma del fossato galileiano tra esperienza e
fenomeni fisici, l’esistenza di immagini che medino tra la percezione
visiva e il mondo in quanto tale. Ognuno di questi punti corrisponde a un
passaggio chiave nella discussione sulla natura dell’esperienza. In questo
articolo, non possiamo, è evidente, trattare ciascuno di essi esaustivamente
e con completezza. Tuttavia crediamo sia importante elencarli sia pure
brevemente per dare un’idea dei molti punti ancora non dimostrati sui
quali si regge la ricerca sulla natura dell’esperienza.
Per evitare fraintendimenti, sottolineiamo che il bersaglio di questo
primo paragrafo non sono tanto gli studi sulla coscienza in genere, quanto la specifica tesi che il sistema nervoso centrale (o parte di esso) sia
condizione sufficiente della coscienza. Benché tale tesi abbia numerosi
e importanti difensori, siamo ben consapevoli che altri approcci non
condividono tale assunto. Per esempio, le varie correnti esternaliste cui
avremo occasione di accennare, rifiutano con forza tale tesi ed è in tale
direzione che avanzeremo una nostra personale posizione.
1.1. Confini temporali
Quali sono i confini temporali di un fenomeno fisico? Quanto lungo
può essere un fenomeno fisico? Potremmo prendere in considerazione un
continuum di fenomeni fisici di diversa durata: a un estremo fenomeni
brevissimi (ma non di durata nulla; quali il decadimento di un bosone,
lo scambio di fotoni tra particelle molto vicine, la vita media di un top
quark) descritti dalla meccanica quantistica, all’altro estremo fenomeni
che avvengono su scala geologica o astronomica (lo scioglimento di un
ghiacciaio, la formazione di una catena montuosa, la collisione tra due
galassie, la vita di una stella, la formazione di un pianeta). Quale scala
corrisponde ai fenomeni rilevanti per la coscienza? Come facciamo
a sapere quale dimensione temporale è utile ai fini dei processi fisici
corrispondenti alla nostra esperienza cosciente?
Le neuroscienze assumono che l’esperienza emerga dall’attività corticale. Tuttavia come definire i confini temporali di questa attività? Perché
un certo intervallo temporale dovrebbe essere significativo? Al di sotto
di una certa soglia temporale, è evidente, l’attività neurale non esiste.
407
Gli spikes neurali richiedono tempo per poter trasmettere informazione.
Se prendessimo in considerazione un intervallo di tempo di lunghezza
nulla (o comunque inferiore al tempo necessario al completamento di
un singolo spike), il cervello non avrebbe uno stato riconoscibile: la sua
attività è distribuita nel tempo, probabilmente in modo asincrono rispetto
alle diverse funzioni e aree corticali (per esempio, Moutoussis e Zeki
1997; Zeki e Bartels 1998).
L’esperienza cosciente corrisponde a un fenomeno fisico che si estende
in un certo intervallo temporale? Quale intervallo? Per esempio, quando
facciamo esperienza di un colore a seguito di un breve stimolo visivo,
quanto è durato il fenomeno fisico corrispondente all’esperienza cosciente? Siamo sicuri che coincida con la finestra temporale corrispondente
all’attivazione delle ultime strutture neurali coinvolte, oppure richiede
un intervallo più ampio?
Quando ricordiamo qualcosa accaduto molti anni fa, qual è la durata
del fenomeno fisico che coincide con la nostra esperienza del ricordo?
Dobbiamo prendere in considerazione solo gli ultimi spikes di una
complessa attività neurale? Soltanto una certa finestra temporale? Tutta
l’attività neurale intercorsa tra la percezione dello stimolo e il momento
del ricordo?
1.2. Confini spaziali
Un problema analogo si pone circa i confini spaziali di un fenomeno fisico. Se è relativamente facile isolare spazialmente i confini di un
fenomeno fisico sulla base di discontinuità di materiali, in base a quale
criterio possiamo distinguere i fenomeni fisici legati all’esperienza cosciente rispetto a quelli accessori, ancillari o contingenti? Come si è detto,
è opinione diffusa che la coscienza «emerga» dall’attività corticale. Ma
perché escludere l’attività neurale del talamo o del cervelletto o quella
del sistema nervoso periferico (e, infatti, molti autori la includono)?
Perché escludere l’attività esterna al sistema nervoso? Spesso pare che
soltanto l’attività chimica interna ai neuroni possa essere presa in considerazione: perché? Finora nessuno è stato in grado di dimostrare che
esiste una relazione necessaria tra l’onda di potenziale generata dalla
pompa di sodio-potassio (peraltro continuamente mediata da reazioni
chimiche diverse quali quelle legate ai neurotrasmettitori intersinaptici)
e l’esperienza cosciente.
Nella letteratura scientifica si accetta spesso la validità di confini
spaziali che, almeno finora, non hanno un fondamento scientifico né
teorico né sperimentale: quali la corteccia, il sistema talamo-corticale,
il cervello nel suo complesso, il sistema nervoso centrale e periferico,
il corpo, il sacco-pelle. Perché limitare i fenomeni legati all’esperienza
cosciente ai limiti spaziali di certe strutture biologiche (Devor 2002)?
408
Dove si trova il fenomeno fisico che corrisponde alla mia esperienza
del mondo e quali sono i suoi confini spaziali? È puntiforme? È esteso?
È interno a qualche organo?
1.3. Confini causali
La realtà fisica può essere segmentata secondo molti criteri. Un
criterio è quello temporale. I fenomeni fisici iniziano e terminano.
Tuttavia si deve essere in grado di definire delle condizioni di inizio e
di fine. Un altro criterio è spaziale (legato alla forma o alla materia). Il
mio corpo si estende fino a un certo punto, dove la materia di cui è fatto
termina bruscamente ed inizia l’atmosfera circostante. Tuttavia, come si
è accennato prima, questi criteri non sono così evidenti.
Tuttavia, esiste un altro criterio (tra i tanti) per segmentare la realtà:
suddividere causalmente il flusso di eventi. In questo modo (estremamente complesso, non ne ignoriamo i rischi e i possibili trabocchetti) è
possibile individuare confini causali (Davidson 1969/1980; 1980/2001;
Fine 1982; Hacker 1982; Bennett 1996; Casati e Varzi 1996).
L’esperienza cosciente presuppone l’idea di causalità. La nostra esperienza è inserita causalmente in un flusso di eventi: di alcuni è l’esito,
di altri è la condizione necessaria (e forse sufficiente). Gli eventi neurali
sono inseriti in un contesto causale che si estende oltre i limiti del corpo.
Eventi esterni al sistema nervoso sono causa della sua ontogenesi (per
esempio durante lo sviluppo delle connessioni nervose tra i neuroni della
corteccia) e, in ogni momento, ne influenzano l’attività interna (apro gli
occhi e ciò che si trova davanti al mio naso determina delle attivazioni
all’interno della mia corteccia occipitale). Ma ogni evento ha una lista
infinita di antecedenti causali. In base a quale criterio definire i confini
causali dell’esperienza cosciente? E perché isolare una certa porzione?
Perché la connessione causale tra neuroni deve essere considerata in
qualche modo coesa, mentre la connessione causale tra i fotoni e il rilascio di rodopsina nella retina non è usualmente inclusa tra i fenomeni
legati all’esperienza? E perché escludere i fenomeni fisici esterni al
corpo dell’individuo? E quelli precedenti agli oggetti percepiti? Dove
ha inizio e dove si arresta una catena causale?
1.4. Proprietà dell’esperienza cosciente vs. proprietà del mondo fisico
Quali sono le caratteristiche dell’esperienza cosciente? Siamo sicuri
che non siano parte del mondo fisico? Siamo sicuri di non utilizzare
un’ontologia erronea del mondo fisico? Per esempio, è un luogo comune
della letteratura sulla mente il fatto che l’esperienza cosciente abbia una
prospettiva in prima persona, mentre il mondo fisico sarebbe descrivi409
bile solo secondo una prospettiva in terza persona. Infatti, un approccio
diffuso consiste nel cercare di «naturalizzare» i fatti dell’esperienza,
ovvero cercare un modo per descrivere in terza persona i contenuti fenomenici (in modi molto diversi hanno cercato di percorrere questa via:
la psicofisica, Dennett 1991/1993; Varela 2000). Eppure esistono moltissimi processi fisici, per esempio quelli visivi che, pur essendo fisici,
coincidono con una certa prospettiva, ovvero sono legati da una relazione
causale limitata e selettiva (Manzotti 2006a). Simmetricamente, tutti i
fenomeni fisici da noi conosciuti sono – direttamente o indirettamente
– parte di esperienze soggettive (altrimenti non potremmo parlarne); sono
conosciuti attraverso la partecipazione a processi in prima persona. E se
la separazione tra prospettiva in prima persona e in terza persona fosse
l’esito di due modi di descrivere la stessa?
L’idea che il mondo fisico non abbia qualità è opinabile. Noi ne
facciamo esperienza e noi siamo, fino a prova contraria, parte del mondo
fisico. Anche per le altre proprietà, tradizionalmente attribuite all’esperienza cosciente e non al mondo fisico, si potrebbero avanzare simili
dubbi. Per esempio, perché escludere che il mondo fisico sia costituito
anche da quelle qualità di cui la nostra esperienza è composta? Se quelle
qualità non corrispondessero a qualcosa di fisico, a che cos’altro potrebbero corrispondere? Perché pensare che l’esperienza in quanto tale
abbia proprietà diverse dal mondo fisico?
1.5. Nozione di rappresentazione
In qualche modo la nostra mente rappresenta il mondo esterno. Noi
facciamo esperienza di qualche cosa. Non siamo chiusi in un abisso
solipsistico. Com’è possibile? La tradizione vuole che il rappresentato
e la sua rappresentazione siano due entità separate e distinte. Si tratta di
uno degli interrogativi più difficili a cui portano quasi tutti gli approcci
alla mente. La nozione di rappresentazione è qui intrecciata con quella
di intenzionalità in senso brentaniano. Secondo la tradizione, i nostri
stati mentali ci fanno fare esperienza del mondo senza essere il mondo.
Franz Brentano aveva suggerito che tale capacità corrispondesse all’intenzionalità propria del mentale, ovvero al fatto che gli stati mentali
sono aperti verso qualcosa che va oltre essi stessi. Ma la sua famosa
definizione non ha risolto niente, ha soltanto messo in luce l’apparente
paradossalità della mente che è a un tempo separata e unita (o, in un
contesto diverso, identica e diversa) ai suoi contenuti.
Questa concezione tradizionale della rappresentazione affonda le sue
radici nell’uso, forse improprio, delle rappresentazioni create dall’uomo:
statue, quadri, codifiche interne alla memoria di un calcolatore. Si tratta
di entità che non sono rappresentazioni in se stesse, ma piuttosto perché
inserite in un contesto relazionale da una comunità di esseri umani (anche
410
le rappresentazioni funzionali soffrono dello stesso problema, Bickhard
1998). Una vasta letteratura ha mostrato che un oggetto fisico (o stato
della materia), per essere una rappresentazione deve essere scelto e interpretato da un soggetto. La firma svolazzante che io traccio in fondo
a un assegno è una mia rappresentazione solo quando si trova inserita in
una serie di convenzioni tra soggetti. L’opera Marylin Monroe di Andy
Wharol rappresenta Marylin Monroe soltanto perché si trova in relazione
con soggetti dotati di un opportuno sistema visivo e di certi ricordi.
1.6. Separazione tra soggetto e oggetto
Il corpo del soggetto è separato dal corpo dell’oggetto. Non ci sono
dubbi in proposito: il pioppo cipressino che vedo nel prato dietro casa
mia è sicuramente distinto dal mio corpo. Ma ciò implica anche che il
soggetto sia separato dall’oggetto? Siamo sicuri che l’insieme dei fenomeni fisici che corrispondono alla mia mente non comprenda anche
fenomeni fisici che si trovano nel pioppo e, nell’aria, tra noi due (radiazioni elettromagnetiche, riflessioni, interazioni tra atomi e fotoni)? In
fin dei conti, quando io faccio esperienza del pioppo, il pioppo fa parte
della mia esperienza, anche se limitatamente a un certo punto di vista. Il
fatto di pensare che non faccio veramente esperienza del pioppo, ma di
un’immagine o impressione del pioppo, potrebbe essere un vizio storico.
Se mi si chiede di indicare di che cosa faccio esperienza, non indico un
punto della mia corteccia o un’immagine o rappresentazione del pioppo,
ma il pioppo in mezzo al prato. Il soggetto e l’oggetto – quando l’uno
fa esperienza dell’altro – sono uniti in qualche senso forte che sembra
contraddire il senso comune che ne prescrive la separazione basandosi
sulla separazione dei corpi. Quali sono i confini spaziali, temporali e
causali dei due poli di questa relazione problematica?
1.7. L’ambiguità della metafora dell’input-output
Dalla pubblicazione dell’opera di Shannon e Weaver (1949), è
dominante un modello di informazione secondo il quale certi sistemi
ricevono ed emettono una strana entità, detta informazione. Si tratta
di una metafora, presentata qui in modo consapevolmente rozzo, ma
una metafora talmente convincente che ha finito per invadere numerosi
campi. La teoria dei sistemi, l’informatica, le neuroscienze e numerose
altre discipline fanno uso della metafora dell’input-output. Com’è noto,
in un sistema che tratta informazione non c’è nulla che entra e nulla che
esce. La metafora è fallace. Quando si mangia, quando si riceve corrente
elettrica, quando si respira, quando si espletano le funzioni corporee, il
sistema «mette dentro» e «pone fuori» qualcosa. Ma consideriamo adesso
411
un sistema input-output quale il cervello: il cervello è chiuso dentro la
barriera ematoencefalica. Riceve nutrienti, emoglobina e plasma attraverso il sangue (input) e libera sostanze di scarto ed emoglobina ossidata
(output). Tutto questo però non è il tipo di interscambio al quale ci si
riferisce quando si studia il cervello come sistema che elabora l’informazione. Che cosa entra all’interno del cervello? La risposta canonica
è «informazione», ma si tratta di una risposta ambigua perché, come
tutti sanno, l’informazione non è qualcosa di fisico che si possa dire sia
dentro o fuori di un oggetto fisico. Forse l’equivoco nasce quando, per
inviare dell’informazione, si doveva mandare del materiale di supporto
(come quando, tutt’oggi, si inviano lettere scritte o CD di dati o di musica). Tuttavia nel cervello (e in molte tecnologie informatiche odierne)
non si invia materiale. Si propagano relazioni causali analoghe alle
onde che si espandono sulla superficie di uno stagno prima tranquillo.
Le onde si trasmettono senza che si trasmetta materia. Il cervello è più
simile allo stagno che non a un ufficio postale del secolo scorso. Che
cosa succede allora? Il cervello modifica la propria struttura causale
in risposta a quello che succede esternamente ed internamente. Queste
modifiche sono interpretate assumendo che qualcosa, l’informazione,
sia entrata nel sistema. Si tratta di una metafora fuorviante. Una critica
complementare a quella presentata in questa sede è stata recentemente
fornita da Susan Hurley (2008)1.
L’informazione non entra e non esce, piuttosto il corpo umano (e
in particolare il sistema nervoso), sfrutta e, a volte, modifica la propria
struttura causale. Tra il comportamento e gli stimoli esterni esistono
relazioni di causa.
1.8. Il fossato galileiano 2
La tradizione galileiana e cartesiana vuole che esista uno iato incolmabile tra le entità dell’esperienza e le entità del mondo fisico. Tuttavia,
questo fossato non è così evidente né nella percezione fenomenologica e
nemmeno nella percezione ingenua. È concepibile che possa esistere un
modello della percezione, magari erede e continuatore della percezione
diretta (Holt, Marvin et al. 1910; Gibson 1979/1999) che possa valicare
il fossato.
Siamo sicuri che le qualità percepite siano create dalla mente e non
siano invece parte dell’arredo del mondo? In realtà, anche se fossero
1
Per questo riferimento siamo debitori all’attenta revisione di Fabio Paglieri.
Ho udito per la prima volta l’espressione «fossato galileiano» da parte di Walter
Gerbino nel convegno di Roma. Fin da subito, mi è sembrata esprimere con grande
efficacia e sintesi il carattere della separazione tra mondo fisico e mondo fenomenico
(nota di Riccardo Manzotti).
2
412
create dalla mente – e supponendo che la mente sia frutto di un processo
fisico – si dovrebbe comunque concludere che il mondo fisico contiene
qualità, a meno di non reputare che l’esperienza sia fuori dal mondo
fisico; una posizione difendibile soltanto da dualisti di sostanza (Lavazza 2008). Al contrario, il fatto stesso che facciamo esperienza di certe
qualità dovrebbe farci concludere che le qualità sono parte della realtà
fisica (Strawson 2003; 2006). La fisica ha utilizzato una descrizione del
mondo fisico basata sulle quantità e sulle relazioni tra fenomeni fisici. Il
fatto che tale descrizione sia priva di aspetti qualitativi non implica che
tali aspetti qualitativi non esistano e non siano parte dei fenomeni presi
in esame (Eddington 1929/1935; Honderich 2006; Strawson 2006). Non
sappiamo qual è la qualità di un oggetto al di fuori di un certo processo,
ma perché dovremmo pensare che il processo, che ci permette di entrare in relazione con quell’oggetto, non abbia la qualità di cui facciamo
esperienza quando la nostra esperienza è costituita da quel processo?
La descrizione quantitativa del mondo fisico non esclude la sua natura
qualitativa. Una descrizione indicale non esclude un valore semantico.
Il fatto di numerare certi fenomeni, non annulla le loro proprietà. Certo,
finora si è cercato di far corrispondere all’esperienza due domini forse
insufficienti: l’attività neurale o il mondo esterno considerato indipendentemente dal tipo di relazioni stipulato con i corpi dei soggetti che
ne fanno esperienza. Però questo non esclude che esista un dominio di
fenomeni, eventi o processi fisici tale da avere le stesse proprietà dell’esperienza e del mondo fisico così come è esperito e così come è il
punto di partenza per la imponente costruzione epistemica offerta dalla
scienza.
1.9. Lo specchio, metafora ingannevole
Spesso si è paragonata la mente a uno specchio. Non a caso, la metafora ricorre in opere di filosofia della mente, testi di psicologia, manuali
di neuroscienze, film e novelle (da Rorty 1979 al film Matrix 1998).
Eppure si tratta di una metafora assai ingannevole (Eco 1985). La natura
dei fenomeni legati alla riflessione è assai complessa. Spesso si reputa
che lo specchio duplichi la realtà, creando un’immagine speculare. Si
può dimostrare che non è così. Si può sostenere che, ciò che si reputa
essere un’immagine speculare, è soltanto un modo diverso di vedere gli
oggetti.
Quando guardiamo uno specchio, vediamo un’immagine riflessa di
qualcosa (poniamo un albero) oppure vediamo questo qualcosa? Una
lunga tradizione e una terminologia confusa tendono a farci ritenere
che, quando guardiamo uno specchio, riteniamo di vedere un’immagine;
quasi che si tratti di un insieme di forme e colori «spalmato» sulla sua
superficie. Ma lo specchio non è né lo schermo di un computer, né uno
413
schermo televisivo, né un muro su cui sono proiettate delle immagini, né
un quadro. È qualcosa di completamente e fondamentalmente diverso.
Quando guardiamo la superficie dello specchio, vediamo qualcosa
che è indissolubilmente dipendente da noi stessi. Spostandoci vediamo
cose diverse. Dato che, in ogni istante, potrebbero esserci diversi osservatori di quello stesso specchio, dovremmo supporre che sullo specchio
si trovino altrettante immagini. Teoricamente lo specchio potrebbe essere osservato da un numero infinito di osservatori posti a distanze e in
posizioni diverse. Ognuno percepirà un’immagine diversa. Se, quindi,
accettassimo l’idea che sullo specchio si trova un’immagine, dovremmo
concludere che sullo specchio si trova un numero infinito di immagini.
Non va bene: stiamo usando la metafora sbagliata per descrivere la
realtà.
L’idea che esista una separazione tra il mondo esterno e la sua immagine (veicolata da quadri, affreschi, schermi televisivi e informatici)
è fuorviante: sullo specchio non c’è nessuna immagine. Attraverso lo
specchio, noi vediamo oggetti che altrimenti non potremmo vedere, il
che è diverso dal fatto di vedere immagini di tali oggetti. Anche se siamo
abituati, fin da piccoli, a usare espressioni del tipo «l’immagine riflessa
dallo specchio», si tratta di una terminologia fuorviante.
Lo specchio altera la normale connessione causale della realtà fisica:
non crea immagini intermedie, fornisce un percorso alternativo. Quando
mi guardo allo specchio, vedo me stesso, anche se l’ordine geometrico
dei punti che mi costituiscono è stato invertito rispetto alla superficie
dello specchio: la successione nuca, occhi e punta del naso della realtà
diventa punta del naso, occhi e nuca nello specchio. Lo specchio non
inverte la destra con la sinistra, né l’alto con il basso, piuttosto riorganizza
l’ordine con il quale vediamo il mondo: per questo motivo crediamo che
avvenga l’«inversione» rispetto alla destra e sinistra.
1.10. Vedere senza immagini
Nel mondo delle neuroscienze, spesso si leggono articoli che trattano di «immagini mentali», «immagini corticali», «immagini retiniche»,
«immagini computazionali» (Stanley, Li et al. 1999; Thirion, Duchesnay
et al. 2006; Kay, Naselaris et al. 2008). Tuttavia non è affatto ovvio che
esistano immagini intermedie tra noi e il mondo. Non è chiaro se vediamo
il mondo attraverso immagini oppure il mondo direttamente. Come si è
detto esistono immagini costruite dall’uomo: quadri, affreschi, schermi
di personal computer. Tuttavia, queste rappresentazioni non possono
essere proposte come modello accettabile dell’esperienza visiva poiché
si cadrebbe nel famoso regresso infinito. Nel tradizionale dibattito sulla
natura delle immagini mentali (Kosslyn 1987; 1988; Pylyshyn 2003), ci
si interroga sulla natura descrittiva o pittorica dei veicoli rappresentativi,
414
ma non si dice nulla circa il modo in cui tali veicoli si trasformino in
esperienza visiva. Tale dibattito non contribuisce a capire se, alla fine,
le rappresentazioni neurali producano «immagini mentali». Al contrario,
molti esperimenti dimostrano che la nostra percezione visiva è costituita
da insiemi di elementi che individuiamo e riconosciamo (O’ Regan 1992;
Logothetis e Sheinberg 1996; Simons e Chabris 1999; Zeki 2001, oltre
al capitolo pertinente in Manzotti e Tagliasco 2008b). La presenza della
proiezione di determinati oggetti sulla retina (o addirittura della corrispondente informazione a livello di prime aree visive corticali) non determina
automaticamente il fatto di farne esperienza (Rock e Mack 1998; Simons
e Chabris 1999; Dulany 2000).
Inoltre, il concetto di immagine, in quanto entità intermedia che fa
da tramite per i processi visivi, è molto problematica nel momento in
cui la si voglia trasferire ad altre modalità sensoriali. Dobbiamo forse
supporre che esista un suono mentale? Una pressione fisica mentale?
Un profumo mentale? Un sapore mentale? Perché introdurre un’entità
intermedia tra il mondo esterno, vero oggetto e bersaglio della nostra
percezione, e l’attività neurale interna al sistema nervoso? E perché pensare che sulla retina esista un’immagine? Sulla retina non esiste nessuna
immagine, solamente attività chimica che trasduce l’impatto dei fotoni
in concentrazione di rodopsina. Anche nella corteccia visiva, per quanto
se ne sa, non esiste alcuna immagine; soltanto attività neurale.
2. UN
PUNTO DI PARTENZA DIVERSO: IL PROCESSO FISICO
Come abbiamo accennato nel precedente paragrafo, i vari approcci
che hanno tentato di spiegare l’esperienza cosciente non sono per nulla
innocenti e sono condizionati da una lunga serie di metafore e assunti
non sempre empiricamente fondati.
In questo paragrafo, vogliamo accennare a un possibile candidato
fisico per l’esperienza; un candidato che potrebbe offrire una spiegazione
circa l’ontologia fisica opportuna della mente.
Iniziamo con una descrizione che non ha alcuna pretesa di rigore,
ma che potrebbe servire a fornire un’idea intuitiva. Siamo di notte, in
una camera completamente buia. Solo un led giallo e luminoso brilla al
centro della stanza. Fissiamo con un solo occhio questo led. Una catena ininterrotta di processi fisici si estende dal led luminoso alla nostra
corteccia, passando attraverso vari sotto-processi intermedi quali i fotoni, la concentrazione della rodopsina nei fotorecettori, i centri neurali
periferici, il chiasma ottico, gli innumerevoli passaggi tra spikes neurali
ed emissione di neurotrasmettitori tra i collegamenti sinaptici. Dove si
trova l’esperienza del giallo?
Una posizione ingenua consiste nel ritenere che si trovi nel led. Si
tratta di una forma di realismo ingenuo che oggi non è difeso praticamente
415
da nessuno. Il led, inoltre, ha molte altre proprietà, emette radiazioni
non visibili (per esempio nell’infrarosso), produce un debole campo
elettromagnetico e un ancor più debole campo gravitazionale, libera
una quantità molto piccola di sostanze chimiche nell’aria circostante e
reagisce, molto debolmente, alle molecole che entrano in contatto con
esso. Di tutto ciò, facciamo esperienza soltanto di una proprietà particolare che corrisponde, in qualche modo non lineare, alla distribuzione
di frequenza delle onde elettromagnetiche emesse.
Un’altra possibilità, molto più frequentemente presa in considerazione,
consiste nel ritenere che il led sia fisicamente esterno alla nostra esperienza mentre l’esperienza – al pari di altri fenomeni fisiologici quali la
digestione, il metabolismo o il ciclo di Krebbs – sia interno all’organismo
e, in particolare, all’interno del sistema nervoso. È l’ipotesi prevalente
nel contesto delle neuroscienze. Tuttavia finora non si è trovata alcuna
attività neurale che possegga le caratteristiche della nostra esperienza.
Molto banalmente, nell’attività neurale non c’è niente di giallo. Quando
i neuroscienziati cercano i correlati neurali della coscienza si muovono in questa direzione (per esempio nel caso delle immagini bistabili
cercano attività neurali che varino con la stessa frequenza dei contenuti
dell’esperienza). Non è detto che abbiano ragione.
Per risolvere queste difficoltà, proponiamo una soluzione alternativa. L’esperienza potrebbe corrispondere all’intero processo percettivo
parzialmente esterno sia al cervello, sia al sistema nervoso nel suo
complesso, e persino al corpo del soggetto. Si tratta di un processo che
avviene grazie al sistema nervoso, ma che, rispetto a esso, è molto più
esteso nel tempo e nello spazio.
Quali sono i vantaggi di questa scelta? Intanto il processo così
definito (fig. 1 e fig. 2) contiene il mondo esterno che non deve essere
ri-prodotto all’interno del sistema. Si può evitare il difficile problema
della rappresentazione, del rapporto intenzionale e della creazione di
significato. Ma un altro vantaggio consiste nel fatto che tale processo
effettivamente contiene qualche cosa di giallo. Anzi, possiamo dire che
questo processo consente a quell’insieme di rapporti tra frequenze elettromagnetiche (che corrisponde al contenuto della nostra percezione del
giallo) di accadere e quindi di esistere. In altri termini, questo processo
non corrisponde al led giallo in se stesso, ma al led giallo nella misura
in cui entra in relazione con il nostro sistema fisico. Kantianamente,
il processo corrisponde al giallo fenomenico e non al led noumenico.
Se ci si concede una citazione un po’ idiosincratica di alcuni termini
cari alla fenomenologia, il processo preso in esame sarebbe allo stesso
tempo il noema e la noesi, l’oggetto intenzionale e l’atto intenzionale,
l’esperienza e l’esperito.
Ci rendiamo conto, e lo anticipiamo, che molti dei problemi che
abbiamo sollevato nel precedente paragrafo non troveranno una risposta
416
FIG. 1. Tra il mondo esterno e l’attività corticale esiste una continuità fisica. Perché
prendere in considerazione soltanto un frammento di questa complessa serie di
attività? Forse il processo fisico nella sua interezza è un valido candidato per
l’esperienza.
FIG. 2. Esistono vari sottoinsiemi di processi fisici. Non c’è nessun motivo a priori per
preferire uno all’altro. Tuttavia, a posteriori, potremmo scoprire che uno di essi
si presta a corrispondere alle proprietà dell’esperienza, meglio degli altri.
nelle prossime pagine. Ne siamo consapevoli. Per esempio, che cosa definisce i confini del processo cui facciamo riferimento? Non può essere
sufficiente un semplice appello al fatto che alcuni processi appartengono
al soggetto. Si tratterebbe di una affermazione circolare. Il nostro obiettivo, in fase di articolazione, punta a trovare delle condizioni causali che
possano definire, in piena autonomia, l’esistenza di nervature, confini e
limiti nel flusso dei processi (Manzotti e Tagliasco 2008b).
417
3. SPIEGAZIONI
A CONFRONTO
Perché dovremmo accettare l’idea secondo cui l’esperienza è identica
a un processo fisico parzialmente esterno al corpo del soggetto piuttosto
che aderire all’ipotesi proposta dai neuroscienziati secondo cui l’esperienza emerge da o coincide con l’attività neurale?
Proviamo a generalizzare il problema: esiste un fenomeno (l’esperienza) e si cerca di spiegarlo cercando di riconoscere la sua identità
con altri fenomeni. Confrontiamo l’attività neurale con il processo fisico
delineato in precedenza.
Nella storia della scienza esistono parecchi esempi in cui fenomeni
inizialmente considerati diversi si sono rivelati identici. Quando si è
capito che vapore, acqua e ghiaccio erano, in un certo senso, la stessa
cosa, si è compiuto un importante passo avanti e lo stesso è accaduto
in molti altri casi quali elettricità e magnetismo, fuoco e reazioni di
ossidazione, spinta idrostatica e pressione, movimento delle molecole
e temperatura.
Ovviamente tutti questi fenomeni sono, e in modo non banale, diversi.
Affermare che «il fuoco è una reazione di ossidazione» significa fornire
una spiegazione soddisfacente ossia proporre qualcosa che è, in un modo
appropriato, uguale e diverso al fenomeno che si vuole spiegare. Nella
storia della scienza, trovare questa identità tra fenomeni, apparentemente
diversi, è stato di grande importanza in quanto ha consentito di affrontare
un certo problema da punti di vista diversi. A volte i fenomeni paiono
diversi perché sono descritti con strumenti epistemici diversi e da punti
di vista alternativi.
In un certo senso, «spiegare» vuol dire passare da «un particolare»
a «un altro particolare», operazione che permette di arrivare a una categoria più generale che comprenda entrambi i «particolari». Due o più
fenomeni particolari sono ricondotti a un unico principio generale (le
entità «vapore», «acqua» e «ghiaccio» sono ricondotte alle «molecole di
H2O») la cui valenza in termini di potere esplicativo, ovvero epistemica,
consiste proprio nel ridurre il numero di entità a cui fare riferimento.
Facciamo riferimento all’analogia con la temperatura e la sua identità
con la velocità media delle molecole. Prima dell’800, la temperatura
(come oggi l’esperienza) era un mistero: non aveva spiegazione. Quando
si cominciò a notare una parentela tra la temperatura e i fenomeni che
erano descritti attraverso la cinematica dei gas si avanzò l’ipotesi che,
nei gas, il fenomeno «temperatura» fosse identico al fenomeno «velocità
media delle molecole». Si riuscì così a spiegare il fenomeno temperatura
identificandolo con un altro fenomeno.
Ma come si era riusciti a capire che due fenomeni, studiati e descritti
da tradizioni completamente diverse, erano la stessa cosa?
Uno dei criteri che fu utilizzato per essere certi di questa identità
(tra fenomeni che erano stati descritti utilizzando modelli e tradizioni
418
molto diverse), fu il confronto tra le proprietà dei due fenomeni: qualcosa
di simile alla tabella 1. Tutte le caratteristiche della temperatura erano
condivise dalla velocità media delle molecole.
Procediamo nel confronto in modo analitico. Un gas a temperatura
maggiore esercita una pressione maggiore e anche un gas le cui molecole
abbiano una maggiore velocità media esercita una pressione maggiore.
Anche il passaggio tra stato solido, liquido e gassoso può essere interpretato sotto forma di diversa velocità e composizione di un insieme di
molecole. Lo stesso può dirsi di altri fenomeni quali la conduzione e la
convezione. Alla fine del confronto non si trova nessuna proprietà del
primo fenomeno che non sia condivisa dal secondo e si può concludere
che sono identici.
TAB. 1. Confronto tra due fenomeni apparentemente diversi, ma in realtà identici
Pressione
Passaggio di stato
Conduzione
Convezione
Altre proprietà
Temperatura
Velocità media
delle molecole
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Ritorniamo al caso dell’esperienza e proviamo ad applicare questo
stesso criterio (esemplificato dalla temperatura). Quali sono le caratteristiche proprie dell’esperienza che danno alla comunità scientifica tanto
filo da torcere? Seguendo la linea accennata prima e sulla base della letteratura disponibile (Dennett 1991; Chalmers 1996/1998; Ramachandran
2003/2006; Koch 2004) possiamo dire che l’esperienza è caratterizzata
dalle seguenti proprietà: avere qualità, rappresentare il mondo esterno,
intenzionalità, unità, prospettiva in prima persona.
Uno degli aspetti più elusivi dell’esperienza è rappresentato dalla
sua qualità. Provare una certa esperienza è associato a una certa qualità
(visiva, uditiva, tattile, ma non solo). La qualità corrisponde al fatto che
ogni esperienza è distinguibile dalle altre: un’esperienza visiva è distinguibile da una auditiva; una certa esperienza cromatica è distinguibile
da un’altra.
Per quanto concerne la capacità di rappresentare, l’esperienza serve
per descrivere, per rappresentare, gli eventi del mondo esterno. I colori
sono attribuiti alle superfici, i suoni agli eventi sonori, i sapori ai cibi.
Attraverso l’esperienza, siamo in grado di conoscere il mondo esterno.
Come è possibile? Se l’esperienza non rappresentasse il mondo esterno
saremmo per sempre solipsisticamente chiusi in noi stessi.
La terza caratteristica da prendere in esame, l’intenzionalità, è la
capacità di riferirsi ad altro da sé (Brentano 1874/1997; Albertazzi 2006;
419
2007). Essa è alla base della possibilità di riferirci semanticamente a stati
o eventi del mondo esterno (Searle 1983). Per alcuni autori, la capacità
di rappresentare e l’intenzionalità coincidono.
L’unità o unitarietà è una caratteristica spesso attribuita a tutta la
nostra esperienza: l’unità del percetto e l’unità delle percezioni. L’unità
del percetto si riferisce al fatto che la nostra esperienza è costituita da
unità: un volto, un sapore, un colore. Inoltre, in ogni istante, tutte le
nostre esperienze sembrano comporsi in un momento di esperienza che
caratterizza il nostro presente di soggetto.
Infine l’esperienza è caratterizzata da una prospettiva in prima persona. Quando facciamo esperienza del mondo, in ogni nostra esperienza
è implicitamente contenuto il nostro punto di vista, la nostra prospettiva.
In quello che vediamo, sentiamo, odoriamo, gustiamo è implicitamente
contenuto il punto di vista del soggetto. La fisica e le scienze forti utilizzano una prospettiva in terza persona per spiegare la natura. Come
passare, mediante le tecniche e le metodologie della fisica, alla prospettiva
in prima persona caratteristica dell’esperienza?
Nella tabella 2 si mette alla prova l’ipotesi dell’identità tra l’attività
neurale e l’esperienza. Prendiamo in considerazione le qualità che riconosciamo all’esperienza. Per esempio il fatto che un’esperienza visiva
corrisponda a un colore giallo. L’attività neurale corrispondente non
condivide questa proprietà: i neuroni sono grigi, con qualche iniezione di
blu, viola e rosso. In altri casi, la discrepanza tra le qualità dei neuroni e
quelle dell’esperienza è ancora più drammatica: i neuroni non potranno
mai avere qualità quali il suono, il gusto, l’odore.
TAB. 2. L’attività neurale è un candidato per l’esperienza?
Avere qualità
Rappresentare il mondo esterno
Intenzionalità
Unità
Prospettiva in prima persona
Esperienza
Attività neurale
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì/No?
No
No
No
Quanto al fatto di rappresentare le proprietà del mondo esterno non
è affatto ovvio come sia possibile che lo stato elettro-chimico di una
area corticale possa essere un’adeguata rappresentazione di un suono,
di un sapore, di uno stato di cose esterno al cervello. Anche se oggi si
comincia a capire qualcosa circa il modo nel quale un’area corticale
gestisce l’informazione, non sappiamo nulla circa il modo nel quale si
possa rappresentare il mondo esterno se non affidandoci a una ipotetica
codifica mutuata dalla consuetudine con i calcolatori elettronici.
L’intenzionalità, ovvero il fatto che qualcosa si riferisca a qualcosa
d’altro, non è contemplata dall’attività neurale che, in quanto tale, non
420
è altro che una serie di reazioni chimico-elettriche interne al cranio.
Nessuno sa dire perché, per esempio, l’attività nel cervello ha intenzionalità, mentre quella nei reni o nel fegato non manifesta questa proprietà
(Putnam 1975/1993; Fodor 1976).
La situazione non migliora per quanto riguarda l’unità della nostra
esperienza: l’unità dei percetti e l’unità complessiva dell’esperienza
soggettiva. L’attività neurale è suddivisa in molteplici reazioni chimiche
ed elettriche separate temporalmente e spazialmente. Unirle equivale a
quello che, nella letteratura, è definito il binding problem (Revonsuo
1999; Eagleman e Sejnowski 2000; Bayne e Chalmers 2003). Nessuno
è finora riuscito a indicare un meccanismo convincente. Francisc Crick
(1994) aveva proposto un meccanismo basato sulla sincronizzazione a
40 Hz, ma non si è rivelato convincente.
Infine, l’esperienza è ritenuta dotata di quello che si dice una prospettiva in prima persona, ovvero il fatto che ogni esperienza è vissuta
da un certo punto di vista. L’attività neurale avviene e basta, non è caratterizzata da questa proprietà. Come si vede la colonna di verifica sulla
sinistra è quasi completamente negativa. Non ci si meraviglia del fatto
che molti studiosi abbiano definito questo problema come «problema
difficile».
Proviamo ora a mettere alla prova il tipo di processo delineato in
precedenza. Il risultato è nella tabella 3. Partiamo dal fondo.
TAB. 3. La nostra proposta messa alla prova
Avere qualità
Rappresentare il mondo esterno
Intenzionalità
Unità
Prospettiva in prima persona
Esperienza
Processo fisico
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì/No
Sì
Sì
Sì
Sì
I processi fisici che abbiamo suggerito come spiegazione dell’esperienza hanno una prospettiva in prima persona in quanto consistono in
una relazione di causa ed effetto. Per esempio, un processo visivo non
riguarda tutti i lati di un oggetto, ma soltanto quelli che possono interagire
con il sistema visivo di un agente. A seconda delle caratteristiche di quel
sistema visivo, il processo sarà diverso e i lati osservati dipenderanno
dal punto di vista. I processi non possono fare a meno di contenere un
punto di vista.
I processi fisici hanno confini definiti spazialmente, temporalmente e
causalmente? Ancora una volta la risposta è affermativa. Anzi i processi
che abbiamo preso in esame accadono solo nella misura in cui producono
un’unità di effetto. Una molteplicità di cause diverse producono un effetto
congiunto. L’unità non è raggiunta attraverso un’artificiosa unificazione
421
di singole parti, ma a livello di processo (grazie al fatto che il processo
produce un effetto congiunto). L’unità definisce i confini del processo
(Manzotti e Tagliasco 2006).
Anche l’intenzionalità è una proprietà traducibile in un processo.
Tale processo mette in relazione aspetti diversi della realtà. La causa
e l’effetto, che la tradizione considera separatamente, si trovano unite
se considerate come due aspetti di un processo. Questa relazione è alla
base dell’intenzionalità dell’esperienza.
Per quanto riguarda la rappresentazione, abbiamo una soluzione nuova: non si ha più a che fare con momenti diversi (il mondo esterno e la
sua rappresentazione neurale). Il rappresentato e il rappresentante sono
due modi diversi di descrivere il medesimo processo. In questo modo,
lo iato apparentemente incolmabile tra rappresentazione e rappresentato
trova una soluzione.
Infine, eccoci arrivati al primo punto, forse il meno intuitivo. Questo
processo ha le stesse qualità della nostra esperienza? Quando guardiamo il
led giallo nel buio della notte, dove si trova il corrispondente fisico della
nostra esperienza del giallo? Il giallo della nostra esperienza è anche il
giallo del processo? Il processo corrisponde a quell’aspetto del mondo
a cui ci riferiamo quando facciamo esperienza del led giallo. Infatti,
quando diciamo che facciamo esperienza di led giallo non indichiamo
la nostra testa (dove i neuroscienziati ritengono che abbia luogo l’esperienza) e nemmeno il led noumenico fatto di campi elettromagnetici,
barioni, leptoni e quant’altro; bensì proprio quegli aspetti del led giallo
di fronte a noi che, interagendo con il nostro corpo, danno luogo a un
processo fisico. Il giallo del mondo fisico fa parte del processo che noi
suggeriamo essere identico all’esperienza. È vero che un fisico potrebbe
descrivere il processo esclusivamente in termini quantitativi, ma questo non esclude la possibilità che quel processo nella sua interezza sia
identico alla nostra esperienza.
È chiaro che questo rapido confronto tra le proprietà salienti dell’esperienza e quelle dell’attività neurale è solamente abbozzato. Riteniamo
possa però essere sufficiente a delineare una possibile direzione verso
cui muovere una più approfondita analisi e confronto.
4. FREQUENTI
EQUIVOCI
In una proposta come la nostra, che si propone di individuare un
candidato per l’esperienza attraverso una revisione nel modo di considerare i fenomeni fisici sottostanti, le possibilità di equivocare sull’uso
dei termini non sono poche. Riteniamo sia utile provare a chiarire fin
da subito alcune possibili obiezioni che ci sono state frequentemente
rivolte e che si basano su interpretazioni non corrette del nostro punto
di vista.
422
Una prima obiezione riguarda una presunta confusione tra il piano
dell’ontologia e quello della fenomenologia (o dell’epistemologia). In
parole semplici, confonderemmo l’esistenza degli oggetti con la capacità
del soggetto di interpretare il mondo secondo vari significati. Facciamo notare che il problema dell’esperienza nasce, tra i vari motivi, in
quanto non si riesce a trovare un punto di contatto tra il mondo fisico
e il mondo fenomenico (e, per estensione, con il dominio delle credenze, dei pensieri, dei giudizi, dei concetti). Fintanto che si riterrà che il
dominio dei fenomeni fisici sia separato da quello dell’esperienza, non
sarà possibile capire in che cosa consiste l’esperienza. Se l’esperienza
può essere spiegata all’interno della cornice delle scienze naturali, è lecito aspettarsi che il mondo della fenomenologia corrisponda a qualche
sottoinsieme del mondo fisico (Whitehead 1920; Eddington 1929/1935).
Oggi, in prevalenza, le neuroscienze ritengono che tale sottoinsieme
sia da cercarsi esclusivamente all’interno del sistema nervoso, delle
sue attività e delle sue proprietà. Secondo la nostra proposta, il sottoinsieme fisico è più esteso del sistema nervoso e comprende anche parti
dell’ambiente. Ovviamente un dualista di sostanze (o di proprietà) non
accetterebbe questa posizione in quanto rivendicherebbe l’esistenza di
mondi separati. Tuttavia, il dualismo ha notevoli problemi che non sono
stati finora risolti. Non si tratta quindi di confusione tra piani, ma di un
tentativo di mostrare come il piano ontologico e quello fenomenico non
siano realmente separati, ma possano corrispondere a prospettive diverse
sugli stessi fenomeni fisici.
Una seconda obiezione, parzialmente collegata alla precedente, è
l’accusa di idealismo o comunque di confondere il mondo fisico con
le scelte compiute dagli osservatori. È un’osservazione ragionevole e
comprensibile in quanto la tradizione ha sempre considerato il soggetto
come se fosse separato dal mondo esterno. I processi nei quali il soggetto
si è trovato coinvolto sono stati terminologicamente distinti dal mondo
fisico attraverso l’uso di aggettivi – quali «cognitivo», «percettivo»,
«neurale», «mentale», «intenzionale» – che hanno indotto molti a trattarli
come se fossero effettivamente disgiunti o distinti dal mondo fisico. In
realtà, è evidente che un processo percettivo, per esempio, non può che
essere prima di tutto un processo fisico. In questa accezione, i processi
legati all’esperienza sono parte dei processi che, complessivamente, costituiscono la realtà fisica. L’idealismo non potrebbe essere più lontano
dal nostro punto di vista, in quanto l’idealismo presuppone l’esistenza
di un principio soggettivo autonomo e distinto dal mondo fisico che, in
casi estremi, rimane anche l’unico (sia esso il soggetto trascendentale, il
soggetto solipsistico o altre forme di soggetto). Nella proposta avanzata
in questo articolo, il soggetto non è autonomo e non pre-esiste alla realtà.
Il livello fondamentale suggerito è costituito da processi fisici che, nella
loro interezza, ritagliano e definiscono porzioni di realtà. Queste porzioni
di realtà corrispondono sia all’esperienza che facciamo del mondo, sia
423
alle cose di cui facciamo esperienza: le due cose non essendo nulla più
che modi diversi di parlare dello stesso processo. Il soggetto, in questa
prospettiva, è ontologicamente successivo al determinarsi della realtà
in termini di processi fisici. Anche l’oggetto della nostra esperienza
(inteso come entità fisica autonoma ed esistente a prescindere dal suo
essere coinvolta in processi causali) è definito come esito dell’accadere
di processi fisici.
Anche il concetto di emergenza non fa parte del nostro bagaglio
concettuale e non lo vediamo con particolare simpatia. Su questo punto
condividiamo pienamente le critiche espresse da Jaegwon Kim (1993;
1998; 1999). Se Kim ha ragione, l’emergenza è un fenomeno puramente
epistemico e noi siamo tentati di dargli ragione. Il problema dell’emergenza è che tende a risolvere il problema dell’esistenza di fenomeni e
livelli diversi, attraverso una comparsa improvvisa e ingiustificata (se
fosse giustificata non richiederebbe nessuna emergenza). Vogliamo essere particolarmente chiari a questo proposito. È perfettamente corretto
utilizzare il termine «emergenza» per riferirsi a tutte quelle situazioni in
cui un sistema fisico, attraverso la sua evoluzione, produce qualcosa che
non era presente prima; per esempio le mappe neurali autorganizzanti,
la cellula, un formicaio, un insieme di stelle che si aggregano formando
una galassia. Ma questi esempi non riguardano la nascita di un nuovo
dominio ontologico, bensì illustrano come, all’interno del dominio dei
fenomeni fisici, siano possibili aggregazioni e combinazioni diverse. Al
massimo, rispetto a un modo di descrivere i fenomeni, si ha la necessità
di utilizzare nuove categorie. Ma in natura, per quanto se ne sa, non si
conoscono casi genuini di emergenza: per esempio, una quinta forza
fondamentale che si aggiungesse alle quattro oggi accettate (gravità,
elettromagnetismo, forza nucleare debole, forza nucleare forte). Per noi,
il soggetto e l’esperienza sono sicuramente più simili alla formazione
di una galassia, o di un formicaio, che non all’emergenza in senso ontologicamente forte. E, coerentemente, supponiamo che il mondo fisico
sia costituito da processi potenzialmente identici a quelli che costituiscono un soggetto. Il soggetto è particolare in quanto è un aggregato di
processi che non ha pari e non richiede l’aggiunta o emergenza di uno
speciale dominio soggettivo. L’uragano è un aggregato particolare di
correnti d’aria e non richiede l’emergere di nessuna speciale proprietà
«uraganica».
Infine è stato obiettato che la nostra proposta non spiega veramente
che cosa sia l’esperienza. In un certo senso è vero. Il nostro obiettivo,
che crediamo comunque meritevole di indagine, è quello di localizzare
i fenomeni fisici che corrispondono all’esperienza e, conseguentemente, che corrispondono alla mente. A quale fenomeno fisico corrisponde l’esperienza? Le neuroscienze suggeriscono l’attività neurale o le
sue proprietà. Noi suggeriamo di considerare congiuntamente anche
424
gli eventi fisici che precedono l’attivazione corticale. Si tratta di una
differenza non trascurabile che modifica i confini delle esperienze – e
quindi della mente – oltre i confini del corpo. La verifica della nostra
proposta dovrebbe consistere nell’individuazione di controesempi che
non possono essere espressi in termini di processi fisici con queste caratteristiche. Un classico controesempio – finora mai verificato – che
toglierebbe ogni possibilità di validità alla nostra teoria è rappresentato
dalla possibilità del brain in a vat: se un cervello, isolato dal mondo
esterno fin dalla nascita, potesse fare esperienza di suoni, colori, sapori,
odori, altre sensazioni, la nostra proposta non potrebbe essere accettata.
Si tratta di un esperimento inverificabile, almeno allo stato attuale delle
conoscenze. Tuttavia, si possono escogitare casi meno irrealizzabili, che
però potrebbero falsificare o verificare la nostra ipotesi.
Non c’è niente di meglio del classico problema della pianta che cade
nella foresta per chiarire alcuni aspetti della nostra proposta. Se non c’è
alcun essere umano (e supponiamo per comodità nessun animale capace
di fare esperienza), la caduta della pianta fa rumore? Tra i molti, il fisico
Richard P. Feynman se lo chiede e risponde con sicurezza di sì (Feynman,
Leighton et al. 1963, vol. 3, 2-8). Tuttavia questa domanda trascura un
interrogativo preliminare che potrebbe modificare la risposta: che cosa
è il rumore? Se riteniamo che il rumore sia costituito da onde di pressione nell’aria, la pianta fa rumore cadendo. Ma il rumore, così come
noi ne facciamo esperienza, è qualcosa di diverso: non è semplicemente
un’onda di pressione. Le onde di pressione, in quanto tali, sono un fenomeno fisico che ha tante proprietà diverse, molte delle quali non fanno
parte dell’esperienza del rumore. Il rumore non è l’onda di pressione in
quanto tale, ma piuttosto il processo fisico che avviene tra un’onda di
pressione e un sistema nervoso; un processo fisico complesso e articolato
che è mediato dall’aria, dalle cellule ciliate, dai nuclei cocleari, dalle
aree corticali. Quando una pianta cade succedono tante cose, alcune di
queste richiedono condizioni opportune. Per esempio, se non ci fosse
aria, le onde di pressione non potrebbero aver luogo. Se non ci fossero
le cellule ciliate, le onde di pressione non potrebbero produrre effetti
dentro il sistema nervoso, e così via. Il particolare insieme di proprietà
fisiche di cui facciamo esperienza nei confronti della caduta della pianta
è possibile soltanto quando tutte queste condizioni fisiche sono presenti.
Il rumore non può essere soltanto l’onda di pressione, in quanto l’onda
di pressione ha molte caratteristiche che non sono parte del rumore. Il
rumore deve essere il processo nel suo complesso. Quindi possiamo
riprendere in esame la domanda iniziale: quando una pianta cade se non
c’è nessuno fa rumore? La risposta è, pace Feynman, negativa: il motivo
è che il rumore è un processo che richiede: una fonte di sollecitazioni
meccaniche (la pianta che cade), dell’aria, dei trasduttori, un sistema
nervoso, delle aree neurali in grado di selezionare e produrre un effetto
425
in risposta a quel particolare sottoinsieme di proprietà che è all’origine
del rumore. Tutto ciò insieme costituisce quella cosa che chiamiamo
rumore e che per noi è tanto fisico quanto mentale.
Più in generale possiamo dire che un oggetto è caratterizzato da
molte proprietà che dipendono da condizioni esterne. Per esempio,
riflettere la luce secondo una certa curva di riflettanza è possibile solo
quando l’oggetto è effettivamente irradiato da una fonte luminosa. Le
proprietà dell’oggetto sono affordances che dipendono dalle interazioni
che hanno effettivamente luogo. Dato che le interazioni possibili sono
teoricamente infinite (reazione a tutte le tipologie possibili di radiazione
incidente, interazione con tutte le forme concepibili, profilo di risposta a
onde meccaniche e pressorie di intensità e frequenze diverse, e così via),
ha poco senso considerare l’oggetto in isolamento. Tra queste infinite
proprietà soltanto alcune sono parte della nostra esperienza e si tratta,
guarda caso, di quelle che, per avere luogo, richiedono un sistema con
le caratteristiche fisiche dell’osservatore. Non facciamo esperienza degli
oggetti a prescindere dalle loro interazioni con noi. Non abbiamo accesso
alla struttura atomica della realtà. L’esperienza del mondo corrisponde
ai modi, molto limitati, nei quali gli oggetti producono effetti sulla base
delle nostre caratteristiche fisiche. Non possiamo conoscere o fare esperienza di niente altro. Se definiamo le proprietà degli oggetti in questo
modo è evidente che, per avere luogo, è necessario che un essere umano
(o sistema fisico naturale/artificiale con proprietà causali equivalenti)
si trovi presente. Senza qualcuno (inteso come sistema fisico con certe
caratteristiche) le onde di pressione non sono rumore. Il rumore inizia
nell’aria e finisce nell’area corticale di uno spettatore.
5. ESTERNALISMO
E MENTE
Se mettiamo in discussione gli assunti citati nel primo paragrafo – la
separazione tra soggetto e oggetto, il fatto che l’esperienza fenomenica
abbia proprietà diverse dal mondo fisico, l’idea che i fenomeni fisici
corrispondenti alla coscienza siano interni al sacco-pelle e ristretti a
una certa finestra temporale – possiamo abbozzare un punto di vista
alternativo che potremmo definire «esternalismo radicale».
Nel recente, e meno recente, passato molti autori hanno preso in
esame posizioni affini (Mach 1886/1975; James 1905; Holt 1914; Eddington 1929/1935; Putnam 1975/1993; Burge 1986; O’ Regan e Nöe
2001; Rowlands 2003; Nöe 2004; Wilson 2004; Rockwell 2005; Honderich 2006; Hurley 2006; Thompson 2007); hanno cercato di capire
se l’esperienza cosciente non dipenda da fenomeni fisici più estesi (nel
tempo e nello spazio) della sola attività nervosa. Tuttavia, molti di questi
autori hanno accettato un’ontologia del mondo fisico limitata a oggetti
in relazione causale. È una visione del mondo fisico molto limitata che
426
spesso costringe a supporre l’esistenza di un dominio funzionale parallelo e, in certa misura, alternativo rispetto a quello della realtà fisica:
è il caso dell’enattivismo di Kevin O’Regan o di Alva Nöe (O’ Regan
e Nöe 2001; Nöe 2003) e della mente estesa di Andy Clark e David
Chalmers (1999). Anche la posizione dell’embodied cognition (Varela,
Thompson et al. 1991/1993; Thompson 2007) rimane ancorata all’idea
che i processi fisici rilevanti avvengano all’interno del corpo (anche
se riconosce l’importanza di accoppiare tali processi con l’ambiente
esterno). Inoltre l’embodied cognition tende a considerare l’esperienza
non come qualcosa di fisico, ma piuttosto come qualcosa di epistemico
lasciando aperta la domanda circa la sua natura ontologica. Per esempio,
Evan Thompson (2007, 11) spiega che: «l’idea centrale dell’approccio
embodied è che la cognizione consista nell’esercizio di abili conoscenze
nell’azione situata e incarnata». Tuttavia, pur nelle differenze, si tratta
di un punto di vista molto affine a quello difeso nel presente articolo.
A sua volta, il mondo fisico, che spesso si suppone chiaramente
definito in opposizione al problematico mondo mentale, da che cosa è
costituito? Siamo sicuri che il mondo fisico sia effettivamente costituito
dagli oggetti a cui spesso ricorrono i filosofi e gli studiosi della mente
(tavoli, sedie, celle di memoria)? La fisica ci fornisce un quadro molto
diverso: il mondo fisico è costituito da eventi e processi in un flusso
continuo.
Per questi e altri motivi, suggeriamo di prendere in esame un punto
di vista esternalista che vede il soggetto e l’oggetto come due modi diversi di descrivere la medesima realtà fisica; un processo esteso, nello
spazio e nel tempo, oltre i limiti temporali e spaziali che il senso comune attribuisce ai corpi (Manzotti e Tagliasco 2001; 2008a; Manzotti
2006a; 2006b). Questo insieme di processi fisici sarebbe identico (e non
un semplice correlato) all’esperienza cosciente. Si tratterebbe di una
strategia che potrebbe superare i limiti del dualismo.
Siamo consapevoli che restano aperti molti aspetti dell’esperienza
che richiederanno ulteriori analisi; tra i principali ricordiamo la memoria,
il sogno, le after images, le allucinazioni e, in generale, tutti i casi di
esperienza o percezione non diretta.
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
Albertazzi L. (2006), Immanent Realism. An Introduction to Brentano, Berlin,
Springer.
Albertazzi L. (2007), At the Roots of Consciousness: Intentional Presentations,
in «Journal of Consciousness Studies», 14, 1-2, pp. 94-114.
Bayne T. e Chalmers D. (2003), What is the Unity of Consciousness?, in A.
Cleeremans (a cura di), The Unity of Consciousness: Binding, Integration,
Dissociation, Oxford, Oxford University Press.
427
Bennett J. (1996), What Events Are, in Casati e Varzi (1996, 137-152).
Bennett M.R. e Hacker P.M.S. (2003), Philosophical Foundations of Neuroscience, Malden, Mass., Blackwell.
Bickhard M. (1998), Levels of Representationality, in «Journal of Experimental
and Theoretical Artificial Intelligence», 10, 2, pp. 179-215.
Bickhard M. e Terveen L. (1995), Foundational Issues in Artificial Intelligence
and Cognitive Science: Impasse and Solution, Amsterdam, Elsevier Scientific.
Brentano F. (1874/1997), La psicologia dal punto di vista empirico, RomaBari, Laterza.
Burge T. (1986), Individualism and Psychology, in «Philosophical Review»,
95, pp. 3-45.
Casati R. e Varzi A. (1996), Events, Aldershot, Dartmouth.
Chalmers D. (1996/1998), La mente cosciente, Milano, McGraw-Hill.
Clark A. e Chalmers D. (1999), The Extended Mind, in «Analysis», 58, 1, pp.
10-23.
Crick F. (1994), The Astonishing Hypothesis: The Scientific Search for the Soul,
New York, Touchstone.
Davidson D. (1969/1980), The Individuation of Events, in D. Davidson (a cura
di), Essays on Action and Events, Oxford, Blackwell, pp. 163-180.
Davidson D. (1980/2001), Essays on Actions and Events, Oxford, Clarendon
Press.
Dennett D.C. (1991/1993), Coscienza, Milano, Rizzoli.
Dennett D.C. (1991), Consciousness Explained, Boston, Little Brown and
Co.
Devor M. (2002), Pain Networks, in M.A. Arbib (a cura di), The Handbook of
Brain Theories and Neural Networks, Cambridge, Mass., MIT Press, pp.
843-848.
Dulany D.E. (2000), Inattentional Awareness, in «Psyche», 7, 5.
Eagleman D.M. e Sejnowski T.J. (2000), The Temporal Binding Problem: What
it Is and how it Might Be Solved, ASSC4, Brussels.
Eco U. (1985), Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani.
Eddington A.S. (1929/1935), The Nature of the Physical World, New York,
MacMillan.
Feynman R.P., Leighton R.B. et al. (1963), The Feynman Lectures on Physics,
London, Addison-Wesley.
Fine K. (1982), Acts, Events and Thing, Sixth International Wittgenstein Symposium Kirchberg/Wechsel, Holder-Pichler-Tempsky.
Fodor J.A. (1976), The Language of Thought, New York, Crowell.
Fodor J.A. (1992), The Big Idea: Can there Be a Science of Mind?, in «Times
Literary Supplement», 5-7.
Gibson J.J. (1979/1999), Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino.
Hacker P.M.S. (1982), Events and Objects in Space and Time, in «Mind», 91,
pp. 1-19.
Harnad S. (2003), Can a Machine Be Conscious? How?, in «Journal of Consciousness Studies», 10, pp. 69-75.
Holt E.B. (1914), The Concept of Consciousness, New York, MacMillan.
Holt E.B., Marvin W.T. et al. (1910), The Program and First Platform of Six
428
Realists, in «Journal of Philosophy, Psychology and Scientific Methods»,
7, pp. 393-401.
Honderich T. (2006), Radical Externalism, in «Journal of Consciousness Studies», 13, 7-8, pp. 3-13.
Hurley S.L. (2006), Varieties of Externalism, in R. Menary (a cura di), The
Extended Mind, Aldershot, Ashgate.
Hurley S.L. (2008), The Shared Circuits Model: How Control, Mirroring and
Simulation Can Enable Imitation, Deliberation, and Mindreading, in «Behavioral and Brain Sciences», 31, 1, pp. 1-22.
Hutchins E. (1995), Cognition in the Wild, Cambridge, Mass., Bradford
Books.
James W. (1905), A World of Pure Experience, in «Journal of Philosophy», 1,
pp. 533-561.
Kay K.N., Naselaris T. et al. (2008), Identifying Natural Images from Human
Brain Activity, in «Nature», March.
Kim J. (1993), Causes and Counterfactuals, in E. Sosa e M. Tooley (a cura di),
Causation, New York, Dover, pp. 205-208.
Kim J. (1998), Mind in a Physical World, Cambridge, Mass., MIT Press.
Kim J. (1999), Making Sense of Emergence, in «Philosophical Studies», 95,
pp. 3-36.
Koch C. (2004), The Quest for Consciousness: A Neurobiological Approach,
Englewood, Colo., Roberts & Company Publishers.
Kosslyn S.M. (1987), Seeing and Imaging in the Cerebral Emisphere: A Computational Emisphere, in «Psychological Review», 94, pp. 148-175.
Kosslyn S.M. (1988), Aspects of a Cognitive Neuroscience of Mental Imagery,
in «Science», 240, 17, pp. 1621-1626.
Lavazza A. (a cura di) (2008), L’uomo a due dimensioni. Il dualismo mentecorpo oggi, Milano, Bruno Mondadori.
Logothetis N.K. e Sheinberg D.L. (1996), Visual Object Recognition, in «Annual Review of Neuroscience», 19, pp. 577-621.
Mach E. (1886/1975), L’analisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, Milano, Feltrinelli.
Manzotti R. (2006a), An Alternative Process View of Conscious Perception, in
«Journal of Consciousness Studies», 13, 6, pp. 45-79.
Manzotti R. (2006b), Consciousness and Existence as a Process, in «Mind and
Matter», 4, 1, pp. 7-43.
Manzotti R. e Tagliasco V. (2001), Coscienza e realtà. Una teoria della coscienza
per costruttori e studiosi di menti e cervelli, Bologna, Il Mulino.
Manzotti R. e Tagliasco V. (2006), Libertà e coscienza: un approccio basato
sul processo, in «Sistemi Intelligenti», XVIII, 2, pp. 259-281.
Manzotti R. e Tagliasco V. (2008a), Esperienza tra neuroscienze, filosofia e
psicologia, Milano, Codice.
Manzotti R. e Tagliasco V. (2008b), L’esperienza. Perché i neuroni non spiegano
tutto, Milano, Codice.
McGinn C. (1989), Can we Solve the Mind Body Problem?, in «Mind», 98,
891, pp. 349-366.
Moutoussis K. e Zeki S. (1997), A Direct Demonstration of Perceptual Asynchrony in Vision, in Proceedings of the Royal Society of London, 264, pp.
393-399.
429
Nöe A. (2003), Perception and Causation: The Puzzle Unraveled, in «Analysis»,
63, 2, pp. 93-100.
Nöe A. (2004), Action in Perception, Cambridge, Mass., MIT Press.
O’ Regan J.K. (1992), Solving the Real Misteries of Visual Perception: The
World as an Outside Memory, in «Canadian Journal of Psychology», 46,
3, pp. 461-488.
O’ Regan J.K. e Nöe A. (2001), A Sensorimotor Account of Visual Perception and
Consciousness, in «Behavioral and Brain Sciences», 24, 5, pp. 939-1011.
Putnam H. (1975/1993), Mente, linguaggio e realtà, Milano, Bompiani.
Pylyshyn Z.W. (2003), Seeing and Visualizing. It’s Not What You Think, Cambridge, Mass., MIT Press.
Ramachandran V.S. (2003/2006), Che cosa sappiamo della mente, Milano,
Mondadori.
Revonsuo A. (1999), Binding and the Phenomenal Unity of Consciousness, in
«Consciousness and Cognition», 8, pp. 173-185.
Rock I. e Mack A. (1998), Inattentional Blindness, Cambridge, Mass., MIT
Press.
Rockwell T. (2005), Neither Ghost nor Brain, Cambridge, Mass., MIT Press.
Rorty R. (1979), Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Princeton
University Press.
Rowlands M. (2003), Externalism. Putting Mind and World Back Together
Again, Chesham, Acumen Publishing Limited.
Searle J.R. (1983), Intentionality, an Essay in the Philosophy of Mind, Cambridge, Mass., Cambridge University Press.
Shannon C.E. e Weaver W. (1949), The Mathematical Theory of Communication, Urbana, University of Illinois Press.
Simons D.J. e Chabris C.F. (1999), Gorillas in Our Midst: Sustained Inattentional
Blindness for Dynamic Events, in «Perception», 28, pp. 1059-1074.
Stanley G.B., Li F.F. et al. (1999), Reconstruction of Natural Scenes from
Ensemble Responses in the Lateral Geniculate Nucleus, in «Journal of
Neuroscience», 19, pp. 8036-8042.
Strawson G. (2003), What is the Relation between an Experience, the Subject
of the Experience, and the Content of the Experience?, in «Philosophical
Issues», 13, pp. 279-315.
Strawson G. (2006), Does Physicalism Entail Panpsychism?, in «Journal of
Consciousness Studies», 13, 10-11, pp. 3-31.
Thirion B., Duchesnay E. et al. (2006), Inverse Retinotopy: Inferring the Visual
Content of Images from Brain Activation Patterns, in «Neuroimage», 33,
4, pp. 1104-1116.
Thompson E. (2007), Mind in Life, Cambridge, Mass., Belknap.
Tononi G. (2004), An Information Integration Theory of Consciousness, in
«BMC Neuroscience», 5, 42, pp. 1-22.
Trautteur G. (a cura di) (1995), Consciousness: Distinction and Reflection,
Napoli, Bibliopolis.
Varela F.J. (2000), Neurophenomenology, Tucson 2000, Tucson, Imprint Academic.
Varela F.J., Thompson E. et al. (1991/1993), The Embodied Mind: Cognitive
Science and Human Experience, Cambridge, Mass., MIT Press.
430
Whitehead A.N. (1920), Concept of Nature, Cambridge, Mass., Cambridge
University Press.
Whitehead A.N. (1925), Science and the Modern World, New York, Free
Press.
Wilson R.A. (2004), Boundaries of the Mind. The Individual in the Fragile
Sciences, Cambridge, Mass., Cambridge University Press.
Zeki S. (2001), Localization and Globalization in Conscious Vision, in «Annual
Review of Neuroscience», 24, pp. 57-86.
Zeki S. e Bartels A. (1998), The Asynchrony of Consciousness, in Proceedings
of the Royal Society of London, 265, pp. 1583-1585.
Riccardo Manzotti, Istituto di Scienze dell’uomo, del linguaggio e dell’ambiente,
Università IULM, Via Carlo Bo 8, 20143 Milano. E-mail: [email protected]
431